sabato 27 febbraio 2021

Sabato 27 febbraio 2021: l'AMICIZIA in POESIA...

dal Retino: venerdì 26 febbraio 2021

AMICIZIA

L’amicizia è, in linea di massima, come si è soliti leggere, un rapporto tra due (o più) persone che nel tempo hanno scoperto una carica emotiva particolare, fondata sull’affetto, la sincerità, la disponibilità reciproca ad essere comunque presenti per qualsiasi evenienza della vita (le “affinità elettive” goethiane?). I valori fondanti, dunque, sono: fiducia, lealtà, reciprocità. Per potersi fidare e affidare… per potersi esprimere e poter comunicare in assoluta libertà, anche litigando magari, e criticandosi a vicenda, ben sapendo che si tratta solo e sempre di una critica costruttiva per aiutarci a crescere e a maturare nuovi e più giusti comportamenti, soprattutto quando le sfide della vita si intensificano col passare degli anni e si ha bisogno di una mano di aiuto, di conforto, di speranza.

Tutto vero e condivisibile penso, ma l’amicizia, in cui io credo e confido, nonostante clamorose e dolorose smentite, proprio sulla mia pelle e di cui porto cicatrici indelebili, è forse anche di più. È più disinteressata, più forte e più tenace dell’amore perché nasce e cresce e si consolida lentamente nel tempo e perdura oltre il tempo stesso. Oltre lo spazio non condiviso. Non esplode d’improvviso come l’amore, soprattutto nella fase iniziale dell’innamoramento e non si nutre di forti emozioni che mettono il cuore in subbuglio con un totale stordimento della mente, e conseguente perdita del lume della ragione. E, anche quando diventa sentimento profondo, quest’ultimo rimane fragile come cristallo perché è sempre fonte altalenante di dubbi, di attese, di sofferenza per le mancate risposte in ugual misura alla propria intensità, che non è quasi mai reciproca o non rispetta quasi mai i tempi dell’essere effettivamente in due. Naturalmente, non si deve mai generalizzare. Ci sono fortunate eccezioni (che confermano la regola?). L’amore, tra l’altro, è necessariamente fatto di desiderio, di corporeità, di passione. Ed è tutto questo a renderlo ricattatorio e debole. L’amicizia, invece, quella autentica, è pura. Non chiede nulla oltre quello che dà. È silenzio e parola. È intesa e soccorso nel momento dell’urgenza di una mano, sia nella gioia che nel dolore. Anzi, secondo me (ma sono in buona anche se rara compagnia!), è più vera quando si gioisce insieme della fortuna dell’altro, della sua felicità, che potrebbe anche escluderci ma mai ferirci nella comprensione che l’amore ha bisogno di esclusività e di intimità. L’amicizia, invece, è un ESSERCI senza esserci. E ha risposte senza che ci siano domande. Utopia? Forse. Se per utopia intendiamo tutto ciò che potrebbe ancora verificarsi. Ma anche andando indietro nel tempo ci confortano i trattati sull’amicizia da Aristotele a Cicerone, dagli esempi tratti dal Vangelo a Dante fino ad alcuni saggi di studiosi contemporanei (Paolo Crepet, per esempio, e i suoi illuminanti saggi, vedi Solitudini, che è il contrario dello stare insieme con amicizia…). E che dire dei romanzi per adulti e bambini? Da L’Amica geniale di Elena Ferrante a Mille splendidi soli di Khaled Osseini, alla Gabbianella… di Luis Sepùlveda. Sono tutte voci autorevoli a conferma di quanto detto o ipotizzato sino qui, anche se oggi viviamo davvero sotto un cielo capovolto, in cui quelli della mia generazione non si ritrovano più. I social hanno imprigionato la vera amicizia per sdoganare quella senza fondamento e senza spessore affettivo ed etico. A questo proposito, Mariateresa Bari mi ha mandato sul blog una sua poesia molto amara. Una vera denuncia, urlata col cuore. Si intitola “Monologhi”: Girano voci caramellate attorno./ Ascolto./ Nessuna traccia di dialogo/ nella deflagrazione degli sguardi,/ nel tessuto armonico intossicato,/ da chiacchiere e veleno,/ nel silenzioso fragore del verbo dare./ Siamo monologhi che si urtano.

Ma io preferisco l’utopia e la voce dei poeti… anche quella dei cantautori, che sull’amicizia hanno scritto splendide canzoni… Sono possibilista più che ottimista.

Ed ecco alcuni Versi, che dedico a Nico, ma anche a tutti noi. Nella speranza che anche tra noi questo sentimento rarissimo ma possibile come la neve a primavera ci faccia notare i germogli dei ciliegi già in fiore, perché la primavera sorride sempre nei campi e nel cuore e ci… rincuora.

“Amicizia” di Khalil Gibran:

E un giovane chiese: “Parlaci dell’amicizia”

Il vostro amico è il vostro bisogno saziato.

È il campo che seminate con amore

E mietete con riconoscenza.

È la vostra mensa e il vostro focolare.

Poiché, affamati, vi rifugiate in lui

E lo cercate per la vostra pace.

“AMICIZIA”

(erroneamente attribuita a Jorge Luis Borges, ma più probabilmente è stata scritta da un Anonimo o anche a più mani, ma vale la pena conoscerla tanto è bella e significativa…)

Non posso darti soluzioni per tutti i problemi della vita,

Non ho risposte per i tuoi dubbi o timori

però posso ascoltarli e dividerli con te.

Non posso cambiare né il tuo passato né il tuo futuro,

però quando serve starò vicino a te.

Non posso evitarti di precipitare, solamente posso offrirti la mia mano perché ti sostenga

e non cada.

La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo non sono i miei,

però gioisco sinceramente quando ti vedo felice.

Non giudico le decisioni che prendi nella vita,

mi limito ad appoggiarti, a stimolarti e aiutarti se me lo chiedi.

Non posso tracciare limiti dentro i quali devi muoverti,

però posso offrirti lo spazio necessario per crescere.

Non posso evitare la tua sofferenza, quando qualche pena ti tocca il cuore,

però posso piangere con te e raccogliere i pezzi per rimetterlo a nuovo.

Non posso dirti né cosa sei né cosa devi essere,

solamente posso volerti come sei ed essere tuo amico.

In questo giorno pensavo a qualcuno che mi fosse amico,

in quel momento sei apparso tu…

Non sei né sopra né sotto né in mezzo, non sei né in testa né alla fine della lista.

Non sei né il numero uno né il numero finale e tanto meno ho la pretesa

di essere io il primo, il secondo o il terzo della tua lista.

Basta che tu mi voglia come amico.

Poi ho capito che siamo veramente amici.

Ho fatto quello che farebbe qualsiasi amico:

ho pregato e ho ringraziato Dio per te.

Grazie per essermi amico.

