sabato 30 marzo 2019

30-31 marzo: i giorni dell'addio


Appena giunge marzo e si dipana in giorni capricciosi tra fioriture e geli, più acuto diventa il pensiero di te, mamma carissima, perché in questo tuo ultimo mese di vita, anche la tua salute fu altalenante. E, a momenti di cauta euforia per ogni tua ripresa, subentravano ore di scoramento per improvvise nuvole ad oscurare il sole e a devastare di pioggia i fiori bambini che primavera regalava ai tuoi occhi e al nostro cuore. In ansia per te. Poi, proprio quando ci dissero che ogni pericolo era scongiurato e ci preparavamo ad accoglierti nuovamente in casa, programmando per te e con te insperati e invocati giorni di rinnovata serenità, ci giunse notizia del tuo improvviso ritorno per lasciarci per sempre. E tornasti in tempo per dirci addio.  
E non è stato più possibile dimenticare. E marzo non si smentisce mai.
                                               E tutto ritorna.
"                                                     2001
Fu un devastante addio che ci vinse solo un anno e pochi mesi dopo quel Capodanno, che segnò a caratteri cubitali nella Storia il primo anno di un nuovo secolo a regalarci illusori refoli di risorte umane utopie.                  
La perdemmo, in un lago di disperata corsa al suo sorriso.
Perdemmo lei, mamma, persa in quattro mesi di angoscia su alte montagne innevate e profondi abissi di nuove speranze e nuove disperazioni.
                                                    Mamma
E il suo sguardo sempre più dolente e malinconico. Pensieroso e stanco. E l’ultimo nostro Natale e l’ultimo Capodanno, quindici anni fa, vissuti insieme in quella che era stata la nostra casa del gelso e delle rose e che ora è una villa bellissima al centro del paese, abitata da Anna Maria e Gianni, e a cui fanno capo Isabella e Nicoletta con la loro nidiata di bimbi nati in questi ultimi anni. Tutti nella tua casa senza più il gelso e con poche rose ma con tanti altri alberi e fiori… e voci e trilli di allegria e capricci e coccole e tenerezze… e Nicole (figlia di Isabella e prima nipotina di Anna Maria) che è bimba di baci da afferrare con le dita e depositare nel cuore… e Francesco, il suo bellissimo e silenzioso fratellino… e, poi, i figli di Nicoletta: Sofia, vezzosa bimba di mille parole e mille acquerelli… e il fratellino Andrea, che somiglia tanto a mio figlio Giuliano. Stessi occhi grandi e sornione sorriso. Ma allora allora allora…
allora fu tempo di lacrime per tutti, nascoste maldestramente tra ciglia di dolore per un mostro tentacolare che si era ripresentato dopo anni di quiescenza e di tranquilla certezza di averlo debellato senza gravi danni per la sua salute.
                                                     Mamma
E il suo andare, volto preoccupato e passo leggero e il cappellino verde di morbida lana a incorniciarle il viso segnato, con la figlia più giovane, sua compagna di vita ormai, in un Centro specialistico al Nord, dove operava un mago della chirurgia oncologica.
                    Furono tre mesi altalenanti di notizie mai chiare mai scure
E la decisione di raggiungerla io e Lizia, con Pino alla guida della sua macchina in volo sulla corsia si sorpasso in sole sei ore per correre da lei, e Anna Maria impossibilitata per quell’intervento a cuore aperto, che andava superando lentamente e a fatica, e il nostro cuore ad anticipare chilometri e incontro. E Anna Paola che nella sua casa festeggiava senza di me il suo secondo compleanno. Giorno d’inizio primavera. Giorno dei ciliegi in fiore. 
Mamma era lì, inerme e sperduta, spaurita e gracile, dopo due interventi che ci dissero risolutori, ingannandoci. Fiorivano le prime margheritine di marzo… e bianche rose d’ogni mese ornavano il viale che portava alla sua camera al pianterreno di quell’immensa clinica dei miracoli. Dalla finestra potevamo vederla prima che ci fosse permesso d’incontrarla e lei ci sorrideva stanca e teneramente aggrappata a quel primo abbraccio da lontano, nell’attesa di riabbracciarci con mani e braccia e tremori intrecciati. E sollevava le mani in segno di saluto ed erano affaticate farfalle in lento volo.
                              Pioveva in quei giorni di ansia e di paura
                   Una pioggia né buona né cattiva, una pioggia d’attesa
                                       Poi… improvvisamente il sole
La sollevammo dal suo letto di spenta speranza perché potesse lasciarsi riscaldare dal tepore beneaugurale di quei raggi dorati. Ma lei rimase con occhi vuoti senza guardarlo.
“Mamma, hai visto? C’è il sole! È finalmente una bella giornata!”.
Silenzio e occhi spenti.
“Mamma, possibile che non ti rallegra il sole? Guardalo. È un dono tutto per te oggi!”.
Silenzio e occhi spenti.
“Ma come è possibile che non ti si allarga il cuore per questo raggio di sole dopo tanta pioggia?”, stupidamente ancora io, mentre gli altri figli si astenevano.
Silenzio e occhi spenti.
Silenzio. Laghi di pianto trattenuto gli occhi, e il suo abbandonarsi esausto sui cuscini, noncurante del sole della bella giornata delle mie parole a rincuorarla.
(Alcuni anni dopo, solo qualche anno fa, anch’io ho guardato il sole con indifferenza da una finestra d’ospedale dove stavo lottando per sopravvivere. Mi sono ricordata di lei e del suo rifiuto inerme.
Non più quel suo sorriso sempre pronto e generoso nel lenire ferite.
Compresi e mi disperai per quella mia insistenza fuori luogo in un momento così difficile e doloroso per lei. Le avevano annunciato il terzo intervento nell’arco di appena tre mesi. Ed era disorientata. Impaurita. Disperata.
Anch’io, alcuni anni dopo, non fui in condizione di godere del sole e della sua luce luminosa in quel centro di riabilitazione in cui mi sentivo debilitata. Anch’io evitavo di guardarlo per non provare la ferita di dovergli probabilmente dire addio.
