giovedì 25 gennaio 2018

MARIA MARCONE, UNA SCRITTRICE GIÀ DIMENTICATA?

Sono passati appena tre anni dalla morte di Maria Marcone, la nostra più grande scrittrice nella Puglia letteraria degli ultimi cinquant’anni, e nessuno che io sappia ha scritto una sola parola per ricordarla. Ho atteso invano in questi giorni di leggere sue notizie. Un ricordo. Un rammarico. La voce della sua grandezza come autrice di tanti importanti romanzi per adulti e per bambini e adolescenti; come donna coraggiosa, libera, autentica e sempre sulle barricate; come amica tenera, sincera, attenta. Una persona vera come oggi è raro trovare. Niente. Eppure ci ha lasciato tanto di sé e della sua scrittura. Suo vivo desiderio, condiviso dal compianto Antonio Ricci, suo amato compagno di vita, era che si pubblicassero ancora il suo ultimo romanzo, rimasto inedito, L’Urlo, e una raccolta di poesie, Tempo naufragato Tempo ritrovato, che mi aveva consegnato alcuni anni fa perché io ne curassi il commento critico e la pubblicazione. Personalmente ho mantenuto fede a metà alla promessa fatta a lei e più tardi ad Antonio, ma la sopravvenuta morte anche di colui che si è preso sempre cura dei suoi scritti con grande dedizione ha interrotto la nostra bella intesa sulle modalità di edizione delle suddette opere. Con grande dispiacere ho rinunciato a pubblicarle come mio omaggio e dono verso due amici a me molto cari per rispettare il silenzio dei loro amati figlioli. Ora, però, dopo questa dolorosa per me “dimenticanza”, sento proprio l’urgenza di parlare di Maria. Di riportarla alla nostra attenzione e al nostro affetto. E lo faccio con brevi parole e una sua poesia.
Il tormento la fede l’amore nei versi inediti di Maria Marcone
La sua assenza è come il cielo,
si stende sopra ogni cosa (C. S. Lewis, Diario di un dolore)
Solo pochi mesi fa, azzardandomi a prendere il largo nell’oceano di carte, appunti, agende, cartelline, quaderni, quadernoni, faldoni, che costituiscono il patrimonio di quanto da me scritto da oltre sessant’anni, nonostante le devastanti (provvidenziali?) perdite di buona parte del “materiale”, dovute a traslochi vari, incuria, disordine e quant’altro, ho avuto la fortuna di ritrovare, in fondali da alcuni anni inesplorati, alcune poesie inedite che Maria Marcone, in una delle mie sporadiche (ma quanto affettuose!) visite a casa sua, mi affidò perché “scrivessi qualcosa”.
Un piccolo tesoro che l’oceano mi restituiva, anche se in parte decurtato perché Maria, in un’altra occasione, mi aveva affidato una cartellina con altre sue poesie inedite a sfondo religioso che, purtroppo, l’oceano non mi ha restituito, nonostante le molte e affannose ricerche, che mi hanno visto trasformarmi in palombaro attrezzato di tutto punto alla ricerca del prezioso scrigno, ma senza fortuna.
Rassegnata, ho dovuto abbandonare l’impresa, ma non il proposito di scrivere oggi di Maria e delle sue poesie più di quanto non mi sia stato possibile fare in passato, perché ho dovuto sempre lottare contro il tempo tiranno e le mie molteplici attività di madre, moglie, insegnante, preparatrice di concorsi (per il reclutamento di nuove generazioni d’insegnanti), e la mia insopprimibile urgenza di… scrittura (da portare a termine non solo per me ma anche per gli altri che, negli anni, si sono rivolti a me per un aiuto “di penna”).
Insomma, a distanza di oltre un decennio, eccomi qui a scrivere di Lei. Quasi un impulso. Quasi un richiamo, un comando. Quasi un desiderio. O una necessità.
Io credo nella invisibile ma reale comunicazione tra chi continua a vivere e ad amarci in un’altra dimensione e chi continua a vivere e ad amare in questa difficile tormentata esistenza. All’invisibile richiamo tra terra e cielo io ci credo. Niente può andare perduto e dimenticato finché rimane la foscoliana “corrispondenza di amorosi sensi”, anche oltre la materia e la vita.
Dopo aver appreso da Antonio, con grande dolore, che Maria non era più fra noi, ho pensato non solo di scrivere di Maria e delle sue poesie che avevo tra le mani, ma di farne un libro per rendere omaggio ad una grande e poliedrica scrittrice, ad una donna meravigliosa nelle molteplici sfaccettature della sua imprendibile personalità, e ad una straordinaria amica dalla generosità e dall’affetto sempre prorompenti e coinvolgenti. E, dunque, finalmente le poesie di Maria Marcone pubblicate in un libro! Ma non è stato così per le ragioni già evidenziate. Ora, pertanto, non mi rimane che continuare, sia pure brevemente (Maria merita molto di più!) parlare di lei. Il mio intento è restituire a Maria, con queste mie povere parole, la totalità della sua esperienza artistica, culturale, letteraria, poetica, umana.  Ed eccomi qui a scrivere di Lei oltre il suo volo tra le stelle: quelle di Ninella? quelle di Maria? Le sue amate stelle.
Mi sembra di vederla mentre ci guarda da Lassù con l’infinito amore che provava per l’umanità e con l’infinità possibilità di volare, di andare sempre più su in quello slancio di eterna ribellione e di assoluta libertà, tanto necessaria alla sua vita e ai rapporti che lei amava stabilire con i suoi cari e con gli altri: amiche, amici, parenti e conoscenti vari. Anche nelle poesie, del resto, scopriamo nella nostra Autrice il senso fortissimo della ribellione alle regole che imbrigliano la sua libertà di persona e, nello stesso tempo, il suo accettare, senza piegarsi mai, con grande sofferenza e dignità, le leggi dell’Amore che la rendono capace di “infinita indulgenza” verso gli errori umani e di “estrema disponibilità” ad accettare l’altro e ad affrontare la realtà esterna con il coraggio che le proviene dalle sue certezze/incertezze e dalla sua crescente, anche se estremamente sofferta, fiducia in Dio.
Ne è testimonianza questa intensa poesia dedicata ai suoi due figli.

