venerdì 31 maggio 2019

31 maggio: prima che le rose sfioriscano


Lacerato anno di guerra quell’anno
e un maggio ignaro truccò guance di rose
e rise con rosse labbra di rossi papaveri.
Mia madre appena ragazza, malinconia
di passi lontani e mio padre al fronte,
si stancò di contare quattro volte sette
e mi affidò alle prime stelle di una quasi sera.
Braccia tremanti di emozione, di tenero amore
e pianto celato, alla settima alba…
(Tu che sei nata dove c’è sempre il sole
Sopra uno scoglio che ci si può tuffare
E quel sole ce l’hai dentro il cuore
Sole di primavera
Su quello scoglio in maggio è nato un fiore…)
Quercia mio nonno, candela accesa la madre
di mia madre, avvolsero di tepore e promesse
mani in volo e fagottino di sogni da sognare.
Al fonte battesimale devoti s’inginocchiarono
e Angelina mi diedero nome, fuscello io
di un prato sconfinato di papaveri e rose d’amare.
A sette anni appena mi prese Gesù per mano,
l’amico sconosciuto, l’amico inventato, l’amico
obbligato con preghiere a metà, ripetute
a fior di labbra, suggerite dalla sorellina fidata
con cui dividere la stanza, il letto, la bambola.
Bambola grande, testa rapata, furia di gatto,
e parrucca bruna e cuffia rosa e stessa casa.
Come è bella la bambola mia,
quasi quasi è più bella di me…”
- È troppo piccolina. Pazienza ci vuole. Imparerà -
Dicevano per giaculatorie dette male e parole
maliose, e puntigliose bugie per farmi perdonare:
Sacro Cuore di Gesù,
fa’ che io t’ami sempre più…”.
                      Imparai
il vuoto incolmato di mia madre,
Principessa e Regina di ogni attesa.
L’assenza di mio padre e degli altri quattro
nati dal fluviale e immarcescibile loro amarsi.
Amore vuol dir gelosia
Chi mai t’amerà più di me?...”
Così sempre li unì l’ardente sua passione.
A diciassette, oltre il ragazzo dimenticato,
l’AMORE, ali di mare e vele d’ingenuità
tra baci rubati all’ombra del castello
che Manfredi ebbe in dono da Federico
e sua madre Bianca.
Bianca la mia anima di candore in dono
al mio ragazzo, ciuffo ribelle cuore ballerino.
C’è gente che ha avuto tante cose
E si perde per le strade del mondo
Io ho avuto solo te e non ti perderò…”
Come te non c’è nessuno così timido e solo
Nei tuoi occhi profondi io vedo tanta tristezza…”
Con lui le mie difficili ventisette primavere
ebbero sorriso di bimba di mille e più parole.
E prepararono un nuovo nido e altre stelle:
- Stella stellina un’altra bimba s’avvicina…
Ma quante belle figlie madama Dorè.
C’è anche un figlio tutto per me? -
E giunse il figlio mia felicità, ne persi un altro
in una casa stanca e in una tristezza di cielo
che non voglio più ricordare.
Con te dovrò combattere,
non ti si può pigliare come sei…
Ma… in un attimo tu
sei grande Grande GRANDE
come te sei grande solamente tu…”
E nuovi occhi di bimba a darmi calore
prima dello scadere dei trentasette soli.
I quarantasette furono di fatica e pena e
di voli grandi e ali dispiegate su oceani
di poesia. Incontri di Scrittura ritrovata.
Dopo secoli d’abbandono smemorato.
Magia dell’anima incantata e dei tanti amici.
Cantava Anna Maria i nostri versi innamorati
che fecero gloriosi i tanti incontri stupiti.
          E Fiaba fu la nostra vita in fiore
A cinquantasette inverni ero già franata
in abissi improvvisi di rimpianto e dolore.
In cliniche nemiche passi di danza dimenticati.
Bui i miei cieli bui senza santi né perdoni.
Senza più passi e senza più canzoni.
In tanta amarezza esplosero nuove vite.
La casa accesero di nuovi colori tra pensieri
inariditi. Gioia e tenerezza ingigantite.
Fioriti rami del nostro albero senza nidi
e figli lontani. Nicola e Anna Paola, miracolo
di sogni intatti da riconsiderare.
Migrarono ancora anni contro vento
verso un addio temuto e annunciato
prima che i sessantasette soli spenti
mi presentassero il conto.
Je ne regrette rien…”
Andò via il mio ragazzo/marito/padre/nonno,
salutandomi Amore, ti aspetto. Amore mio.
- Ti ho amata sempre e tanto. Non dimenticarlo -
(“Quanto ti ho amato e quanto t’amo non lo sai
e non lo sai perché non te l’ho detto mai…”)
**************************************
È ancora maggio ancora rose in festa nel giardino.
Ridono papaveri innamorati al sole come allora.
- Chi mi ama tra i miei tanti amori? -
Settantasette conta il gioco dimenticato di corolla
da far scoppiare sotto i capelli e tra le dita:
- Indovina l’iniziale di rosso sigillo:
chi sulla fronte ti ha lasciato il segno? -
Tra mani di rara solitudine i miei nuovi anni
pieni di tutti quelli che amo riamata,
privi di tutti quelli che amo riamata.
E le stelle questa sera non pareggiano il conto.
Presenza di quanti adornano la mia festa.
E carezze invisibili mi donano ancora Amore.
Volano occhi a cercare sulla soglia dell’infinito
     tutti i miei cari che mi cantano dentro
               E tu ci sei… e tu… e tu… e tu…
Inutile contare fino a settanta volte sette
ormai siete molti di più, molti di più…
(Incorreggibile, credo ancora
nell’influsso positivo del misterico numero primo
(sette le meraviglie del mondo sette i giorni
della creazione sette i vecchi ladroni e sette i sette
nani sette i giorni della Creazione e sette i giorni
della settimana sette le scarpe a portarmi lontano
sette i passi stentati che mi lasciano per strada)
ed è per questo che festeggio con insolita allegria
questi amati/odiati Settantasette anni
(e con me danzano “gambe di signorine” in gioco
con i numeri di Natale e la sua voce…)
Con i figli romani nella Capitale di gioiose intese.
Mancano gli altri e i loro germogli in fiore
presenti sempre nell’albero del cuore.
Presenti agl’inarginabili fiumi delle parole mie:
a mille a mille a incatenare ricordi e nostalgie.
Calore luminoso di mai spente presenze
a rendere chiari ancora giorni di speranza.
E luminose le notti di mai ignorate stelle…
Settantasette volte GRAZIE alla mia buona Stella
           (È questa oggi la mia preghiera più bella)
Così, "un po' per celia e un po' per non morire"... 
                   e piangere/ridere di me! 
