Come avevo potuto pretendere che lo guardasse lei che aveva i giorni contati e lo sapeva? Come poteva sentirsi rasserenata, e paga di quel raggio di sole? Non avevo capito niente di mia madre e della sua anima prostrata e vinta!
Come si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze di chi amiamo?
Anche con te mi era capitato, ricordi? Evidentemente si può.
(Ma oggi mi chiedo: sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra socialità. La nostra affettività. Miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso nella stessa galassia).
Quella strana inevitabile condizione di imperfezione e di non totale comunicazione era purtroppo accaduta anche tra me e mamma.
                                     Mio malgrado Suo malgrado
La salutammo mentre la portavano in sala operatoria con l’ultima figlia che la seguiva passo passo, e mi sembrò un uccellino spaventato e tenero con quella sua cuffietta di lana rosa per non prendere freddo ed era una bimba alla prima passeggiata all’aperto. Aveva la stessa aria stupita, non d’incanto infantile per la scoperta del mondo, ma di disincanto per un mondo conosciuto amato ignorato perduto. Ci aveva raggiunto anche Mimmo, che porta il tuo nome modernizzato e che fisicamente ti somiglia molto. Ed ora eravamo tutti con lei e per lei a sperare e a pregare. Mancava solo Anna Maria, presente con continue telefonate. Il chirurgo-mago ci tranquillizzò, ci disse che potevamo tornare a casa perché di lì a qualche giorno sarebbe tornata anche lei. Avremmo dovuto usare accorgimenti e precauzioni, ma il peggio era scongiurato. Rincuorati, ripartimmo per preparare la sua camera con tutti i comfort ad accoglierla. Durante il viaggio di ritorno, facemmo progetti per lei. Io mi ripromettevo di esserle più vicina come non lo ero mai stata per tutti gli anni precedenti. Ora sarei stata più libera (il 2000 aveva segnato la interruzione a tempo indeterminato dei Concorsi nella scuola!) e mi sarei dedicata esclusivamente a lei. L’avrei portata in vacanza con me. Saremmo state finalmente insieme. Progetti che ebbero il respiro breve di quel raggio di sole in quei giorni di interminabili piogge di inizio primavera, che tardava a giungere e che io sognavo per lei tiepida e con passi di rugiada. Il luminare avrebbe dovuto dirci che “il peggio sembra scongiurato”, non che “è scongiurato”.
                                   Quella notte del ritorno ti sognai
Stavo camminando sull’orlo di un burrone di cui non vedevo la fine, tanto buio era il fondo da non distinguere se vi fosse un bosco fitto di alberi cupi o il mare con la sua nenia sommessa o la pianura con i suoi campi coltivati. Mi sentivo sola e disperata e non sapevo perché stessi camminando proprio sul ciglio della strada in quel silenzio spettrale e in quella oscurità così spaventosa. Ad un tratto, ti vedevo seduto proprio lì sul bordo di quell’orribile precipizio a guardare nel vuoto. T’invocavo, dapprima senza voce. Poi, avevo preso a chiamarti con voce sempre più forte e disperata, ma non ti giravi. Ostinatamente continuavi a guardare verso l’abisso senza rispondermi e senza voltarti. Sembravi sordo ad ogni mio richiamo.
Mi svegliai sudata e spaventata con un brutto presentimento, confermato da una telefonata concitata che ci informava che stavano portando mamma in ambulanza con il pericolo che morisse per strada. Purtroppo mamma aveva avuto un improvviso repentino peggioramento. Una dottoressa, nostra cara amica, Teresa A., si assunse la responsabilità, con grande coraggio, di permettere il trasterimento, da quell’ospedale del Nord nel profondo Sud della nostra casa, in un’autoambulanza privata, con lei sempre vigile al suo fianco e con nostra sorella, attento angelo a colmarla di carezze. Giunsero stremate entrambe, madre e figlia, tra lacrime brevi, e parole affaticate e non sempre lucide.
Due giorni appena rimase con noi tra spasimi che ci destabilizzavano e tenui sorrisi di affettuosi addii. Ci lasciò stanca di aspettare e di soffrire all’alba della domenica e ci sembrò un pesce d’aprile, uno sberleffo atroce sul nostro pianto a lasciarla andare. Capii allora il perché del tuo ostinato silenzio. Era il tuo modo di dirmi “non posso farci niente, questa volta non posso aiutarti”.
Anche Teresa, la vedova di Filippo, quella notte aveva sognato suo marito che le diceva che era passato a salutarla perché era venuto a prendere comare Melina, la sorella che non aveva mai avuto e che aveva tanto amato. Per portarla da te e da tutti gli altri che con te erano in attesa di riabbracciarla. Si affrettò a raccontarcelo tra le lacrime mentre stava lì con noi a darle l’ultimo bacio.
                        E finalmente la sentimmo al sicuro tra le tue braccia   
E solo dopo, solo dopo ho capito molte più cose di lei. Della sua sofferenza silenziosa. Solo dopo ho sgranato i miei tanti rosari dei comportamenti sbagliati con lei, anche con lei. I lunghi silenzi. I rarissimi incontri. La solitudine dolente che le procuravo
(ti ho persa vivente… non ti preoccupare fai le cose che devi fare… vieni quando puoi venire… chissà se ti rivedo ancora…)
Ed ora che mi manca come il respiro, lei non c’è nella sua casa per andarla a cercare e coccolarla con tutte le confidenze mai più sussurrate, con i baci mai più dati, con le carezze che avrei voluto depositare sulle sue guance di pesca chiara. 
Mi conforta a malapena il ricordo dei rari incontri nella sua casa e del mio prenderle la mano per coprirla di teneri tocchi leggeri con le labbra e i suoi occhi si slargavano di luminosa accoglienza in uno sguardo di illimitato perdono…".
(stralcio tratto dal secondo e conclusivo volume de Le piogge e i ciliegi (SECOP Edizioni), di prossima pubblicazione.

















