mercoledì 26 aprile 2023

Martedì 25 aprile 2023: canti di libertà. Io ci credo ancora…


Sì, io ci credo ancora alla lotta partigiana e alla Liberazione dell’Italia in quel buio periodo a conclusione della Seconda Guerra Mondiale. E con me molti altri oggi ricordano. Spigolando sulle pagine FB, ho trovato delle testimonianze degne di attenzione. Tra queste una, di cui non ho fatto in tempo a registrare il nome o non c’era (il mio affaccio su FB è sempre molto parziale, dato il tempo tiranno), ma mi piace riportare quanto ho letto e mi è piaciuto.
#versoil25aprile

"La madre del partigiano”: la poesia di Gianni Rodari dedicata al 25 aprile. Parole sempre vive, cariche d'emozione e commozione, che è bene tramandare alle nuove generazioni. Una delle prime poesie che ho imparato a memoria.... Rodari racconta con linguaggio semplice e metaforico la Resistenza come lotta per la libertà, il principio difeso pagando spesso con la vita. “LA MADRE DEL PARTIGIANO”: Sulla neve bianca bianca/ c'è una macchia color vermiglio/ è il sangue, il sangue di mio figlio,/ morto per la libertà./ Quando il sole la neve scioglie/ un fiore rosso vedi spuntare/ e tu che passi non lo strappare,/ è il fiore della libertà./ Quando scesero i partigiani/ a liberare le nostre case,/ sui monti azzurri mio figlio rimase/ a far la guardia alla libertà

E il cuore trema al pensiero di quel figlio, ancora ragazzo, morto per la libertà. E a me sembra “Il pianto della Madonna di Jacopone da Todi: … O figlio, figlio, figlio!/ Figlio amoroso giglio,/ figlio chi dà consiglio/ al cor mio angustiato?... E in quel “amoroso giglio” c’è tutto lo strazio delle due madri accomunate da un identico amore/dolore per quel figlio giovane e innocente, morto per la Redenzione/Libertà. E non ci può essere consolazione alcuna al “cuore angustiato” di entrambe. E non mi sembra un paragone blasfemo. Il dolore delle madri terrene per la morte atroce e feroce del proprio figlio, che insanguina il mondo, ieri come oggi ancora, quasi fiore vermiglio sulla neve del gelo dell’animo umano/disumano, è uguale e inconsolabile per tutte. Anche della Vergine, madre terrena come tutte, anche se da Dio designata ad essere la madre di Suo Figlio. E la nostra riscoperta “umanità” trema di “compassione”, che è molto di più di più della semplice partecipazione a un dolore così devastante.

Ma ecco una testimonianza altrettanto intensa e attenta a rinsaldare il vero significato del “25 aprile” contro la dimenticanza di una gioventù, quella attuale, ma non bisogna mai generalizzare, che ha idee molto confuse, disordinate, distorte, per molteplici cause, che dovremmo sforzarci di analizzare con un Autore di tutto rispetto, il grande Fotografo e Giornalista Pio Tarantini, che mi ha fatto dono, insieme a Giovanni Gastel e Caterina De Fusco, della sua amicizia. Qui propongo questa sua imperdibile pagina, che è anche invito alla riflessione e alla Speranza, “forse non tutto è perduto” ed io sono d’accordo con lui. Io ci credo ancora:

BuonaDomenica#190 Bella ciao. In una sala d’attesa medica: oltre a me c’è una coppia di signori anziani, una signora immersa nella lettura di una delle riviste a disposizione dei pazienti e una giovane coppia sui vent’anni. I due giovani hanno un taglio di capelli originale - lui con capelli corti irti sulla testa, lei con lunghi capelli castani striati di viola -, parlottano tra loro ed esprimono dai loro atteggiamenti tutta la carica e l’inquietudine dei vent’anni. Parlano con un tono sostenuto ed è facile per tutti ascoltare quanto si dicono. Riporto un breve brano della loro conversazione.

Lei: «Amo’, allora martedì sei a casa perché è festa?»
Lui: «Certo, martedì non si lavora. Vuoi che andiamo da qualche parte?»
Lei: «Boh! Potremmo fare una gita, ne posso parlare con gli altri…»
Lui: «Non mi ricordo mai che festa è. È quella dei lavoratori?»
Lei: «Cazzo dici! Quella è il primo maggio, fra una settimana…»
Lui: «Ah, già! Martedì è quella di quando è caduto il fascismo… mi confondo sempre…»
Lei: «Sì, è la festa di quando i partigiani hanno vinto sui fascisti…»
Lui: «Ma quanti anni sono passati? Meno male che si fa ancora festa, un giorno di lavoro in meno…»
Lei: «Boh! È stato alla fine della guerra… mio nonno ogni tanto ne parlava».
Lui: «Ai tempi di tuo nonno! È passata una cifra di anni…»
Lei: «Eh, già. Comunque per noi va bene. Stiamo a casa e magari facciamo una gita.»
Incrocio lo sguardo del signore anziano, palesemente ironico sul dialogo dei giovani.

Rifletto su quanto il significato della festa del 25 aprile sia conosciuto da larghi strati della popolazione giovanile. Forse quest’area grigia di disinformazione e superficialità è molto più estesa di quanto possiamo pensare. Non solo, ma inoltre leggo sulla stampa di molte posizioni da parte di esponenti della maggioranza governativa che ridimensionano o negano il valore della Festa della Liberazione come il sindaco di un Comune del bergamasco che ha negato il senso della manifestazione unitaria e addirittura ha vietato di cantare “Bella ciao”.

Poi, per consolarmi, penso alle migliaia di giovani che prendono parte ai cortei del 25 aprile, al dato recente dell’aumento di giovani che si iscrivono all’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, e penso che forse non tutto è perduto. Bella ciao.
Buona domenica e buon 25 aprile.


E con me ci credono tanti altri miei coetanei, ma anche tanti giovani e meno giovani. Ed è un vero conforto in questi giorni di buio, violento, dimentico, distratto, ottuso. Luigi Lafranceschina, per esempio, ha scritto in momenti diversi parole degne di nota sul 25 aprile: Per il 25 Aprile Festa della Liberazione dall’occupazione nazi-fascista e dagli orrori della seconda guerra mondiale una poesia di Ungaretti perché nella nostra memoria e nei nostri cuori ci sia per sempre il ricordo di tutti coloro che lottarono per la libertà e per l’indipendenza del nostro paese anche sacrificando la propria vita

PER I MORTI DELLA RESISTENZA

Qui
Vivono per sempre
Gli occhi che furono chiusi alla luce
Perché tutti
Li avessero aperti per sempre
Alla luce!


Ma poi, Luigi scrive: Un mio pensiero per il 25 aprile intitolato “VENTICINQUE APRILE SEMPRE”: Venticinque aprile sempre/ se c’è ancora chi ipoteca il futuro/ Ammorba il respiro e i giorni/ Ingramaglia il cuore e le braccia/ Di giovani speranze!/ Venticinque aprile sempre/ Se l’acqua non è di tutti/ E corpi senza bara calano a picco/ Nei mari dell’indifferenza!/ Venticinque aprile sempre/ Se c’è ancora chi muore di fame/ E chi di grandi abbuffate/ E gelide folate xenofobe/ Alzano fino alle stelle!/ Venticinque aprile sempre/ Finché Caino dirà ad Abele/ “Andiamo nei campi”/ E Cristo sarà ancora crocifisso/ E gli esodi biblici cronaca di ogni giorno!/ Non sarà venticinque aprile/ Solo quando l’arcobaleno spunterà sul diluvio!

Ed è una poesia di forte denuncia sociale, civile, culturale, con un ritmo anaforico che incide maggiormente nelle coscienze di tutti noi. Anche i punti esclamativi hanno una loro incidenza stilistica e contenutistica. Pacificati e solari gli ultimi due versi a regalarci i colori della Speranza, dopo il devastante diluvio che ancora ci sommerge.