martedì 28 maggio 2019

28 maggio 2019: i miei 77 con un DONO di Marisa Carabellese


Mi giungono dalla mia carissima amica Marisa Carabellese gli auguri per il mio compleanno con questa sua recensione al primo volume del mio romanzo Le piogge e i ciliegi, pubblicata su <Filo Diretto>. Non mi poteva fare regalo più gradito. Ed ecco che sento il desiderio di parteciparla ai lettori del mio Blog anche perché oggi a Roma, in prima nazionale, presento il secondo volume che completa l’opera. Spero che abbia il bellissimo riscontro del primo. Incrocio le dita! Domani parlerò dei miei 77. Prima li festeggio!!!
Angela De Leo, LE PIOGGE E I CILIEGI (SECOP Edizioni, 2018, p. 424, euro 18)
Bernard Berenson, ebreo lituano naturalizzato americano e italiano di adozione, è stato uno dei più importanti studiosi della critica d’arte, il più grande esperto della pittura italiana del Rinascimento; molti hanno sentito parlare del suo metodo e di quelli che egli stesso definisce “i valori tattili”.
Scriveva Berenson: “I valori tattili si trovano nella rappresentazione di oggetti solidi allorché questi non sono semplicemente imitati (non importa con quanta veridicità), ma presentati in un modo che stimola l’immaginazione a sentirne il volume, soppesarli, rendersi conto della loro resistenza potenziale, misurare la loro distanza da noi, e che ci incoraggia, sempre nell’immaginazione, a metterci in stretto contatto con essi, ad afferrarli, abbracciarli o girar loro intorno”.
I valori tattili, insieme al movimento, sono dunque le qualità che permettono ad un oggetto raffigurato di essere percepito come esistente.
Berenson riteneva che Giotto fosse maestro supremo nello stimolare la coscienza tattile. Se paragoniamo la Maestà di Santa Trinita di Cimabue e la Madonna di Ognissanti di Giotto, il discorso è chiarissimo.
 Il libro di Angela de Leo stimola quella che Berenson chiama “la coscienza tattile”.
La pioggia vi bagna davvero, la sentite sulla pelle, e le ciliegie…a quelle casse di ciliegie distribuite ai vicini ci potete girare intorno, e potete prendere furtivamente una di quelle ciliegie e sentirne il profumo, inebriarvi della sua dolcezza, morderne la polpa e sentirne il turgore…
I personaggi Angela, protagonisti o rapidi bozzetti, sono di una straordinaria evidenza plastica: prendete il ciabattino. Non so se i più giovani abbiano mai portato un paio di scarpe a riparare (ora si getta via, non si ripara più), e chissà perché i ciabattini lavorano sempre in sgabuzzini in penombra, mettono una manciata di chiodini in bocca e contemporaneamente parlano col cliente. Da brivido. Ma leggete poi come questa immagine plastica con Angela acquista poesia.
 Molti, molti anni fa ho fatto un sogno, non lo ricordo, non so esattamente che ho sognato, ma continua a turbarmi: sognavo di essere nella quarta dimensione.
Non ho intenzione di scrivere di Fisica quantistica o di stringhe ecc.. non ci capisco niente, ma posso dire che in fisica, e in particolare nella teoria della relatività, la quarta dimensione è riferita al tempo. La definizione è di Einstein: la quarta dimensione è il tempo. Può essere immaginata come una linea che connette quello che facevamo un minuto fa con quello che stiamo facendo adesso.