venerdì 22 marzo 2019

21 marzo: una giornata a raccontarci Poesia...


La Giornata Mondiale della Poesia è stata davvero un “naufragare dolce nel mare” dei versi di tanti poeti antichi e contemporanei, ripensando un po’ a Leopardi, un po’ ad Alda Merini attraverso anche le canzoni di Vecchioni, tratte dal suo ultimo album L’infinito, ma con uno sguardo particolare alle sue canzoni più belle del passato.
Mattatrice della “Folle” giornata poetica è stata Monica Tomasicchio, che ha organizzato nel Liceo Artistico di Corato un effervescente incontro con gli studenti, che ci hanno regalato e si sono regalati momenti di straordinaria emozione sia recitando versi di altri poeti oltre ai propri sia suonando e cantando alcuni pezzi musicali. Con vero talento e grande passione. E abbiamo attraversato la magia della luce con alcune opere del Caravaggio, splendidamente commentate da Franco Leone anche con i suoi endecasillabi in rima con il loro classico e mai spento fascino. Fino alla declamazione (a memoria), sempre da parte di Franco, del Proemio dell’Iliade di Omero, scandito dal ritmo della metrica dei poemi dell’antica Grecia e dalle mani degli entusiasti ragazzi.
La sera l’abbiamo trascorsa nella libreria Secopstore ancora con il percorso poetico che Monica ha tracciato in riferimento soprattutto alla grande poesia del meraviglioso cantautore Vecchioni per vivere, insieme con tutti noi, l’emozione dello scambio reciproco della poesia, della musica, del canto.
Una esperienza molto intensa da ripetere ancora e ancora.
Vivere la poesia come dono è decisamente avvolgente ed esaltante.
“La poesia e l’arte, nella figura del dono, non invocano soltanto la loro origine, ma anche la loro destinazione (Jean Starobinski).
E, oggi più che mai, in un mondo che si proclama “villaggio globale” (Marshall McLuhan) ma che in realtà vive di diffidenza, rifiuto, violenza, odio, la poesia è un dono sempre più prezioso quando si fa contagio di emozioni nello scambio di versi o di ogni altra forma di Arte, frutto della creatività umana.
La Poesia è, dunque, “Anima e Respiro dell’Universo”.
Non mi stancherò mai di parlare di poesia. Soprattutto dopo la benefica immersione di una giornata, vissuta all’insegna della Poesia, nella Poesia, per la Poesia. Con Poesia.
“Poesia anima e respiro dell’Universo”: anima innamorata del canto della vita, tra realtà umana e sacralità divina. Il divino che si fa umano e “s’incarna nella parola” (Paul Valery).
Ed è così che “la Poesia unisce i popoli, elimina steccati di ogni genere, rende l’umanità migliore” (Raffaella Leone).
Abitiamo sotto cieli diversi che è comunque lo stesso cielo. Abbiamo credi diversi. Pure respiriamo lo stesso respiro divino che avvertiamo in tutto il Creato, noi uniche creature tra tutti gli esseri viventi a sapere di un Creatore, padrone della vita e della morte, a cui rivolgiamo la nostra preghiera e il nostro canto.
Parliamo lingue diverse, eppure abbiamo una sola voce: quella della mente, del cuore, dell’anima. Una voce che racchiude in sé Bellezza, Armonia, Compiutezza, Appagamento perché è Sogno, Passione, Memoria, Amore. 
Ha occhi d’innocenza dell’umanità bambina e si macchia della polisemia ambigua della parola. Bugia e Verità. Straniamento e Appartenenza. Possibilità di perdersi col rischio di mai più ritrovarsi. E riconoscimento. Solitudine del volo alto (Baudelaire e il suo Albatro) e desiderio di arrivare all’altro e all’altro ancora, fino a ritrovarsi in un “altrove” che è perdita di sé e ritrovamento di tutto l’altro da sé, che dilata orizzonti e non ha più confini.
Neppure nel nostro cuore.
Ed ora mi piace riportare le poesie che tre studentesse hanno letto durante il nostro incontro di ieri mattina e di cui, con grande semplicità e un sogno immenso negli occhi, mi hanno fatto Dono:
“Un milione di papaveri” di Bruna Valente
Ti vidi lì
tra Narcisi, Ranuncoli e Fresie
appassendo lentamente
tra vento e neve.
Mi trovasti tu,
mi portasti tra le Margherite
mentre a me piacevano le Peonie.
Imparammo a conoscere i Fiordalisi,
amammo i Tulipani,
ti regalai dei Garofani.
Dormivi nella Lavanda,
la mia ostinazione mi portò però a donarti
un milione di Papaveri.
… ma a noi piaceva la Zinnia.
(deliziosamente ironica, come è difficile che avvenga in poesia. Soprattutto in quella degli adolescenti, che sono perlopiù alle prese con i turbamenti e le sofferenze dei primi amori, spesso non ricambiati o già finiti… Notevole il profondo significato delle inevitabili divergenze di personalità ed esperienze di adattamento o meno nella coppia).

“D’istanti” di Simona Di Gregorio-Bartolemucci
Siamo poesia
ogni volta
che ci abbracciamo
con sguardi e desideri
Siamo romanzo
ogni volta
che ci sfioriamo la pelle
e bruciamo
Siamo opera
ogni volta
che ci scambiamo sorrisi e attese
Siamo capolavoro
ogni volta
che ci amiamo di nascosto e risplendiamo
Siamo vincitori
ogni volta
che incontrandoci voliamo.
(sorprendente è l’intensità del climax ascendente in questi versi di una sapiente leggerezza, tutta giocata sul crescente rossiniano di intrecci d’amore fino la volo conclusivo, come innamorati “vincitori”…).

“Tempesta” di Anna Varesano
 Il mio corpo galleggia nel vuoto
Della grande distesa blu
Inizia a piovere
Tutto si agita
Perché ora mi lasci annegare?
Sono sempre stata la scogliera
Sulla quale tu,
faro,
potente e timido,
hai sempre potuto contare.
Ora ammira come impotente
Mi lascio risucchiare
Dall’acqua salata che cicatrizza
Le mie ferite
Contorto è questo mare
Quanto lo sono i miei pensieri
Ti fisso e la tua luce si spegne
Mentre tocco il fondo
Era l’alba
Son morta con la luna
(e qui ecco lo spauracchio della delusione, in una storia d’amore che ha il respiro di un giorno: nasce con l’alba e muore con la luna).
La Poesia è, allora, anche divertissement, è pienezza significativa della parola e la sua disgiunzione. È brivido che trafigge il corpo e la mente per giungere al cuore e ferire l’anima. Ci fa credere nel suo potere salvifico come nella sua dannazione.
Ecco perché, in fondo, la poesia è atto creativo, di fede, di coraggio.
Ci vela e ci svela. Perché la parola diventa testimonianza, smarginata e viva, di quello che guardiamo, osserviamo, sentiamo, ascoltiamo, viviamo e riviviamo, trasformiamo e vivifichiamo nel riso e nel pianto, nella illusione e nella delusione, tra sogno e realtà.
È attimo di emozione che diventa promessa di eternità.
Possiamo ritenerci dei vinti se l’umanità continua a rinascere grazie alla Creatività, filo diretto con Dio, che genera l’Arte in tutte le sue meravigliose forme?
E queste fanciulle in fiore ce lo dimostrano con i loro germogli poetici che si vanno dischiudendo al Sogno, alla VITA…
BENTORNATA PRIMAVERA!