Lettera ai figli
Ai nostri padri/ dovemmo dir grazie/ solo perché/ ci avevano messi/ in questo sporco mondo/ Ora noi di questo/ vi chiediamo perdono/ Perdono/ per avervi gettati/ in un mondo di lupi/ Perdono/ per la violenza quotidiana/ di cui tutto è impastato/ e che/ neppure dalla nostra casa/ sappiamo bandire/ sbranandoci l’un l’altro/ ad ogni sciocchezza/ Perdono/ per avervi dato/ col seme stesso della vita/ la nostra miseria/ la nostra caducità/ Perdono/ per l’esistenza che vi aspetta/ con le battaglie aspre/ coi furori e la rabbia/ con le gioie troppo fugaci/ con le sconfitte e col dolore/ Perdono/ per la morte/ che vi ghermirà/ troppo presto/
perché in voi sia placata/ la sete d’infinito e di eterno/ Perdono di tutto/ del male che fa male/ del bene che fa ancora più male/ o o o/ Un segreto però forse/ vi abbiamo insegnato/ come rendere questa vita/ meno vile/ questo poco tempo/ meno effimero/ Vi abbiamo aperto gli occhi/ crudamente/ su uomini e su cose/
sui misteri delle nebulose/ sui dubbi/ che dilaniano/ le nostre menti piccine
Vi abbiamo insegnato/ l’odio/ contro l’ingiustizia e il sopruso/ contro la guerra e i guerrafondai/ contro la mafia e il razzismo/ contro le disuguaglianze/ e contro le sopraffazioni/ Vi abbiamo rivelato/ l’uso della ragione/ e della parola/ perché niente facciate/ sulla scia/ del pregiudizio e della norma/ Vi abbiamo resi/
forti/ aggressivi/ taglienti/ e lucenti come lama/ perché sappiate difendervi/ e difendere i deboli/ contro i prepotenti/ o o o/ Ora però/ figli/ non rivoltate l’arma/ contro di noi/ noi che ai vostri piedi/ abbiamo deposto ogni potere/ Pure serbiamo ancora/ una stilla di sangue/ per voi/ Abbiamo pur sempre/ due braccia/ per consolare il vostro pianto/ quando tornerete dalle battaglie/ fradici e malconci/ con la fede a brandelli/ e una sete/ furiosa/  d’amore (Bari 1978)