Noi, però, non siamo in grado di vederla nella sua totalità perché viviamo nella terza dimensione, quindi il tempo lo vediamo istante per istante senza poter vedere la sua interezza. Noi, esseri tridimensionali, vediamo solo sezioni del nostro io quadridimensionale. In termini ancora più ampi, la quarta dimensione può essere vista come la linea che connette il Big Bang con la fine del nostro universo. “Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il tempo; è una tigre che mi sbrana e io sono la tigre; è un fuoco che mi divora e io sono il fuoco” (Borges).  Il discorso mi riguarda da vicino come artista perché voglio scrivere molto brevemente di una corrente artistica che conoscete tutti: il Cubismo, che ha come esponenti principali Picasso, Braque, Fernand Léger, di cui tutti avranno visto qualche opera, magari con non troppo gradimento, ma questa è stata indubbiamente una corrente rivoluzionaria. Nella pittura cubista gli oggetti sono ripresi da differenti angoli visuali, scomponendo e ricomponendo l’immagine e quindi l’osservazione del soggetto introduce un nuovo concetto: il tempo. Ma… nihil sub sole novi… Picasso sosteneva che la pittura egizia usava sistematicamente la regola base del cubismo, rappresentando la figura umana frontalmente - l’occhio e le spalle - e lateralmente il profilo del volto, il fianco e le gambe.
Il libro di Angela ci porta nella quarta dimensione. Con i suoi salti temporali che si intrecciano, si sovrappongono, passato e presente sono su una stessa linea.
E diventiamo così noi i padroni del tempo, il tempo che possiamo rivivere e tornare a far nostro. “Questa è la storia di un viaggio nel tempo a dimensioni multiple, come i multipiani dello spazio e della nostalgia” (Raffaella Leone).
Questo libro è come un diamante dalle tante sfaccettature e ciascuno di noi si rispecchia in ciascuna o in molte di esse, e allora il tempo non scorre  più in una sola direzione, ma in tante direzioni. Scrive la stessa Angela De Leo: “…era il momento della magia delle parole. Potenza delle parole e potenza della fantasia. Io mi prendevo la mia piccola rivincita. Scoperta meravigliosa e insostituibile la narrazione: le parole erano iridescenti bolle di sapone che volavano e fluttuavano nell’aria con mille capriole, più divertenti e affascinanti di mille giochi. La mia testa tra le nuvole ritrovava finalmente il suo habitat naturale. La sua dimensione. Il suo appagamento. La sua felicità. E dimenticava ogni limite. Ogni vuoto. Ogni disarmonia. Ogni mortificante realtà”.
Il libro di Angela è ancora come uno scrigno prezioso, o un baule, una cassaforte, in   cui Angela ha riposto i nostri ricordi: anche noi facevamo così, anche in casa nostra c’era questa o quella tradizione, e i suoi ricordi d’infanzia, raccontati con leggerezza e autoironia, ma quanta amarezza nascosta. Come quando scrive del dolore dei bambini che non va mai sottovalutato. Il trauma della prima confessione, l’essere mancina, la scuola che non sempre sa accogliere bambini particolarmente dotati…
Si potrebbe continuare a lungo, ma a questo punto, … meglio leggere il libro!
Angela de Leo, scrittrice, poetessa, critico letterario, è una delle voci più alte e autentiche della nostra poesia. Dirige le collane di poesia e narrativa della SECOP Edizioni (Corato, Bari). Ha pubblicato oltre 15 raccolte di poesia, un libro di racconti, un romanzo, un saggio di critica letteraria. Alcune sillogi di poesie sono state tradotte in serbo, altre in albanese, rumeno, spagnolo, greco, inglese.
                                                        Marisa Carabellese
                                                                  




















