Ancora una volta la poesia arriva dove non arriva la ragione. Angela sono stupendi i versi che qui hai riportato, e ne godo. Aggiungo per quel che mi riguarda che il tempo non è cosa che si possa definire razionalmente e chi ha inventato l'orologio lo ha fatto per illudere l'uomo di avere in mano (o al polso o nel taschino o sul comodino) qualcosa di suo, da leggere, guardare, usare o distruggere. A me succede per es. di spostare di notte le lancette in dietro e sono felice perché così penso di avere più ore da dormire prima che spunti il giorno. E davvero al mattino mi alzo più riposata pensando di aver dormito a lungo. Ma sono trucchetti, che non so se potrò sostenere quando sopraggiungerà sorella morte, ahahah!
Così Giulia Basile che, simpaticamente sorniona, mi ricorda
che il tempo in fondo è una nostra invenzione, magari per darci tempo. Ne sono
convinta anch’io tanto è vero che parlo di tempo vissuto e di tempo percepito,
tempo inventato e tempo usato per accendere la memoria appunto e ricordare:
tempo individuale e tempo universale. Il tempo vissuto non è mai uguale a
quello percepito. Il primo conta le ore e i minuti sul quadrante dell’orologio
e si fa misura del nostro tempo reale; il tempo percepito, invece, si accorcia
o si dilata a seconda di quello che stiamo vivendo: se siamo in armonia con
quello che ci circonda e ci abita dentro, il tempo vola in un attimo, lasciando
spesso il rimpianto che tutto sia stato molto breve. Al contrario, il tempo non
passa mai se stiamo ascoltando una lezione che non ci interessa; se il relatore
in un convegno è noioso, monotono, arrogante, scontato; se il dibattito, a cui
stiamo partecipando, non approda a nulla perché gli interlocutori non ascoltano
debitamente gli altri e non intervengono pertinentemente ma solo per ribadire
il proprio punto di vista, e così via. Il tempo inventato è proprio quella che
Giulia si ricava mettendo indietro le lancette del suo orologio creandosi
l’illusione benefica di aver maggior tempo per riposare. E il potere della
mente è tale da darle un senso di benessere reale al suo risveglio. Poi il suo
senso straordinario di autoironia prevale sull’illusione e stempera l’ultima
battuta dell’ultimo inganno che vorrebbe/vorremmo perpetrare contro la
francescana “sorella morte”, che non si lascerà certamente imbrogliare da noi
comuni mortali, ma riuscirà in qualche modo ad imbrigliarci. E neppure il
ricorso alla poesia come nostra ultima àncora di salvezza ci darà ragione. Ma,
intanto, noi ci proviamo. Almeno con qualcosa che “vince di mille secoli il
silenzio” (Foscolo).
E ritorno al mio articolo sul tempo, la memoria, i ricordi.
Parte II: La Memoria
La memoria è un faro che accende di luce il nostro passato:
resterebbe buio e indistinto se non conservassimo a tratti squarci di visioni
antiche che si nutrono di voci, immagini, suoni, odori, sapori, emozioni,
parole… illuminando anche il presente: dalla invisibilità alla visibilità degli
oggetti e delle decisioni riguardanti quegli “oggetti”, dalla indecidibilità
alla decidibilità delle situazioni, dall’inaspettato prodigio o disastro
all’attesa o alla scongiura dell’accadimento, dalla impalpabilità dei sentimenti
alla palpabilità del cuore.
Ecco perché memoria è “tutto ciò che si deve ricordare ma
soprattutto quello che non si può dimenticare”, tanto è inciso nella mente e
nell’anima.
Segno e senso del nostro brevissimo passaggio esistenziale
su questo pianeta.
