lunedì 14 ottobre 2019

Canto per le Madri d'Autunno (seconda parte)

Ed ecco il Canto nostalgico e “disperato” di un altro figlio poeta, che ha dovuto suo malgrado lasciare sua madre con passi di fuga verso una ipotesi di salvezza da una Patria, diventata improvvisamente ostile e nemica ai suoi sogni e ai suoi ideali di libertà e democrazia.

ALLA MADRE
La nostalgia di te
Dalla nostalgia di te sono devastato.
Rimpianto vasto come il mare
Sono gabbiano con ali spezzate
Se non odi che tuo figlio è morto
cercami sulla soglia della prima alba
Ma se a un flauto io dovessi somigliare
allora per amor mio, madre - anima mia,
abbandona meravigliose visioni e lacrime febbrili
Perché ultimamente sono angosciato anche nei miei sogni
Alla ricerca di te, perdo la strada in qualche
baratro sconosciuto
nel mio straziante volo grido il tuo nome
e l’incubo mi lascia attraversando una finestra rotta.

Gjeke Marinaj


Un Canto straziato di nostalgia racchiudono questi versi di Gjeke Marinaj, altro meraviglioso amico di tempi più brevi, ma di sintonie mente/cuore con lunghe ramificazioni fiorite nell’anima. Gjeke, americano di adozione ma di origini albanesi, è poeta, scrittore, docente universitario, ideatore della bellissima teoria del “Protonismo”, che valorizza ogni essere umano in funzione di un mondo migliore all’insegna della solidarietà e della pace. Teoria/disciplina socio-filosofico-filantropica che Gjeke va diffondendo nel mondo con lunghi estenuanti viaggi in tutti i Continenti. È di questa mattina la bellissima notizia di un nuovo grande Riconoscimentooer la sua opera umanitaria:

Gjeke Marinaj
Today's McKinney Courier-Gazette
Sot ne McKinney Courier-Gazette
MCKINNEY WRITER NAMED HOME NATION'S AMBASSADOR


Staff report Oct 12, 2019
Accompanied by European dignitaries, McKinney writer Gjeke Marinaj, PhD, received the title of Nation's Ambassador at a special reception organized by his native Albania's government.
Active in many fields, Marinaj received the title for his contribution to Albanian and world literature and culture through poetry, prose, journalism, literary criticism, philosophy and academic teaching.
Marinaj launched his original philosophy, "Protonism Theory," as a form of literary criticism that aims to promote peace and positive thinking. Already taught in European universities, Protonism and its practice are central to Marinaj's recognition and goals in cultural diplomacy.

A lui va il mio affettuoso apprezzamento e abbraccio.
Ma, tornando alla sua poesia, ritendo che il suo Canto alla Madre sia “del dopo” e non “del prima”, come è avvenuto per Vincenzo Mastropirro, di cui ho parlato ieri con tanta commozione.
Qui il poeta è “devastato” da un “rimpianto vasto come il mare”, che ha dovuto attraversare con le sue ali “spezzate di gabbiano” e non poteva essere diversamente in un reale attraversamento per raggiungere, tra mille tappe e innumerevoli difficoltà, la terra dove ogni bandiera del mondo viene issata: l’America californiana, fino al Texas, o Stato della “stella solitaria”. E a noi sembra di seguirlo nel suo interminabile viaggio di ansia e di paura, ma anche di indomito coraggio nella determinazione ad ANDARE incontro all’ignoto, con dentro l’anima, trafitta da mille pugnali, la madre, la patria, entrambe abbandonate fisicamente, e una tenue luce di speranza.
Ma un dubbio consolatorio coglie la grande sensibilità del poeta: Se non odi che tuo figlio è morto/ cercami sulla soglia della prima alba.
Bellissimi versi che, pur nati in terre e tempi diversi, ma in situazioni identiche di pericolo e di morte, somigliano, nel senso della precarietà esistenziale e del salvifico, indissolubile legame tra madre e figlio e tra parola poetica e speranza nel futuro (cercami sulla soglia della prima alba), ai versi del poeta curdo Abdulla Goran: Io vado, madre./ Se non torno…/ la mia anima sarà parola/ per tutti i poeti.
Per Gjeke il dubbio consolatorio iniziale è più complesso: riuscirà a raggiungere sano e salvo l’altra riva, sulla soglia della prima alba? Metafora bellissima della luce che rischiara le tenebre della notte e, quindi, della fuga notturna per evitare gli inganni del pieno giorno. Ed è là che sua madre dovrà avere il coraggio di cercarlo ancora. In entrambi i casi, la Poesia potrebbe salvare il futuro della nostra Umanità oggi alla deriva.
Ma, continua Gjeke, in un disperato presentimento (che per sua e nostra fortuna non si avvera), se io dovessi somigliare ad un flauto, ossia se la sua voce dovesse giungerla flebile come un suono dolente di flauto (e anche in questa poesia, geograficamente lontana mille miglia da quella di Vincenzo Mastropirro, ritroviamo, per altre vie mai percorse e non in termini di fuga, casomai di continuo ritorno, ancora questo strumento musicale dolcissimo), allora alla povera madre non resterà che abbandonare meravigliose visioni e lacrime febbrili, perché un sogno/incubo ha reso il figlio presago di un “qualche/ baratro sconosciuto”, mentre cerca ancora sua madre, con l’ansia di raggiungerla. E la Madre è, al di là dell’incubo stesso, anche la Patria abbandonata e vagheggiata in un ritorno impossibile, che potrebbe davvero farlo precipitare in un baratro senza ritorno. Non a caso, “baratro sconosciuto” è posto a fine verso, dove è più facile per il lettore prefigurarsi e visualizzare il precipizio che avrebbe potuto portare il poeta, se non si fosse trattato di un incubo, in uno “straziante volo” a “gridare il nome di sua madre”, unico appiglio al suo tentativo di salvezza. Per fortuna, non si è avverato il sogno. L’ultimo verso è per Gjeke la fuoriuscita dall’incubo, ma attraverso “una finestra rotta”. Altra splendida, anche se amara metafora, di una realtà che non ha risparmiato al poeta il frantumarsi dei sogni e delle illusioni con un passaggio pericolosissimo di vetri in frantumi tra il dentro/fuori del suo corpo/anima e, quindi, della sua stessa vita.
Un presagio che, in realtà, non ha lasciato scampo al dolore.
Pure, in altri versi, dedicati non solo alla madre, ma anche alla sua terra, e alla stessa poesia, Gjeke, come Vincenzo o Abdullà torna a parlare del dolore per la perdita o per la lontananza, trovando alla fine motivo di luce e di conforto proprio nel vuoto avvertito dentro perché i poeti “servono”, come qualche critico ha affermato, soprattutto a colmare i vuoti che la vita ci scava nell’anima in vari momenti del nostro percorso esistenziale. E, dunque, alla fine, è sempre la poesia a farsi consolazione e luce: Dov’ero la scorsa notte?, si chiede Gjeke nel titolo di una poesia che si accende di metafore e di amore per tutto ciò che è vita. E la risposta negli ultimi due impagabili versi è:
Dove le poesie cozzano contro il cielo/ Dove il poeta accende le parole.
Grazie, Gjeke, per avercelo insegnato con la grandezza della tua Poesia, con la semplicità, umile e vera, della tua Persona.
Poi, ecco il terzo figlio poeta venirci incontro con brevi versi dedicati ad una Madre molto speciale, unica, irraggiungibile nel suo ideale di realtà/irrealtà, spesso filtrato tra rami ombrosi e solitari di bellezza e nobiltà.
Parlo di Giovanni Gastel, stupendo amico di carta, parole, immagini, sensibilità artistica e umana oltre ogni dire. Fotografo di fama internazionale, poeta, scrittore. Artista a tutto tondo.

Madre che hai protetto le mie fragilità
con nobiltà da giardiniere
torna e convincimi
che il dopo sarà reale.
Che lascerò la strada principale
e libero da convenzioni sociali e religiose
salirò ad un’altezza superiore
e sarò di nuovo a casa.