(non sono gran cosa, ma sono tutto quello che posso essere)

Ma sicuramente è di Borges “Contano i legami”

Non sai bene se la vita è viaggio,

se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno

dopo giorno e non te ne accorgi

se non guardando all’indietro. Non sai se ha senso.

In certi momenti il senso non conta.

Contano i legami.

Infine, ritengo di fare dono gradito pubblicare una poesia di Mario Luzi, di cui domani, 28 febbraio, ricorre il sedicesimo anniversario della morte. La poesia è dedicata alla vita e dell’amicizia. Riguarda, infatti, la vita con tutte le sue gioie e i suoi dolori, affrontata meglio, nel corso degli anni, in compagnia degli amici più cari…

Alla vita

Amici ci aspetta una barca

e dondola nella luce

ove il cielo s’inarca

e tocca il mare, volano

creature pazze ad amare

il viso di Iddio caldo di speranza

in alto in basso cercando

affetto in ogni occulta distanza

e piangono: noi siamo in terra

ma ci potremo un giorno librare

esilmente piegare sul seno divino

come rose dai muri

nelle strade odorose

sul bimbo che chiede senza voce.

 

Amici dalla barca si vede il mondo

e in lui verità che precede

intrepida, un sospiro profondo

dalle foci alle sorgenti;

la madonna dagli occhi trasparenti

scende adagio incontro ai morenti,

raccoglie il cumulo della vita, i dolori

le voglie segrete da anni

sulla faccia inumidita.

Le ragazze alla finestra annerita

con lo sguardo verso i monti

non sanno finire

d’aspettare l’avvenire.

 

Nelle stanze la voce materna

senza origine, senza profondità s’alterna

col silenzio della terra

È bella

e tutto par nato da quella.

Mi piacerebbe avere da voi commenti, giudizi, riflessioni. Spero davvero tanto in un sereno e utile confronto. Vi abbraccio. Buona domenica. 

mercoledì 24 febbraio 2021

Mercoledì 24 febbraio 2021: nel Retino ho catturato…

Prima di ogni altra cosa il mio auguro di sereno e dolcissimo COMPLEANNO (91 primavere portate splendidamente) alla mia amatissima AMICA Ada De Judicibus. Con l’unico mio dono possibile: “Grattacielo”

Quanto cielo quanto cielo per me!/ Sono una casa che colloquia con le nuvole/ al puro spazio apro mille finestre/ do asilo a uccelli di vetta./ Quanta gloria di cielo intorno a me!/ Io respiro l’assoluto/ penetro nel suo silenzio.// E aspiro agli astri/ agli astri offro lo specchio/ delle mie vetrate./ Sono un diamante solitario:/ sul grigio groviglio/ di strade e di case che sovrasto/ rifletto luce./ Sono un inno ascensionale,/ il mio giardino pensile/ è un sospiro di verticalità. (Ada De Judicibus)

Mia carissima Ada, hai scritto una bellissima poesia. Molto originale e molto “spirituale”. Nella immedesimazione col grattacielo c’è davvero tanto cielo e tanto “anelito alla verticalità” dopo tanta luce ad inondare vetrate e riflessi interiori negli specchi che moltiplicano all’infinito la tua anima, circonfusa di azzurro e nuvole leggere: “inno ascensionale”. Splendido verso che occupa il rigo intero, dilatandosi nello spazio centrale e guadagnando una via di fuga che sembra volare verso l’infinito, in senso orizzontale e verticale. Una nuova dimensione di te, oltre i fiori che ami, la casa avvertita sempre come rifugio e protezione, gli uccelli che hanno intenerito e inteneriscono i tuoi giorni con la loro fragilità e il loro gioioso canto, regalandoti da sempre fremiti di meravigliosa libertà interiore, oltre i cancelli della tua timidezza e ritrosia... Per questo ti scopri prezioso “diamante solitario”... in una “gloria di cielo intorno a te”, con “mille finestre spalancate”, respirando “l’assoluto”. (Non pensi di aver incontrato Dio in tanta purezza e svettante armonia?). Ti abbraccio, come sempre. Angela

(Ada De Judicibus è nata e vissuta a Molfetta. Di recente si è trasferita a Milano. Laureata in Lettere, ha insegnato nelle Scuole Superiori della sua città. Ha pubblicato 15 raccolte di poesia ed alcuni racconti. Dal 1985 al 1994 ha partecipato con esiti eccellenti ai concorsi nazionali di poesia; ha poi condotto una vita letteraria piuttosto appartata, pubblicando i suoi libri con poca diffusione. Ha, però, sempre proposto i suoi versi sui due periodici “La Vallisa”di Bari, e“Vernice” di Torino, ed ha partecipato a pregiate antologie. Nella rivista della sua città “L’Altra Molfetta” per molti anni ha pubblicato articoli di poesia e prosa. La sua opera, gratificata da recensioni e lettere private di critici autorevoli, è stata analizzata in saggi, fra cui due monografie di Vincenzo Laforgia e, nel 2019, “la poesia degli istanti puri” di Marco Ignazio De Santis)

Ed ecco una vera perla catturata su FB dal mio Retino sempre vigile e attento. Si tratta di una bellissima poesia di Nikos Kazantzakis, con ottimo commento critico di Maria Pia Latorre: “Mi do ad ogni cosa”: Mi do ad ogni cosa/ Amo, soffro, lotto/ L’universo mi sembra più ampio della mente,/ il mio cuore un mistero oscuro e onnipotente/ Se puoi, Anima, sollevati/ sopra le onde mugghianti/ e afferra tutto il mare/ con una sola giravolta del tuo occhio./ Trattieni bene il tuo senno,/ che non vacilli./ E tutto d’un colpo torna a inabissarti/ nel mare e prosegui la lotta./ Il nostro corpo è una nave/ e naviga sopra acque color blu scuro./ Qual è il nostro scopo?/ Far naufragio!

Mi do ad ogni cosa. Già, nel primo emi-verso, personalmente, sono stesa, k.o. Un emi-verso che è un universo! Mi do ad ogni cosa, cioè do me stessa ad ogni cosa. Ogni cosa significa tutto: interiorità, relazione col mondo, partecipazione. Mi do ad ogni cosa totalmente. Seguono tre verbi che sono i fondamentali dell'esistenza, poiché ne racchiudono l'essenza di amore, travaglio e difficoltà umane alle quali mai dobbiamo arrenderci: amo, soffro, lotto. La capacità di lottare porta il Poeta ad esortare la sua Anima: "sollevati e afferra tutto il mare". Grande forza, pathos in tensione emotiva, che si fa tenacia nell'azione. Solo ad un Poeta 'di mare' e mistico sarebbe potuta riuscire una sintesi così efficace! Le immagini allegoriche ci stordiscono per grandezza e ci consegnano un messaggio poetico che va intimamente assaporato.