Ma potrei parlare della testimonianza di Valentino Romano, studioso di storia e archivista di primo piano, mio amico “per grazia ricevuta”, che ha scritto tanto in questi giorni, documentando altre “voci di politici, giornalisti, studiosi e protagonisti della Resistenza italiana, e riportandoci, con appassionata e appassionante disamina, a quei giorni come se li rivivessimo oggi. Indignandosi contro prese di posizione non sempre coerenti nel tempo, e non per una revisione intelligente, ma di comodo… Elogiando comportamenti ineccepibili per coerenza e coraggio nell’affrontare situazioni difficili e condizioni di vita disumane in nome di un unico grido: “Giustizia e Libertà!”. Ma ci sono pagine che Valentino scrive con severa fermezza, che non lascia scampo ai tiepidi, ai riluttanti, ai negazionisti e ai revisionisti, senza ricorrere ad altre testimonianze: Scappa, scappa pure quanto e dove ti pare! Ma questa “musichetta” ti rintronerà nelle orecchie ovunque sarai… BELLA CIAO.

E ancora: Buon 25 aprile a tutti quelli che, senza “se” e senza “ma”, si identificano in quegli ideali di Giustizia e Libertà che i Partigiani difesero in armi contro nazisti e fascisti. Ora e sempre… Resistenza!!!
E poi ancora: … Su queste strade se vorrai tornare/ ai nostri posti ci troverai/ morti e vivi collo stesso impegno/ popolo serrato intorno al monumento/ che si chiama/ ora e sempre/ RESISTENZA (Piero Calamandrei)

Altra testimonianza di tutto rispetto fino a farne un Credo in tutta la sua sacralità!
Ma mi preme concludere con il ricordo di un’altra storia, tra passato e presente. Forse bisogna risalire ad un anno fa, quando in un insolito momento di relax, facendo zapping tra i canali televisivi, mi fermai, su Rai 3, ad ascoltare le storie, che nascono da alcune parole messe a fuoco da Massimo Gramellini nel suo “spazio” preserale del sabato. Ebbene, il bravo conduttore intervistò una ex partigiana di 94 anni, la cui memoria e la cui lucidità mentale mi sembrarono davvero un prodigio. Elegante, sobria, attenta, ricordò i tempi bui della Resistenza vissuta con passione e fierezza, oltre che con coraggio inaudito. Una narrazione pacata e fremente insieme. Ricordi indelebili nella sua mente e nel suo cuore. Con un unico rammarico: aver rischiato la vita e aver patito la fame e ogni sorta di angherie e tribolazioni per una Italia, quella attuale, che ha perso la memoria e il senso vero della libertà. Una Italia “appiattita” nella corsa esclusiva ai piaceri materiali e “dimentica di un solo atto di coraggio” per essere VIVA. Tutto vero e condivisibile. Ammirevole e ammirabile questa Signora con tante rughe sul volto di luminosa fierezza e dalla tempra eccezionale, ancora “tumultuosa”, che tutti avremmo dovuto conoscere e imitare. Per non dimenticare. Per imparare a vibrare di autentiche passioni valoriali più che di fremiti incontrollati di visibilità e notorietà a buon mercato. Ed è inevitabile tornare a parlare di memoria.

Quanto importante che sia vera e non inficiata da una soggettività che ci restituisce quello che ci è apparso o è stato percepito a discapito di quanto sia realmente accaduto. In realtà, non esiste, a mio parere, la Memoria collettiva, anche se ne facciamo un gran parlare; ci sono invece tanti frammenti di memorie soggettive, che di volta in volta mutano, in riferimento alla condizione psicologica del momento, alla situazione storica, alla contingenza esperienziale, alla maturità raggiunta, ai condizionamenti mai del tutto superati. Occorre allora fare dei distinguo. Altro è la memoria documentata da foto, immagini, eventi storici conclamati, registrazioni di discorsi, libri e saggi critici di sociologia e storia, e l’insieme di parole, suoni, canti popolari, che hanno connotato un periodo storico-culturale ben preciso; altro è quanto è affidato esclusivamente alla nostra sensibilità emotiva. O abbiamo conservato vivo nel cuore. Come tutto quello che è difficile dimenticare. Solo i documenti inconfutabili possono aiutarci a ricordare, possibilmente in maniera oggettiva, quello che inevitabilmente viene filtrato dalla nostra memoria soggettiva. Nessuno può, quindi, dire: “ho, come te, buona memoria”. Perché quest’ultima difficilmente viene conservata, percepita e vissuta allo stesso modo. È proprio questa memoria individuale e soggettiva a renderci più soli nell’Universo e a vestirci di paura. Ognuno ricorda, impara, conosce a suo modo e a suo modo racconta, salvo poi a fare i conti con altre verità, altre storie. Persino le fonti dirette vanno prese col “beneficio dell’inventario”. Di qui l’importanza del confronto attraverso documenti accertati nella loro veridicità storica e confortati dalla loro immutabilità nel presente.
E che l’eco di questo 25 aprile così sentito e così controverso ci accompagni a futura
memoria per i nostri giorni perché ne facciano tesoro. Alla prossima. 
Angela 

domenica 23 aprile 2023

Domenica 23 aprile 2023: San Jordi e la "nave dei libri" verso Barcellona: un libro per una rosa...

Ieri abbiamo festeggiato la Giornata Mondiale della Terra con parecchi belle prose e poesie, pubblicate sulle nostre pagine FB per evidenziare i gravi pericoli che il nostro “pianeta azzurro” sta vivendo, assediato da tanti micidiali misfatti di noi umani, che di umano abbiamo conservato molto poco, continuamente perpetriamo a suo danno. Io mi sono astenuta, non per indifferenza al problema, ma per troppa sofferenza. Amo troppo l’azzurro del mare, dei fiumi, dei laghi, delle cascate che portano il cielo tra i nostri passi per non sentire l’immenso dolore di tanto scempio. Accolgo le vostre poesie e prose per farne un serto e coronare con tutte le nostre buone intenzioni il nostro pianeta che di azzurro conserva ormai molto poco per via del vile denaro di oscure multinazionali, che mettono a tacere ogni kantiana “legge Morale” (“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, più o meno).

C’è l’esergo connotativo della mia carissima amica Anna Mininno, per esempio, che vale più di mille   dichiarazioni d’intenti per salvarla questa nostra madre Terra e risiedono tutte nel cielo: Riempirsi di cielo/ Che mai si nega al mondo/ E sperare/ che gli occhi non si confondano

Esergo essenziale, azzurro, intenso, efficace. Come è lei.

E mi commuovono i versi di Angela Strippoli, altra mia carissima amica che mastica quotidianamente poesia come vive e palpita il suo immenso cuore. Non riguarda espressamente la Giornata Mondiale della Terra, ma per me ogni parola è una difesa profonda del “luogo-casa” da ciascuno di noi abitato. Il titolo, infatti, potrebbe essere il primo verso che suona così: Casa mia è una strada. E poi continua: Casa mia è una strasa// Un percorso// Una terra verde che confina con il cielo/ E il cielo questa sera/ ha colori di un viola rosato che m’incantano// Casa mia è una finestra con la luce accesa// Un paio di scarpe che sanno di vite passate// Entrate e fate casa// Non trascurate nulla// C’è grande respiro in ogni cosa// Ogni dettaglio conta// Casa mia mi commuove/ Si fa festa senza motivo// Casa mia è l’amore che mi abbracciò per la prima volta// Nessuno riuscirà a dire della sua essenza (A. S.)

I suoi magici versi mi fanno pensare al testo poetico, scritto da Raffaella Leone, mia figlia, addetta alle Pubbliche Relazioni della Casa Editrice SECOP, nonché scrittrice e poetessa per adulti e bambini anche lei, proprio per lagiornatamondialedellaterra:    Terra nostra   / ignara e ferita, rotoli via/ in fallo laterale./ Che non ci resti ilrimpianto/ di non essere riusciti in tempi/ a tenerti casa per tutti,/ nessuno escluso.// Perdonaci, ancora una volta oggi,/   ma se domani   / deserto avremo ancora il cuore,/ odiaci per sempre, rinnegaci e/ lasciaci andare fuori campo.

Raffaella ha anche dipinto la terra racchiusa in un pallone calciato, come se fosse un gioco irresponsabile, per ricalcare la metafora della Terra vissuta come una partita di pallone, in cui si commette sempre fallo. Eppure l’amore potrebbe salvarci, come appunto ci ridono i versi di Angela, e come ci raccontano i brevi versi di un’altra Angela, che scrive poesie intrise d’amore nel sangue, nelle vene. Parlo di Angela Aniello, che ha fatto del dolore e dell’amore i punti cardine della sua emozionante poesia e della sua stessa vita: Ed il cuore/ cantiere di Cielo,/ si chiama Paese/ in cui le lucciole sono sogni/ volti a radunare/ quel margine di umanità/ che ancora ci fa dormire/ abbracciati all’Amore.