Guai se quel faro si spegnesse, saremmo tutti naufraghi alla
deriva, senza più contezza di noi, del tempo, dei giorni, delle ore; del mare e
del suo splendore, delle notti rischiarate dalla luna o ricamate dalle stelle;
dei nostri amori e dei nostri rancori, dei sogni e dei desideri; dei passi
d’erba e delle orme cancellate sulla sabbia del tempo che dimentica. Del vuoto
della mente e del deserto del cuore. Niente di più disumano del perdere la
memoria e con essa identità e dignità. Chi restituirà al malato di Alzheimer la
memoria dei giorni vissuti, degli affetti radicati nel cuore e smarriti nelle
tenebre del non ricordare? E non sapere più di essere madre/padre,
figlia/figlio, moglie/marito? Non ESSERE perché essere SENZA. Disperazione, al
loro fianco, di quanti sanno e ricordano. Senza attesa. Senza speranza. Senza
storia. SENZA. Un senza che apre un baratro, un abisso, il nulla.
La memoria, invece, è una pagina piena di ricordi che la
mente traduce in parole per definire una storia al passato. È pienezza, non
mancanza. È, paradossalmente, presenza, non assenza.
La memoria di cui parlo, infatti, non si veste del fragile
tessuto della nostalgia o non si curva sulle linee esauste di un corpo
ripiegato e sconfitto, né si rifugia nei secchielli colmi di mare
dell’infanzia, magica e dorata, nei riccioli al vento degli aquiloni che mai
più saranno, ma si fonda sul presente e sul futuro perché riscopre in ogni
passato il Valore irrinunciabile della sacralità della vita in tutte le
sue innumerevoli foglie, che rinascono ad ogni attesa primavera. In ogni
stagione vissuta. Da vivere.
E, oggi, è un Valore, che colma l’attuale disagio del
“pensiero debole” (Vattimo-Rovatti) per farsi, nel terzo millennio, “forza” e
“pienezza”, che irradiano, nella nostra società planetaria, nuovi stati di
coscienza individuali nel loro farsi “consapevolezza collettiva” in una sorta
di “correlazione universale” (come ci ha suggerito la compianta Silvana
Folliero nel sostenerci a realizzare il Sogno/Progetto di aprire una “Casa editrice
altra” più di quindici anni fa), attraverso un rinnovato “pensiero forte”,
titano della conoscenza del mondo. “Scienza e Coscienza”, dunque, sempre più si
dilatano fino a comprendere la “coscienza delle cose” e la “fiducia nella
tecnologia e nella comunicazione digitale”, che diventa, utopisticamente forse,
fiducia in possibili coinvolgimenti di tutti e di ciascuno per realizzare una
umanità migliore. Una umanità, che dovrebbe fare della solidarietà e della
speranza i suoi punti di forza; dell’intelligenza e della comunicazione di
massa i solidi ponti di “inter-esistenza” tra gli uomini, perché la memoria si
faccia possibilità di “rinascita” e di “rigenerazione” (vedi il Protonismo di
Gjeke Marinaj).
Ma potrebbe accadere il contrario e sarebbe la distruzione
della intera umanità.
Una possibilità che non voglio neppure prendere in
considerazione perché ho fiducia nella coscienza dell’uomo, che saprà fare
tesoro della scienza, come è sempre accaduto nella storia dell’umanità,
altrimenti ci saremmo già estinti da lungo tempo.
Ritengo, però, che la storia non sia “magistra vitae”
(Cicerone) perché ancora oggi vale per l’uomo contemporaneo il grido di dolore
di Salvatore Quasimodo: “Sei ancora quello della pietra e della fionda,/ uomo
del mio tempo…”. Pure, nonostante la sua natura immutabile, l’uomo ha risorse
di mente e di cuore per scongiurare di volta in volta, nei millenni, la sua
autodistruzione.
La memoria, allora, si fa attimo di ogni presente che vive
il possente fulgore dei guizzi di conoscenza del passato e si affaccia al
futuro. Nel passato, i germogli del presente, e degli scenari che si potrebbero
configurare lungo i passi che il tempo concede ai nostri domani. Ci saranno
sempre nuovi viandanti a proseguire il viaggio lungo i sentieri ritrovati della
nostra storia oppure cercati e scoperti o, ancora, via via tracciati perché si
facciano storia.