venerdì 24 maggio 2019

24 MAGGIO 2019: IL PIAVE MORMORAVA


A scuola, imparammo a cantarla dai primi anni delle elementari ed era una gioiosa marcetta che ci faceva assaporare il primo tepore di una primavera ridente e colorata, con le rosse ciliegie saporite da mangiare e da portare in giro con allegria, quando erano gemelle, appese alle nostre orecchie come rubini pendenti e innamorati. Non sapevamo nulla del Piave, della guerra che i nostri nonni avevano combattuto nei primi anni del secolo. Il nostro secolo, che ci aveva visto nascere già immerse nel clima triste di un nuovo conflitto mondiale, di aerei alti nel cielo e di sirene per le strade per esortarci a correre nei sotterranei rifugi. Tutto ci sfuggiva. E tutto c’incantava. E quel “Piave mormorava…” ci piaceva.
Il nonno raccontava…
Oggi mi piace ricordare “La leggenda del Piave” con più realistiche chiavi di lettura. La passione per la poesia e per la musica del suo autore autodidatta, Ermete Giovanni Gaeta, più noto con lo pseudonimo di A.E.Mario, che la compose in tre momenti diversi della nostra guerra contro l’esercito austriaco, che fu eroicamente bloccato dal contingente italiano sulle rive di un Piave, rigoglioso di acque e baldanzoso di audacia bellica (S'udiva intanto dalle amate sponde,/ sommesso e lieve il tripudiar dell'onde./ Era un presagio dolce e lusinghiero,/ il Piave mormorò:/ Non passa lo straniero!). E lo straniero non passò. La sconfitta di Caporetto divenne solo un triste episodio da dimenticare (Ma in una notte trista/ si parlò di un fosco evento,/ e il Piave udiva l'ira e lo sgomento.../ Ahi, quanta gente ha vista/ venir giù, lasciare il tetto,/ poi che il nemico irruppe a Caporetto!). E il giovane e squattrinato autore e compositore poté, fiero del coraggio italico, così concludere: Sicure l’Alpi… Libere le sponde…/ E tacque il Piave: si placaron l’onde…/ Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,/ la Pace non trovò/ né oppressi, né stranieri!
La patriottica canzone fu completata dal suo Autore nel 1918, a guerra finita, pur ricordando episodi storici del 1915, a cominciare dall’ingresso dell’Italia nel primo terribile conflitto mondiale, ma la grande diffusione della canzone negli anni a venire non procurò agiatezza economica a E.A. Mario, nonostante abbia in seguito scritto innumerevoli canzoni della tradizione poetica e romantica napoletana. Canzoni, che lo hanno reso meritamente famoso in tutto il mondo. Morì praticamente povero.
Oggi probabilmente la sua vita sarebbe stata completamente diversa… Sarebbe bastato qualche passaggio radiofonico e televisivo o sui social per renderlo ricco e famoso. Accade sempre più spesso, anche con i giovani di scarso talento, ma di sicura intraprendenza.
La sua canzone è, però, rimasta immortale, trascinando con sé lo stesso Piave che, altrimenti, per la vittoria sugli austriaci avrebbe avuto vita breve. Tutta la Storia ormai dimenticata. E lo dico con grande amarezza. Venuta meno la conoscenza dei fatti storici del passato, viene meno anche il senso del presente. Vengono meno gli stessi sogni e progetti per il futuro. Tutto si è appiattito nel “qui e ora”. E anche il Piave ha perso la sua storia e il suo vigore.
Mi è capitato alcuni anni fa di passare attraverso i luoghi del suo scorrere “calmo e placido” e di notare, con profonda amarezza, il suo letto quasi del tutto prosciugato e profanato. Mi sembrò di attraversare un sacrario devastato dall’incuria degli uomini e dalla indifferenza della natura. Solo i morti ora mormoravano, offesi dalla nostra dimenticanza… Ed erano giovanissimi ed erano forti e con una vita tutta da vivere e tutti i volti dell’amore ancora da scoprire…
Oggi non so più. E non ho neppure il coraggio di informarmi. Ci sono luoghi, ambienti, cose, atmosfere che si vorrebbero conservare intatti nel tempo per fare quasi riserva preziosa di un tempo definitivamente trascorso e che non può più tornare se non nel ricordo, che tutto rende più bello tanto da velarsi di malinconica nostalgia.
Ed è tutta qui oggi la mia “nostalgia del futuro”. Perché per me il passato è sempre un futuro capovolto, che possiamo rendere migliore. Basta crederci e… volerlo. A partire da un rinnovato studio/amore della Storia e soprattutto della storia dei piccoli uomini che fanno grande la nostra umanità!

