È la nostra umanità che è venuta meno?

Marco Zanchi, altro carissimo amico e cantore della natura in mille filastrocche per adulti e bambini scrive, e io noto e annoto, anche in questi versi con rima, qualcosa che mi fa pensare all’umanità perduta in un cielo dall’aria non più “pura” e per via dello stesso uomo di cui la natura stessa ha ormai “paura!”: Terra madre verde natura/ Blu e azzurro del mare/ Prendiamoci cura/ Di te pianeta da rispettare/ L’aria del cielo non è più pura/ Bastan due rime per ricordare/ Quanto sei bella e noi la sventura? Certo che no se non si sa amare/ Se è proprio dell’uomo che hai più paura! (“Terra Madre”)

 Ma poi tutto rinasce nei delicatissimi versi di Luciana De Palma, di cui è superfluo parlare tanto è nota come scrittrice e poetessa: E finì l’inverno/ E fiorirono i glicini/ E smisi di piangere/ E corsi a perdifiato/ Zigzagando sul sentiero/ Per riempire i polmoni/ Di nuove illusioni// Non c’era che il cielo/ Ad aspettarmi/ Con tutto il suo azzurro/ Già pronto/ A versarsi (LDP). Splendidi versi, con cui torniamo al cielo, a tutto il suo azzurro che ci investe con una cascata di glicini in fiore e il rinnovato inno alla vita di Luciana e anche nostro, in un eterno azzurro che redime e colora l’anima.

E cambio registro per evitare altre lacrime di commozione. Solo una brevissima riflessione: il canto semplice ma appassionato di tre padri di antica razza contadina con cui la terra dialogava quotidianamente con reciproco amore: il papà di Luigi Lafranceschina, il papà di Nicola Pice, il papà di Tanino Coviello. Sicuramente sono i rappresentanti di una categoria oggi scomparsa, ma sicuramente da tutti noi rimpianta. E la commozione permane.

Oggi, intanto, è un altro giorno da ricordare. Ho vissuto per tre anni l’esperienza bellissima di andare a Barcellona sulla “nave dei libri”, una iniziativa del mensile <Leggere:tutti>, che dal 2010 promuove, in collaborazione con la Grimaldi Lines e ANP, esperienze artistiche e culturali  straordinarie, nelle quali si condividono, a bordo della nave, le emozioni di un viaggio letterario, insieme a scrittori, attori, poeti, giornalisti, musicisti, coltivando nuovi incontri, facendo presentazioni individuali e collettive dei libri pubblicati durante l’anno. Con interviste, intermezzi musicali, spettacoli molto suggestivi di artisti noti. 

A Barcellona si giunge per partecipare alla Festa tradizionale del Santo Patrono della Catalogna, San Jordi, che coincide con la Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d’Autore. Un tripudio di rose rosse si mescola ai tantissimi libri che occupano centinaia di eleganti bancarelle lungo la lunghissima meravigliosa Rambla, in cui si assiepano turisti di ogni genere e tantissimi abitanti del luogo in una condivisione bellissima di romantiche follie.

Dal 2012 vi ho partecipato con la famiglia SECOP, a cui si sono aggiunti le altre mie due figliole, Ombretta e Daniela e alcuni amici per condividere con me la gioia di presentare i miei libri, pubblicati proprio in quegli anni.

Rimpianto e nostalgia mi prendono per mano e mi impediscono di andare oltre. Altra commozione? Sì, scusatemi. Oggi non potrei più rifare quel viaggio: la sedia a rotelle in cui il mio corpo rimane prigioniero per alcune ore al giorno mi impedirebbe non tanto di salire sulla nave dei libri, ottimamente attrezzata anche per i disabili, ma di percorrere la Rambla che è tutta in salita e occupata da rose, libri, persone in un groviglio inestricabile di bellezza e di allegria. Per fortuna mi rimangono le ali della mente e del cuore per continuare a volare…

E con la mente e col cuore volo a fare gli AUGURI al mio carissimo amico per sempre Giorgio Bàrberi Squarotti, che sicuramente mi starà sommergendo d’azzurro dal suo intoccato Cielo.

A presto Angela

venerdì 14 aprile 2023

Venerdì 14 aprile 2023: gemme di mandorli, di peschi, di ciliegi nella primavera che ride d'incanti...

L’aria è ancora fredda ma al tepore di un raggio di sole, stanco d’inverno, si dischiudono gemme in questo inizio di primavera che ride a metà aprile. E oggi è il compleanno di mio cognato Gianni, amato compagno di Anna Maria. Di entrambi ho parlato a lungo nelle pagine di questo blog. E oggi è proprio a Gianni, uomo di grande umanità e poeta e scrittore di tutto rispetto, che dedico una mia poesia: C’è un soffio di luna/ sfogliato dal vento dell’alba/ a raccontarti dei voli/ che non sai afferrare tra rami/ gemmati di mandorli,/ tetti rosa in campi di spine/ alla tua casa./ Ti salutano tra nuvole testarde/ le ore del nuovo giorno/ che ride d’aprile a segnare/ ottanta primavere,/ tempo condiviso di molte stagioni/ tra dita intrecciate,/ a rinsaldare Amore/ che fu e che sarà all’ombra/ di un canto lontano,/ che vibra di corde d’argento./ Foglie stupite di tenera luce/ che vinse il pianto in petali/ di parole che non osi dire/ per non ferire il rimpianto/ (nostalgia sanguina carezza/d’anima sul volto di bambina/ tenace più del raggio di sole/ a rendere chiaro il cielo)

Ma decisamente più bella, stratosfericamente più intensa è questa poesia di José Emile Pacheco, intitolata “Preghiera dell’alba”, da L’età delle tenebre:

Fa miracoli questo albeggiare.

Scrive la sua pagina di luce

sul quaderno scuro della notte.

Annulla la nostra disperazione,

assolve la nostra follia,

accerta che il mondo

non si è dissolto nelle tenebre

come abbiamo temuto

a partire da quella sera in cui,

da una caverna della preistoria,

osservammo per la prima volta il crepuscolo.

Ieri non resuscita.

Quello che è dietro non conta.

Quel che vivemmo già non è più

L’alba ci consegna la prima ora

la prima ora di un’altra vita.

La sola nostra verità

è il giorno che comincia.

Già, il giorno che comincia ci permette, forse, di ristabilire tutti gli equilibri perduti. Vivere il tempo che rimane con serenità. Il cuore placato. Le passioni addomesticate. L’amore per la vita e per gli altri centellinato e centuplicato. Si scopre con gli altri il buonsenso contro le esaltazioni degli impossibili voli? Forse. E… cosa fondamentale: la piena consapevolezza di sé, del qui e ora. Non prima, non dopo. Mi ricorda la poesia, intitolata “Notturno” del nostro amico Luigi Lafranceschina, scritta mentre ascoltava uno dei tanti meravigliosi “Notturni” di Chopin. Forse per questo la notte occupa tutto lo spazio, tra silenzio e bui pensieri, e gli sembra “eterna infinita”. Ma, per fortuna, sempre dopo l’ora più buia arriva la luce della nuova alba, del nuovo giorno. Eccola: Eterna infinita/ Non ha luce la notte!/ E quando cala/ Di gelo trema l’aria/ S’incupisce l’anima/ Tacciono le voci/ Dei clochard/ Sotto il ponte./ Stanno la notte/ Gli alberi in silenzio/ Muto il frangente/ Di ovatta le strade/ ombre dappertutto/ Morta la città./ Eterna infinita/ Non ha luce la notte!/ Attiva fino all’alba/ Chiude il calice ai papaveri/ Mette in pausa i pensieri/ Sveglia i sogni agli amanti/ Apre gli occhi alla luna./ Ma al canto del gallo/ Stanca e assonnata/ Si nasconde al primo sole.