Maria, in questo testamento spirituale ai figli, molto profondo e dolente, quasi crudele ma traboccante di verità e di amore, spezza le frasi per dare forza poetica e semantica al testo. Ne viene fuori una poesia accorata, di forte denuncia sociale di un tempo che non consente ai figli di dire “grazie” ai genitori per il dono della vita, come avveniva in passato, ma che impone a questi ultimi di chiedere “perdono” proprio per quella stessa vita scaraventata in un mondo di male, dolore, sopraffazione, morte. E l’anafora del lessema “Perdono” e dell’espressione “vi abbiamo insegnato”, crea una musicalità che dona al componimento poetico una toccante sinergia d’intenti, da cui si propaga il senso salvifico e oblativo dell’amore genitoriale. Con gli splendidi versi conclusivi che creano persino visivamente il nido/rifugio delle braccia di entrambi i genitori ad accogliere i figli, reduci, fradici e malconci, dalle loro battaglie quotidiane in “terra di lupi”, con la fede a brandelli e una sete furiosa d’amore.
Grazie, Maria, per quanto ci hi donato e continui a donarci. E con te, sento la necessità di ringraziare anche Antonio. Per esserti stato accanto sempre con tanta comprenzione. Con tanto amore.

venerdì 19 gennaio 2018

MIO ETERNO PETER PAN


Ridevi ai giorni da scoprire
tra animali di foreste equatoriali
e lunghi fiumi e impervi sentieri
che sul muro d'erba tuo padre
per te d'ironia e di verde dipinse
bambino dai mille giochi
e pochi amici a farti compagnia.
Ti ascoltavano mormorii di silenzio
e foglie clandestine e ghiri
e poiane usignoli e pettirossi
e leoni inferociti e timidi conigli
in un fantastico eden di fiaba
di sogni e d'avventura.
Ti facevano compagnia storie
che inventavi per strappare al tempo
un applauso su soprusi subiti
da sprovveduti incontrati tra ingenui
perché e percome mai capiti.
Una solitudine d'abbandono
mi colse d'improvviso in un addio
che ci scoppiò nel petto impreparato
alla tua insolita smania d'andar via.
Ora sei clown e istrione battuta
mordace e risate con gli amici.
Da lontano ti seguo e rido e piango
a mistificazioni paradossi e crapule.
Il mio ragazzo che ride ride ancora
esorcizzando il tempo e la paura.
Senza rete fa capriole d'amore
funambolo di musica e canzoni.
Complici in due s'arrampicano
sui muri sbreccati della vita
per inventarsi un sole o mille stelle
da scambiarsi con un bacio piano
quando la sera veste d'allegria
la mia silenziosa ansia che paziente
all'angolo di casa inascoltata attende.