domenica 17 marzo 2019

"Uno scrittore in ostaggio" (SECOP Edizioni) di Zaccaria Gallo

Parlare del nuovo libro di Zaccaria Gallo non è facile. Perché già dal titolo si presenta complesso e criptico, nonostante la chiarezza semantica del termine “ostaggio” e l’apparente semplicità della preziosa copertina (opera del giovanissimo e talentuoso Nicola Piacente), su cui un bellissimo pennino di penna stilografica dei tempi andati viene tenuto prigioniero, tipo una palla al piede dei carcerati del passato, quasi ad indicarci una sorta di lentezza, anche elegante se vogliamo, della scrittura. Si seguivano dei Corsi di Calligrafia per vergare su carta, a volte pergamenata, i segni di una “bella scrittura”, che lasciava presagire anche un contenuto altrettanto ricco di significato e di fascino. Questa splendida copertina sembrerebbe un invito a fare quasi un cammino a ritroso per tuffarci nel tempo antico, dove non esistevano ancora la macchina da scrivere (la gloriosa Olivetti lettera 32 del ’63) e il computer, classe 1965, (con tutti i suoi ultimi “derivati”).
E, invece, niente di tutto questo. E le interpretazioni sono state davvero tante e tutte decisamente poetiche. Nessuno ha pensato allo scrittore tenuto prigioniero dalla sua stessa necessità di scrivere, come sembrerebbe più ovvio, ma tutti (o quasi) si sono attardati su una simbologia di una palla gassosa e leggera che non tende al basso (come la forza di gravità vorrebbe), ma verso l’alto (come la creatività in tutte le sue declinazioni artistiche richiede, e soprattutto la scrittura).
È, dunque, un volare alto, quello di Zaccaria, verso un “altrove di sé” (come ogni buona letteratura esige), che poi è racchiuso in un libro. Il suo libro.
Ma, prima di parlarne, vorrei affrontare la lettura di queste pagine, partendo dalle tre insolite e bellissime metafore che Massimo Recalcati attribuisce al “libro” nel suo recente saggio A libro aperto (Feltrinelli 2018). E che prodigiosamente ieri mattina ho letto, grazie alla mia carissima amica Gabriella Basile, che mi ha fatto dono di un video meraviglioso.
Il libro è: un mare, un corpo, un coltello. E vado a braccio:
Mare: aperto, libero, che si slarga per lasciarci andare verso orizzonti sempre più ampi alla conquista del sapere e della libertà…
Corpo: se il libro ci prende profondamente fino a instaurare con noi un rapporto erotico, fatto di corpo, palpabilità, profumo, emozione… allora diventa esso stesso un corpo che si fonde col nostro corpo in un voluttuoso, insospettabile amplesso…
Coltello: noi usiamo metaforicamente quest’arma (non sempre impropria e incruenta) per fendere la pagina di un libro e penetrarvi in ogni suo più riposto anfratto ma, proprio quando stiamo per impossessarci della sua essenza più profonda (contenuto e forma e senso) ecco che il libro si fa, a sua volta coltello, e ci ferisce profondamente perché venga fuori dalla nostra anima il mistero della parola che ha messo radici in noi e ci connota a tal punto che la nostra “lalangue” (e Recalcati cita il suo Mastro Jacques Lacan), la nostra lingua più profonda, la nostra personalità che si è strutturata durante i nostri primi anni di vita e che abbiamo, pian piano, conquistato (o che ci hanno confezionato proprio per noi, perché la indossassimo a vita) torna a galla e si esprime (ma anche si espone) nella sua più vera, felice o dolente, autenticità.
A ben guardare, al libro di Zaccaria Gallo ben di attagliano tutte e tre queste metafore, ma io vorrei tentare altri significati e sensi per andare oltre e per definite non “il” libro, ma questo “suo” libro.
E, allora, uno Scrittore in ostaggio è un: fuoco d’artificio, calendario, diario, che scandisce il tempo lineare, ma anche quello circolare delle diverse stagioni della natura e della vita, e ciclico-spirale per via di ogni altro tempo che allo scrittore, ma anche a tutti noi, appartiene (il tempo “altro”).
È, questo libro, anche “occhio di Gesù”, ossia soffione di primavera (delicato, leggero, bianco d’innocenza, trasparente nel suo sfioccarsi lieve e volare e sparpagliarsi, frantumarsi, disperdersi), e girandola multicolore, che vibra ad ogni alito di vento o, ancora, aquilone nell’azzurro spazio, fors’anche navicella spaziale, che si arrischia per   immensi universi stellari.
È sorriso di Dio al tentativo della parola di forare il cielo per andare oltre o per mescolarsi con le stelle (desideri e sogni, non solo ad occhi chiusi) e per riscoprirsi luce e suono e canto.
È risata di Dio, quando tende allo scrittore un agguato per renderlo prigioniero del dubbio e della illusione della veridicità di quel dubbio, ma in realtà lo attende dietro l’angolo nella strettoia del Logos che lotta con la Fede e non ha scampo.
È una chat, in cui le parole si rincorrono come schegge impazzite o come matasse arruffate, di cui si è perso il bandolo perché, nel frattempo, altre parole si sono inserite con nuovi post che si susseguono a ritmo incessante sul dispay e non lasciano traccia (se non in chi è più emotivamente coinvolto nella conversazione o in chi ama far tesoro di belle frasi di sconosciuti che per la breve connessione sente amici, ma che poi perde per strada senza un racconto lungo o una storia coerente, che lasci il segno).
È un pozzo (tipo quello di san Patrizio), dove Zaccaria è andato a cercare e a recuperare le parole del passato, ormai desuete e dimenticate, lanciandosi in apprezzabili “virtuosismi calami” per sorprenderci, farci sorridere, darci un saggio di quanto sia andato perduto di quello che ci apparteneva e ci connotava in tempi lontani. E da qui al flusso di coscienza il passo è breve.
Ma il libro contiene anche molti termini medici, scientifici, vernacolari, di cui fa uso certosino per impreziosire una pagina, darci contezza della realtà che supera la fantasia o di quest’ultima che colora e vivacizza la realtà.