Rinasce la percezione di sé. Ritornano alla luce le barricate che, durante la notte, ci costruiamo per non cedere alla paura, a mettere in fuga i pensieri sulla velocità del tempo che, nel suo moto apparente, non perdona e si fa reale in una immagine di noi che finalmente ci appartiene e che pure non è più quella di prima. E il nuovo giorno è ora l’unico pensiero vero e incontrovertibile. L’unica breve certezza che abbiamo. E mentre la notte sa di buio, silenzio, preghiera, il giorno si fa fiume di ricordi che vanno verso il futuro in un groviglio di alternative per evitare gli abissi dei dubbi, delle incertezze, dei forse, dei se, dei ma… anche nell’incontro con gli altri. Con il mondo. siamo diventati diffidenti, ma ci nutre la speranza che il nuovo giorno sia Quasi carezza. Quasi consolazione. Quasi protezione. Ala che vola e si posa dove è necessario un sorriso. Alla prossima. Angela 

martedì 11 aprile 2023

Martedì 11 aprile 2023: ancora voli tra le stelle di alcuni amici del cuore...

Il 10 aprile del 2017 appresi dal telegiornale che Giorgio Bàrberi Squarotti non era più fra noi. La notizia mi colmò di profondo dolore. Sapevo che non stava bene, ma solo una quindicina di giorni prima ci eravamo sentiti per telefono e aveva, come era solito fare, minimizzato i suoi problemi di salute. Tutti piangiamo il grande critico letterario e lo straordinario poeta, saggista, Autore ineguagliabile della Letteratura Italiana per gli studenti di tutte le Università italiane, ma a me manca dolorosamente e profondamente anche il meraviglioso amico. Un’amicizia nata tanti anni fa per via di una silloge di ballate che avevo pubblicato e che gli inviai per un suo giudizio critico. Giorgio Bàrberi Squarotti era noto per la gentilezza di rispondere, sia pure con brevi note manoscritte con la sua grafia minuta ed essenziale, a tutti indistintamente, e tutti confidavamo in in suo rigo di riscontro. Ebbene la risposta non si fece attendere, ma con mia somma sorpresa non fu una lettera breve, ma lunga, stupita, meravigliata per una silloge insolita, originale, tutta da rileggere per evidenziarne una creatività immaginifica e di straordinaria portata letteraria. Mi volle conoscere attraverso la richiesta di una corrispondenza più assidua. Avrebbe voluto leggere altre mie opere, che mi affrettai ad inviargli. Fu l’inizio di una corrispondenza fitta che culminò con una sua improvvisa telefonata che mi trovò impreparata, titubante, incerta, persino ridicola nelle mie risposte. Non credevo alle mie orecchie! Ma anche le telefonate divennero una consuetudine fino a che, parlando della nostra Casa editrice, non ebbi il coraggio di proporgli di pubblicare con noi una silloge poetica che aveva appena completato Le voci e la vita. Si disse felice di pubblicarla con la mia prefazione. Accettai con un grande batticuore per via della sua grandezza di critico letterario, saggista, scrittore, poeta. La mia prolissità vinse il timore: scrissi una prefazione di una ventina di pagine che lo lasciò senza parole. Il libro, pubblicato nel 2016, porta la sua indimenticabile dedica in prima pagina: Ad Angela (De Leo), che ha fatto vive e presenti le altrimenti flebili voci. Giorgio. La silloge è, comunque, dedicata a Piera, sua compagna di una intera vita. Ma già dalle Ballate di Lilith la nostra amicizia si era andata consolidando nel tempo fino a diventare luce indispensabile di conoscenza, affetto e verità l’uno per l’altra.

Giorgio Bàrberi Squarotti, sempre pronto a incoraggiare, dimentico dei suoi grandissimi meriti per evidenziare le lucine che scopriva negli altri. Con umiltà, grande sensibilità empatica, grandissima generosità e umanità. Una figura di un’etica gigantesca in un mondo sempre più misero e alla deriva. Ma sono certa che i grandi non ci lasciano mai. Diventano fari luminosi a indicarci la strada della conoscenza e della spiritualità, se vogliamo salvarci. Basta avere occhi e cuore assetati di luce. Dalla silloge mi piace riportare una poesia, intensa, luminosa, visionaria, intrisa di dolore e di gioia come la vita. Una poesia intitolata “Nessuno più piange”, per questi nostri giorni di Resurrezione: Guarda bene, nessuno piange più,/ anzi altrove le due ragazze guardano,/ forse verso i giardini di ciliegi/ in fiore o al vento lieve che scompiglia/ le loro chiome brune e i veli e, candide,/ le strisce che ornano il cielo celeste,/ e la madre che è giovane per sempre,/ quasi ancora una bambina, con il gesto/ appena trattenuto di toccargli/ timidamente ancora il capo d’oro,/ e gli amici che, dolci, lo sostengono/ così libero ormai d’ogni ferita,/ ma a loro non pesa il lungo corpo,/ tanto appare sospeso che sorridono/ sereni a contemplarlo: non una morte,/ ma certo è una nascita, anzi come/ è la vita, il dolore, la speranza,/ la gioia. (Firenze, 18 maggio2012)

Ma proprio oggi, andando velocemente su FB, mi ha colpito la scrittura dolente e appassionata di Mariangela Brancale al suo papà Franco, mio primissimo “amore” di quando eravamo ragazzini di scuola media e lo incontravo con i primi batticuori lungo i corridoi dell’Istituto del Liceo classico, che in quegli anni aveva un’ala riservata alla media inferiore. Appuntamento che continuava a casa sua, dove andavo con la bicicletta per trascorrere un po’ di tempo con le sorelle, nella speranza di incontrare pure lui. Ricordi teneri di una adolescenza innocente e felice.

Negli anni, Franco è diventato un geometra molto apprezzato e stimato per le sue soluzioni innovative in campo professionale, per la sua serietà, per il suo garbo, la sua grande umanità. Sempre sorridente, affabile, attento agli altri.

Negli anni, ho incontrato la sua bellissima e volitiva moglie Gianna come collega di Lettere a Palo del Colle e siamo diventate grandi amiche. Ci stimavamo molto. Ma soprattutto io l’ho ammirata tanto per il senso pratico e concreto nel risolvere i problemi di alunni e colleghi e, in particolar modo, per il coraggio che ha sempre dimostrato per i lunghi anni come dializzata. Gianna penso che sia ancora una roccia per Carlo, il loro primogenito, lontano per motivi di lavoro, e per Mariangela: entrambi sensibilissimi e molto legati alle “radici”.  

Oggi Mariangela mi ha rubato il cuore in una commozione profonda non priva di lacrime. Ecco le sue parole, che trascrivo qui nella speranza di non farle torto “nell’attraversare l’intimità del suo dolore”: 9 aprile - Pasqua 2023 non è tempo di rinascita, non ancora. Oggi ho attraversato il mio dolore come non mai. Stamattina, un’ora intensissima al cimitero, tra pioggia battente e lacrime incessanti. Nel pomeriggio ho aperto l’armadio di mio padre e infilato il naso tra i suoi indumenti, persa nell’odore della sua pelle. Ho pianto angosciata e ho chiuso l’armadio. Ho aspettato. L’ho riaperto e ho accarezzato le sue camicie, i suoi maglioni, i suoi foulard; ho indossato i suoi cappelli… L’ho amato disperatamente. Quando ci ha lasciato ha voluto che una rosa bianca gli accarezzasse le mani. Da allora tutte le volte che andavo a trovarlo, poso sul suo sepolcro una rosa bianca. Oggi mia madre mi ha donato un anello, regalo di mio padre di tanti anni fa, con due rose di corallo… Papà, la rosa profuma del nostro amore.

Quale amore più grande, più vero, più puro? Sintetizzato metaforicamente in una rosa bianca, sempre vibrante e lieve su una tomba eternamente fiorita.

Ma oggi è tempo di ricordare con immutato affetto il mio grande amico serbo Dragan Mraovic. Oltre quarant’anni di amicizia sincera, disinteressata, forte non possono essere cancellati dal devastante incidente occorsomi a Belgrado oltre tre anni e mezzo fa. Lui, pur non avendo colpa alcuna, per la dinamica della rovinosa caduta, ha sempre continuato a chiedermi perdono fino alla fine per sentirsi pacificato con sé stesso, non dandosi pace per l’accaduto, che ha modificato completamente la mia vita. 