lunedì 15 gennaio 2018

A FATICA SI RIPRENDE


Sono passati i giorni della festa. È già un ricordo la magia del Natale. È una stella ormai perduta nel cielo di tutti i desideri la preghiera di un sogno nella notte dei botti e dei calici levati e degli auguri a gola spiegata per giungere agli “amici vicini e lontani”. E affievolita è già la speranza del suo accadimento. Si è già spenta l’euforia del primo giorno dell’anno.
Rimane un lieve tremore dei giorni da affrontare nell’illusione che siano nuovi, ben sapendo che sono solo altri giorni che ci viene concesso di vivere con tutte le speranze dell’alba e i rammarichi del tramonto, con il fazzoletto dei progetti ripiegato o fatto nodo per il giorno dopo. Il buio della notte ingoia pensieri. Poi il risveglio.
Si ricomincia. E ci si accorge che nulla è cambiato. Tutto è come prima. E si avverte sulle spalle la stanchezza dell’abitudine che ci regala gesti consueti. Doccia. Spazzolino. Sapone sul viso. Crema idratante. Trucco veloce. Rossetto per ravvivare un sorriso e propiziarci il giorno. Caffè per affrontarlo con vigore. Specchio per la nostra tranquillità o disperazione o rassegnazione. Corsa al lavoro mentre sale il giorno. Il pranzo programmato nelle pietanze prive di calorie e di buonumore. Il riposo del pomeriggio a chi è concesso. Gli impegni pomeridiani. La spesa. Il rientro. Le pantofole e la vestaglia. Il divano. La TV. I messaggi su whatSapp stereotipati e micidiali per una comunicazione anonima e fuorviante nella loro asettica essenzialità che esclude toni rivelatori ed emozioni condivise tra sguardi elusi e voci dimenticate e del tutto estranee alla conversazione. La buonanotte per augurarci il sonno che, però, tarda a venire. Buio. Vuoto di pensieri.
Si ricomincia. E questo paradossalmente ci tranquillizza. L’abitudine è l’anestesia dell’adattamento e dell’accettazione persino della frustrazione, della mancanza dell’imprevisto e del susseguente mancato batticuore.
Non ci sorprende e non ci allarma neppure l’ennesima lite dei vicini di casa, la notizia di stupro nella notte, di una rapina con mortali conseguenze, del barbone morto assiderato, dell’ennesimo naufragio dei migranti nel Mediterraneo, della donna smembrata e gettata nel cassonetto dei rifiuti, dell’attentato negli USA o a Parigi, dei fasulli proclami dei politici e dei loro congiuntivi in fuga, e della fuga dei nostri cervelli migliori, dei baroni in guerra per il potere in una clinica di lusso o in un semplice ospedale di periferia, della guerra nucleare già subdolamente in atto, delle multinazionali a decidere dei nostri destini di formiche al lavoro sotto i cieli roventi d’estate, e dell’estate che è solo un pallido ricordo per non morire assiderati con venti gradi sotto zero, percepiti e mai reali.
Niente più scalfisce la nostra abitudine all’indifferenza per esserne fuori e per salvaguardare la nostra quiete di palude, dove sguazziamo, ippopotami senza orizzonti, nel grigiore del fango che ci sommerge. E forse non ne abbiamo più contezza. Un nichilismo devastante invade l’abitudine che è diventata l’anima della nostra casa, la strisciante insidia delle nostre strade che i giovani percorrono perché sono senza ideali e senza guida, senza lavoro e senza progetti. E neppure una nostalgia a salvarli dal vuoto di senso di una esistenza subita e non cercata.
Si ricomincia. Con il solito individualismo e le antiche ipocrisie. Il pettegolezzo spicciolo col dito puntato sulla pagliuzza nell’occhio dell’amico/nemico e dimentico della trave che impedisce di vedere i propri limiti e senza più un’anima per provare un senso di colpa o rimorso.
Basta un indice levato per farci ignorare persino la luna, un tempo incanto di folli e poeti e persino di pastori erranti con greggi di ignoranza e ingenuità.
Eppure, basterebbe poco per riscoprire la luna e le perdute stelle. Farci paladini di sogni e cavalieri di vessilli da seguire e di ideali da sfogliare come margherite in attesa di fiorire al primo sentore della primavera.
Basterebbe spostare la direzione del dito per puntarlo verso noi stessi e provare a guardare il cielo. Scopriremmo una scritta luminosa, dimenticata nel profondo fondo della nostra anima, che è coscienza di sé e di ogni altro da sé: I CARE.
Coscienza che dovremmo trasformare in consapevolezza e resilienza. Potremmo scoprire i nostri limiti e le nostre potenzialità. Senza ingigantire i limiti. Senza inneggiare alle virtù. Riconciliandoci con i primi. Facendoci coraggio con le seconde e mettendole in primo piano per imparare ad utilizzarle al meglio del nostro impegno quotidiano per scrollarci di dosso l’abitudine, riemergere dalla palude, scoprire che abbiamo due robuste leve per raddrizzare il mondo, almeno il nostro piccolissimo quadrato di casa, palmo di terra che la circonda: la creatività, che ci fa scoprire il possibile, e la razionalità, che ci offre le modalità della realizzazione. Sono le coordinate per restituirci fantasia e realtà. Punti cardine per ricominciare.
E questa volta si può (o si deve?) ricominciare per davvero…