Grazie, mia carissima Maria Pia, per avermi dato l’ok per pubblicarla col tuo commento nel mio blog. Occorre fare contaminazione (per contrastare quella ferocemente negativa della pandemia nel nostro pianeta). Occorre fare “rete” perché “l’unione fa la forza”. Banalmente così, ma io ci credo con umiltà e determinazione, che l’amore per la scrittura, per gli altri e tutto ciò che è “altro da me” mi impone, con coraggio e leggerezza insieme.

E ora l’amore per mia figlia Raffaella e per la sua scrittura, ma anche la grande sintonia che avverto con Francesca Pice e la sua totalizzante passione per la pioggia, metafora della vita, mi spingono a pubblicare la poesia “Della pioggia l’odore” (Raffaella Leone), recuperata per caso in una delle mie tante agende. Sarà una sorpresa/dono anche per lei. È una poesia che io ritengo stupefacente: Della pioggia l’odore/ nasce prima/ come l’ospite in anticipo/ che bussa senza insistere./ Va danzando spandendosi/ nell’aria in silenzio./ Della pioggia l’odore/ appartiene ai poeti/ che lo sentono arrivare/ alle narici golose/ subito/ come i cani che braccano la volpe./ Della pioggia l’odore/ è la porta d’ingresso/ che già bagna la terra./ Della pioggia l’odore/ è già malinconia./ Poi la pioggia/ potrà passare senza cadere/ ma l’idea di lei si avvinghia/ alla pelle come alla penna/ e sul foglio è già caduta/ lenta o tumultuosa/ versando parole./ Della pioggia l’odore/ nasce prima e rimane/ a pranzo nella casa/ dei poeti.

Ed ora inviterei Francesca a fare un commento. E mi piacerebbe tanto ricevere altri commenti dagli amici che seguono il Retino e leggono questo blog e che amano partecipare attivamente a queste poesie e parole che il retino continuamente cattura. Profondamente grata. Angela


sabato 20 febbraio 2021

Sabato 20 febbraio 2021: Il mio Retino ha catturato...

 Nel Retino di ieri si è parlato dell’Antologia Il Sentimento della Scrittura, partendo dall’analisi delle due parole fondamentali: Sentimento e Scrittura, appunto. Certo, ci sarebbe stato molto altro da dire perché sono due termini che si possono declinare in tantissimi modi, ma il tempo concessomi non mi ha permesso di andare oltre. In realtà, recidivamente ogni volta rubacchio vari minuti in più… Parlando, comunque, di sentimento necessariamente ho fatto riferimento al “sentire”, che è alla base della nostra percezione, interna ed esterna, della realtà. Ebbene, vorrei qui riportare quanto ho scritto in passato su questo argomento per fare maggiore chiarezza, riferendomi più o meno, ma molto liberamente, a quanto scritto in proposito da Dario Voltolini in IL SENTIRE E L’ASCOLTARE:

“Abbiamo perso la misura delle cose. Siamo esistenza senza contemplazione. Non abbiamo più nostalgia e rimorsi. Non abbiamo da tornare verso nessun paese. E non abbiamo neppure che cosa scoprire. Tutto è di uguale importanza, e di nessuna importanza. Non abbiamo più il dono del discernimento e della discrezione. Nessuno ascolta nessuno. Infatti, perché ascoltare e chi?” (David Maria Turoldo).