(Castellaro 2015)
Giovanni Gastel

Madre che hai protetto la mia fragilità è l’emblematico verso iniziale di una poesia senza titolo come tutte le poesie di questo poeta, che ama raccontarsi senza pudori e ama narrare, nella essenzialità del linguaggio poetico, il suo essere dimidiato sempre tra realtà e sogno, tra verità e mistificazione, tra appartenenza a una famiglia che ha luminose e secolari radici storiche e disancoraggio da tutto ciò che è e ciò che deve rappresentare sulla scena di un Teatro che s’illumina di Bellezza e di Apparenza.
Egli, pertanto, in rapidi dialoghi/soliloqui racconta spesso, come in questa poesia, di una Mamma che ha difeso coraggiosamente la sua infanzia da ogni impatto crudele con la realtà difficile e violenta contro il loro mondo ovattato, in un parco immenso, dove il silenzio pacificava il giorno. L’amara realtà era fuori dal grande giardino di verde d’alberi e di prati ad un passo dal lago. Ed era una realtà destabilizzante e devastante in quegli anni della sua infanzia dorata e della sua adolescenza incantata.
Fu una strategia vincente quella di preservarlo da ogni terribile verità negli oscuri anni Settanta-Ottanta del secolo scorso?
La risposta che il poeta ci offre è legata ai versi seguenti, quale invocazione alla Custode di ogni sua fragilità: con nobiltà da giardiniere/ torna e convincimi/ che il dopo sarà reale”.
Dunque, Giovanni Gastel sentì pesantemente precipitare la realtà esterna sulle sue fragilità così strenuamente difese, non appena si trovò fuori dal suo Hortus conclusus, vissuto in tutta la sua innocente irrealtà. La sua invocazione continua come preghiera che sale verso l’alto. Convincimi, chiede alla madre perduta ormai alla fisicità, ma fortemente ancorata nel suo cuore, Che lascerò la strada principale/ e libero da convenzioni sociali e religiose/ salirò ad un’altezza superiore.
È l’anelito della sua anima a scoprire una libertà mai provata, chiusa come era stata per anni nella prigione di regole, cui bisognava obbedire, e che non avevano niente di vero fuori da quel mondo circoscritto. Bisognava adeguarsi a convenzioni sociali e a dogmi religiosi, che il suo spirito creativo, ribelle e prigioniero mal sopportava, allontanandolo certamente dalla cruda realtà che i suoi coetanei vivevano fuori.
Solo dopo, solo quando la libertà diventa quel Canto che colma il vuoto di ogni assenza e di ogni verità, solo allora il poeta sente che avrà ritrovato il sentiero fiorito di parole e di luce… che la poesia gli offre come àncora di salvezza contro le brutture del mondo che lo vedono estraneo e solitario.
E solo allora Giovanni, in un’ascesa verticale, sentirà il coraggio di vincere le sue fragilità con un grido liberatorio e rasserenato, nella scoperta di un Dio che gli vive dentro e che, paziente, lo attende per accoglierlo nell’unica Verità assoluta del suo Amore immenso. Qui tutto questo è appena intuito dal lettore assiduo che conosce la vasta produzione poetica di Gastel, ma è spesso raccontato dal poeta nelle poesie di questi ultimi anni, in cui sempre più si avverte la sua ansia di scoprirsi nelle braccia amorevoli di quel Dio che “atterra e suscita, che affanna e che consola” (Manzoni).
In questa scarna ma profondissima poesia, allora, Giovanni Gastel sente il bisogno di confidare a Lei, amatissima Madre, alle sue ali di Angelo protettivo e salvifico, la sua speranza di un felice ritorno: E sarò di nuovo a casa. 
Dove la realtà, bellissima e luminosa, avrà vinto ogni finzione nella suprema saggezza e bontà di Dio.
A restituirgli Amore.


E, infine, ecco una poesia straziante di Abdullà Goran: ha accompagnato le eroine curde nella loro strenua lotta contro l’ISIS, in favore dell’Europa, oggi forse dimentica del sacrificio delle loro giovani vite. Per non dimenticare. Per regalarci ancora un filo di speranza.

… Io vado, madre.
Se non torno,
sarò fiore di questa montagna,
frammento di terra per il mondo
più grande di questo.
Io vado, madre.
Se non torno,
il corpo esploderà là dove si tortura
e lo spirito flagellerà,
come l’uragano, tutte le porte.
Io vado, madre.
Se non torno,
la mia anima sarà parola
per tutti i poeti.

(Abdullà Goran)

Anche in questi versi l’amore protettivo e oblativo delle madri diventa forza e coraggio per i figli, capaci di affrontare la violenza delle torture e della guerra perché si sentono protetti dal loro amore, dalla loro presenza spirituale. Un filo resistentissimo a vincere persino la paura e la stessa morte.
Il poeta curdo Abdullà Goran è il cantore di tanto amore e tanto coraggio. E lo fa con metafore ardite e dolcissime ad addolcire anche il nostro cuore.
Io vado, madre. Se non torno. Due versi anaforici, martellanti che percuotono le nostre coscienze come rintocchi di campane, come suono cadenzato di orologio nella piazza del paese, come “uragano” che “flagellerà tutte le porte”.
Si tratta di un canto che non può morire. Come la speranza. Che non abbandona mai una madre in attesa del ritorno del figlio. Come le parole che lasciano dietro di sé come scia luminosa i poeti. Soprattutto quando i poeti parlano delle loro Madri d’Autunno. Della loro Terra di gelo, arrossata, dissacrata e svenduta. Delle Parole sacre ed eterne per salvarla.

(fine seconda parte)




domenica 13 ottobre 2019

domenica 13 ottobre 2019: Canto per le Madri d'autunno


La festa della mamma è un canto di primavera inoltrata (prima domenica di maggio) e si riferisce alle mamme giovani e sempre presenti alla vita dei figli bambini nella freschezza dei giochi condivisi fra allegre risate e strette al cuore; nello stupore delle fiabe raccontate; nella leggerezza delle passeggiate coi carrozzini lungo viali di parchi in fiore. Almeno nell’immaginario poetico collettivo, le mamme giovani le viviamo così: belle, leggere, sorridenti, innamorate della vita, dello sposo, del loro bambino. Le madri giovani sono un inno alla bellezza.
Le mamme d’autunno sono completamente diverse. Ricalcano i colori caldi che si vanno spegnendo della terza stagione. Sono come i frutti autunnali, ricchi di doni che bisogna avere occhi e cuore per scoprire: le melagrane, per esempio, con tutta la maternità riposta in quei chicchi di rosso dolore e di infinito amore, protetti da una buccia spessa e dura che si spacca prima che sia facile aprirla e scoprire una nuova protezione: le membrane interne simili a veli di lacrime e dolcezza per ogni riparo dai pesanti colpi della vita. Oppure sono grappoli d’uva dorata e ottobrina che espongono la loro spettacolare maternità tutta offerta allo sguardo e alle mani di chi si accinge alla raccolta per farne mosto dolcissimo e vino forte e corposo a riscaldare le sere d’inverno che verranno. Alla mensa con gli amici. E c’è una maternità più oscura e nascosta, ma ricca di morbidezza antica: la castagna tutta chiusa nel suo riccio pungente a difesa di un’anima ancora candida e bambina a ricordarci una madre che conosce i mali del mondo e difende strenuamente la morbidezza della sua maternità ritornata ai tempi dell’infanzia e dell’attesa di mani premurose a salvarla da ogni caduta. E che dire delle olive, brune ampolle piene di olio lenitivo per il palato, la pelle, lo spirito? L’olio che è oro liquido per la nostra tavola; alimento di lampade votive nei bicchieri; soccorso estremo di malati e moribondi; viatico per innalzarsi al Cielo.
Le madri d’autunno sono le mamme distanti. Quelle che hanno brevi voli come le foglie nel loro ultimo tramonto dorato fino ad accartocciarsi, prima che il buio le assalga, e confondersi con la terra: Madre di tutte le madri.
Le madri d’autunno sono solitarie e tristi. Sono pesanti di dolori e d’affanni. Sono colme di lacrime soffocate e di carezze mai più date e mai più ricevute perché un pudore strano impedisce agli adulti e ai vecchi di abbandonarsi a una carezza desiderata nel cuore, ma trattenuta tra le dita.
Sono le madri che rimpiccioliscono man mano che il tempo passa e vince il loro vigore e turgore. Le mamme da tempo lasciate nella loro casa da passi di figli che hanno urgenza di andare per realizzarsi nella vita secondo scelte volute o subìte.
Oppure sono quelle che ci abbandonano perché non hanno più tempo per aspettarci o seguirci. Devono andare. Sono le madri dell’assenza e del vuoto, scavato nell’anima di chi resta. Sono le madri rimpiante e riscoperte sempre vive nel cuore.
Sono inno di nostalgia e pianto.
Sono farfalle stanche e lente nell’ultimo volo tra le ombre cupe della sera e il buio della notte fino alla… soglia della prima alba, come meravigliosamente scrive in una sua poesia , dedicata appunto a sua madre, Gjeke Marinaj. 
Solo i figli poeti sanno scoprirla attraverso la luce che filtra tra i rami della loro mai spenta poesia in un intreccio di parole tra mani cuore anima…
Ma ecco cosa scrive di sua madre il primo figlio poeta: Vincenzo Mastropirro. 