E, infine, Zaccaria Gallo mi riporta alla splendida quanto amara e profetica affermazione di Jacques Monod: “L’uomo contemporaneo è uno zingaro errante in un universo frantumato”, parlando del Caso e del Caos e non ammettendo la Causalità.
Siamo in piena crisi esistenziale, derivata dalla società decadente di fine secolo che avvertiva con angoscia sempre crescente la fine della fede nella ragione, nella concretezza dell’esperienza quotidiana, nelle certezze positivistiche. Si avvertiva già da allora un senso di inadeguatezza, di mancanza di nuovi ideali e di nuove risorse interiori, che sembravano essere venute meno del tutto. Si era come alla fine agonizzante di un’epoca storico-culturale e artistico-letteraria. E si attendeva una nuova alba (corsi e ricorsi storici di vichiana memoria). Nacque allora il senso della frantumazione di ciascuna esistenza e senza spiragli di soluzione.
Je est un autre, dirà Rimbaud, in un linguaggio nuovo e asintattico, che rivelò la dispersione dell’identità del soggetto e la incapacità della lingua di porsi come mediazione tra la sua realtà fittizia e quella non ancora incontaminata dell’oggetto. Con Mallarmé si ebbe poi la fine del dialogo come comunicazione e l’inizio di una lingua senza più interlocutori.
È il tramonto di tutti i miti e di tutti gli eroi che avevano fatto grande l’Ottocento. Persino Dio è morto come afferma Nietzsche. Ci si accorge della mancanza di senso generale e di una inquietudine sempre più vasta che il nichilismo alimenta.   
Anche Zaccaria si è lasciato suggestionare, come tutti noi del resto, dalla frantumazione dell’Io e dalle nuove forme di letteratura del Novecento, italiano e soprattutto straniero (il racconto e il romanzo non hanno più una fabula, una storia che nasce, si sviluppa si conclude, anche perché viene meno il senso della continuità e del futuro). Tutto diventa più ingarbugliato e complesso. Difficile da vivere e da gestire verso la fine dell’Ottocento e soprattutto nei primi decenni del Novecento, sotto l’influenza degli studi di psicanalisi di Freud, Jung, Winnicott, Lacan (e molti altri psicologi e psicanalisti) sulla personalità umana, l’inconscio e i suoi spettri.
Segue, pertanto, l’evoluzione del linguaggio poetico con Marinetti, i Futuristi e i Dadaisti e poi, via via, fino ai nostri giorni con le Avanguardie e le Neoavanguardie degli anni Sessanta-Ottanta del secolo scorso; gli Sperimentalisti di prima e seconda generazione, i Postmodernisti che si sono andati sempre più affermando e diffondendo grazie anche all’influenza della letteratura nordamericana e mitteleuropea fino al nostro Italo Svevo con La coscienza di Zeno, James Joyce con Ulisse, e, primo fra tutti in Italia, Stefano d’Orrigo con Orcynus Orca.
La povertà spirituale, la complessità della società, il relativismo crescente portano, inoltre, la poesia a forme esasperate di individualismo; in Francia i Simbolisti e i Poeti maledetti ci offrono appigli per scoprire nuove forme poetiche che da noi diventano ermetiche, e in America la Beat Generation ci contamina con Allen Ginsberg, Jack Kerouak; Paul Celan dalla Germania e, poi, Bukowski, nato in Germania, ma vissuto negli Stati Uniti, ci raccontano in maniera assolutamente vera la disperazione e la follia. I flussi di coscienza scompaginano prosa e poesia. Tutto il nostro universo sociale, culturale, artistico ci crolla addosso.
Dai primi anni del nuovo millennio, però, si va evidenziando un cambiamento di rotta. Superati gli sperimentalismi che avevano reso la lingua sempre più astratta e priva di senso e di significato, e superati i folli ruoli dei poeti, dediti all’alcol e alla droga, si tende a creare un’atmosfera sempre più pacificata in un mondo desertificato di sentimenti, e stanco.
Sempre più i giovanissimi, almeno quelli più impegnati, vanno alla ricerca dei veri valori della vita, dispersi del tutto nell’arco di mezzo secolo o poco più.
Si tende a dare fondamento e sostanza alla parola che riprende il suo ruolo di comunicazione prima ancora che di espressione.
Anche la poesia va riscoprendo forme di classicità dimenticate: la rima, la metrica, una sorta di discorsività per poterci salvare, riscoprendo la mediazione del Verbum e del Logos tra materia e spirito.
Tutto si va lentissimamente ricomponendo in armonia, in contrasto con la velocità della trasformazione in atto nella nostra società sempre più telematica, cibernetica, legata essenzialmente all’immagine e al progresso irreversibile della scienza e della tecnica e di un nuovo modo di rapportarci gli uni con gli altri.
E, in tutta questa incessante trasformazione, ecco questo libro che ci cattura e ci disorienta sin dalle prime pagine. Ma poi ci si accorge che questo diario ci prende per mano per condurci con leggerezza e caparbietà nella stessa trasformazione del suo Autore, uomo/poeta/scrittore, avvenuta dal suo settantanovesimo anno di età all’ottantesimo. In un crescendo di esplorazioni, riflessioni, annotazioni, emozioni che nascono da nuove esperienze di vita, “tutte da assaporare quasi fosse la prima volta, esaltandone il gusto e l’odorato, il ricordo e la nostalgia, il sogno e il disegno, il progetto e il mistero. L’intero senso della vita” (dalla Prefazione della sottoscritta).
E con il senso della vita, il suo sogno e il suo mistero, Zaccaria si lascia dolcemente accarezzare dalla poesia sempre fortemente presente nella sua anima e scrive pagine di grande bellezza e di serena autenticità.
Il tanto di più che non ho raccontato andatelo a leggere nel libro, che vi aspetta in libreria.
Ed io voglio concludere con i versi di Juan Ramon Jmenez per augurare a Zaccaria e al suo libro appena nato tanta vita, mentre il mandorlo ci rallegra con i suoi germogli appena bocciati:

Tempo, dammi il tuo segreto
che ti fa più nuovo quanto
            più invecchi!
… e il tuo presente
sempre lo stesso dell’istante
del mandorlo in fiore
AUGURI!!!  Ang

sabato 16 marzo 2019

Convivere a scuola- Atmosfere pedagogiche di Valeria Rossini


Convivere a scuola- Atmosfere pedagogiche di Valeria Rossini
Saggio pedagogico-poetico
È un saggio pedagogico a tutti gli effetti il libro di Valeria Rossini, ricercatrice in Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, dove insegna anche Pedagogia generale e Pedagogia della marginalità. Ma è un saggio anomalo, nonostante sia inserito nella prestigiosa collana “il mestiere della Pedagogia” del noto editore FrancoAngeli, e sia stato sottoposto a referaggio a “doppio cieco”. Questo la dice lunga sulla validità scientifica di “Convivere a scuola”. E su questo non avevamo dubbi. Ma già dal sottotitolo “Atmosfere pedagogiche” esso si discosta dal rigore scientifico perché “atmosfere” connota un che di vago, di non bene definito, che si smargina e che mal si adatta alla finitezza e chiarezza di un saggio scientifico.
E allora?
Si tratta, a mio parere (ed evidentemente non soltanto mio, ma dello stesso qualificato Comitato di valutazione e, in primis, del Presidente di Collana), di un valore aggiunto, in quanto un testo altamente pedagogico si ammanta di atmosfere poetiche a tutti gli effetti. E dopo analizzeremo il perché.
Intanto, occorre precisare che Valeria Rossini, oltre ad essere una docente amatissima dagli studenti che seguono i suoi Corsi e Relatrice in vari Convegni pedagogici nazionali e internazionali, è anche una Donna innamorata della poesia, che sin da giovanissima ha coltivato, pubblicando alcuni suoi testi poetici in varie riviste letterarie e culturali di ampio respiro. Oggi ha messo un po’ a latere questa sua vocazione per mancanza di tempo, ma in ogni suo scritto, in ogni suo saggio la poesia è presente e rende più catturanti ed emozionanti le sue teorie pedagogiche, che sempre più si vanno affermando e consolidando. Ne fanno fede i numerosi saggi e articoli pubblicati in Italia e all’estero e, tra quelli più recenti, la monografia Educazione e potere. Significati, rapporti, riscontri (Milano, 2015),   insignita del Premio Siped 2016.
C’è da aggiungere che Valeria Rossini è giovanissima, bellissima, elegantissima, sportivissima e chi più ne ha più ne metta. È una creatura baciata dal buon Dio. È moglie e madre felice di due splendidi ragazzi (una fanciulla in fiore e il suo fratellino che promette molto bene), ma non sempre la sorte le è stata benigna. Anche lei, come tutti gli esseri umani, ha avuto sofferenze e ostacoli sul suo cammino, ma ha saputo sempre affrontarli e superarli, con coraggio e volitività, grazie anche al suo amore per la Poesia e per la Scrittura in genere.
L’ho conosciuta appena undicenne, come mia alunna in prima media ed è stata “corrispondenza di amorosi sensi” a prima vista. Un sentimento che ci lega a doppia mandata, nonostante gli anni, i lunghi silenzi, gli impegni professionali (e non solo) di entrambe.
È stata un’alunna dotata di una sensibilità speciale e di tanta voglia di conoscere, d’imparare.
Oggi sono fiera di lei. Orgogliosa oltre ogni dire e la seguo, come posso, attraverso   i suoi saggi e i suoi successi, con cuore di madre sempre, come mi è capitato diverse volte con alunni particolari che, in momenti difficili della loro vita, vissuti in tenera età, si sono fidati di me e affidati a me, soprattutto per la poesia e con poesia.  
Anche per tutto questo esiste tra noi quel fil rouge (in termini goethiani) che ci unisce ancora e che, ne sono certa, non si spezzerà mai.
E torniamo al saggio, che Valeria mi ha dedicato con i seguenti versi: Ad Angela/ per con-vivere nel cuore/ respirando poesia/ costruendo magia/ tra ricordi e parole/ Valeria.
Dicevo delle “atmosfere”. Ebbene, queste si definiscono, nell loro significato poetico, attraverso il titolo di ogni capitolo:
Il primo: Atmosfere stellari: itinerari di ricerca
Il secondo: Atmosfere planetarie: progettualità educative
Il terzo: Atmosfere terrestri: suggestioni tematiche
Ed è già una sorta di climax, nel nostro caso, discendente, che nulla toglie alla intensità poetica delle tre definizioni, le quali sintetizzano magnificamente, ma anche cripticamente, visto che si tratta di tre metafore, i contenuti dei tre capitoli e dell’intero volume.
Sappiamo, comunque, che si parte dalla ricerca (la procedura più alta e complessa per conoscere epistemologicamente una disciplina o un campo disciplinare, affiancandola spesso alla esperienza pratica per saggiare la validità dei   fondamenti della ricerca stessa) per giungere alla progettualità (della pratica metodologico-didattica da mettere in atto) e concludere con le problematiche da affrontare nella scuola contemporanea, legate all’attuale società, sempre in funzione di quanto sia possibile prevedere e fare in relazione agli scenari socio-pedagogici del prossimo futuro.
Ma già nell’Introduzione, che fa seguito alla dotta Presentazione del Professor Giuseppe Elia, Direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia e Comunicazione, e di cui Valeria è stata la beneamata “allieva” nel suo percorso come ricercatrice specializzanda, l’Autrice ci fa dono di un esergo bellissimo,   altamente poetico e filosofico, di William Golding:
 La prima cosa a cui ci abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo.
Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza.
Stupenda citazione che ha, a mio parere, la duplice valenza di connotare sia la lunga alba della vita di ciascun essere umano, che vive da bambino una tale pienezza di giorni, di scoperte, di giochi, di conquiste da fare proprio il mondo tanto da incarnare la stessa speranza, di cui i piccoli non avvertono il richiamo, necessario per continuare a vivere. E questa è l’accezione più bella e lieta e confortevole. Ma, poi, ne esiste un’altra, più amara e dolente, che fa da contraltare e che indirettamente si riferisce alla società attuale, così diversa dalle società antiche che diedero il senso dei valori eterni: a partire dalla contemplazione della natura e del suo incanto, e dal rispetto per i ritmi naturali dei giorni e delle stagioni, in una ricchezza di vitalità che era di per sé compiutezza e appagamento che escludeva il bisogno della speranza.