Per uno scrittore o un poeta o per chi si dispone a diventarlo, ascoltare, invece, è molto importante, soprattutto per cogliere non tanto l’armonia di un rumore, di un suono o delle parole, ma la dissonanza. È il contrasto che ci sorprende e intensifica la capacità dei nostri sensi a “cogliere”. Ma prima di ogni operazione in tal senso è necessario fare silenzio, coltivare il silenzio, vivere profondamente il silenzio. “Il silenzio come momento aurorale dell’ascolto” (Massimo Baldini). Solo dopo è possibile cogliere l’armonia e la dissonanza: di rumori, suoni, musica, parole. “Il nostro è un tempo senza silenzio, senza armonie, è un tempo colmo di convulso fragore… La chiacchiera è la sola parola possibile in tempi in cui il silenzio è morto e regna sovrano il rumore… A ben guardare, la chiacchiera è la parola di tutti coloro che vogliono solo parlare e mai ascoltare, è la parola superflua, inefficace” (ancora Baldini). Il filosofo e scrittore Michele Federico Sciacca scrive: “Chi chiacchiera non si preoccupa di comunicare, ma solo d’infilar parole che non dicono niente. Non persuade, né convince; stanca e infastidisce. Non lo ascoltiamo, né, in fondo, a lui interessa l’essere ascoltato”. Ascolto e silenzio, dunque, devono procedere insieme. Entrambi si fanno inavvertitamente silenzio e ascolto interiori. Ignazio Silone afferma che: “Il silenzio interno significa che ogni cosa è al suo posto, ogni cosa è in ascolto”. E Alfred De Musset sostiene che: “La bocca custodisce il silenzio per ascoltare il cuore che parla”. Ma occorre fare attenzione perché a volte il silenzio può essere la morte dell’ascolto. Si tratta del silenzio cupo, ostile, desertico, offensivo, di isolamento e rifiuto. La parola, invece, se ponderata, è strumento di potere. Occorre saperla usare, a seconda dei casi, con dovizia o parsimonia. Può essere un’arma micidiale o una carezza. L’ascolto favorisce e facilita il suo potere in senso positivo o negativo.  La mente, infatti, può essere una “spugna”. Occorre esercitarla. L’ascolto, come la lettura, è un ottimo esercizio. Ma altro è sentire, altro ascoltare. Sentiamo senza sforzo, inconsapevolmente, inavvertitamente. Ascoltare, invece, significa fare attenzione a quanto raggiunge il nostro orecchio. Saperlo percepire e poi scoprire nella sua dissonanza, nella sua armonia. Nel suo significato più evidente e in quello più profondo. Per scoprirvi la bellezza. La calofonia (suono armonioso) o la cacofonia (suono dissonante). Così anche per le parole: l’autenticità (naturalezza) e l’artificio (la costruzione). Per scrivere bene occorre saper ascoltare. Anche per saper parlare occorre saper ascoltare. L’efficacia della comunicazione si misura dall’indice di ascolto registrato da colui che parla. Ma saper parlare, oltre ad essere un dono, è anche un’arte che si conquista esercitandosi ad ascoltare gli altri per cogliere la seduttività della voce, dell’intonazione, del ritmo, dell’inflessione, delle pause; e, poi, la chiarezza, l’originalità, l’eleganza formale dell’esposizione; la profondità o la lievità, l’ironia, o la drammaticità, la semplicità o la cripticità del contenuto. Sono modi che vanno presi a modello e rielaborati in maniera personale perché catturanti, oppure vanno rigettati in quanto respingenti. “L’ascolto è uno strumento conoscitivo di grande importanza, esso consente di essere aperti nei confronti del mondo e del prossimo. Un ascolto con la piena fioritura dei sensi, un ascolto non opacizzato, non deprivato è il presupposto di ogni vero dialogo, di ogni comunicazione piena” (Massimo Baldini). Chi impara ad ascoltare si apre al tu e al noi, superando il proprio egocentrismo, solipsismo e narcisismo. Impara a conoscere sé stesso, conoscendo e riconoscendo l’altro. Con umiltà e discernimento“L’aprirsi all’ascolto, dunque, equivale ad ammettere la propria finitezza, presuppone un sapere di non sapere, un essere coscienti della perfettibilità delle proprie conoscenze, è mettersi comunque in discussione, un riconoscere nell’altro una persona che è portatrice di ragioni che non devono essere sottovalutate, ma appunto valutate… Sottrarsi all’ascolto equivale a compiere un voto di povertà non necessario, mentre offrirsi al dialogo e all’ascolto comporta la decisione di correre dei rischi, comporta la messa in discussione delle proprie tesi e l’eventuale loro revisione o il totale abbandono” (R. Arnheim). Bello, al riguardo, il pensiero di Jean Lacroix: “Ogni attività umana autentica è dialogo: dialogo con il mondo che è poesia, dialogo con gli altri che è amore, dialogo con Dio che è preghiera. La tentazione propria del pensiero è il monologo: basta murarsi nel proprio sistema e rifiutare l’altro per annientare sé stesso. Il vero pensiero al contrario è dialogo: è, come dice Platone, il dialogo dell’anima con sé stessaE l’anima non può dialogare con sé stessa se non ha saputo accogliere l’altro, se l’altro non è già in essa. Nulla di più raro oggi: il mondo moderno è pieno di individui monologanti che, senza mai accogliere l’altro, si oppongono e si urtano”. Comunicazione, esistenza e co-esistenza sono, dunque, concetti inseparabili che dovrebbero trasformarsi in realtà per diventare migliori. Allora, impariamo ad ascoltare, scoprendo innanzitutto l’importanza dello sfondo: tutti i suoni, i rumori, le parole che ci circondano e che non mettiamo a fuoco perché in apparenza non ci riguardano personalmente. Eppure modificano il nostro modo di sentire e di ascoltare. Ci innervosiscono, ci calmano, ci sorprendono, ci incuriosiscono, ci stimolano ad una percezione più attenta di ciò che è fuori di noi e che si riflette in noi. Ci distraggono, ci aiutano a concentrarci meglio. Acuiscono i nostri sensi o li neutralizzano. E, a questo punto, mi piace prendere in esame altre parole che scaturiscono dal guardare/vedere, sentire/ascoltare per assaporare meglio la realtà in noi e fuori di noi: EMOZIONE: grande turbamento della psiche di fronte al bello o al brutto. Commozione o apprensione. Avventura dell’anima: rischiosa ed eccitante. Appassionata partecipazione alla vita. Eccitazione dei sensi e dello spirito. Sindrome di Stendhal davanti alla bellezza di un’opera d’Arte (un quadro). EMOTIVITA’: maggiore o minore propensione, a seconda della sensibilità personale, di reagire emotivamente, in senso positivo o negativo, alle sollecitazioni dei sensi nello scoprire e conoscere il mondo. EMOTIVO: che reagisce in maniera visibile a qualsiasi emozione a causa della ipersensibilità del soggetto. EMOZIONANTE: che provoca emozioni o anche è ricco di suspence. Ma occorre anche chiedersi: È la creatività che sollecita le emozioni o sono le emozioni che stimolano e favoriscono la creatività? La risposta non è facile perché entrambe, creatività ed emozione, fanno parte del nostro codice genetico e si influenzano vicendevolmente. Se la creatività, infatti, è una forma, forse la più elevata, della nostra intelligenza, la emotività fa anch’essa parte di quella particolare intelligenza che Goleman definisce “emotiva”. In pratica, entrambe scaturiscono dalla nostra mente, ma si definiscono meglio e si colorano con il “cuore”, ossia con quella sensibilità affettiva che i latini definivano “sapientia cordis” e il filosofo francese Biagio Pascal “ésprit de finesse”in tandem con “l’ésprit de géometrie”. Spesso, però, la creatività, che ciascuno di noi possiede in maggiore o minore misura, come la stessa sensibilità, spesso viene soffocata o condizionata dall’ambiente in cui viviamo, dalle esperienze vissute, dagli incontri positivi o negativi con gli altri, coetanei o adulti, che avvengono in maniera occasionale o sistematica, dagli insegnanti che l’hanno stimolata e valorizzata oppure soffocata e spenta con il loro modo di insegnare o di rapportarsi con gli alunni, in un clima di libertà o di ferree regole di disciplina. La creatività, come sappiamo, non ama prigioni o catene, imposizioni o schemi. Ha bisogno di volare libera oltre ogni possibile steccato. Ha bisogno del fuoco acceso della mente e del sorriso tenero del cuore. Ha bisogno di innamorarsi o di indignarsi, senza mai addormentarsi nella indifferenza o connotarsi di violenza o di odio. I sentimenti negativi fanno morire la creatività, la intossicano con i loro veleni. Ecco perché è più facile cantare l’amore che l’odio. Quando, però, ci accorgiamo che qualcosa sta soffocando la nostra creatività o non le ha mai permesso di mettere le ali; quando sentiamo che la paura ci blocca; la mancanza di autostima ci frena nelle nostre libere espressioni, fino a crearci veri e propri disturbi di natura psico-fisica, come mal di testa, dolori cervicali o  lombo-dorsali, tremori o battiti accelerati del cuore che, prima di diventare vere e proprie patologie, sono spie del nostro malessere interiore, possiamo adottare delle soluzioni piuttosto semplici e alla portata di tutti per cercare di superare il disagio in cui ci troviamo o ci dibattiamo, nostro malgrado: camminare all’aperto, per esempio, fare qualche esercizio di movimento con tutti i segmenti del corpo, respirare profondamente e meditare… Ognuno, del resto, “sente” il proprio corpo e sa inconsciamente come comportarsi per il proprio ben-essere psisco-fisico. Ma ci vuole molto discernimento e consapevolezza di sé. Cercando umilmente l’aiuto degli altri perché, come sappiamo, “nessuno si salva da solo”! Detto ciò, mi sembra giusto riportare qualche testimonianza molto pertinente e significativa, catturata dalle pagine di FB.