Se vorrai

Se vorrai, posso essere tuo figlio sempre.
Il bambino che rompeva gli occhiali,
il figlio che ha cambiato i racconti del tempo,
quello che piangeva sulle pagine a quadretti,
quello che amava il gioco per il gioco.
Posso carezzarti come solo un figlio fa
e ora, che sei diventata esile e stanca,
posso dirti che sei più bella di prima.
La mia immagine è il tuo volto scavato
come l'ultimo tratto dell'arcobaleno
che si spegne nel mare degli assoli.
Posso essere tuo figlio se mi abbraccerai
con le forze residue delle tue braccia.
Fallo e ti lascerò andare senza piangere.

vm (Vincenzo Mastropirro)

     

Vincenzo Mastropirro, amico carissimo, poeta soprattutto dialettale, ottimo musicista e compositore, docente, ha scritto questa intensa, tenerissima poesia, il giorno prima, appena qualche settimana fa, che sua madre si spegnesse “nel mare degli assoli”.
La pubblicò su fb come ultimo canto per la sua amatissima madre. E inaspettatamente in italiano. Inaspettatamente perché Vincenzo ha capovolto le regole, come solo un artista sa e può fare, in barba a tutte le teorie di molti studiosi di dialettologia, che vogliono la lingua materna la sola visceralmente usata nei momenti più aspri o più esaltanti della vita. Il dialetto, voce dell’anima, che parla la lingua del corpo in maniera forte, materica, vera, ogni volta che siamo noi senza orpelli grammaticali e senza costruzioni sintattiche anche della nostra personalità di status.

E, invece, ecco che qui Vincenzo scopre che la sua voce più appassionata, a poche ore dal distacco, non è quella che abitualmente usava per comunicare con sua madre, che si esprimeva sempre in un dialetto colorito, ironico, sentenzioso, vibrante di tutti gli accenti antichi e mai perduti.
Per la prima volta forse, con lei ha sentito l’urgenza di rivolgerle parole d’amore con una lingua quasi a lei sconosciuta, ma altamente poetica perché sicuramente più musicale e dolce del duro dialetto ruvese. Sì, Vincenzo ha sentito che ora l’omaggio più bello che potesse fare a sua madre “esile e stanca” rispetto alla donna forte e coraggiosa, battagliera e volitiva con cui era solito battibeccare in “duetti dispettosi” d’amore, era un ricamo di note tenerissime, quasi ad accoglierla nel nido delle sue braccia per aiutarla a volare via, in un sommesso suono di flauto dolce, suo strumento preferito e amato da tenera età. L’unico che riusciva a tenere “imbrigliato” quel ragazzino scavezzacollo che amava poco la scuola e i suoi quaderni a quadretti, quasi a farci visualizzare una prigione di reticoli e di numeri a spegnere la sua voglia di imparare. Il ragazzino, che amava “il gioco per il gioco”, tornando a casa con gli “occhiali rotti” e i “racconti del tempo” ancora da inventare…

Come avrebbe potuto dire Vincenzo in dialetto a sua madre “fragile e bella”: La mia immagine è il tuo volto scavato/ come l'ultimo tratto dell'arcobaleno/che si spegne nel mare degli assoli?. Tre versi di una musicalità e bellezza ineffabili! Come le avrebbe potuto dire con infinito amore, in un sussurro di pudore e di tormento, Posso essere tuo figlio se mi abbraccerai/ con le forze residue delle tue bracciain dialetto senza che piangessero in due privi, entrambi, della possibilità di salvezza da quelle lacrime come pioggia devastante sul loro reciproco addio e comune dolore?
E, invece, l’italiano, tenero e melodioso, gli ha permesso di abbracciarla piano perché sua madre si addormentasse serena, cullata da quel flauto di dolcezza mentre Vincenzo in un grido muto le cantava, ninnandola: 
Fallo e ti lascerò andare senza piangere.
Ed ora siamo noi a versare lacrime di profonda commozione per tanta tenerezza, per tanto infinito silenzioso amore…

(Fine prima parte) 

domenica 22 settembre 2019

22 settembre 2019: "Io sono la tegola traversa" di Lorella Rotondi


 io sono la tegola traversa…

Io sono la tegola traversa,
quella che affabula col cielo
che ascolta il vento
che si gira a guardare le stelle
che osserva il disegno delle nuvole
che sente il caldo del sole
che si bagna alla pioggia.
Io sono la tegola traversa
Quella che dal tetto
sta sempre per cadere,
quella che le sorelle
guardano male
perché le fa sentire
in fila ordinate,
piccole cose di terra
rossa e cotta,
cose di terra.
Io sono la tegola traversa,
quella che mandano
a raddrizzare,
quella da rimproverare,
quella da far ragionare.
Io sono la tegola traversa,
quella che spende il suo ingegno
in cose da poco,
che parla alla gente e  le ascolta,
che scrive poesie
sulle storie che ascolta
che inventa una poesia
per ogni barbaria
per ogni mano che ha spinto male
per ogni amore bestemmiato.
Io sono la tegola traversa
che ascolta musica
legge libri
guarda film
fa piccoli viaggi
da non raccontare agli amici.
Tutta roba piccola,
non potrebbero raccontarlo
ad altri amici.
I miei sono orizzonti poco esotici,
molto intimi.
Anzi prima di andare lontano
con l’aereo e il biglietto e la valigia
qualcuno lascia a me le chiavi
del cuore, di storie, di dolori intimi.
Mi affidano l’anima
come il gatto che non possono portare
ma che non vogliono perdere,
come le piante a casa
che non devono seccare.
Io sono la tegola traversa
che in obliquo c’è quasi nata
e non giudica chi passa
cerca solo di non cadergli sul capo
di non confondergli i pensieri
di non disperdergli i ricordi.
Io sono la tegola traversa
che ti ama per come mi fai sentire
che ti ama per le mani di artigiano,
mani che hanno fatto
la storia dell’uomo.
Artigiano è il colpo d’occhio
del marinaio
È lo scalpello di Fidia
è il pensare di Platone.
Io sono la tegola traversa
la Firenze del Medioevo
che dava riconoscimento alle arti
mentre intorno facevano altro.
Io sono la tegola traversa
quella che hai accarezzato
come il volto di un bambino,
girata e stretta fra le mani
come fossi preziosa.
M’hai guardata a lungo
a lungo davvero,
fino a vedere un’anima azzurra
in questa rossa
tegola traversa.

Lorella Rotondi

Ho letto questa splendida poesia di Lorella Rotondi e mi piace commentarla, così, a modo mio. 
Grazie, Lorella, per questo dono che "ci fa rinascere infinite volte" (La creatività per Erch Fromm)
Un lungo, intenso inno alla diversità creativa che, come "tegola traversa", si fa notare tra le altre tegole bene allineate sul tetto rosso della casa, perché è sempre in bilico e rischia di cadere su qualche vittima innocente nel suo rotolare senza appigli. Nella sua innocenza, che non conosce l'ombra oscura delle tempeste sul mondo alla deriva. 
Eppure, la sua diversità consiste in tanto altro ancora. Lei è in grado, essendo di traverso, di ignorare la terra e di chiacchierare quotidianamente con il cielo e con le sue innumerevoli fiabe, fatte di sole abbagliante e di nuvole bizzarre e mai uguali, di vento chiacchierino e leggero come una danza di parole, e di stelle mai approdate sulle rive dei mari, in cui si specchiano. E di lune che non sono mai fisse e vere, ma sempre mutevoli e capricciose a determinare maree, che quotidianamente inducono a fare i conti con le "piccole cose della terra": le necessità e le futilità, le convenzioni  e le condivisioni realizzate a fatica dall'anima libera da catene e paure. Le incomprensioni, che disgregano l'anima, e le accettazioni, che la pongono al riparo dai rimorsi: l'ordine da rispettare, i favori da elargire a piene mani solo in andata, le piante della vicina di casa da curare in sua assenza, con il micio a cui dare da mangiare in attesa che torni la mamma/padrona. 
La tegola traversa è come un verso scazonte che, nella sua apparente imperfezione, restituisce armonia all'intero componimento poetico e ne dilata i confini. Tra libri, letture, poesie e sogni da attraversare per regalare un sorriso.
È la storia dell'umanità che rinasce. È come la stella cometa che indica la buona strada ai viandanti in cerca di un prodigio, dimentica di essere essa stessa prodigio e incanto. 
La tegola traversa è la pecora nera che segna il confine tra ciò che è normale, banale, scontato e ciò che se ne discosta per dare colore e forma e dimensione al mondo percepito nella sua grigia realtà e vissuto nella rinnovata allegria di due occhi bambini colmi di stupore. È la discrepanza in cui disperdersi e il riconoscimento in cui ritrovarsi. È la vetta su cui svettare e il precipizio da rischiare ad ogni sussulto del cuore.
E ha mani, la tegola traversa, per ricostruire il mondo. Con la determinazione gioiosa degli artigiani che scolpirono la pietra per un Rinascimento ancora da completare... 
Fino a riscoprire quell' "anima azzurra" che è il segreto intimo e infinito del 
DONO immenso della creatività... Della Poesia.
     Angela De Leo