La memoria è, dunque, paniere di tutti i fiori e i frutti,
vitali e propulsivi, dell’umana esperienza, individuale e universale.
La memoria è anche, o forse soprattutto, forza catartica,
invincibile emozione, profondo sentimento. Chiaroveggenza e Speranza. Epopea di
epiche risonanze di terre e di universi.
Scultura di Volti di uomini incisi nelle pietre che
raccontano innumerevoli storie che, come fiumi aventi sorgenti lontane, si
riversano insieme, dopo lunghi viaggi individuali, nel grande oceano della
Storia universale.
Di solito, queste innumerevoli storie non ambiscono a
ritrovarsi nella grande Storia, si accontentano di poco: fare tenera compagnia
alle persone anziane che vivono di ricordi più che di
progetti.
E, del resto, la storia non è mai come viene raccontata, ma
come viene vissuta; si ha persino paura di dover fare i conti con una storia
dell'umanità mai vera e sempre inventata dal cronista di turno o dal saggista
di parte (per ideologia politica o partitica, per formazione culturale, per
convinzioni personali…) e dall’archivista che la ricostruisce con pazienza
certosina, mai realmente libero di approdare alla “verità storica”, eterna
utopia.
Dove la “verità storica”, allora? La storia è o non è
fondata sulla memoria? Ma la memoria, come già osservato, non sempre racconta
la verità. E, dunque? Quando si può parlare di “verità storica”? Quando si
va a cercarla nei racconti dei nonni o quando ci affidiamo a documenti più
concreti e oggettivi come graffiti nelle grotte millenarie dei nostri
progenitori, scavi e reperti di una certa era storica, monete antiche,
iscrizioni, epigrafi, stele funerarie e monumenti che resistono al tempo o alle
loro stesse rovine? Cercare costantemente eventi con effetto “domino” di cause
e conseguenze e sentirsi autorizzati ad avere certezze sui comportamenti umani
che sortiscono sempre gli stessi effetti, se motivati dalle stesse cause, sia
pure in tempi e luoghi diversi, oppure nutrirsi di dubbi sulle interpretazioni
perlopiù soggettive di eventi raccontati in maniera del tutto arbitraria e
spesso con opposte testimonianze e dichiarazioni sui vari accadimenti?
Forse sarebbe opportuno, come sosteneva Benedetto Croce,
rifarsi alle fonti dirette e indirette degli accadimenti storici, evitando ogni
coinvolgimento emotivo in riferimento all’“oggetto studiato” per consegnarlo al
lettore come pura “conoscenza dei fatti”, ma questo metodo non mi convince
molto. Non amo la cronaca triste ed essenziale della “conoscenza dei fatti” che
ne fanno i cronisti sulle pagine di un Quotidiano locale o nazionale, oppure
gli studiosi nei loro libri di storia. Ciò vale soprattutto per la
cronaca quotidiana di altri periodi storici alle prese con varie emergenze per
la salute e per il pericolo di decimazione dell'umanità: la peste, la lebbra,
la spagnola, la malaria, l'asiatica, la terribile SARS,
diffusasi nel 2002, quindi nel XXI secolo, dalla Cina e definita già
coronavirus, con le stesse caratteristiche di sofferenza polmonare a chiudere
alveoli e cuore, ormai disperatamente note, del Covid 19.
La stessa aridità è riscontrabile anche cercando notizie di
guerra, altro flagello per il genere umano. La Prima e la Seconda guerra
mondiale, per esempio. Per delimitare la ricerca al "secolo breve"
eppure lungo di lutti e di dolore, e arrossato dal sangue di tutte le altre
guerre devastanti nei vasti territori del pianeta Terra. Tutte le cronache sono
uguali. Narrano i fatti. Che sembrano veri, tanto sono dettagliati con luoghi,
vittime, circostanze, indici statistici. Fatti non fanfaluche... E il tempo
azzerato, quello che vogliamo non esista per via delle nuove teorie sulla
relatività o sulla quantistica, d’improvviso ci assale alle spalle e ci inchioda
al nostro tempo o al tempo passato tanto simile al nostro tempi, sia pure tanto
diverso.