sabato 6 gennaio 2018

STANOTTE È TORNATA


Silenziosa come alito di vento o piuma d’angelo. Come il sogno dell’alba e il canto del mattino. Come un pensiero che non si deve dire. È giunta anche questa notte. La Befana. Dopo giorni d’attesa nel cuore dei bambini. Nella mente di genitori e nonni. E la calza, colma di speranza, di sogni, di buoni proponimenti, delle immagini sfumate ma sicure di giochi e giocattoli, di video-game e I-pod, di pubblicità e di slogan, ancora vuota  presso il camino, appesa al lettino, sul tavolo della cucina, si è colmata di doni. Ieri notte i bimbi sono andati a letto con l’ansia di vederla arrivare la vecchina con la scopa e i sacchi pieni. Sono andati a letto con il proposito di non dormire. I grandi si sono attardati per riempire quella calza in attesa, scrivere la letterina, ritornare per qualche minuto bambini. Sentendo nel cuore una leggerezza che l’alba del nuovo giorno ha cancellato con il pesante sacco del quotidiano ritorno al lavoro, alla ferrea legge degli orari, ai problemi di tasche ancora più vuote e di tanti progetti accantonati che nessuna befana potrà far scoprire nella calza dell’anno appena cominciato. Ma per una notte anche per gli adulti è esploso il magico incanto del dono, nella complicità della meravigliosa illusione della Befana carica d’anni e di fatica, ma dal cuore d’oro.
Che cosa stupenda il dono: si sgranano occhi sull’immensità del dono che non è solo sintesi di quanto desiderato e ricevuto, ma è molto di più: è il calore di sentirsi amati, è la fantasia appagata, è la certezza di una complicità bambina nel gioco dell’innocenza conservata e mai perduta. Credere ancora, nonostante tutto.  Per sentirsi più vicini ai piccoli, al loro candore.
È la meraviglia di un pensiero condiviso. Di un sogno realizzato. E non importa se si sia speso l’ultimo soldino. Il sorriso dei bimbi ha acceso la notte perché loro non ce l’hanno fatta a fingere di dormire fino all’alba. Da sempre i piccoli spiano nel buio e, quando tutto tace, si alzano furtivi per vedere la Befana. E la Befana c’è. Le calze sono piene. È tempo di correre nel lettone per gridare che l’hanno proprio vista la Befana. I genitori, ancora assonnati, sono costretti a svegliarsi perché c’è tanta luce ora nella casa. È fatta di stupore e di sorriso. Di felicità. E non c’è niente di più magico. C’è nell’aria qualcosa di misterioso e di grande. Una compiutezza nuova. Per aver regalato un sogno. Per aver ricevuto un sogno.
Epifania significa proprio questo: festa del dono condiviso e, quindi, festa della gioia data a piene mani. Raccolta a piene mani. Con la speranza che duri nel tempo. Oltre i camini accesi. E gli occhi bambini spalancati d’attesa dietro lo scintillio del sogno.
Mio nonno era lampionaio di stelle e mago di sogni perché non solo accendeva le prime e faceva brillare i secondi, ma li sapeva far durare. Se ne prendeva cura perché non si spegnessero. Perché non svanissero. Eravamo già signorinelle, io e mia sorella Lizia, e lui, la mattina del 6 gennaio, ci veniva a dare il buongiorno improvvisandosi ancora Befano, e, raccontandoci di lunghi improbabili viaggi (aveva già circa ottant’anni), ci lasciava sul verde muschio del presepe una grossa stecca di cioccolato di cui eravamo particolarmente ghiotte. Ci diceva che aveva incontrato la Befana sul treno. Sì proprio la Befana - ribadiva di rimando al nostro smaliziato sorriso. - Minghiarìle! (Stupidelle!) Voi non ci crederete mai, ma io l’ho incontrata davvero! - e si pizzicava il baffo in segno di complicità e di amore.
Epifania di ricordi, la Befana che mi porto nel cuore, con una calza di veri carboni, tanti mandarini, fichi secchi e caramelle mou, morbide e profumate di latte e caramello. Come il cuore di mio nonno in quei giorni di neve, di braciere acceso e di fiabe raccontate piano per trascorrere insieme le lunghe sere d’inverno che il nuovo anno portava con sé.
E mia nonna ascoltava con i suoi occhi grandi di bambina.