Note bio-bibliografiche
Lorella Rotondi vive a Firenze. Scrittrice, giornalista, poetessa, docente nelle scuole superiori. Ha scritto numerosi libri per  l'Infanzia e l'Adolescenza, guidata dal compianto Livio Sossi, suo e nostro mentore e amico, che qui ingrazio vivamente per averci fatto incontrare una persona di grande spessore culturale e dalla profonda umanità. alcuni libri sulla Shoah e sulle foibe con un'apertura mentale straordinaria. suo è il meraviglioso libro illustrato Perché la Notte  (SECOP edizioni, 2017), che affronta per la prima volta questo delicatissimo tema in un testo dedicato alla letteratura giovanile. Con splendido testo poetico di Lorella, corredato dalle suggestive illustrazioni di Daria Palotti. Ha pubblicato, inoltre, alcune raccolte di poesie e molti articoli su Riviste culturali di vario genere. Con Corrado Faletti una Guida didattica inclusiva per le scuole Superiori di II grado. Le sono stati assegnati, infine, vari prestigiosi premi per le sue innumerevoli attività culturali e professionali.


venerdì 20 settembre 2019

20 settembre 1967-2019


Cinquantadue anni dopo...

Dai corvi neri dei pensieri
mi libero con dita di acciaio
che scavano versi nel sangue
dei ricordi e li scaraventano via.
Non ti fermare al mio sorriso
arcobaleno che si rifrange
nel mare dei sogni inascoltati
è un vizio che non m'abbandona
da quando bambina assordavo
le stelle con la risata del mio dolore
e cantavo oh quanto cantavo
con labbra di papaveri e ciliegi
e zucchero filato per addolcire
il fiele di ogni distacco l'assenza
e spianare la ruga della malinconia
(oggi che i vuoti sono squarci
nel lacerato vestito della festa
lasciami il sorriso di un rattoppo
a fingermi un ricamo d'erba...)

Allora…
                                                         1967
Un matrimonio atteso per circa dieci anni e poi pensato con sospetto, con l’anima in sospensione per troppe delusioni vissute come inganni.
Avevo sognato troppo per non cadere lungo le vie strette e tortuose della realtà. Eri tu il mio modello ed ogni comportamento che se ne discostasse era una ferita.
Venne zio Padre Leonardo ad officiare il rito.
La sera precedente le strade periferiche del nostro paese mi videro con Anna Maria riempirle di lacrime e di pensieri sgomenti. Tutto mi tormentava. La tua assenza. La presenza di tanti che avrei voluto assenti. I giorni dell’amore e della lontananza. E quelli che sarebbero venuti solo per noi nella nuova casa.
’Saremmo stati bene insieme?’
Piovve a dirotto il giorno dopo. Piovvero anche dubbi e timori. Si mescolarono all’acqua che non li lavò. Non li fece scorrere lontano. Mi attanagliarono il cuore nell’attesa del vestito bianco che tardava ad arrivare. Non era ancora pronto ed era stato confezionato proprio per me nel paese degli abiti da sposa. Modello Angela. Con ricami di perline e coralli, che io amavo tanto, a formare delicate margherite sul corpetto e lungo tutto l’ampio bordo dell’abito, morbido sui fianchi ma leggermente svasato alla caviglia. Quei ricami mi ricordavano gli abiti di tua madre. Neri. Eleganti. Indossati nel mio eterno carnevale. Il mio abito era bianco su bianco. Come la mia anima di attesa e di sgomento. Sì, era ancora bianca la mia anima. Dopo le chiacchiere delle comari del vicinato e dopo dieci anni del mio canto d’amore con Primo, ero ancora candore di ali di nuvole di veli, e tenerezza di bianche piume e luminosità di mattini non ancora dischiusi al giorno. Primo aveva rispettato quel candore, quasi fosse un’offesa infrangerlo, macchiarlo
(“Il bianco non colora!”, aveva esclamato la mia nipotina un po’ di anni fa, alle prese con i primi colori della sua vita. Ed io mi sorpresi per la profondità di quella sua scoperta. Sì, è vero, il bianco è la somma di tutti i colori, ma non colora. È foglio in attesa di pennellate perché abbia un senso. Come la vita. Ed io quel giorno ero ancora un colore bianco da pennellare con tutti i colori dell’amore e dei sogni e delle speranze. Dei fiori intatti…). 
In quel giorno di pioggia, Primo, Pinuccio e Nicola si erano avventurati all’alba che diluviava per portarmelo in tempo, quel vestito tanto a lungo sognato, prima che il fotografo venisse per le foto di rito.
Quel giorno il vestito non era pronto come non ero più pronta io a dire il mio sì. Incompiuto l’abito da sposa. Incompiuta io come sposa. Incompiuto il tempo dell’attesa che aveva divorato il tuo tempo.
Mi sembrò un segno che non volli interpretare.
Non avevo dormito quella notte e non avevo potuto sognarti. Non avevo sogni cui aggrapparmi o da cui disancorarmi. Volevo solo fuggire. Avrei voluto non sentire più quel nubifragio di pioggia cattiva abbattersi sul naufragio del sole ad oscurare e sommergere i miei nuovi giorni…
Sull’altare tacqui per tre volte alla domanda “Vuoi tu…?”.
No. Io non volevo. Non sapevo più cosa realmente volevo…
Attimi eterni di panico. Vidi gli occhi di zio Padre Leonardo interrogarmi preoccupati. Vidi Primo tremante e il suo profilo di ragazzo innamorato, pallido e perduto dietro il mio lungo silenzio. Vidi l’altare, i settembrini festosi, nuvole bianche e leggere che vibravano di sogni che ancora sarebbero stati. Le rose rosse indispettite di spine tra tanta innocenza di prato. Immaginai, dal brusio alle mie spalle, volti allarmati e orecchie attente in attesa di quel monosillabo che tardava ad essere pronunciato. Un piccolo monosillabo a racchiudere una promessa così grande. Di eterna fedeltà. Ti vidi seduto alla tua sedia nella cappellina alla sinistra dell’altare. Sentii la tua ansia. L’identica attesa degli altri. Vidi i tuoi occhi d’amore verso nonna Angelina seduta vicino a mamma e babbo e con accanto zia Maria
(“con i sentimenti non si scherza” ti sentii mormorare…)
Contro i miei tre no, pensati in silenzio, mormorai un solo sì. E vidi il mio ragazzo felice. E fui felice. Sì, potevamo essere ancora felici. Sì, saremmo stati felici. Sì, ce l’avremmo messa tutta per afferrare
             Stracci di felicità. Gocce di felicità. Raggi di felicità.
(ttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttictictictictictic t t)
E l’Ave Maria di Schubert e la Marcia Nuziale di Mendelssohn e un suono d’Organo da far volteggiare angeli e sorrisi di cherubini e sguardi d’amore accesi là in alto, dove ora TU e zio Michele e zio fra’ Francesco e nonna Natalizia, i pochi che mancavano all’appello, eravate in quel suono che si riverberava tra cornicioni e vetrate e lacrime di commozione.
             Sì. Eravate ancora in pochi a lasciare incolmati vuoti.
E compare Luigi, svanito nei meandri bui del suo dolore, anche lui presente nella sua involontaria assenza. Tra i banchi vestiti a festa con piccoli cesti di settembrini, nonna Angelina e zia Maria in prima fila ripresero a guardarmi felici ed eleganti, ed erano là ad abbracciarmi con braccia vere e trepide. Tremanti di gioia e di solitudine. Dopo tanta pioggia, comparve il sole e dipinse nel cielo un arcobaleno sognante che mi parve sorridere.          
                         Fummo felici? Non so rispondere.
Continuammo a viaggiare su montagne russe e cieli di nuvole e di sole.
Di piogge e d’improvvisi arcobaleni. La nostra vita. La vita di tutti.