Neppure oggi esiste più la speranza, ma per motivi completamente opposti. Soprattutto in relazione a “una fase storico-culturale nella quale è saltato il meccanismo che regola il rapporto tra diritti e doveri, tra   possibilità di desiderare e il riconoscimento dei limiti che la realtà e le relazioni ci chiedono (…) nel tempo della frammentazione etica, della riduzione di scelte valoriali e di incoerenza dell’agire…” (Giuseppe Elia, “Presentazione”).
Non solo, dunque, la scienza pedagogica, con le sue “scelte alternative”, ci viene incontro per riprendere a sperare, essendo venuta meno la incarnazione della speranza in ciascuna vita umana, ma anche la poesia può rappresentare una valida alternativa alla desertificazione del cuore e alla “liquidità dei sentimenti e dei rapporti umani” (vedi Bauman).
Non a caso, il mio grande amico, professor Vito di Chio, ma anche attento studioso di pedagogia, profondo e sensibile critico letterario, amante della poesia e della scrittura, nonché scrittore egli stesso, nel suo pregevole volume BISOGNO DI MAESTRI - Una proposta formativa (Armando Editore, Roma 2010), afferma sin dalle prime pagine che “Chi educa, deve educare nella speranza…”, rifacendosi all’Evangelista Luca, e soprattutto allo scrittore V. Chiari, che in un suo libro fa “una lunga riflessione sulla speranza, ma anche un’analisi acuta e appassionata della realtà educativa di oggi” (Vito di Chio).
Quanta speranza e quanta poesia incontriamo nel libro BISOGNO DI MAESTRI!
E cosa ci può essere di più poetico del paragonare gli itinerari della ricerca a dei luminosi percorsi stellari, che ricamano il cielo e ci invitano a prendere il volo per puntare sempre più in alto? Un volo, che appaghi la nostra sete di conoscenza per conquistare orizzonti sempre più ampi tra le stelle e oltre, sfidando pianeti e satelliti e buchi neri, per ritrovarci ad ascoltare il suono armonioso dei multiversi che si rigenerano senza fine… E l’armonia è bellezza. È quel riconoscimento della nostra umanità più vera, a cui aneliamo per riprendere il cammino non al buio, ma illuminati dalla luce dei grandi Maestri e delle grandi Verità. Che non si riducono mai, queste ultime, ad una verità ma offrono una vasta possibilità di scelte per realizzare i nostri sogni e desideri (de-sidera: intorno alle stelle, appunto!), i progetti e i percorsi di vita al meglio di quello che siamo e che possiamo essere e dare a noi stessi e agli altri.
Per questo è necessario imparare nuovamente a “con-vivere”: nella famiglia, nella scuola, nella comunità di appartenenza e nella più ampia società umana.
Ma, il punto di partenza, per quel che riguarda essenzialmente docenti e studenti, è la scuola: nucleo fondante di ogni altro discorso afferente ad essa.
E una nuova possibilità di imparare a “stare bene insieme a scuola” (vedi D. Francescato, A. Putton, S. Cudini) può realizzarsi forse solo attraverso “itinerari di ricerca che fungono quasi da ‘filtro’ per la convivenza scolastica: così come l’atmosfera permette alla luce e al calore del Sole di raggiungere il pianeta, ma impedisce che le radiazioni solari nocive arrivino in grandi quantità, allo stesso modo la relazione tra insegnante e allievo, il ruolo del docente che si estrinseca nel suo potere pedagogico e nel proprio stile educativo, e le dinamiche comunicative tra adulti e minori e tra compagni, costituiscono una rete di supporto e protezione per il percorso educativo del singolo alunno e del gruppo classe.” (Valeria Rossini, “Introduzione”).
È chiaro che tutto questo è sotteso alla ricerca che offre appunto quella “rete di protezione” teorica da tradurre in pratica nella quotidiana prassi dell’insegnamento-apprendimento per superare le “atmosfere” negative che potrebbero venire a configurarsi, come di fatto avviene, nelle varie realtà (scolastiche e non) dei nostri giorni.
Non a caso, Valeria spiega il significato etimologico di “atmosfera”: dal greco “atmos”, ossia “vapore”, e “sphàira”: “sfera”, ossia “Terra”.  E, così, essendo l’atmosfera quell’“involucro gassoso di varia composizione e natura che circonda la Terra e altri pianeti, o estensivamente l’aria che si respira in un luogo, diventa evidente l’importanza che essa assume nella vita della scuola” (ivi).
Ma, tutto lascia presupporre che prima si salga, con la ricerca, a scoprire la luce delle stelle per, poi, ridiscendere perché quella luce illumini i percorsi scolastici dei singoli allievi e dei gruppi nel pianeta-scuola.
Nel secondo caso, infatti, le “atmosfere” diventano “planetarie” perché riguardano “le progettualità educative, cioè i vari progetti che, senza sollevarsi più di tanto ma ritornando sul nostro pianeta, le scuole mettono oggi “in fieri” e poi in atto (con le programmazioni specifiche) per la realizzazione di percorsi formativi sempre più individualizzati e personalizzati in riferimento alle reali esigenze cognitive di ciascun alunno, ma anche agli individuali ritmi e stili di apprendimento, tenendo conto delle risorse professionali, strumentali e ambientali che ogni singola scuola possa offrire, in base anche al principio dell’Autonomia.
Valeria Rossini identifica questa seconda parte con le atmosfere inquinanti che si respirano nella scuola contemporanea, in cui sempre più spesso si avvertono conflitti di convivenza tra educatori e alunni o tra questi ultimi e i loro compagni, ma anche tra le famiglie e gli insegnanti. E la cronaca dei nostri giorni è piena di esempi devastanti e demoralizzanti in tal senso.
“L’atmosfera che circola in aula è ciò che distingue una classe dall’altra, ed è anche la principale fonte della vita di gruppo. Del resto, la presenza di ossigeno libero è prerogativa unica dell’atmosfera della Terra, dato che in tutte le altre atmosfere di pianeti del sistema solare studiate finora non se ne è trovata traccia. Essa è conseguenza dell’attività biologica delle piante, grazie a cui si presenta come sottoprodotto della fotosintesi.” (ivi).