Ed ecco una tormentata poesia di Rita Vecchi, una poetessa che mi porto nel cuore e che, nonostante sia seguita con molta attenzione e ammirazione da tanti lettori e lettrici della sua pagina, per eccesso di riserbo e di umiltà non ha ancora pubblicato i suoi numerosi e profondissimi testi in prosa e in versi. Riporto qui una delle tantissime sue poesie nella speranza di farle dono gradito: “ECO DI UN’ANIMA”: ho perso l’ovale del viso/ dissolto nell’acqua del tempo/ Disperso il fragore degli occhi/ nascosto in orbite lasse./ La pelle è muta/ - silenzio di fibre cambiate,/ macchiate dai baci beffardi/ dei giorni spariti./ Pietosa e commossa/ abbraccio l’immagine cara./ Quell’anima sola/ risuona dell’eco/ di stanze svuotate. Constatazione amara del tempo che passa inesorabilmente, lasciandoci cicatrici nel corpo e nell’anima, segni di antiche ferite e dell’impietoso incalzare degli anni nei suoi misfatti: a un ovale scolpito di grazie e bellezza è subentrato un contorno del viso smarginato e slavato, come tutto ciò che viene bagnato dall’acqua; al meraviglioso esplodere del “fragore” degli occhi c’è un rimando di “orbite lasse”. Anche la pelle non ha più richiami di baci che il tempo beffardo ha ridotto in macchie, sconfitta testimonianza “dei giorni spariti”. E a lei, la donna che ama la bellezza e la poesia, non rimane che un commosso rimpianto nell’abbracciare l’immagine dell’antico splendore. L’anima è tutto ciò che le rimane e supera col suo canto che vibra ancora la desolazione delle “stanze svuotate”, prive di ciò che la connotava nella pienezza della giovinezza.

E di Mauro Contini ecco un’altra dolente poesia di rammemoramento: “HA UN RESPIRO IL CUORE”: Ha un respiro il cuore,/ si dispiega nelle periferie/ dell’immaginazione,/ percorrono l’anima tutte le strade/ che abbiamo attraversato,// l’ombra che ci segue costante/ a dimostrare l’evanescenza,/ la fragilità dei sentimenti/ segue il vento e spera/ un approdo di salvezza,// è luce di attenzione/ questo silenzio di lontananza/ che scuote i prati e le convinzioni,/ nell’attesa a te dovuta/ l’enigma della fede,// in quale porto indugi e scruti/ ti celi tra argille sollevate,/ nuvole di polvere/ in solitudini di cortili,/ abiti le ore dell’abbandono,// scivoli tra le pieghe della nostalgia,/ il tuo volto rivela un tempo antico/ e una rinnovata profezia,/ nel pensiero sfugge alla dimenticanza/ il ventaglio delle tue mani. Il cuore ha un respiro che si dilata fino a raggiungere “le periferie dell’immaginazione", dove tutto è indefinito e da reinventare perché tutte le altre strade attraversate “percorrono l’anima” in un assalto di nostalgia pure nella constatazione della “fragilità dei sentimenti”, anzi forse anche proprio per questo. Se tutto rimanesse intatto nel tempo il poeta non avrebbe l’ansia di “un approdo di salvezza”. E, invece, la lontananza e il silenzio si rivelano come “luce d’attenzione” che, al pari del vento, ha la forza di scuotere ciò che è lieve e bello e facilmente muta (i prati), ma anche ciò che è difficile da sradicare (le convinzioni). E, intanto, “nell’attesa a te dovuta" (che mi riporta alla stupenda raccolta La voce a te dovuta di Salinas) con tutti i versi successivi, che si srotolano in un crescendo rossiniano di nostalgica rimembranza, attraverso l’ossimorica realtà dei nostri giorni (la solitudine dei cortili un tempo pieni di vita, di voci, di presenze di adulti e bambini festanti; le ore dell’abbandono nella propria casa e il “tempo antico” impresso nel nuovo volto), il poeta giunge come inattesa profezia a  quelle "mani" che, nel ricordo, si aprono "a ventaglio", lievi come ali e come carezza tanto agognata. Versi stupendi, che conoscono perfettamente l’Arte del poetare.                                                                 

E ora vi saluto. Alla prossima. Buon fine settimana con poesia…

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 18 febbraio 2021

Giovedì 18 febbraio 2021: le mie poesie lette nel Retino di martedì...

Martedì è stato un incontro particolare in un’atmosfera di pacata festività, perché vissuta soprattutto in famiglia, al tepore di affetti consolidati o ritrovati nella intimità e semplicità della propria casa. In una clausura forzata causa Coronavirus. Domenica la festa dell’Amore (San Valentino) e martedì festa di Carnevale e dell’allegria (martedì grasso). Fuori: tanto freddo, nonostante la giornata di sole dopo due giorni di vento gelido e di neve. Anche per il deserto paesaggio senza anima viva. Un vuoto triste di persone. Dentro: il calore dei termosifoni o, meglio, dei caminetti accesi e la presenza del nucleo familiare. Nel caminetto: le scintille che fanno concorrenza alle lucciole ormai in estinzione (come già preconizzato negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso da Pier Paolo Pasolini) o alle stelle sempre meno visibili per via della luce artificiale delle nostre città a cancellare quella naturale. Basta però un po’ di creatività e il buio può “illuminarsi d’immenso”…

In un’atmosfera di quasi magia ho pensato di proporre la lettura di qualche mio componimento poetico per mantener fede ad una promessa. E così ho letto una lirica d’amore per tutti gli innamorati “Il giorno dei prodigi” (14 febbraio - San Valentino), una filastrocca intitolata “Martedì Grasso” e una ballata “La ballata del mare” in omaggio del mare, mio antico e imperituro amore. La scelta è stata motivata dal desiderio di evidenziare tre generi diversi, tra i tanti, del testo poetico: la lirica in versi sciolti, con una struttura semi-dialogica e con in più una commistione di versi e canzone; la filastrocca con le consuete rime baciate (o alternate), con assonanze e allitterazioni a rendere ritmo e sonorità di fiaba o di ninnananna, ma anche di senso/nonsenso, tipico delle conte, dei girotondi, di alcuni giochi di movimento, tanto cari ai bambini (sulla falsariga dei Limerick inglesi, poesie brevi con giochi di parole, bizzarre e surreali, tipiche dell’umorismo britannico); la ballata dalla struttura completamente diversa, risalente alla canzone romanza del Medioevo o canzone a ballo, con strofe o stanze e ritornello con varie reiterazioni di versi o di parole per dare nuove suggestioni ritmiche e sonore alla poesia. La ballata da canto popolare diventa d’élite e colta in letteratura, soprattutto nell’Ottocento romantico e melanconico. Da ricordare “La ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde o anche la ballata ossessiva, incalzante e bellissima de “Il Re degli Elfi” di Goethe, musicata da Schubert, come tante altre in un felice connubio di versi e di musica dei due grandi Autori. Ed ecco la poesia d’amore con dedica: (A quanti amano. A quanti sono amati. A quanti desiderano amare ed essere amati. A tutti gli innamorati dell’amore e della vita).