Lui, poeta di grande fama in Serbia e non solo. Come giornalista e traduttore, è stato un poderoso ponte culturale tra l’Adriatico e il Danubio per tutta la vita. Ma la notte tra il 19 e il 20 marzo del 2022, anche Dragan è volato tra le stelle, lasciandoci in eredità il suo immenso affetto, la sua solare ironia e autoironia, le innumerevoli opere tradotte e pubblicate in Italia e in Serbia, il suo amore per la nostra lingua e per la cultura italiana (traduttore mirabile della Divina Commedia di Dante e di molti altri nostri grandi Autori, classici e contemporanei); le sue poesie per adulti e per bambini, seguendo la tradizione in rima della poesia serba; i prestigiosi premi da lui ricevuti in Serbia e in Italia e quelli che ha riservato ai tanti amici italiani, invitati in Serbia per gli annuali Convegni Letterari a cui partecipavano poeti, scrittori e giornalisti di tutto il mondo. Dal 1992 presenti anche io e Primo per lunghi anni; poi con Peppino Piacente, mio genero, in qualità di editore SECOP, e con mia figlia Daniela, come mia accompagnatrice ufficiale. E ogni anno Dragan ci riservava un’accoglienza speciale, affettuosa, costante, di premure senza risparmio anche nella sua casa di Zemun, alla periferia di Belgrado, dove viveva circondato da tanto verde e morbidosi gatti, con la sua bellissima e amatissima moglie Mira.

Del 2011 è il suo libro bilingue Libro Bohémien (della Secop edizioni), in cui scrive: Un poeta bohémien non è un ubriacone, non un drogato, non un senzatetto, né un fannullone; insomma, non è un clochard, ma un uomo saggio che sa vivere la vita, cosciente che ce n’è una sola. (…). Un poeta bohémien si esprime in maniera comprensibile a tutti. Non gli piace il poeta da salotto (…) è trasgressivo sia nei versi che nella vita, ma mai noioso. (…) Un poeta bohémien ha forti dubbi sul suo essere poeta. (…).L’ironia e il sarcasmo nei confronti di sé stesso sono le sue armi più brillanti.

E ancora: Le poesie di questo libro sono nate nelle trattorie, nelle osterie, nelle bettole e taverne di tutta la Serbia, ma anche di molti Paesi d’Europa. Non ho inventato niente. Tutto mi è successo.

E dell’Italia dice: … uno dei paesi più belli e più importanti del mondo (…), una nazione, quella italiana, che è uno dei due pilastri storici della civiltà moderna europea: Grecia Antica e Roma Antica. Ma io desidero ricordarlo con una poesia dedicata a Mira, suo grandissimo amore fino alla fine, intitolata “So cara”: So cara che con ogni goccia/ un giorno in meno mi rimane;/ lasciami brindare, non ne hai colpa, tu,/ fatta di marzapane.// Tu, la migliore, peccato che non sia stata/ la prima ad avermi,// non piangere e mandami un bacio/ nel bel mondo dei vermi.// Poi, quando i fiori avranno il mio volto/ sotto il cielo sereno,/ dirai che se fossi stato migliore/ mi avresti amato di meno.

Dragan… e ora non ho più parole, soffocata da mille e più ricordi, ma di lui parlerò ancora. Di lui e dei tanti amici serbi mai dimenticati: Alcuni Perduti tra le stelle. Altri Ritrovati dopo questi anni di silenzio. Altri, ancora, sempre con me nella vicinanza del cuore. A presto. Angela  

  

venerdì 7 aprile 2023

Venerdì 7 aprile 2023: S. Pasqua tra ricordi e speranze...

E ogni volta, in questi giorni, non posso fare a meno di ricordare… non posso fare a meno di sperare… testardamente… ostinatamente… anche ripetendomi all’infinito…

<ritornando indietro negli anni, non posso fare a meno di ricordare anche la Santa Pasqua, vissuta con te e la nonna. (…) C'erano (…)“rə sasanéddərə” (panetti schiacciati) con mandorle, vincotto, cacao e canditi e granellini di zucchero, se proprio si voleva abbondare in decorazioni. Zia Maria, a Pasqua, era solita regalarci “rə scarcéddə”: bamboline, coniglietti, campane, angeli, gallinelle di pasta dolce con uovo sodo al centro e tanti minuscoli confettini bianchi, argentati, rossi, rosa, azzurri, dorati a ricoprirle. Una voluttà! Io le mangiavo con gli occhi e me ne tornavo a casa felice per quel ricco bottino. Ma era la Pasqua vissuta nella nostra casa che ricordo con grande nostalgia dopo tutto il magro e triste periodo della quaresima, fatto di digiuni, rinunce, via crucis, preghiere, silenzi per purificarci del divertimento sfrenato (!) del Carnevale e diventare degni del perdono di Cristo risorto.

                        E ancora prima della Pasqua la Settimana Santa

Ho ricordi vividissimi della Settimana Santa e dei suoi riti perché ero già più grandicella e perché rendono presente ai miei giorni la fede certa, tua e della nonna. La vostra fede di straordinaria umanità. Fede generosa e pura. Ricordo dolcissimo che si ripropone nelle nostre sporadiche o quotidiane chiacchierate. Dialogo mai interrotto tra me e te sul nostro paese, le case, le cose, il colore, il profumo, il sogno, le credenze, che caratterizzavano la nostra terra di quegli anni: quasi un canto antico, recupero di parole, di modi di dire, di voci mai spente.

La voce della nonna che ci esortava ad andare in chiesa per la messa delle sette per il primo venerdì del mese (con indulgenze plenarie annesse). (…). Poi si doveva andare in chiesa per la via crucis, per i “sepolcri” e per tutti gli altri riti della santa Pasqua, attesa non soltanto per sfoggiare l'abito nuovo inno alla primavera (trionfo di gonna a campana di panno-lenci azzurro come la lacca del cielo d’aprile e di gonna plissettata di un verde prato da far impallidire le siepi del nostro giardino e camicette bianche come leggere nuvole di orli ricamati), ma anche per rivivere quel mistero di morte e di resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del cuore, come esigenza di rinnovato perdono.

          Per i veri cristiani la Pasqua era davvero una rinascita d’amore

                             Un atto di umiltà nella certezza del perdono

(…) Squarcio di festosa serenità era la Domenica delle Palme con gli ulivi benedetti e il bacio affettuoso di autentica rappacificazione.

Tu portavi in chiesa, sempre alla messa delle sette, un gran fascio di rami d'ulivo per farli benedire e per poi distribuirli a parenti, amici, conoscenti, vicinato

(la pace sia con voi… e con il tuo spirito!, ad ogni scambio di bacio con rametto di ulivo benedetto…).

Nell'aria c'era il profumo di peschi, mandorli e ciliegi in fiore in netto contrasto con l'intenso odore d'incenso che respiravo nelle chiese: fuori, esplosione di sole e di vita a mettermi una pazza allegria nelle vene; in chiesa, la penombra silenziosa e incombente di un Dio punitore che piegava in ginocchio i miei pensieri di libertà. E fiati di donne e uomini che il digiuno rendeva pesanti. I miei atroci peccati? Qualche bugia detta a nonna Angelina per andare a giocare con le amiche o, più tardi, per poter uscire con gli amici, magari per andare al cinema oppure per fare quattro salti alla buona, così, tra noi ragazzi; i rari litigi con Lizia; “i pensieri cattivi” che cominciavano a frullarmi per la testa e, ancora, il disinteresse totale per la scuola e molti atti di vanità e presunzione che mi riconoscevo

(sono bella finalmente capisco tutto non c'è bisogno di studiare tanto le cose ormai le so...) tante impennate di ribellione (non mi alzo non ci vado non lo faccio non te lo dico non studio non studio non studio…)

Per quel perdono barattavo la mia libertà con una settimana santa densa di genuflessioni e giaculatorie e rosari. Ma era sempre nonna Angelina a sollecitare i miei pentimenti.

La settimana santa era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva, quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino, suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una chiesa gremita e penitente  (adoramus te christe et benedicimus tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…) mi ero riconciliata anche col latino lingua di dio…

Tu e la nonna seguivate con profondo trasporto tutte quelle riflessioni e preghiere, che si dilatavano tra le navate in una sorta di cantilena ipnotizzante. Alla fine anche i fedeli più fedeli erano stremati tanto che alle Litaniae Sanctorum la folla, dopo un po’, cominciava a rispondere non più “ora pro nobis”, ma “nobìs” e, infine, “bìs”, pur non avendo alcuna intenzione di bissare… (kyrie eleison… kyrie eleison… christe eleison… audinos… exaudinos… sancta maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix… ora pro nobis… sancta virgo virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs… sancte paule… nobìs… … sancte andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte vincenti… bìs… …)

Io mi annoiavo. Mi chiedevo che efficacia potessero avere quelle preghiere smozzicate di cui nessuno capiva un’acca. Vagavo con i pensieri, andavo lontano, fantasticavo, mi consolavo. Qualche volta mi distraevo sui volti dei vicini di banco. Cercavo d’indovinarne pensieri e colpe per capire il motivo di tanta sfibrante espiazione. Durante la mattina del giovedì santo, poi, le strade del paese erano percorse dalla processione del “Misteri” con tutte le statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù durante la via crucis. L’accompagnava la banda con le dolcissime nenie funebri di Carelli, Delle Cese di Pasquale La Rotella, tutti i grandi musicisti del nostro paese; nenie, che creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la passione di Cristo si compisse.