Tutto sembra chiaro e inoppugnabile. Eppure, in quegli
articoli così bene articolati, non è difficile rilevare l'assenza della paura o
la mancanza di qualsiasi altro sentimento negativo o positivo che sia.
Quando a scuola studiammo la storia della Grande Guerra
non rilevammo, al di là dei fatti narrati con asettica precisione, la
tentazione di una fuga, il fremito di una lacrima, la commozione di un
incontro, il sollievo per lo scampato pericolo, lo strazio di sapersi vivo
mentre una granata squarciava il cuore del compagno appena a un palmo dai
pantaloni alla zuava del soldato in trincea; non il canto nostalgico di chi
guardava le stelle e si accendeva una sigaretta per abitudine, subito spenta
per precauzione col nemico appena a pochi passi oltre la trincea, e pensava
alla sua ragazza lontana "ohi vita ohi vita mia". E i partigiani e la
Resistenza "oh bella ciao, bella ciao, bella ciao". E il Vietnam con
"c'era un ragazzo che come me" e giù lacrime di solitudine.
Solo numeri, dati, statistiche in quell'apparente verità
obbiettiva dei fatti narrati. Senza fremiti, lacrime, sorrisi. Senza. Anche qui
il “SENZA” mi spaventa.
Io ho fatto sempre tesoro dei racconti di Guerra di mio
nonno: nelle sue parole senza lacrime, ma evocative e sicure, c’era la verità
da me sempre cercata invano nei libri di storia, nelle lezioni dei proff. di
Storia e Filosofia.
L’unica verità possibile era racchiusa nei suoi racconti che
avevano per noi sapore di fiabe antiche per non turbare la festa innocente dei
nostri giorni ignari di violenze e lutti e dolore.
Sì, per fortuna, la memoria viene rigenerata
continuamente dai ricordi, che fanno parte della storia individuale e riportano
al cuore (ri-corda-re) storie vissute in prima persona nel passato.
E la memoria, come mamma amorevole, nutre i ricordi quasi
fossero suoi bambini, a cui ogni sera racconta fiabe, cominciando con quel
“c’era una volta” che indicava un tempo indeterminato perduto nella notte dei
tempi o nel bosco della dimenticanza (tempo sognato più che vissuto). Ma, in reciprocità
amorosa, anche i piccoli, i ricordi appunto, offrono alla mamma, sempre più
smemorata con gli anni che passano in fretta, il loro sollecito aiuto,
sostenendola nel far rifiorire, nel tempo, le tante storie da rivivere perché
non muoiano mai del tutto.
E anche per oggi chiudo qui con questo tempo zigzagato, mai
vero mai falso, nella speranza che queste apparenti digressioni non vi annoino
al punto da percepire il tempo della loro lettura come tempo noioso e dilatato
a dismisura. Come una inutile, soporifera “perdita di tempo”. Ma
io, egoisticamente, solo così so riempire il mio tempo, con la
felice illusione di donarlo agli altri… Pardon.
A domani. Ciao. Angela
"E la memoria come mamma amorevole nutre i ricordi come fossero bambini suoi"
RispondiElimina... quanta poesia...Sempre grazie per il tuo generosissimo dono, Angela! A domani.
Ho una casa foglia che sta sulla faccia
RispondiEliminaAccedo naufraga dall’acqua di mia madre
Natante
Al rosso del cosmo
Cara Angela non dico nulla perché mi hai inondata di pensieri belli e profondi e tanto intrecciati da esserne sazia. Mi rivedrò tutto e rileggerò lentamente, sicura di averne beneficio. Grazie
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