giovedì 4 gennaio 2018

L'ALBA DEL NUOVO ANNO


E ci sorprende l’alba del Nuovo Anno con sfilacci di nuvole che ricamano il cielo e lasciano uno stupore di luna affacciata ai balconi della notte in attesa di sapere i destini degli uomini che hanno gridato auguri! Buon anno! Sii felice! E hanno brindato e acceso lanterne in volo verso il cielo in una esaltazione di botti, di luci, di fuochi d’artificio a gareggiare con le lontane stelle, silenziose, misteriose, estranee forse alle umane vicende, ma vicine al cuore di ciascuno, che s’illumina di taciuti sogni e di intimi desideri (de-sidera = intorno alle stelle!). Per vincere ogni dolore ogni perdita ogni delusione. E le illusioni rinascono con l’ultimo tocco della mezzanotte, con il primo battito del primo minuto del giorno che verrà. E tutto ci sembra possibile. Tutto ci appare nuovo (come la mente si finge) e tutto diventa un tempo e un luogo da attraversare per esplorare, scoprire, conoscere sapere capire. E il gioco riprende in una fuga di giorni che sanno l’attimo e ignorano il tempo. Quasi tutti, però, riprendiamo il cammino tracciato dalle vecchie abitudini e convinzioni, dai vecchi impegni e dalle vecchie prigioni.
Il nuovo ci sorprende e ci spaventa. Lo guardiamo con la meraviglia dell’attesa e lo accantoniamo con la codardia di chi lo teme e se ne allontana. Le vecchie certezze si risolvono in nuovi rifugi per non rischiare di naufragare senza un solo appiglio. E tutto si ripropone.
Eppure…
Basterebbe forse il coraggio dei sogni o il sogno del coraggio per capovolgere il mondo e seguire nuovi richiami, scoprire nuove vie, rileggere gli antichi sentieri con occhi bambini e rinnovate stelle comete ad indicare un grotta, una verità prima ignorata o perduta e riapparsa in tutto il suo splendore d’essere.
Forse il solo augurio potrebbe essere questo: avere un cuore bambino sempre.
Perché ogni giorno sia il primo giorno dell’anno e della nostra vita. Anche se ogni giorno ci regalerà un nuovo dolore e un nuovo incanto. Nuovi dubbi e nuove certezze. Nuove contraddizioni. Nuove emozioni. E il mistero ci prenderà per mano e ci condurrà dove la mente si ferma nell’indistinto buio delle mancate dimostrazioni, mentre l’anima procede verso la luce dove è la sua dimora e il suo canto…
Tra i tanti messaggi di auguri ecco venirmi incontro una poesia beneaugurale, inviatami alcuni mesi fa dal mio amico e poeta Alberto Tarantini non per il nuovo anno naturalmente, ma per il mio compleanno.
La rileggo e la trovo decisamente appropriata per questo giorno di nuovo inizio. La trovo, anzi, prodigiosamente appropriata. Quasi un segno. Uno squarcio di luminosa sonorità nel silenzio che sopraggiunge nel cuore e nell’aria dopo il frastuono della festa e l’allegria. Un invito a riflettere. A non far passare invano un giorno che promette molto nel nostro immaginario per rivelarsi magari un giorno come tutti gli altri. Con uno sgomento di giorni in più.
Ecco il testo:
L’uomo e le stelle
Nel freddo firmamento -/che tale è:/riserva d’oppio di pazzi/ e poeti! -/non ravviso fattezze/ umane o amiche,/il caldo abbraccio/ d’un creatore/che volle farci felici./Le costellazioni non portano/ nomi di santi; di là mai passarono./Eroi, regine, qualche/ strambo/ animale… ma santi/ proprio no./Altri imperi imperano/