lunedì 20 maggio 2019

POESIE DI MAGGIO di Angela De Leo


Sono passati alcuni anni dalla pubblicazione della mia ultima raccolta poetica L’ora dell’ombra e della riva (della SECOP Edizioni) ma, rileggendo alcune poesie dedicate al mese di maggio, mi sono accorta che nulla è cambiato in me e nel mondo e che persino la pioggia continua a rendere questa primavera solo un desiderio e un’attesa. E, allora, le ripropongo. Per chi non avesse mai letto il libro. Per chi sa che la primavera prima o poi ritorna. E rende leggero il cuore…
Nata di maggio                     
                                           Se quel che insistiamo a chiamare
                                           Fato sembra inspiegabile e crudele
                                          È soltanto perché
                                          Manchiamo d’immaginazione
                                         Per desiderare quel che con sé porta
                                         Per illuminarlo con qualcosa di più inventivo
                                        Dello sgomento.
                                                                    (John Burnside)                                                                 
Nata di maggio
appartengo ai colori accesi
di papaveri rose tulipani
Profumo di scalpitante
allegria mi arde nelle vene
percuote questo autunno
che cede all’inverno
i tramonti suoi dorati
In abissi di taglienti lame
riafferro il mio arcobaleno
distrutto e sempre rinasco            
- Culla tra le tue mani calde                                                          
le mie vili attese del sole
scaccia i miei pensieri di neve
cancella quella ferita rosso fuoco
che soltanto sogna di farsi risata -

(tra ridenti labbra di fragole e ciliegie)



Ritornano sinfonie di rose blu

C’è come una festa di ali
in questo tiepido pomeriggio
di piena primavera con rose
che tornano a ridere in giardino.
Petali blu franano lungo pareti
trasparenti del vaso sul tavolo.
Dipingono di voli i miei occhi.
Nell’azzurra penombra ricordi
s’affacciano dai sotterranei
della mente in lotta col cuore
- sinfonia d’archi flauti e violini -.

(solo la musica è immortale?)

Volteggiano mezzelune gialle
comprate al mercato delle pulci
sul mio capo di nuvole e sogni
nella camera che ha per cappello
il cielo e una fronte quasi obliqua
che di sole sghimbescio colma
pensieri e cautamente l’infutura.
La bambola di organdis e bisquit
mi guarda preziosa più del ricordo.
Dono di tenere mani, il suo sorriso
di corallo mi consegna un rimpianto.

(solo il ricordo ci rende immortali?)

Guardiana del tempio dell’amore
ho perso il filo del mio starti accanto.
Da lunghe braccia giovani circondata
misuro ormai il mio tempo arreso
dalle loro corse alle attese primavere
avare ora per me di fiori erbe chimere.
“L’amore è nostalgia” decretò Freud
con occhi di nebbia rivolti al passato.
Darei il mio regno di carta stampata
per un (in)canto d’amore a perdifiato
che coniughi il mio tempo all’infinito.

(può l’amore rendere immortali?)