Il rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al crepuscolo dello stesso giorno ed era un rito che mi piaceva molto: si andava in giro per le strade in un percorso che comprendeva almeno sette chiese da visitare in misteriosa e mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era il sepolcro con vasi colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di germe di grano, illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato, le cui fiammelle rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi d’ombre guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’. Il tempo di guardarmi intorno intimidita e incuriosita, persa nell’ammirazione della bellezza di quei vasi e di quelle luci in una disposizione artistica che differiva da chiesa a chiesa, secondo l’estro del sacerdote, del fioraio e delle bigotte che avevano provveduto all’allestimento. Le donne fuori dalle chiese commentavano: “Madónnə, cə jèjrə béllə cùssə ànnə u səbbùlcrə də sàn Səlvìstrə e pórə cùrə də rə Vìrgənə”… (“Madonna, quanto era bello il sepolcro della chiesa di san Silvestro e pure quello delle Vergini…”).“A mè na’ m’è piaciótə pə nnùddə cùrə də sànd’Andre’, asséjə misirìnə chə dùə strìppuə səccàtə scəchìttə”… (“A me non è piaciuto per niente quello di sant’Andrea, così misero con quei due rami secchi soltanto”…)

Dal venerdì, invece, si entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola che coprivano tutte le nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti gli specchi (in cui di sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna Angelina, derivatale da secoli di medioevo) nelle nostre case. La mia vanità subiva un feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio maggiore era non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio (jndə au spécchiə stèjə u diàvuə e tu sì scəchìttə ‘na məndòsə ca nàn zàpə pənzà a nnùddə àltəà dà scè drìttə drìttə au ‘mbìrnə…) (nello specchio c’è il diavolo e tu sei solo una vanitosa che non sa pensare a niente altro… devi andare dritto dritto all’inferno…) Ma mi consolavano di tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della mattina e quella del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo silenzio delle campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a intervalli da “rə tərròzzuə” (quei particolari arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare nell’aria con il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico suono cupo e greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili) fino allo scampanio a distesa della mezzanotte del sabato santo.

Le due processioni erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede.

L’Addolorata era bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e intriso di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo scultore, ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo ringraziava per tanta bellezza con le parole: “‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?” (“in Cielo mi hai vista ché in terra mi hai scolpita?”).

Eri stato proprio tu a raccontarmi questa delicata leggenda la prima volta, lasciandomi incredula e incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno la bellezza di quel volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La Desolata”.

Mi piace anche rivivere con te il racconto tenerissimo, che non conoscevo e che non so se faccia parte della tradizione popolare o della tua fertile fantasia: sta di fatto che  raccontavi come, nella tristissima notte “du Scəvədìa Sandə”, il peregrinare della Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del figlio, avesse momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in quanto, uscendo dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il corpo di un giovane: quello di Giuda, il traditore di suo figlio, e con delicatezza gli si avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano... Quale perdono più grande, dunque: quello di un Dio immenso, che lascia crocifiggere suo figlio, fattosi uomo per redimere l’umanità, o quello di una madre del tutto “umana”, trafitta da tutto il dolore del mondo, che pure bacia con gesto delicato la mano di colui che proprio con un bacio aveva tradito Suo Figlio? Lei, minuscola donna come tante, con un cuore immenso più dell’immenso Suo Dio... (Probabilmente è per questo che noi tutti ci rivolgiamo a Lei perché interceda in nostro favore presso il Padre e il Figlio. (…).

Nella mente si affollano ricordi, lacerti d’infanzia, spaccati di vita paesana, parole in vernacolo in disuso, ma straordinariamente colorite e dense di significato, tradizioni da salvare, da valorizzare perché fanno parte di noi, del nostro sangue e della nostra anima, della nostra cultura contadina e della nostra fede. Della nostra stessa vita. Fatta anche di paura. Quella paura che serpeggiava nell’anima di tutti noi bambini quando entravamo nelle chiese con “scarsa luce e poca aria”, ma piene d’incenso, di lumini rossi, di lupini appena in germoglio. (…) la paura del buio delle chiese con le statue dei santi coperte con i panni viola della penitenza spesso era vinta dallo stupore. Meno piacevole, invece, era la sensazione della “bocca amara di digiuno” durante i riti della Settimana Santa. “Eri bella come rosa...”: richiamo antico, che mi attanaglia il cuore, ancora oggi, al ricordo di quel volto come petalo lacerato che intensamente aspettavamo di guardare con un misto di venerazione, di pena e di curiosità per quella antica leggenda che voleva quel volto bellissimo causa della morte del suo scultore.  (eri bella come roosa,/ là di Gerico sul praato./ Or sì mesta, sì pietoosa,/ dal sembiante scolorato/ sembri al suol reciso fioore,/ ricoperto di pallore! …). (…) A mezzanotte, infine, c’era la processione “du Venerdìa Sàndə chə la nàchə d’òrə də Crìstə mùrtə” (“del Venerdì Santo con culla dorata di Gesù morto”), “də l’Addóloràtə” (“della Vergine in pianto”) nella vana ricerca del figlio, e “du Légnə Sàndə” (“del Legno Santo”), tutto luci e fiori.

La piazza alberata, antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era illuminata solo dai falò nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal pomeriggio portavano da casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a quella triste rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con camicia, guanti bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza perché le tre statue non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel quadrilatero. Dopo ogni simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava musiche dolcissime e tristissime come lo Stabat Mater, canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del nostro Tommaso Traetta, e altre sinfonie. Anche io e Lizia portavamo le sedie per tempo perché tu e la nonna poteste stare comodi fino alla fine della lunghissima processione. Qualche volta anche al riparo dal vento freddo, intabarrati in cappotti e sciarpe per l’atteso inevitabile gelo (dicevate) di ogni venerdì santo, difficilmente riscaldato dal sole (u vənərdìa Sàndə fàcə sémbə brùttə tìmbə, da quànnə ‘mbrè crìstə sòpə a la cròcə…) (ad ogni venerdì santo, da quando è morto cristo sulla croce, è sempre brutto tempo…)

                       Lacrime commozione preghiere incanto tradizione  

                                             Poi la festosa Pasqua

Le campane a gloria della mezzanotte e le mille chiese del nostro paese a salutare “la Rəsòscətə”, (la Resurrezione di Cristo), e la nostra gioia per l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini. Noi c'inginocchiavamo per ringraziarLo. La nonna batteva i pugni sul tavolo per scacciare il diavolo e fare entrare Cristo risorto. E ci baciavamo tutti in segno di rinnovato amore. Con tenera riconoscenza. A pranzo, tu benedicevi l'abbondante tavolata e “u bənədìttə” (il benedetto) col ramo d'ulivo e l'acqua santa, che prendevamo dalla pila della chiesa e portavamo a casa in una bottiglietta

(e mai il timore di un'infezione a sfiorarci e mai una malattia a colpirci per la nostra incoscienza, ben sapendo di tutte le mani, più sporche che pulite, a calarsi quotidianamente in quella pila per il segno della croce in ingresso e in uscita dalla chiesa!). Il benedetto era (e forse è) la specialità del pranzo pasquale nel nostro paese: uova sode tagliate a metà, arance con la buccia tagliate a fette (piccoli soli ad illuminare il giorno del perdono), ricotta dura e salata, salumi vari. E il ragù e l'agnello e la frutta secca e quella di stagione, e i dolci di Pasqua e il rosolio. E la lettera sotto il piatto come a Natale e tanta tanta ingenuità tra le mani negli sguardi nel cuore. Ci sentivamo davvero più buoni. Riconciliati con il mondo intero e con la vita (e… buona pasqua a pasqualino/ buona pasqua a nicolino/ buona pasqua anche a torino/ ah sì bè/ buona pasqua pure a te!/… vedi poi che in fondo in fondo/ fa la pace tutto il mondo/ fa i capricci/ fa i pasticci/ ma alla fine devi dir… ah sì bè/ buona pasqua pure a me! Carosone dalla radio cantava anche per noi…)

Il giorno dopo era ancora un giorno di festa, condito di verde spensieratezza. Si andava in campagna per vivere “u pascəcónə” (la Pasquetta) con parenti e amici e lunghe tavolate con altri cibi tradizionali, l’immancabile “vrədéttə” (non credo sia traducibile in italiano, forse “il brodetto”, ed era una sorta di pastina in ragù d’agnello allungato in brodo con dentro carne sfilacciata e uova rapprese e piselli…) e altro buon vino e chiacchiere e risate. Tu raccontavi...