e vi si piantano bandiere/ con scritto che la morte/ fu vinta; e le formule/ si sprecano negli annali /dell’Universo./ Forse siamo noi il tocco/ d’autore,/ l’intarsio dell’artigiano,/ la sbavatura del colore,/ la pregiata/ imperfezione,/ la nota volutamente/ steccata/ che ci avvicina un po’ a/ Dio.
Mio caro Alberto, ti ringrazio per il tuo dono che ora mi torna utile più che mai per concludere queste mie povere riflessioni sull’“anno che verrà”.
Bello il titolo, che mi riporta alle mie amate stelle e alla loro luce, offuscata purtroppo dalle nostre luci artificiali che le impoveriscono fino a farle sparire alla nostra vista. Eppure ci sono. Sono là da miliardi di anni luce. Si spengono e rinascono come i nostri sogni, i nostri progetti e desideri che tali rimarranno “finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”.
Certo, come sostieni giustamente tu, gli astri sono freddi e lontani e non si danno affanno dei mali degli uomini. Vivono in galassie e formano costellazioni, ma sono un inganno perché il tempo che li contiene si conta in milioni di anni e lo spazio è siderale. Dunque, vediamo ciò che è lontanissimo nel tempo e nello spazio. Dunque, vivono in solitudine e rendono solitario l’Universo che li contiene, privandoci di santi e di miracoli, persino di un creatore che mai si disvela. Lasciandoci in un deserto senza oasi e senza miraggi. Assetati come siamo di certezze e verità.
Pure… in tanto disperante vuoto persino di volti d’uomini e delle loro “fattezze” umane, rimane un “forse” che forse ci sostiene e ci salva.
Forse siamo proprio noi, così sghembi, stonati, smarginati nel colore e nella forma, nei pensieri e nei comportamenti, nei rimpianti e nelle speranze, nelle innumerevoli contraddizioni che ci lacerano e ci rendono unici, “l’intarsio dell’artigiano”, “il tocco dell’autore”, “la pregiata imperfezione”.
Siamo noi pulviscolo di stelle a illuminare i multiversi che continuano a rigenerarsi nello spazio/tempo senza fine.
Siamo noi il miracolo della vita pensante nell’Universo (e tu, caro Alberto, sei testimone operativo quotidiano di questo miracolo che si fa carne e sangue e vagiti di protesta e braccia d'amore). Siamo noi la moltitudine di voci che si danno una voce e parlano,  pregano, cantano.
Siamo noi intrecci di mani...
Siamo noi a colmare il vuoto di senso che avvertiamo, sgomenti, e in cui facciamo naufragio ogni giorno. Siamo noi con la magia del nostro sguardo a colorarci dei colori del mondo: a renderlo immaginato, guardato, scoperto, conosciuto, modificato, mortificato, lacerato, umiliato, offeso, distrutto, ricostruito, inventato, amato e perduto e ritrovato nel nostro sogno che potremmo tentare di rendere realtà.
Perché gli apparteniamo…
E forse in questa ansia di pienezza e di eternità siamo molto più vicino a Dio di quanto la nostra mente non sappia, il nostro cuore non brami, la nostra anima non ritorni a sfiorare la Sua mano, nel cui palmo s’acquieta…
Ma, testardi noi, continuiamo a contare i giorni e a riporre le nostre speranze e i desideri nelle luci che accendono nel buio le città addormentate…
ed io imperterrita continuo a dire Buon Anno!