(da Le piogge e i ciliegi, vol. II, SECOP edizioni, 2019, Corato-Bari)




lunedì 16 settembre 2019

lunedì, 16 settembre 2019: Il Potere della Poesia (seconda parte)


Ed ecco anche l’apporto significativo e molto interessante di Vito Di Chio, studioso, saggista, conoscitore profondo della letteratura mondiale, nonché mio carissimo amico, la cui presenza nella SECOP ci onora e ci conforta per il suo instancabile, disinteressato, coinvolto sostegno.
INCONTRO
con un poeta del nostro tempo: Gjekê Marinaj, con la sua raccolta di poesie (SCHIZZI D’IMMAGINAZIONE)  e  con la teoria del Protonismo

Tre pensieri in margine alla presentazione della raccolta:  

1. Di cosa deve occuparsi la poesia?

La poesia risponde a questioni che ancora non sono poste in essere. (Titos Patrikios)
Ecco perché la poesia ci “conduce a verità” (Clemente Rebora), rende la vita più vera, non facendoci fossilizzare in problemi e questioni ormai passate.

2. La poesia: una predisposizione attiva nei confronti della vita...
La poesia è in grado di “potenziare” ogni attimo che passa, le realtà e gli eventi più umili e più semplici della vita e del nostro quotidiano, facendoci discernere ciò che rimane da ciò che ci attraversa. Grandi poeti del secolo scorso, come Szymborska e Titos Patrikios hanno saputo esaltare questo potenziamento dell’attimo. Scelgo come esempio la poesia “Metrò” di Titos Patrikios:

Gli anni poi passeranno
masse di monti e pietra si frapporranno
tutto sarà dimenticato
come si dimentica il cibo quotidiano
che ci tiene in piedi.
Tutto, tranne quell’istante
in cui sul metrò affollato
ti aggrappasti al mio braccio.

Molto sarà dimenticato, ci dice il poeta, escluso ciò che ci ha indirizzato (o costretto) a una predisposizione attiva nei confronti della vita (M. B. Tolusso).
Questo “potenziare” l’istante, votato all’eccellenza, e che in questo caso è rintracciabile nel semplice ricordo di un viaggio in metrò, ha a che fare con il “Protonismo”.
3. La poesia ha una natura politica: è avamposto della coscienza critica.
Un esempio meraviglioso lo trovo ancora una volta nel grande poeta greco contemporaneo Titos Patrikios (1928), combattente nella resistenza greca contro il nazi-fascismo, impegnato politicamente durante la dittatura militare e imprigionato; costretto all’esilio a Parigi e a Roma. Alla domanda “Cosa sarebbe un paese senza poesia” risponde con questi “Versi, 3” dell’anno 1988:
Nessun verso può rovesciare i regimi
Avevo scritto anni prima
E ancor oggi me lo rinfacciano.
Ma i versi assolvono la loro funzione
mostrano i regimi, dicono il loro nome
anche quando cercano di abbellirsi
di rinnovare un poco la vetrina
di cambiare denominazione e insegna.
I versi, anzi, qualche volta sorprendono
i leader in posizioni inattese
sicuri che nessuno li veda
con le mutande ingiallite e aperte
prima d’indossare le brache o i pantaloni
con gambe ossute e pantofole stracciate
prima d’infilarsi le scarpe o gli stivali,
la pancia debordante prima di tirarla in dentro
per abbottonarsi la giacca militare civile
con la dentiera lasciata nel bicchiere
prima di riprovare lo storico discorso,
con la pappagorgia e le guance pendule
prima di alzare il mento volitivo
prima di guardare, perennemente giovani, al futuro.
I versi non rovesciano i regimi
ma certamente vivono più a lungo
di tutti i loro manifesti.
La poesia smaschera la menzogna: ci fa emancipare dalle menzogne della mente (razionalità), dominata dall’orgoglio di orientare la nostra persona e la nostra vita egocentricamente, di farci credere, che l’immagine che abbiamo di noi sia vera.
               Vito Di Chio
Grazie, profondamente grazie, con tutto il cuore grazie, mio carissimo Vito!
E avrei voluto postare anche i qualificati interventi degli altri poeti, scrittori, fotografi, artisti a vario titolo che sono intervenuti nella serata per rendere omaggio a Gjeke Marinaj, ma non tutti avevano con sé una pagina scritta. Molti sono andati “a braccio”, emozionati di essere stati chiamati in causa da Raffaella, senza preavviso e senza che se lo aspettassero. È bastata la parola magica pescata dal misterioso cestino che la moderatrice offriva alle innocenti mani degli intervenuti. “Nostalgia”, per esempio, finita prodigiosamente tra le mani della nostra autrice di origini albanesi, commossa fino alle lacrime per la meravigliosa coincidenza di doverla commentare in perfetta sintonia con l’intimo desiderio delle strade della sua Patria, intensamente avvertito per la presenza di Gjeke tra noi.
E così, via via, per ogni altra parola pescata e commentata. Commosso anche Gjeke, che aveva accanto, come traduttrice, una emozionata Gabriella Basile, attenta ad ogni sfumatura della nostra lingua e ad ogni contenuto di elogio da far assaporare appieno al nostro ospite, incantato e felice.
Poi, a metà serata, il giovanissimo cantautore Mauro Massari ha suonato con la chitarra e cantato per lui una delle più tenere canzoni di Bob Dylan dedicate alla madre: MAMA YOU BEEN ON MY MIND (words and music Bob Dylan).
Forse sarà il colore smorzato del sole/ che copre l'incrocio al quale sto ritto/ O forse è il tempo o qualcosa del genere/ ma cara, ti ho pensato// Non voglio crearti problemi, per favore/ non fraintendermi e non turbarti/ Non mi sto lamentando o dicendo/ "Non riesco a dimenticarti"/ Non cammino avanti e indietro con la testa bassa/ e curvo ma tuttavia cara, ti ho pensato// Anche se la mia mente è confusa/ ed i miei pensieri potrebbero esser limitati/ Non mi preoccupa sapere dove sei stata/ né mi procura dolore/ E nemmeno mi importa/ dove ti sveglierai domattina/ ma cara, ti ho pensato/ Non ti sto chiedendo di dire parole/ come "sì" o "no", ti prego di capirmi,/ non voglio dirti dove andare/ Sto solo sussurrando tra me e me,/ e non fingo di non saperlo/ cara, ti ho pensato// Quando ti svegli al mattino, bimba,/ guarda nel tuo specchio/ Sai che non sarò vicino a te,/ sai che non sarò con te/ Sarei solo curioso di sapere se ti vedi chiara/ come qualcuno che ti ha pensato…
MAMA YOU BEEN ON MY MIND (words and music Bob Dylan)
Perhaps it's the color of the sun/ cut flat An' cov'rin' the crossroads/ I'm standing at, Or maybe it's the weather/ or something like that,/ But mama, you been on my mind.// I don't mean trouble, please don't put/ me down or get upset,/ I am not pleadin' or sayin', "I can't forget."/ I do not walk the floor bowed down an' bent,/ but yet, Mama, you been on my mind.// Even though my mind is hazy an' my thoughts/ they might be narrow,/ Where you been don't bother/ me nor bring me down in sorrow./ It don't even matter to me where you're wakin'/ up tomorrow, But mama, you're just on my mind.// I am not askin' you to say words like "yes" or "no,"/ Please understand me,/ I got no place for you t' go./ I'm just breathin' to myself, pretendin' not that I don't know/, Mama, you been on my mind/. When you wake up in the mornin',/ baby, look inside your mirror./ You know I won't be next to you,/ you know I won't be near./ I'd just be curious to know if you can see/ yourself as clear As someone/ who has had you on his mind.
 Felicissima scelta che Gjeke ha apprezzato moltissimo e con lui tutti noi che ne assecondavamo ritmo e suono a fior di labbra, contribuendo a suggellare un’atmosfera rapita e intima di fratellanza comunitaria e universale. Di ricordi e sogni.
Grazie anche a te, Mauro, sempre grata per il tuo pronto soccorrermi e allietarmi con i tuoi intermezzi musicali in alcune presentazioni dei miei libri.
E, infine, Gjeke, il poeta, il letterato, il docente e l’uomo Gjeke, in tutto il suo folle, iridescente, appassionato, appassionante discorso sulla Poesia e sul suo Potere. Lava incandescente di libertà e cascata zampillante di parole d’amore, è esploso in tutta l’irruenza delle sue convinzioni e conclusioni.
Ebbro e innamorato della Parola innamorata.
Giuro che l’ho visto sollevarsi dal pavimento, estasiato e circonfuso di luce come un dio greco, e prendere il volo…
Mentre noi tutti, nonostante l’ora tarda, avremmo voluto seguirlo per ascoltarlo ancora, ancora, ancora.
E, per fortuna, quando ha concluso il suo volo con parole di PACE per tutti, è ridisceso tra noi comuni mortali, perché ci “immortalassimo” insieme nell’“eterno istante” di qualche scatto fotografico.
GRAZIE, Gjeke, ti aspettiamo ancora tra noi per continuare a sentirci illuminati dalla   LUCE della tua Poesia e della tua Anima.
                                    Angela