Agli inganni della mente lama affilata
che in opposti macigni taglia il pensiero
- e buone intenzioni e incontri ferisce -
io del cuore salvo le antiche ragioni
di Pascal e il suo esprit de finesse:
rami fioriti di fresca primavera pini
svettanti e fragranze di tiglio e cedro
che imbrigliano ali e le dispiegano.
Non omnis moriar per noi Orazio cantò.
Se la Parola è monumento aere perennius.
Se Musica Memoria Amore è il VERBO…

(rose blu sinfonia di saggezza e sogno
   illusione di preludio all’eternità)


Scroscia a maggio la pioggia                           
                                                 Sono qui seduto su un tappeto
                                                 di  foglie e fiori di primavera
                   
                                                 e il mio silenzio è una preghiera
                                                 ed ho con me la coppa e il vino                                                                          (Giuseppe Conte)
S’abbatte sui tetti rossi e i lucernari
(“riccioli rossi” e occhi di cristallo)
un cielo liquido che frana di gocce,
e di terra bagnata e di rose profuma.
Richiamo a gloria di campane l’alba
della domenica, giorno del Signore.
S’infrange di pioggia e cinge il capo
non d’alloro come s’addice ai poeti
ma di mirto e d’uva come vogliono
amore e follia, ebbrezza e sogno
che un giorno m’appartennero
come ago e filo, sonno e cuscino,
fiamma e calore, come ti dissi,
“dorso e palmo della stessa mano”.
(ma la pioggia dilava campane e ricordi)
Il giardino è scintillio di petali d’acqua.
Agli occhi mi dardeggiano,
di rosso e di giallo,
rose tulipani papaveri e fresie
e un canto di foglie di un maggio
che s’affretta a donarmi
un altro anno di tormenti e magie,
di silenzi e frastuoni, di pause e poesie.
Cadono petali di cielo
sul glicine blu innamorato
di trine e ricami agli altari sconsacrati,
che lavano capricciose nuvole
al respiro degli arcobaleni.
E nuove ali ricamano i miei giorni di sole.
Lontano il mondo dei violenti e dei folli,
degli assassini in marcia
per “prendere il potere” ad ogni costo,
 e Brecht il denaro e i bimbi violati
e la bellezza umiliata.
Rumore che assorda, smog che uccide.
Lontano Caino che si finge Abele
e ogni Abele massacrato senza pietà
perché Caino trionfi ancora
ed abbia altari e onori e moltiplichi
i trenta denari di Giuda.
Per vantarsi dell’agnello innocente
sgozzato
e nuovi riti pagani via etere
con foto e video a stordire menti
e rattrappire l’anima, il cuore.
E fingere un niente di sentimenti
in liquida fuga
per negare il limpido candore
delle mani intrecciate.
(la pioggia lava colpe e misfatti
lava ferite e tormenti la pioggia)
Sapeva di pioggia, di gelsi, di rose
e di gatti il mio cortile,
sapeva di sere chiare di stelle,
di fiabe e misteri,
voli d’angeli, riso di cielo.
C’era sempre, nella voce
di mio nonno, una fata buona,
uno gnomo innamorato. E ci fu
un cavaliere gentile e coraggioso
che, in una sera di pioggia, trovato
aveva rifugio nel castello del re
quando con doglie di madre la regina
s’affidò al suo canto per avere un figlio.
Cantò il cavaliere per tutta la notte,
per tutta la notte il cavaliere cantò
purché da bere gli dessero
e da mangiare.
- Piove e lascia piovere
ché al coperto mi trovo
nient’altro chiedo per me.
Il mio cavallo s’asciuga.
Signore un bel bambino dai
alla regina e al potente mio re… -
All’alba di sole e pianto di bimbo
lo videro felice sul suo bianco destriero
lo videro correre con occhi di sogno
tuffati nel suo cielo arcobaleno,
grande quanto grande il suo cuore
bambino…
(ritornano di pioggia e di vento
le sue magiche parole che sotto
il piombo di giorni di sgomento
raccolgo in un canto d’amore
 e del sogno che non può morire).

Non so vivere
                                                                            
non so vivere
come quelli che non nacquero mai
che vanno ad occhi spenti per il mondo
- avide mani tra oggetti impolverati
carezzano denaro schiaffeggiano vento -
Non so nutrirmi di ideologie
vesti desuete e disperate
che fingono bandiere multicolori
e ignorano sorrisi
in assalto contro nuovi lidi
- tormento di molteplici verità
alla ferocia del pensiero unico -
Amo l’idea nastro colorato controvento
libera io di essere libera
su bianche vele lontane dalla rada
Nella pratica delle ore quotidiane
non so stabilire record di perfezione
in giro per la casa o per le strade
fingendo una sicurezza di mete
e destinazioni colme di sgomento
Aliena come rondine d’inverno
stellata gemma di neve a primavera
mi manca il senso finito delle cose
Mi sfuggono opportunità e circostanza
Mi spaurano rabbia e indifferenza
la volontà di uccidere ad ogni alba
- bagliori di coltelli affilati nel buio
di livide notti insonni ed assassine -
Mi trafigge il vuoto d’inutili parole
aggrappate a silenzi che non so capire
dove mai s’incontrano navi da crociera
solo rapaci galeoni di feroci pirati
al canto di certezze addormentate