Poi, giunse il tempo della Pasquetta con gli amici. E tu e nonna restavate a casa perché non era più, per voi due, tempo dei lunghi passi tra l’erba, delle inerpicate sui sassi, delle scampagnate faticose. C’era ormai la stanchezza di giorni lunghi da portare su spalle più curve e su gambe sempre più malferme. (‘na ròutə da rəpàrà u səllénə da səstəmà u manùbriə da addrezzà e u cambanìddə ca dəchiàrə allàrmə còmə a ‘na campàna ròttə e stənàtə… cə nə məttémə tùttə ‘nzìmə jndə a la màchənə pə fànnə abbəvèscə nàn jèssə jùnə bbùnə…) (una ruota da riparare il sellino da sistemare il manubrio da raddrizzare e il campanello che dichiara allarme come una campana rotta e stonata…

se ci mettono tutti insieme nella macchina del restauro di tanti vecchi non ne viene fuori neppure uno sano…)

                                                   Si spezzò l'incanto >

                                        (sempre da Le piogge e i ciliegi, vol.1°)

 

Serena e Santa Pasqua a tutti con tanto Amore e tanta Speranza in tempi migliori per tutti! Angela

 

sabato 1 aprile 2023

Sabato 1° aprile 2023: marzo-aprile: due mesi difficili/dolci da ricordare dimenticare ricordare...

E mentre non si è ancora spenta l’eco del mio cuore per la prima presentazione ufficiale della nostra Rivista cartacea “CORRELAZIONI UNIVERSALI”, di cui ho scritto ieri sulla pagina Correlazioni Universali di FB, con il passaggio di consegne tra marzo e aprile. Un passaggio doloroso. Il primo aprile, alle otto del mattino, mamma si è ricongiunta in Cielo con tutti i suoi cari, volati su prima di lei, lasciandoci in un oceano sconfinato di dolore. Gli uomini son come il mare/ L’azzurro capovolto/ Che riflette il cielo/ Sognano di navigare/ Ma non è vero// Scrivimi da un altro amore/ E per le lacrime/ Che avrai negli occhi chiusi/ Guardami, ti lascio un fiore/ Di immaginari sorrisi… (Vecchioni, “Il cielo capovolto”, da L’ultimo canto di Saffo).

                                 Mia madre. Oceano di lacrime e “immaginari sorrisi”.

E oggi voglio ricordarla così come l’ho vissuta e amata negli anni della sua giovinezza, quando, bellissima ed elegantissima, era piena di gioia di vivere, mentre i figli erano grappoli di vendemmie non più attese, ma sempre accolte con amore. Benedette.

Voglio ricordarla nei due anni vissuti con lei a Casalnuovo Monterotaro abbarbicato sui monti della Daunia. Due anni molto difficili per me, all’ombra della sua prorompente vitalità e delle mie tristissime incomprensioni con babbo.

<Per fortuna, c’erano anche il cinema e le lucciole. E anche questi erano miracoli che si accendevano nel buio: lo schermo e le storie nel buio del cinema; le lucine vibranti nel buio della sera.

Spesso con mamma e con le mogli e i figli degli altri militari andavamo al cinema. Per raggiungerlo dovevamo attraversare alcuni campi della periferia che brulicavano di lucciole

(noi siam come le lucciole/ brilliamo nelle tenebre… ma era un’altra storia che mi sfuggiva).

Io mi perdevo in quelle stelline affioranti sul prato.

Nel cinema, mamma era sempre attenta a coprirci con le mani gli occhi per non farci vedere alcune innocenti scene d’amore che lei riteneva non adatte a noi piccoli. Questa precauzione è durata fino alla nostra adolescenza con grandi proteste da parte mia e delle mie compagne di innocue prime scoperte del mondo e della vita. Non c’era bacio che non dovessimo spiare attraverso la grata delle sue mani che sembravano moltiplicarsi, centuplicando dita e ansie e timori e perplessità. E in quella complicata operazione anche lei si perdeva l’emozione di quel bacio tanto atteso e inevitabilmente perduto (pə dəspìttə də Gnəmərìddə jè m’ammènəghə da la fənéstrə...) (per dispetto di… io mi butto dalla finestra…), avresti sentenziato tu!

Gnəmərìddə prendeva, di volta in volta, nomi diversi a seconda del destinatario della rassegnata quanto impotente considerazione: per fare dispetto agli altri si finisce col fare del male a sé stessi!.

Ma all’uscita dal cinema dimenticavamo tutto per dare la caccia alle lucciole. Ne raccoglievo a manciate che conservavo nel fazzoletto per metterle nel bicchiere appena tornata a casa. Qui la delusione in agguato: quelle splendide lucine intermittenti, a riportarmi il cielo e il brulichio delle infinite sue stelle tra le mie piccole mani, erano soltanto dei minuscoli insetti privi di ogni splendore.

                                              (IL SOGNO, la realtà)

Ma, pur registrando ogni volta la delusione di quella via lattea sfavillante nella mia tasca, ricondotta a un misero bottino di alucce spente, non riuscivo a vincere la tentazione di riprovare ad afferrarle e a conservarle, sperando nel prodigio di ritrovarle a casa sfolgoranti di luce. (…)

                    Nel buio di quei giorni bui, squarci luminosi di breve felicità!

Lina, Nina, Lucia e Pina, con l’aiuto e la complicità di mamma, inventavano o proponevano giochi di società per le tante feste che rendevano allegra la nostra casa. La vittima designata era quasi sempre il povero Giovanni, che però era felice di partecipare e di essere al centro dell’attenzione.

C’era il grammofono a tromba, gloria dei tempi andati, e c’erano i 78 giri

 in vinile (con le Case Editrici La Voce del Padrone, poi la Fonit Cetra, RCA, Durium, Ricordi...) di musica leggera, che babbo collezionava. In quegli anni alle canzoni di guerra di un realismo tragico e lacrimevole subentrarono romantiche, appassionate, nostalgiche canzoni d’amore.

A “Faccetta nera, bella abissina,/ aspetta e spera che già l'ora s'avvicina...”...

“Come ogni sera, sotto quel fanal,/ dietro la stazione mi stavi ad aspettar/ (…) Addio, piccina, dolce amor,/ ti porterò qui sul mio cuor,/ con te Lilì Marlen, con te Lilì Marlen...”...

“Addio, mia bella addio,/ l'armata se ne va,/ e se non partissi anch'io/ sarebbe una viltà./ Non pianger, mio tesooro, sai che ritornerò,/ ma se in battaglia io mooro/ in ciel ti rivedrò...”

si sostituirono

“Vieni, c'è una strada nel bosco,/ il suo nome conosco,/ vuoi conoscerlo tu?/ Vieni c'è una strada nel cuore/ dove nasce l'amore/ che non muore mai più...”...

“Vorrei baciar i tuoi capelli neri,/ le labbra tue, gli occhioni tuoi sinceri...”...

“Suona solo per me/ o violino tzigano/ forse pensi anche tu/ a un amore laggiù/ sotto il cielo lontan…/ Se un segreto dolor/ fa tremar la tua mano”…

“Amado mío/ Love me forever/ And let forever begin tonight// Amado mio/ When we're together/ I'm in a dream world/ Of sweet delight… (Rita Hayworth cantava… e c’era una versione in italiano che anche Lina cantava continuamente, alternandola col richiamo amoroso al suo Peppino…)

 E poi c’erano le musiche da ballo: la Cumparsita, Adios Muchachos, La violetera, il Bolero di Ravel. La mazurka, i valzer di Strauss, la polka, il fox-trot. 