“Il giorno dei prodigi”

(14 febbraio - San Valentino)

Era il giorno dei prodigi

scintillio di gioielli e ceste di fiori

a cantare l’inno dei nostri anni

colmi di giovinezza e illusioni

M’illusi allora di riempire forzieri

d’amore vermiglio a piene mani

(al fuoco ch’esplodeva nelle vene)

M’illusi e avevo tra le labbra

il tuo nome e il mio rimpianto

- Vieni c’è una strada nel bosco,

   il tuo nome conosco,

   vuoi conoscerlo tu…

   Vieni, c’è una strada nel cuore

   dove nasce l’amore

   che non muore mai più… -

Un canto che mia madre cantava

sostituì nel tempo le tue mani

A mia madre occhilucenti

dedicai questo giorno

di fremiti di fresie e tulipani

ma di tutti i giorni era l’amore

- Che c’entro io? - diceva lei

tristezza di ore senza tempo

- È perché ti voglio bene -

sorriso ch’era rimorso e canto

- Non aprii

gli occhi al tuo amore? -

Riempii forzieri e scrigni dorati

di cui ho perso memoria e nostalgia

(il giorno dei prodigi

rumore sordo di tempo lontano)

Poi, la filastrocca tratta dalla raccolta inedita Filastrocche tonte e tocche, un po’ stupidelle e un po’ svitate e pazzerelle:

FILASTROCCA DEL MARTEDI’ GRASSO”

È Carnevale e io me la spasso:

mi piace molto questo fracasso.

Vado in giro vestito da Zorro:

faccio una piroetta e poi corro.

Vado a combattere con la mia spada

contro i briganti d’ogni contrada.

Mi viene incontro la Fata Turchina

tutta trafelata e stanca poverina

per Pinocchio ch’è andato al mare:

babbo Geppetto lui vuole trovare.

Bella è la fata con i capelli turchini

ed ora si mescola con noi bambini.

Corriamo di qua spingiamo di là

vogliamo fare tutti un gran varietà

perché Carnevale finisce qui

come ogni anno di martedì.

E, infine, la ballata del mare che io adoro, tanto che da giovane avrei voluto una casa su una palafitta, ma col passare degli anni e col sopraggiungere della vecchiaia e dei conseguenti acciacchi ho dovuto abbandonare definitivamente questo sogno che mai più si realizzerà:

“La ballata del mare”

Era il mio mare grande più del mare

mare di favola di canto e nostalgia

mare di velieri di navi e di corsari

pirata tu del mio azzurro cuore

bianca vela io a toccare il cielo

                                (pirata tu vela bianca io)

Solcammo insieme tutto l’azzurro mare

incuranti di scogli di flutti e di balene

tra onde maree e tempeste di vento

inventando ogni notte stelle e lampare

      (stelle e lampare fecero la notte chiara)

Stelle e lampare fanno del mio mare un prato

dove il cielo turchino è un imbroglio d’erba

su cui insieme corriamo a perdifiato

con dentro gli occhi lucciole e lanterne

        (lucciole nei nostri occhi fatti lanterne)

Lanterne di conchiglie per ascoltare

il canto triste che fa triste il mare

nei fondali batte il tuo cuore scuro

tormento di eternità la mia anima di sale

           (un faro cerca la mia anima di mare)

E ho concluso con gli ultimi versi della “Ballata dell’eterno amore” per ridare speranza all’anima che cerca la luce sicura di un faro per non naufragare:

Lui le donò due grandi ali di seta

per scorgerla al buio delle notti, Lei fu vela di mare e nostalgia di treni

vinsero il tempo si amarono per mille anni

                (ridono ancora tra rose e tulipani)

E il mio grande indimenticabile Amico Giorgio Bàrberi Squarotti ebbe parole di ammirato apprezzamento per questa raccolta bilingue (italiano-sebo), soprattutto “per i suoi originalissimi versi con sonorità molto suggestive e catturanti”…  Le sue parole faranno da introduzione alle nuove ballate che prima o poi vedranno la luce della carta stampata (spero).

Per quanto riguarda le mie commistioni: sono parecchie le mie poesie che contengono tra i versi antiche canzoni famose. Le parentesi, poi, sono quasi una costante. Vito Di Chio, altro mio prezioso amico, nel suo “sapientissimo” saggio sulla mia opera omnia Una finestra aperta sui sogni (SECOP edizioni 2020), così scrive: Le (parentesi) - un vero segnale semantico all’interno del poetare di Angela De Leo - non semplicemente parola o frase che “s’interpone nel discorso, interrompendone il senso e talora anche il costrutto, per aggiungere un chiarimento o una precisazione, per fare un’osservazione, un rinvio (…), per una momentanea digressione” ecc. Para-tithemai è un porre dentro e serve in realtà a chiarire il testo o le affermazioni che si vanno facendo, accentuandone o limitandone la portata… Ma le attente e dettagliate e puntuali annotazioni sulle mie parentesi occupano ben cinque pagine del saggio, per cui sono costretta a chiudere qui, mio malgrado perché sono straordinariamente illuminanti su ogni loro “significazione”.

  

E desideravo concludere, come promesso, con alcune poesie catturate da FB con il mio retino, ma noto che già ho occupato molto spazio. Lo farò nelle mie prossime note sul blog. Per stasera chiudo qui. A domani con il nostro Retino. Ciao.

 

  

sabato 13 febbraio 2021

Sabato 13 febbraio 2021: Luzi, le mie annotazioni e altro...

Mi è giunta, da alcuni amici e amiche che guardano il Retino in differita per inconciliabilità di orari, la richiesta di postare nel blog le mie annotazioni su Mario Luzi e sulla sua poesia “Vola alta, parola” perché pare che non tutte le mie parole siano state chiare e non tutto si sia potuto seguire agevolmente. Ritengo giusto accontentare questa loro generosa richiesta. Potrebbe tornare utile anche a chi non ha potuto ascoltare con attenzione per vari motivi. Mario Luzi merita tutto il nostro tempo, il nostro spazio, il nostro cuore.