domenica 15 settembre 2019

Domenica, 15 settembre 2019: Il potere della Poesia


Ora che la gioia viva dell’incontro ci ha lasciato una impalpabile malinconia per i cinque giorni trascorsi troppo in fretta per sentirli veri, ora mi piace riportare alla memoria, ancora breve, le meraviglie vissute lunedì scorso nella nostra Libreria Secopstore in quel di Corato. Serata magica, dunque, all’insegna della Poesia e della Letteratura italiana e internazionale con la straordinaria presenza (per la prima volta in Italia) di Gjeke Marinaj, il GRANDE poeta di origini albanesi, ma americano di adozione ormai da tanti anni. Tutto il suo ricchissimo, sorprendente, affascinante curriculum vitae e professionale è stato abbondantemente citato su varie Pagine di fb, su testate giornalistiche in formato cartaceo e via web, un po’ dappertutto, in Italia e all’estero, per cui non mi sembra il caso di riportarlo ancora sulla mia pagina. In pratica, basta cliccare il suo nome su Google per sapere tanto di lui.
Penso che sia giusto, invece, ripercorrere per sommi capi l’esperienza prodigiosa vissuta insieme lunedì.
E parto da Raffaella Leone e dalla sua chiara, colta, dettagliata, effervescente Introduzione alla serata di presentazione di Gjeke Marinaj tra noi. Con intensa partecipazione emotiva e tanta dovizia di particolari letterari e storici, ha focalizzato quale possa essere il significato della poesia ai nostri giorni, in un vastissimo e complesso panorama culturale, letterario, umano, e in una società che sembra vivere sui social una fittizia realtà parallela a quella che ci vede protagonisti in casa, nella comunità locale e planetaria in cui realmente e realisticamente viviamo.
Le ipotesi e le tesi, le argomentazioni e le contraddizioni.
Poi, ecco Gjeke Marinaj, seduto in mezzo al numeroso pubblico con la semplicità che si conviene ad un uomo di particolare umiltà e ad un poeta GRANDE di per sé. Con il suo tenero, luminoso, avvolgente sorriso che fa di lui la perfetta incarnazione della sua teoria, il Protonismo, che propugna il “pensiero positivo”, non soltanto nell’ambito della critica letteraria, ma anche in ogni rapporto relazionale e in ogni settore dell’umana esperienza, con la prospettiva di valorizzare quanto di buono possa esserci nella scrittura di ciascun autore, ma anche nella personalità di ciascun essere umano, che è fatto, come ciascun essere umano, di luci e di ombre, di virtù e difetti, di ardimenti e di limiti. Mettendo in pratica cinque semplici regole che Gjeke suggerisce per diventare migliori noi stessi e rendere migliori i nostri simili e l’intero nostro pianeta, oggi così devastato da guerre, palesi e sotterranee, da violenze di ogni genere, dall’imbarbarimento del linguaggio verbale e dello stesso animo umano. La paura serpeggia per ogni possibile (anche se improbabile) nemico, tanto è l’odio sempre più diffuso nel mondo verso ogni diversità, e persino verso ogni altro da noi. Laddove Gjeke viene chiamato, invece, quale ambasciatore di pace e fratellanza tra tutti gli esseri viventi.  E il suo sorriso coinvolgente si sposta tra i vari Continenti per diffondere quella teoria che, nel frattempo, è diventata una disciplina linguistico-filosofico-umanistica, insegnata anche in alcune Università.
Non a caso, alle domande di Raffaella c’è stata da parte del nostro ospite un volo per parlare di quanto gli stava più a cuore: il potere della Poesia e il Protonismo. E lo ha fatto come se rompesse gli argini, essendosi trasformato in un fiume in piena, con tutta la   sua passione viscerale per la parola poetica, con la forza dirompente della sua anima ribelle e libera, e con tutto il suo amore, accogliente e vitale, per gli altri, per la natura, i luoghi amati, la vita stessa.
Fremiti di emozione e commozione condivisa: da alcuni parenti albanesi del poeta, venuti per salutarlo ancora una volta, dopo trent’anni di attesa dal loro ultimo incontro, e dai tanti nostri amici SECOP, poeti, scrittori, docenti, giornalisti, fotografi, musicisti, chiamati da Raffaella, con un gioco divertente di parole “pescate” a caso, ad essere protagonisti tutti, sia pure per una manciata di minuti, della serata. Perché Gjeke Marinaj si sentisse avvolto dal calore e dall’ammirazione dei presenti, sempre più numerosi, attenti, coinvolti.
Giuseppe Fiorello, nostro amico e autore, nonché docente, fotografo e pittore, ha fatto l’elenco di chi ha potuto rendere omaggio al nostro meraviglioso ospite. Ve lo propongo, leggermente modificato per evitare qualche soggettiva interpretazione delle sue schiette parole (ma il testo originale è visibile su fb) perché ne rimanga traccia anche su questa mia pagina:

Il poeta albanese naturalizzato americano Gjekë Marinaj in giro per la nostra Puglia, a Santo Spirito e Lecce con serate organizzate dalla poetessa Rosalba Fantastico di Kastron e il suo compagno Franco Leccese, e a Bitonto e Corato con la SECOP edizioni, per presentare il suo primo libro di poesie in italiano "Schizzi di immaginazione", pubblicato dalla SECOP, e la sua teoria sul Protonismo.
Durante l’ultimo incontro, lunedì 9 settembre, è stato accolto ed omaggiato, nella Libreria Secopstore di Corato, da molti altri autori della stessa Casa editrice.


Angela De Leo
Giovanni Romano
Gabriella Basile
Rosalba Fantastico di Kastron
Dina Ferorelli
Zaccaria Gallo
Valentino Losito
Federico Lotito con la sua compagna Luciana De Palma
Alberto Tarantini
Mario Sicolo
Marino Pagano
Luisa Varesano
Maria Sforza
Mauro Massari
Gianni Brattoli
Giuseppe Tricarico
Tony Rizzo
Giuseppe Fioriello
Benny Caterina
Angela Strippoli
Besa Mone (docente di origine albanese)


                                                  Giuseppe Fioriello

E, dopo la felice Prolusione di Raffaella, ecco la Relazione della sottoscritta:

Schizzi d’immaginazione (SECOP edizione) di Gjeke Marinaj

La raccolta poetica Schizzi d’immaginazione di Gjeke Marinai mi ha da subito affascinato per la “singolarità” e la “verità”, plurale e contraddittoria quest’ultima, l’ironia al limite dell’amaro sarcasmo, la tenerezza colma d’antica nostalgia, la visionarietà onirica e vera.  Sono queste alcune caratteristiche che ne fanno un’opera unica, originale, autentica.
E, del resto, Susan Sontag, scrittrice statunitense pluripremiata, sostiene che tutte le qualità che rendono pregevole o ammirevole uno scrittore possono essere individuate, appunto, nella “singolarità” della sua voce… e nella “verità molteplice” delle sue affermazioni contraddittorie.
“La letteratura - scrive Sontag - è la casa della sfumatura e della contraddizione, che si oppone alle voci della semplificazione”.
È quanto ampiamente connota Schizzi d’immaginazione, in cui c’è tutto Gjeke, con i suoi sogni e le sue perdizioni, il suo amore “affamato” per l’amatissima consorte Dusita e la sua anima buia e martoriata di esule e migrante, metà zingaro e metà eroe, con una visione della realtà tutta calata nelle sue verità più dure e aspre della condizione umana tra violenze, guerre, sradicamenti, lutti, ma anche fiorita di verità più lievi e incantate della bellezza e della speranza, che contempla fuori e dentro di sé. 
Marinaj aggruma spesso le prime con il suo pensiero filosofico, che mai lo abbandona e con la fine penetrazione psicologica nelle pieghe dell’animo umano, oppure le stempera con l’ironia e la poesia che gli appartengono come una seconda pelle, la sua stessa carne, il suo stesso sangue.
Vorrei, a questo proposito, ricordare che lo psicanalista Massimo Recalcati definisce il libro: “mare”, aperto e libero, che porta lontano e permette il lungo viaggio della scoperta e della conoscenza; “corpo”, carne della nostra stessa carne: se ci cattura diventa il nostro stesso corpo; “coltello”, perché dopo il primo colpo (fendente metaforico) per penetrare nelle sue pagine è lo stesso libro che ci ferisce, prendendosi l’anima e tutta la parte più nascosta di noi, perché in esso scopriamo la nostra lacaniana “lalange”: la nostra lingua interiore, il nostro “Io” più vero, quello che risale alle nostre radici e scende nell’humus più profondo della nostra terra.
Ecco qualche verso a testimonianza di tutto questo:
Un tempo col palmo delle mie mani la tua crescita misuravo,//ora altri dai versi che scrivi/ ti misurano.// Sei un poeta/ e oltre i limiti dello spazio giunge il braccio del poeta. (“Una madre parla al figlio poeta”, p. 83);  
 … La ragazza rese il mare più mare./ Il mare fece più poeta il poeta?/ Chi era il mare? - La ragazza, il mare o il poeta? (“Chi era il mare”, p. 115); 
… tutti gli affanni del mondo furono incisi/ sui globi oscuri dei nostri occhi, e i nostri cuori/ impotenti rimasero a segnalare il messaggio del decesso (“Sperando di trovare rifugio in America”, p. 61);
… Vado a portare rose nei cimiteri dei silenzi,/ ma i fiori si mutano in polvere ed io/ non riesco a trovare la via del ritorno… (“Quello che alla terra non ho detto” I, p.129).
… Tu, respiro che spirò la brezza vitale/ attraverso penosi rintocchi d’amore. (“Albania”, p. 47).
Erri De Luca, con Nazim Hikmet, afferma: “il libro dev’essere vento e aprire le tende”. In pratica, va lontano, si ferma e spalanca le tende alla luce del giorno per guardare, contemplare, indagare, scoprire, e restituire, nell’immancabile ritorno, la conoscenza del mondo arricchita di mondi altri, di altre meraviglie (le stesse categorie elaborate da Gjeke nella sua teoria protonica, linguistico-umanitaria, che lo ha reso famoso in tutto il mondo). Con in più la visionarietà, alla quale il nostro Autore si uncina, per sognare luoghi migliori, in cui abitare finalmente rasserenato e in pace con sé stesso, con la natura, con tutti gli esseri viventi, in una continua ansia d’amore, che è attenzione e cura. Un fondersi e confondersi con il Tutto che ci abita e che abitiamo.
Una delle creazioni embrionali di Dio, la baia di Ha Long:// Modello da contemplare e seguire per la natura tutta.// Tiepido magico guscio in cui la terra si fa nido/ di cielo simile al mare e di mare simile al cielo, fluttuante nel nostro universo.// Sono anime esse stesse e hanno anima queste minuscole isole./ Poesie nella poesia.(“Nella baia di Ha Long così appare il mondo, p.15).
E Ha Long è il luogo del cuore, il luogo della poesia e del ritrovarsi del poeta immerso nella bellezza della natura che tanto lo affascina in un abbraccio di sogni senza fine. Il LUOGO che apre e chiude la raccolta in una struttura ad anello che sembra, nella continuità del cerchio, racchiudere l’infinito…
In tutta la raccolta, del resto, si avverte questo respiro della bellezza e del sogno sempre in luminoso agguato. In tutta la raccolta, aleggia un continuo scambio osmotico circolare con i propri simili, fatto di valori perenni e di pensieri e parole sempre nuovi e diversi, che si riconducono alla giustizia sociale e alla solidarietà umana. Si avverte il soffio leggero dell’amore e l’uragano furioso della passione, la malinconica tristezza dei ricordi e la feroce solitudine dell’esule, il dolore per ogni perdita, per ogni orma persa sulla sabbia desolata del deserto del cuore che più volte Gjeke ravvisa nel mondo contemporaneo e che, per sé e i suoi “affini”, scongiura.
È una poesia che racconta il bene e il male, il bello e il brutto, l’odio e la tenerezza, tutti i sentimenti che l’esperienza esistenziale sommuove nell’animo umano. Per questo i versi di Marinaj sono lunghissimi: rivelano i passi numerosi di colui che va perché deve andare e lascia dietro di sé una scia di ricordi, il dolore dello strappo dalle braccia materne, dalla casa, dalle strade conosciute e amate, il vuoto di ogni assenza. E penso alle stupende statue bronzee dedicate ai migranti dallo scultore marocchino, ma francese di adozione, Bruno Catalano.
E ci sono, al contrario, versi che narrano anche i sorrisi incantati e pudichi dell’amore ragazzino e quelli più morbidi e pensosi dell’età matura, quando l’amore è un rifugio, una consolazione protettiva a rimarginare ferite, ad assicurare continuità e serenità di giorni da centellinare piano perché nulla più vada perduto. Stupendi quelli dedicati a Dusita, sua compagna di vita, a sua madre, alla sua terra, patria perduta e ritrovata perché “matria” (Calvino e altri) con braccia accoglienti d’amore e di perdono.
I pianeti sono perle sul tuo collo,/ splendenti della tua perfetta bellezza… Dalla nostalgia di te sono devastato./ Rimpianto vasto come il mare/ Sono gabbiano dalle ali spezzate… Terra mia./ (…) Quanto sento acuto il bisogno del tuo perdono./ Lascia la coppa ricolma dei miei peccati./ (…) solo promettimi che nel mio profondo sonno/ tu sarai la mia eterna/ trapunta di terra. (“Dusita”, p. 39; “Alla madre”, p. 145; “Quello che alla terra non ho detto” III, p.133).
E alla sua terra Gjeke Marinaj dedica un breve poemetto di accorata nostalgia, all’interno della raccolta. Un rimpianto d’anima che lo fa sentire colpevole per averla abbandonata, pur essendo stato costretto a farlo per evitare una morte certa. L’eccezionale delicatezza d’animo del poeta è fatta di “cristalli pieni di lacrime”, di “ali spezzate”, di “coppa ricolma di peccati” laddove tutto si veste, invece, d’innocenza e di “prematura… suadente maturità”. Contenuti profondi di un uomo dalla “biografia spezzata” (Enzo Biagi), che si porta dentro un vulnus di tutti i vuoti di ogni abbandono: c’è sempre un vuoto da colmare, scelto o subìto.
Versi, tutti, che hanno metafore insolite, affascinanti, ardite. A volte a raggiera, a volte a stella cometa; a volte, sono acqua sorgiva e zampillante, altre torrente in piena. Figure retoriche suggestive, dalle personificazioni alle anafore, dai chiasmi ai poliptoti…
E dai tanti versi senza versi esplode improvvisa e luminosa la Poesia.
… In maniche di camicia è uscita la notte… I ferri della calza della sera a maglia lavorano… dove le penne vengono a pensare… dal mare dagli occhi rossi/ che i vivi e i morti annega… anche la sovranità della neve/ sull’erba verde!
E gli spazi sapientemente lasciati per tutte le parole del silenzio, come sostiene Paul Èluard. Le parole mute dell’anima... gli infiniti dentro e fuori di noi che nessuna siepe può cancellare, ma solo leopardianamente dilatare perché il poeta “nel pensier si finge” mondi altri… E i voli, gli abissi, le vittorie, le sconfitte, gli orizzonti slargati e le stelle raggrumate per farsi nido di sogni… i sogni… i sogni che, come i bambini, “sono perle nella collana del tempo”.
Il poeta e aforista francese Alain Bosquet scrive: “La poesia è sangue diventato fiore”
Niente di più vero se leggiamo, commossi e trepidanti, le poesie di Gjeke Marinaj, grondanti sangue che si trasforma immediatamente in fiore, grazie al suo nobile e tenerissimo cuore… che sempre è in fuga e sempre ritorna all’incanto primigenio…
Baia di Ha Long.