Io nacqui alle otto di una sera
che sfogliava petali di rose
per farne farfalle profumate
in un campo di ciliegi e melograni
- tra papaveri da scoppiare tra le dita
scrivevo i miei ti amo ad un amore
volto di sole e un buco dentro il cuore -
Io nacqui con negli occhi gli aquiloni
a conquistare un cielo di turchesi
barchette di carta al gioco dei bambini
in un altrove che mi strania e mi cattura
Ma ho versato lacrime di sale
per ogni veliero sparito in fondo al mare
Però nacqui e non m’importa dovecome
se non so vivere come gli altri sanno
se non dormo sull’altrui dolore
se dentro mi volo un gabbiano
sotterraneo sogno di giorni delusi
tra ragnatele di anni sempre uguali
e scuse banali per non sapere amare
Io nacqui sotto feroci bombe nel cielo
ma contai sempre i passi delle stelle
ad ogni rombo che mi franava il cuore
Però nacqui e più non m’importa
se una ferita lunga è questo amore
da ricucire con cento fili di seta
su corazze di ferro arrugginito
(... e fingersi un sogno in differita
                per non rimpiangere
                       di non essere mai nata...)

Amo
                                                 Il cuore vola                                                                                                            Dove la mente non sa
                                      neppure camminare                                                                                                                       (Colette Haddad)
Amo le epifanie di giorni come questi
quando è sorpresa e dono il tuo nome
ai cancelli dischiusi ad ogni attesa

Amo i treni che improvvisi ritornano
e hanno fasci di rose ai finestrini
e un fischio lungo che promette
un arrivo senza più partenze

Amo il trillo di un telefono muto
tenero pensiero o stupido errore
Viene nella mia casa senza canto
a darmi ad un tratto compagnia
e mi trova opaca luna solitaria
inutile come sogno dimenticato
Ferita dalla luce del nuovo giorno
(colori accesi e notte cancellata)
l’insonnia mi fa vivere due volte
e mi regala sempre qualche verso
tra labbra d’arsenico e coralli
perché io non muoia mai del tutto

Amo la notte accesa che mi riporta
insane insonnie di menta e cioccolato
quando negli occhi anticipi racconti
di fughe abbandoni che non vuoi dire
e che io fingo di non aver letto ancora
e i lunghi silenzi che non voglio capire
Cronaca d’inganni ogni altro da noi
che non osiamo più ricordare
quando in fiore era quel sentiero
lungo il muro perduto e straniero
che rare pagine di diario dipinse
strappate a pezzi e poi dimenticate
nello scrigno del tempo abbandonato

Amo la libertà del mare il suo mistero
quando i velieri dei giorni prigionieri
lasciano la rada per navigare a vista
in tumultuose acque di terre lontane
straniere agli smarginati scogli di sale
tra ormeggi di vino e onde di gabbiani  
  
Amo fanfare e bande di paese la danza
l’orchestra i tamburi i fuochi tra le stelle
feste del patrono da spiare dentro casa
le luminarie i gelati e di Sicilia le cassate
e palloncini e aquiloni e zucchero filato
 lucciole e lampare quadri da guardare
I mercatini le cianfrusaglie le bancarelle
fiori tra i capelli e souvenir da inondare
le stanze gli angoli mensole scale e muri
su cui disegnare mille poesie d’amore
Poi fermagli spille e carabattole e anelli
foulard sciarpe colorate cappelli d’estate
carte e libri e musica e canzoni dell’addio
(leggere e leggere e poi intrecciare parole)
 
Amo poi la tua maschera apotropaica
che sul viso dissimula misteri e sortilegi
di gatti randagi cani fedeli e ore ballerine
Recide abbracci e cela oscuri volti di verità
                  (la mia? la tua?)
Spergiuro specchio di triste afasia la terza
verità ancora tutta da ascoltareconfessare
                  (e… io amo le bugie)