Spero di inerpicarmi senza franare sui tornanti scoscesi di questa immensa altura della poesia luziana che si fa eternamente anima.
Intanto, desidero fare una precisazione. Dopo Nel Magma, raccolta poetica del 1963 (e quindi appartenenza di Luzi anche alla Neoavanguardia del Gruppo ’63), raccolta che fa riferimento di per sé una a una esistenza caotica e priva di solide radici, ritengo di dover partire dalla più importante raccolta poetica Per il battesimo dei nostri frammenti (del 1985), di cui fa parte “Vola alta, poesia”, per far notare subito la decisa evoluzione del pensiero di Mario Luzi sulle esperienze esistenziali prima magmatiche e ora frammentarie: né caotiche, dunque, né susseguentisi in linea retta senza soluzione di continuità. Queste ultime, procedendo per addizioni e non germinando per moltiplicazioni a “macchia di leopardo”, ci regalerebbero migliore stabilità e maggiore tranquillità. Ma così non avviene per Luzi (e probabilmente per molti di noi anche oggi): la frammentarietà crea dissonanze più che consonanze. Rivela la sua (e la nostra) fragilità e la fragilità della parola poetica, che ha bisogno di trovare la propria Essenza(come opportunamente ci ha suggerito la volta scorsa Mariateresa Bari) in una nuova pienezza di sé. E, allora, ecco il battesimo iniziatico che regala, con la immersione nel fonte battesimale, un segno di purificazione dalle scorie del passato, dall’ermetismo, per esempio, o dal simbolismo, o dallo stesso realismo di fine Ottocento. Per approdare ad una nuova sua “significazione” nella completa armonia tra forma e contenuto.

Ma ecco la poesia “Vola alta, parola”:
“Vola alta, parola”
Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi
sogno che la cosa esclami
nel buio della mente
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza…
la cosa e la sua anima?
o la mia e la sua sofferenza?
(Mario Luzi, da Per il battesimo dei nostri frammenti, (1985)

E dirò subito che è appunto un INNO alla PAROLA nella pienezza della sua “significazione”: nella sua altezza e profondità, ora che finalmente pura da tutte le scorie del passato può rinascere a nuova vita e “volare”. E subito incontriamo un prezioso quanto inevitabile ossimoro:
“cresci in profondità”: Il verbo crescere infatti presuppone l’andare verso l’alto, qui invece troviamo la profondità della sua crescita: più diventi profonda e più ti elevi nella tua “purezza” leggera e ciò ti fa mettere le ali.
“Tocca nadir e zenith”:che sono i poli dell’orizzonte diametralmente opposti, e quindi occupano tutto lo spazio possibile del diametro terrestre, impediscono ogni scissione, ogni divisione tra significato e significante, come era avvenuto per tutto il primo Novecento, dai Futuristi in poi, e restituiscono suono e musicalità ma anche sostanza e contenuto a quella conchiglia vuota di suono, che era diventata la parola senza la sua totale “significazione”. E qui troviamo una serie di allitterazioni delle consonanti e vocali l-f-r-p-z-a-o (Vola alta, parola; cresci in profondità ecc.) proprio per dare ritmo melodioso ai versi.
“Giacché talvolta lo puoi”: il poeta è ancora titubante, teme che la rigenerazione non sia del tutto completa e che la parola piena sia ancora un sogno che voglia trovare, almeno qualche volta, in alcuni casi, una qualche realizzazione come adesione alla realtà nel buio della mente che non osa ancora identificare la “cosa” (un termine dai mille significati senza averne neppure uno). Io non so ancora come definirti, non oso farlo, però tu non separarti da me.
E qui comincia la supplica del poeta alla “cosa” ancora ammantata di mistero e di sogno.
“sogno che la cosa esclami/ nel buio della mente”: è il momento della illuminazione: la nascita della poesia: dal buio alla luce, come una nuova vita. Il miracolo della nostra immortalità racchiusa in un bambino. In una poesia. Il divino nella Creazione del Creato, nella procreazione di una vita, nella creatività che si traduce in Poesia.
“però non separarti/da me, non arrivare,/ ti prego, a quel celestiale appuntamento/ da sola”
E la supplica si fa preghiera dapprima con un avversativo (però) che si risolve in un imperativo negativi (non giungere), ti prego, man mano che la parola in tutta la sua profondità si fa leggera tanto da elevarsi fino al cielo, dove incontra tutta la sua sacralità in un appuntamento (in un preciso momento già preconizzato e stabilito dagli dèi, quando “il divino si incarna nella parola” - dirà Paul Valery) perché è questo il percorso ascensionale della vera poesia. Non più, però, una parola svuotata di senso e priva di quella “cosalità” che è finalmente aderenza all’oggetto, corrispondenza materica a quanto si vuole significare. Senza più astrazioni di vuoti significanti. La nominazione del primo uomo (Adamo?) la cui parola fu totale adesione all’oggetto indicato.
“da sola, senza il caldo di me/ o almeno il mio ricordo, sii”: non andare da sola, senza la mia presenza viva e appassionata (io, umanamente uomo, al cospetto del divino che oso appena sfiorare), oppure, se non sarò più vivo, almeno ti sia compagna la mia memoria (che spero di lasciare ai posteri con i miei versi). E sono versi che i ripetuti enjambement rendono continui (nonostante la loro frammentata versificazione), in un accavallarsi di ansia emotiva a indicare la profonda preoccupazione del poeta di essere abbandonato dalla parola poetica prima del “celestiale appuntamento” (con gli dèi).
“Sii/ luce, non disabitata trasparenza…”: esortativo stupendo con “sii” a fine verso (che si allunga fino a raggiungere l’infinito della sua stessa esortazione), ma subito unito a “luce”. Meravigliosi questi enjembement che segnano la crescente ansia del poeta di partecipare alla creazione della poesia attraverso lo splendore di ogni sua parola. Non “disabitata trasparenza” in contrapposizione alla luce che paradossalmente rende luminosa la pienezza materica della parola (che ha senso e significato insieme). E le contrapposizioni continuano, perché noi siamo abitati dalle nostre contraddizioni (Simone Weil) che, magistralmente, ci danno la conoscenza sempre smarginata e mai perfetta delle cose. Altrimenti non avremmo più dubbi. E le certezze sono la morte della curiosità e dell’anima. infatti, ecco i punti interrogativi che tanto spesso fanno parte della poetica di Mario Luzi. E di tutti quelli che si nutrono di dubbi salvifici più che di stagnanti certezze.
“La cosa e la mia anima?”: il dubbio permane nella umiltà di sentirsi indegno di tanto splendore, di tanto cielo.
“O la mia e sua sofferenza?”: ne abbiamo già parlato. Il dolore è una sensazione fisica più che dell’anima. La sofferenza si fa misura del dolore ed emozione talmente vibrante, dilatata e profonda, da prendere completamente l’anima. Ma qui Luzi potrebbe indicare anche la sofferenza degli uomini e delle cose… in un pessimismo cosmico che è tutto da approfondire. Personalmente propendo per la prima intuizione: la sofferenza dell’anima del poeta di sentirsi umilmente abbagliato dal miracolo del divino in ogni manifestazione della creatività umana che riveste la sua anima di POESIA. O l’una e l’altra interpretazione, perché nella lunga vita di Mario Luzi spesso subentra lo sconforto per le miserie umane, di cui egli stesso avverte il peso e il rimorso. Quale uomo mite e profondamente cristiano. Ma permane fino alla fine dei suoi giorni terreni l’AMORE eterno per la POESIA. E un profondo, immenso INNO alla parola che, per lui, si rigenera in un continuo “candore e canto”. Inno salvifico, come ha scritto Maroateresa Bari. Ed io mi fermo qui, ma attendo i vostri commenti, le vostre riflessioni, per suggerire, integrare, arricchire, contestare quanto detto sin qui. ne terrò conto, come sempre. Grazie intanto per i due commenti che mi sono giunti ieri sul blog: Attendiamo le tue poesie e quelle dell'ostico (per certi versi) Luzi. Grazie! (sconosciuto)
Non vedo l'ora Angela! A domani. (Mariateresa Bari)
Ed è di poco fa la richiesta da parte di un altro lettore sconosciuto di parlare ancora di Luzi il 28 febbraio, giorno del sedicesimo anniversario della morte del grande Poeta. Quantomeno di leggere alcune sue poesie. È di domenica e quindi ho delle perplessità, più per voi che per me. Pensiamoci. Attendo i vostri suggerimenti. Vi auguro, infine, un tenero o appassionato “Buon San Valentino” e una sorridente festa di Carnevale in austerità… ciao