Epicentro di bellezza,
Tenerezza incantata,
Risurrezione clandestina
Della Torre di Babele.

                                                        Angela De Leo

                            Sketches in Imagination by Gjekë Marinaj

Gjekë Marinaj's book of poems Sketches in Imagination enthralled my imagination at first sight for its "uniqueness" and "truthfulness" – the latter multi-faceted and almost self-contradictory –, for its irony verging on bitter sarcasm, for its tenderness full of ancient nostalgia, its onirical, true dream-like quality. These are some of the features that make this book an unique, original, genuine work.
Susan Sontag, the multi-award winner american writer, maintains that all the qualities that make a writer laudable or worth of admiration can be pinpointed, indeed, in his/her "unique" voice... and in the "multi-faceted truth" in his/her contradictory statements.
"Literature", writes Sontag, "his the home of nuances and contradictions, opposing the sirens of simplification".
This is the main feature of Sketches in Imagination, a work that contains the whole of  Gjekë, with his dreams and perditions, his "hungry love" for his beloved wife Dusita, his darkened, tormented soul of exile and refugee, half gipsy and half hero, his outlook of reality fully immersed into the hardest, harshest truths of the human condition among violences, wars, forced displacements, griefs but also flourishing of the more delicate, enchanted truths of beauty and hope, which he contemplates both outside and inside himself.
Marinaj often lumps all the bitter truths in his ever-present philosophical thought with his keen psycological intuition of the flexions of the human mind, or dilutes them with the poetical irony that belong to him as a second nature, like his own flesh and blood.
I would like to remind that the Italian psichoanalist Massimo Recalcati describes a book like "a sea", an open, high sea, who opens unlimited horizons and makes possible the long voyage of discovery and knowledge; like "a body", flesh of our own flesh: if it captures us it becomes our own body; like "a knife", because after the first blow (a metaphorical cutting) we give to get through its pages, it is the book which wounds us, taking hostage our soul and the innermost part of us because we discover in it our Lacanian "lalange": our interior language, our real self, the self which goes to the roots and digs into the deepest humus of our soil.
Here are some verses as an example of the above:
... Once I measured your growth by the palms of my hands. / Now others measure it / by the lines you write. // You are a poet / and the poets’ reach extends beyond the edges of space.("A Mother Speaks to her Poet Son", p. 83);
... The maiden made the sea more sea-like./ The sea made the poet more of a poet. / Who was the sea? - the maiden, the sea, or the poet? ("Who Was the Sea", p. 115);
... All the cares of the world are etched / on the dark globes of our eyes, and our hearts / are powerless to signal the message of their decease. ("Hoping to Find Refuge in America", p. 61);
... I go to put roses in the cemetery of silences, / but the flowers turn into dust and I / cannot find my way back… ("Things I Had Not Told The Land", i, p. 129);
... You, the breath that blew the life's breeze / through  painful chimes of love. ("Albania", p. 47).
Erri De Luca, along with Nazim Hikmet, declares: "A book must be a wind which opens the courtains wide". Indeed, it travels far and wide, it stops to open the courtains wide in broad daylight watching, contemplating, inquiring, discovering, and giving back, in its inevitable return voyage,  a knowledge of the world enriched by diverse worlds, diverse marvels (the same categories developed by  Gjekë with his linguistic-humanitarian Protonistic theory which made him famous all over the world). Adding the poet's visionary capability, to which our Author is firmly hooked, dreaming of better places in which to dwell at last, calmed down in peace with himself, with Nature, with all living beings, in a perpetual yearning for a caring, attentive love. Melting and blending himself in the Whole which dwells into us, and where we dwell.
Ha Long Bay must have been one of God's embryonic creations / A model for the rest of the natural world to see and follow / A warm magic shell for the Earth to incubate its core / Made of sea-like sky and sky-like sea floating in our universe. // These tiny islands have distinct souls and are souls themselves / They are poetic compositions and compose poetry of their own. ("So It Seems, at Ha Long Bay", p. 15).
Ha Long is a place of the heart, the place for poetry where the poet recovers, immersed in the natural beauty that so fascinates him, in an unending embrace of dreams. This is the opening and closing Place for the book, enclosing it in a ring-like structure which seems, in its circularity, to enclose Infinity itself...
Along the whole book, indeed, one can feel this breath of beuty and dreams, always ready to surprise us with their bright ambushes. Along the whole book lingers a circular, osmotic exchange with the other fellow creatures, an exchange of perennial values and ever new, different thoughts and words, rooted into social justice and human solidarity. One feels both the light breeze of love and the furious tempest of passion, the melancholic sadness of the memories and the harsh loneliness of the exile, the grief for every loss, for every trace lost on the desolate sand of heart's desert which  Gjekë recognizes many times in the contemporary world and which wards off for himself and his "kindreds".
His poetry narrates of good and evil, of beauty and ugliness, of hate and tenderness, of all the feelings that the existential experience agitates inside the soul. That's the reason why Marinaj's verses are so long: they reveal the many steps of who goes because he has to go, leaving behind a furrow of memories, the pain of being ripped from his mother's arms, from his home, from the familiar, loved streets, thrown in the void of every absence. I am thinking of the magnificent bronze statues of migrants by the Moroccan sculptor, but French citizen, Bruno Catalano.
There are, conversely, the poems which narrate also of the enchanted, modest smiles of adolescent love, beside the softer, more pensive ones of maturity, when love is a refuge, a protective solace for healing the wounds, for assuring a quiet perennity of days to savor one by one so that nothing goes lost anymore. Splendid are the poems dedicated to Dusita, his wife, the ones dedicated to his mother, to his land, a fatherland lost and found again because it's the "motherland" (according to Italo Calvino and others) ready to embrace him with love and forgiveness.
The planets are like beads on your neck, / luminous with your wholesome beauty. ... I’m devastated by the longing for you / A longing broad as the sea / And I am a broken-winged gull... Land of mine, / (...) As keenly as I need your forgiveness. / Leave the brimming cup of my sins / (...) only promise me that in my deep sleep / you will be my permanent / earthen quilt. ("Dusita", p. 39; "To Mother", p. 145; "Things I Had Not Told The Land", iii, p. 133).
To his motherland, Marinaj dedicates a short poem full of aching notalgia. A regret of his soul that makes him feel guilty of having abandoned it, in spite of having been forced to do so in order to avoid certain death. The poet's extraordinary sensitivity of character is made of "crystals full of tears", "broken wings", "a coup brimming with sins", where all is made, on the contrary, of innocent and "premature... mellowing maturity". These are the innermost subjects of a man with "a broken biography" (Enzo Biagi) who carries into himself the vulnus of all the voids, of every abandonment: there is always a void to be filled, either chosen or suffered.
All these verses contain unusual, fascinating, bold metaphors. Sometimes like a sunburst, sumetimes like a comet's tail; sometimes they are like springing, gushing water, sometimes like an overwflowing torrent. Evocative rethorical figures, from personifications to anaphoras, from chiasms to politpthotes...
From all those verses without verse, Poetry explodes, sudden and bright.
The night stepped out in short sleeves ... / Evening’s knitting needles stitch foggy fabrics... /  Where the pens come to think / in the red-eyed sea / that drowns the living and the dead... even the sovereignty of snow / over the green grass!
Not to speak of the spaces skillfully left for all the words of silence, as Paul Eluard claims. The silent words of the soul... the infinities outside and inside us that no hedge can obliterate, only broaden Leopardi-like because the poet "fakes himself in his thoughts" otjer worlds... And the flights, the abysses, the defeats, the boundless horizons and the stars lumped together to became a nest of dreams... dreams... dreams that, like the children, "are the pearls in the necklace of time".
The French poet and aphorist Alain Bosquet writes: "Poetry is blood become flower".
Nothing is more true if we read, as touched and trepidatious readers,  Gjek' Marinaj's poems, dripping blood immediately becoming flower, thanks to his noble, sensitive heart... always on the run and always returning to his pristine lure:
...

Ha Long Bay.

Beauty’s epicenter,
Serenity’s affection,
Tower of Babel’s
Covert resurrection.
                             Giovanni Romano
Ringrazio dal profondo del cuore il prof. Giovanni Romano per la pronta disponibilità nell’accettare senza esitazioni la mia richiesta di tradurre il testo; per la solerzia davvero sorprendente nel consegnare il non facile lavoro, svolto con competenza e passione, in appena due giorni; per la puntuale e preziosa traduzione. 
“Sia lode al merito”!
                        (Fine prima parte)