A babbo piacevano soprattutto le colonne sonore dei grandi film e la musica classica. A mamma, però, dedicava sempre “Il tango della gelosia” (no, non è la gelosia,/ ma è la passione mia,/ quando ti guardano gli altri/ io fremo perché/ io il tuo amore lo voglio/ soltanto per me…).

Ogni volta lo ballavano insieme e mamma era davvero bellissima, attrice principessa fata ballerina. Maliosa superba affascinante nei suoi abiti longuette molto eleganti e raffinati. L’adoravo. Mi ripetevo ogni volta che da grande sarei diventata come lei. (E per molti anni lei fu l’insuperato irraggiungibile modello). Dopo i primi balli e i dolci e i rosoli di rito, cominciavano i giochi che a me sembravano anche un po’ cattivelli perché spesso puntavano sulla dabbenaggine di Giovanni, chiamato sempre in causa. Uno di questi consisteva nel mettere due sedie intervallate da uno spazio vuoto con un tappeto a coprirle. Sulle sedie sedevano le signore che invitavano un ospite a caso, ma guarda caso il maschio prescelto era sempre il nostro domestico, che di solito aveva il compito di cambiare la puntina al braccio del grammofono, ma non di scegliere i dischi. Appena il malcapitato si sedeva al centro, le due signore si alzavano facendolo precipitare nel vuoto. E giù risate. Rideva anche Giovanni, perdonando tutto alle signore e contento come una pasqua di stare con noi alle nostre feste.

Un altro gioco che lo vedeva protagonista e vittima era quello della giacca che doveva indossare infilando solo una manica perché l’altra, tenuta alta quasi fosse un telefono serviva ai convitati a fare lunghe telefonate agli amici assenti. In realtà, il più alto dei presenti tirava più su la manica e invece di parlare rovesciava all’interno una bottiglia d’acqua che bagnava dalla testa ai piedi il malcapitato che sapeva e già rideva beato, lasciando fare pur di far ridere l’intera compagnia.

Poi, c’era sempre il ballo “della spazzola” per spolverare delicatamente o ruvidamente il cavaliere che doveva cedere la dama a chi in quel momento possedeva la spazzola. Tutti erano accoppiati tranne uno a cui era stata consegnata e che, nell’arco di un disco, non appena la musica s’interrompeva, doveva di volta in volta passarla al ballerino di turno. Pagava pegno chi a fine canzone rimaneva senza dama e con in mano la spazzola. Poi si ricominciava fino ad esaurimento energie. Quest’ultimo gioco è rimasto immutato nel tempo fino alla mia prima giovinezza con delle piccole varianti: la scopa di saggina aveva sostituito la spazzola perché il cavaliere solitario potesse accompagnarsi comunque con una ballerina. Il 78 giri era stato sostituito dal 33 giri e il grammofono era diventato più piccolo e maneggevole, avendo perso la maestosa tromba. Sostituito a sua volta dal giradischi. (…)

Allora, i balli erano un tantino maliziosi e… peccaminosi e bisognava chiedere il permesso alla dama di poter volteggiare con lei. I ragazzi qualche anno dopo avrebbero detto “pomiciare” e “limonare” con identico voglioso significato (signorina mi permette l’onore di questo ballo?... signorina mi concede questo ballo?... signora, posso osare di chiederle di ballare con me?...)

(voglio ballar con te/ stringerti forte a me/ voglio parlar d’amor/ come mi detta il cuor// cosa dirò non so/ cosa farò chissà/ innamorato, inebriato sempre con te sarò…)

Il peggio accadeva quando una signorina o una signora rimaneva seduta a “fare tappezzeria”, perciò le invitate al ballo si precipitavano a dire di sì pur di non doversi vergognare per l’intera serata, guardando con finta noncuranza il soffitto, il pavimento, la punta delle scarpe, le altre coppie in uno scoramento totale che scoprivo, anch’io con finta noncuranza, negli occhi spenti delle solite malcapitate, di solito le più brutte e poco aggraziate (“jèvənə cèrtə cióféchə!” (erano certe ciofeche)termine quest’ultimo commutato più tardi in “cózzə” e “ràcchiə”… (cozze e racchie), ma l’intera esclamazione stava in ogni tempo per “erano molto brutte!”). Per i giovani, a quei tempi, “i ballabili” romantici erano spesso l’unico modo per stringere tra le braccia una ragazza, dichiararle il proprio amore, provare il brivido della passione. E se ciò non accadeva, il giovinotto di turno veniva etichettato come “‘nu chèchèjə” (uno senza spina dorsale e senza grandi attrattive). E, per questo, il più delle volte era proprio Giovanni a lasciare per primo il ballo, ingenuo e sgraziato com’era. Lentamente e inesorabilmente lo aveva imparato a proprie spese, ma non spegneva mai il suo sorriso nel coro delle altre risate. E io mi feci un’altra convinzione, forse mai smentita del tutto, “essere scemi è bello, ti permette di non soffrire e di ridere sempre”, anche perché, più tardi, avrei avuto conferma dalla affermazione latina: “risus abundat in ore stultorum”…

Io non mi divertivo, caro papà, e non credo di avertene mai parlato. Non mi divertivo non perché mi ritenessi intelligente, anzi!, ma perché quei giochi li trovavo ripetitivi e un tantino discriminatori nei riguardi di chi era meno pronto e sicuramente maldestro. Ed io mi sentivo proprio così e mi sentivo indirettamente e confusamente coinvolta in quella offesa. Ero, però, contenta di registrare l’allegria di mamma e l’insolita serena accondiscendenza di babbo. Mamma, a quei tempi, nonostante i quattro figli, aveva conservato il corpo e la gioia di vivere di una ragazzina e io l’ammiravo incondizionatamente. Qualche volta, però, mi capitava di aver paura quando lei, nella spensieratezza del gioco, soprattutto quello dei cuscini e dei palloni che volavano da una finestra all’altra, lasciava tra le mie braccia Anna Maria e metteva sul letto Pino ancora in fasce. Temevo, allora, che cuscini e palloni potessero colpire me e la mia deliziosa sorellina o l’ignaro quanto atteso e prezioso fratellino. E mamma, nella foga del gioco, sembrava non badarci. In realtà, la preoccupazione era solo mia perché lei era prontissima ad afferrare cuscini e palloni prima che potessero silurare la casa.

                                     A lei piaceva fare anche tanti scherzi

Una volta si vestì da brigadiere con una divisa rimediata proprio con la complicità di un militare e scese in caserma, portandovi scompiglio e tanto stupore tra i carabinieri. Babbo si arrabbiò tanto, ma poi, appena rientrato in casa, finì col ridere di cuore pure lui per il carattere pazzerello di sua moglie. Lui aveva dieci anni di più di mamma ed era innamorato pazzo di lei...> 

               (A. De Leo, Il gelso e le rose, op. cit. nelle pagine precedenti)

A mamma ho dedicato tante poesie da poterne fare un volume. Spero che ci pensino, dopo di me, figli e nipoti che hanno imparato ad amarla come nonna (i miei figli, che l’hanno conosciuta e ammirata, e i miei nipoti che l’adorano attraverso i nostri ricordi).  A Lei, dedico ancora il mio canto:

Faro di luminoso approdo sei.

Palma di pace e sorriso di mitezza.

Nuvola leggera di silenziose lacrime.

Perlescente chiarore di tenera luna.

Fiamma viva d’amore a riscaldare

il giorno delle confidenze accese

mano nella mano nei rari incontri

delle nostre vite sospese.

E sei tepore di nido nel silenzio

di pietre ai tronchi intrecciati di rovi

sei.

Il tuo andar via quasi scherzo

di primo aprile

tra lacrime a dissetare il giorno

dell’addio.

E tacquero le parole che non ti seppi dire.

Furono promesse che mai giunsero

a colorare d’azzurromare il cielo

delle estati insieme solo sognate.

Ma Sole negli occhi sei

soffocati di nostalgia e rimpianto

Carezza di Luce

Anima della nostra anima

                  SEI

(e a te va il mio perenne canto)

E aprile è solo inizio e mai fine. Intanto, domani è la Domenica delle Palme. Porgo a tutti un ramoscello d’ulivo benedetto con un bacio e la frase di rito, che mi ricorda il passato remoto del nostro stare tutti insieme nella “casa del gelso e delle rose”: La pace sia con te… E l’altra guancia rispondeva: e con lo spirito tuo! Serene Palme...Angela