giovedì 11 febbraio 2021

Giovedì 11 febbraio 2021: alcune riflessioni sul Retino da condividere...

Miei carissimi amici del Retino e del blog, a proposito delle sfide, di cui ho parlato nel Retino di venerdì 5 febbraio, in riferimento alla poesia si Alberto Tarantini “Lo sbarco”, contenuta nella raccolta di poesie La sfida del geco (SECOP edizioni 2016), sento la necessità di fare qualche puntualizzazione. Venerdì, come ben sapete, ero reduce dalla presentazione del Saggio su Maria Montessori ad opera di Valeria Rossini ed ero molto stanca ed emozionata, ma non mi sottrassi al nostro appuntamento, rimandandolo solo di mezz’ora. In realtà, ebbi appena il tempo di cambiare leggermente postazione e subito dovetti imbarcarmi nella lettura e interpretazione delle due impegnative poesie, che avevo programmato di presentarvi. La prima di Alberto, che poi divenne la seconda, e “Le chiavi” di Zaccaria Gallo, che lessi e commentai in prima battuta, partendo dalle “chiavi” di Roberta Lipparini perché le avevo trovate completamente antitetiche nel loro significato e perciò mi spingevano a prenderle in esame e ad analizzate. Devo precisare che la poesia di Zaccaria fa parte della silloge Sigillo di necessità (SECOP edizioni, 2012). Due sillogi un po’ datate, ma proprio per questo recuperate alla vostra attenzione perché davvero molto interessanti e arricchenti anche per via di due modi di fare poesia decisamente diversi, ma con esiti estremamente catturanti nell’uno e nell’altro caso. So che avrei potuto fare molto meglio con due poesie così belle e profonde (ho risentito quello che ho detto e so quello che avrei voluto e potuto dire) e, nonostante il generoso quanto ironico e divertente commento di Alberto Tarantini, so che è stata una sfida superiore alle mie forze di quasi ottuagenaria. E, a questo punto, devo confessarvi che ogni nostro incontro è una sfida per me perché cerco ogni volta di combattere contro i momentanei vuoti della mente (per fortuna non del cuore!) che la lunga degenza nei vari Centri ortopedici, igienizzanti e fisioterapici mi ha lasciato mio malgrado, e contro cui mi attrezzo quotidianamente a recuperare frammento dopo frammento persino la mia storia personale, di cui ancora alcuni pezzi vagano nel cielo di molte lune. Di qui, lo sforzo per “catturare” e fissare nella mente le parole prima, durante e dopo averle ingabbiate nel mio Retino. Ci sono degli attimi bui, ma poi le sinapsi si interconnettono e le riafferro, le mie parole, per commentarle con i miei lunghi tempi del raccontare. Ecco, io le racconto, alla fine, le parole in veste di poesie, non le spiego perché le poesie e tutto ciò che nasce dalle nostre emozioni e illuminazioni di corpo-mente-cuore-anima, e si traduce in Bellezza e Arte, non deve essere spiegato ma solo vissuto e rivissuto nel/nella nostro/nostra corpo-mente-cuore-anima. Dunque, sono le mie interpretazioni che vanno prese così, con la leggerezza di un sussurro di quasi intuizione/verità/ spiritualità e un soffio di quasi invenzione/creatività/immaginazione. Nuove SFIDE, dunque? Sì! Certamente. La sfida è coraggio di mettersi in gioco; è determinazione al superamento degli ostacoli e della paura che non ci fa osare; è necessità di mettere a nudo le nostre imperfezioni che ci rendono umani per tentare, fin dove è possibile, di superare i nostri limiti (con l'aiuto anche degli altri); è anche saper condire il nostro viaggio esistenziale con l’acutezza dei nostri sensi (per quello che è nelle nostre facoltà), l’arguzia del nostro argomentare, l’ironia e l’autoironia che ci mettono al riparo da rovinose cadute di… senno e di stile! Così come è solito fare Alberto Tarantini. Ma anche molti altri nostri autori. Giovanni Romano, per esempio. O anche Federico Lotito. I compianti Silvana Folliero, Primo Leone, Nico Mori. E potrei continuare ancora per molto. Ma di tutti questi autori parleremo ancora. Anche per questo vi invito ogni volta a intervenire, a dare la vostra versione/intuizione/interpretazione. Il confronto, non smetterò mai di ricordarlo, non può che arricchirci di nuovi sensi, nuovi significati, nuovi perché, su cui riflettere. Mi piacerebbe tanto che foste molti di più ad intervenire con i vostri messaggi: suggerimenti, suggestioni, emozioni, poesie. Avremmo tante voci in più, ciascuna con la sua particolare cifra di pensiero e scrittura, per maggiori e migliori possibilità di “incontro”. E rispondo alla simpatica sollecitazione del caro Tanino Coviello, che mi invita a leggere anche una mia poesia. Ti ringrazio tanto davvero. Prima o poi accadrà. Promesso. Se non vi stancherete di questo nostro modo di stare insieme, avremo ancora tempo per catturare nuove parole, ma anche per riproporre quelle già commentate e riscoprirle sotto altri aspetti, significati, possibilità di orizzonti altri. Magari prendendo in esame una poesia per volta per evitare ingorghi di autori e di parole. E domani tenteremo di dare la “Parola” a Mario Luzi. Come da suggerimento di Mariateresa Bari. Altra sfida che non mi darà il sapore della vittoria, ma si farà stimolo ad affrontare, con i miei scarsi mezzi, l’ardita scalata per guardare all’altissima vetta con il semplice desiderio di “imparare”. Buon giovedì di piccole salutari follie di quasi Carnevale!!! 
A domani. 
Angela