In pratica, l’ossigeno della libertà, se ben guidata, può rendere l’aria di una classe respirabile, altrimenti diventa davvero impossibile la convivenza.
Alcuni decenni fa, dopo l’emanazione dei Decreti Delegati (1974) e dopo la Legge 517 del 1977, Luciano Corradini scrisse un libro illuminante sulla “difficile convivenza” scolastica, che si stava prefigurando e poi sempre più attuando tra genitori e insegnanti, fra gli stessi docenti tra di loro e dei docenti con gli alunni e, infine, tra questi ultimi e il gruppo dei pari. Troppe innovazioni piovute dall’altro (e non capite dal basso) fecero sì che le atmosfere scolastiche diventassero sempre più “terrestri” e complicate con ampie problematiche (anche di “mortalità scolastica) che si sono ingigantite in questi ultimi decenni per via dello sviluppo senza pari della scienza e della tecnica, dei mezzi di informazione e comunicazione, dell’elettronica, della cibernetica e di una società sempre più complessa e alla deriva. Ormai siamo tutti naufraghi su questo pianeta (cfr. Serge Latouche, La società dei naufraghi).
Le atmosfere, pertanto si fanno specificamente più a livello di suolo e di sottosuolo, non si può più volare o progettare, ma bisogna fare i conti con le difficili realtà dei nostri giorni, che rendono ingovernabili la scuola, i rapporti educativi, le relazioni sociali, le interazioni umane. Si tratta di esperienze, a volte persino destabilizzanti, che bisogna tentare di arginare non tanto con le “strategie” immediate, di cui si è tanto parlato negli ultimi decenni del secolo scorso, ma di ponderare e riflettere sugli interventi educativi per renderli veramente efficaci, e non soltanto per rendere più efficiente la scuola (Cfr. a tale riguardo tutta l’ampia produzione pedagogica deweyana, che fece capo al Pragmatismo americano dell’intero XX secolo).
Ed ecco il fenomeno delle immigrazioni con i conseguenti problemi dell’accoglienza, inclusione, integrazione. La corresponsabilità fra scuola e famiglia a partire dal “nido” e dalla Scuola dell’Infanzia per percorrere tutti i gradi della scuola dell’obbligo. L’importanza della educazione alla cittadinanza in una società sempre più multirazziale e interculturale. I problemi ormai macroscopici del bullismo in classe, ma anche attraverso i social, dominanti e dilaganti a livello di dipendenza e di necessità, quasi fossero una droga, nella società di internet, del Web e dei tablet. Fino alla “cura del disagio e alla ricerca del benessere”, di non facile realizzazione. E le atmosfere, quelle che si costruiscono quotidianamente nella famiglia, nella scuola, in ciascuna comunità sociale e umana, non sono più soltanto una metafora poetica che si smargina e si dilata e prende spazio e volo, ma sono soprattutto il prodotto della nostra parte più intima e profonda, della nostra personalità, dell’amore per il nostro lavoro, per la vita, per gli altri; sono il prolungamento di noi, del nostro modo di relazionarci con i tanti interlocutori, che incontriamo sulla nostra strada, siano essi adulti o bambini, giovani o anziani, allievi o colleghi, genitori degli altri e nostri. Esse ri costruiscono, giorno dopo giorno, attraverso la capacità empatica o meno di rapportarci agli altri o di interagire con ogni singola persona. E diventano importanti, anzi fondamentali in ogni ambiente educativo e in ogni processo formativo. Per tentare di migliorare la percezione che abbiamo di noi e del nostro ruolo e quella dei nostri allievi nelle varie fasi della loro crescita e maturazione in un mondo che cambia con ritmi vertiginosi.
Si conclude così il saggio con altri apporti professionali e con una ricerca empirica in due scuole pugliesi. Ma si conclude per davvero?
In realtà, si perde un po’ l’incanto poetico che ha sorretto tutta la struttura del libro, ma era inevitabile, dati gli argomenti che si sono dovuti affrontare nell’ultimo capitolo. E la stessa indagine laboratoriale non ha consentito spazi ai voli pindarici della fantasia e della creatività, se non nello stretto contatto empatico (si spera) degli insegnanti con i propri alunni.
Sta di fatto che la conclusione tenta di riprendere ancora il volo, se non propriamente poetico quantomeno letterario citando soprattutto George Orwell, e, in seconda battuta, Pirandello, che sintetizza lo scopo e il fine del saggio di Valeria Rossini nella sua affermazione: Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude”, perché è solo alla morte che spetta questo compito.
Già, un libro di ricerca pedagogia non può avere una conclusione perché percorre un cammino quanto mai vitale e aperto a nuove indagini, nuovi orizzonti di saperi e conoscenze, legati alla psiche umana e alla formazione di nuove coscienze in situazioni socio-culturali nuove affinché il “bene” coincida con il “buono” in una “missione” che necessariamente è destinata a “rimanere inconclusa”.  
Ma qui ipotizziamo un nuovo viaggio verso le stelle per riafferrare le vie del cielo e sperare in un mondo migliore, grazie anche ai nostri frammenti di luce, che abbiamo continuamente cura di conservare nelle tasche del nostro cuore e della nostra anima perché non ci sfuggano mai di mano.
È quanto riesce a fare quotidianamente Valeria Rossini con i suoi imperdibili saggi pedagogici.
E mi piace tentare una quasi conclusione che conclusione non sarà, riportando qui una poesia che Valeria mi dedicò quando aveva appena 15 anni e che io feci pubblicare sulla rivista letteraria <La Vallisa>, in cui per molti anni ho militato:

VERRO’ DA TE
                 (Ad Angela De Leo)
Erano tempi senza paura
quelli tra le tue braccia,
solo per avere un sorriso.
Ora che il sole non brilla
ho bisogno di calore
      senza certezza alcuna.
Sei un ramo che il vento non inclina
    (anche se non sembra)
e io voglio arrampicarmi
per trovare un ultimo nido
forse rubare un fiore
o gocce di dolcezza
           a colmare l’abisso.
Mi vedrai venire
con gli occhi stanchi
e la rabbia nel cuore
per costruire con te
sogni e delusioni
della mia infanzia.
Piccola ritorno
a bussare alla tua porta
con un fascio di poesia
tra le dita
e spero intensamente
di trovare aperto
almeno uno spiraglio
                             Valeria Rossini
                                  (15 anni)