sabato 30 aprile 2022

Sabato 30 aprile 2022: CIRCOLARE POESIA: Mattia Cattaneo-Angela De Leo... (parte conclusiva)

Oggi vorrei concludere le mie riflessioni sul mio saggio-lettera e su Giovanni Gastel, affrontando un altro argomento che è la logica conseguenza di quanto detto con Mattia Cattaneo sin qui. In pratica, sono convinta che insieme avremmo affrontato anche il discorso piuttosto spinoso, oggi, di cosa si può fare per salvare la Bellezza, così tanto perseguita, amata e vissuta da Giovanni. Ebbene, ecco il mio pensiero, alquanto scomodo e indigesto per chi vive attualmente nell’“epoca delle passioni tristi”, come hanno denunciato due grandi studiosi: Benasayag e Smith, con l’aggressività in aumento e la disgregazione in atto. Senza più punti valoriali di riferimento per adulti e ragazzi, che si tuffano nella realtà virtuale dei loro tablet, scambiandola sempre più per realtà reale ed agendo di conseguenza. Ma, andando oltre questo triste dato di fatto, sento di poter affermare che la poesia è già di per sé bellezza, armonia di suoni, ritmo interiore. Intimo dialogo con la parte più profonda e vera del proprio “Io” e del “Sé”, nella loro soggettività e oggettività. Nella loro totale compiutezza. Keats, per esempio, afferma che la poesia è la vita vissuta e sentita profondamente dentro come “bellezza e verità”. Ma bellezza e verità non sempre sono chiare, lapalissiane, scontate. Esse sono piuttosto soffuse di mistero, colme di tutti i sensi e tutti i significati possibili. Ecco perché scrivere o parlare di Bellezza, Poesia, Verità non è assolutamente facile, anche se il concetto potrebbe sembrarci semplice.

Parto, allora, dalla considerazione che possa essere la Poesia a salvare la Bellezza e la Verità. Come? Secondo me, non snaturandosi mai. Cosa che purtroppo oggi avviene sempre più spesso. La sua snaturalizzazione è cominciata con i futuristi di inizio Novecento per protrarsi per tutto il secolo con i vari sperimentalismi, che hanno mortificato il senso e il significato della parola poetica per dare importanza al significante che, il più delle volte, era suono senza voce, “conchiglia vuota” priva di richiami al sentimento e, quindi, alla bellezza che sempre genera poesia e viceversa. Sentimento, infatti, viene da “sentire”, da qualcosa di molto profondo che vibra dentro di noi. L’importante è, a mio parere, aderire sempre a questa sua intima e profonda Bellezza per salvare la Bellezza dell’intero Creato con tutte le sue Creature. La prima bellezza che si traduce in poesia è quella del mondo che ci circonda o che ci vibra dentro. È un concetto che vale la pena di ripetere. Oggi, purtroppo, io ravviso in molta poesia, la “vetrina”, la “vanità”, la “strumentalizzazione” per fare audience, per strappare tanti like, e in genere scadendo nel compromesso della parola volgare, come “culo” che la canzonetta di Sanremo 2022 ha sdoganato in TV per assicurarsi una fetta di successo, dovuto al linguaggio dei nostri tempi che niente ha a che fare con la Bellezza, la Poesia, la Verità…

C’è una poesia di Giovanni Gastel, da me riportata nel saggio-lettera, che denuncia amaramente proprio questo:

Provo pena per la sorte

degli uomini.

 

Per noi magri ed educati

signori della terra

analfabeti e rozzi.

 

Ma nessuno può guardare il mondo

senza provare commozione.

 

Il giorno del plotone

sia benda sopra gli occhi

questa sconfinata bellezza.

 

Fin da ragazzino, Giovanni Gastel ha avvertito in sé il senso della Bellezza, dell’Armonia, della Parola, della Verità. Non a caso, trascorre una vita intera in un luogo incantevole, la sua villa sul lago di Como, incendiandosi continuamente di passione per l’Arte a trecentosessanta gradi, facendola musa ispiratrice della sua scrittura: Scrivere è “il rumore del tempo” che passa. E ci trasforma pur lasciando intatta la nostra personalità di fondo. E la mia è quella di un sognatore. La parola è per me Luce che è la carezza di Dio, che ci ha donato tanta Armonia nel Creato: il giorno del plotone/ sia benda sopra gli occhi/ questa sconfinata bellezza. Per fortuna la sua vocazione poetica è anche per lui salvifica. E lo è stata e lo è anche per me.

Banalmente, ma è la verità. La poesia è la parte più profonda e palpitante di me. Non potrei farne a meno. Ogni mio pensiero, ogni mio atto, ogni mio gesto o ricordo sono intrisi di poesia. È l’aria che respiro. Il tempo del mio esserci su questa terra. È ogni sentimento che mi fa sentire viva e mi tiene legata agli altri. Spesso in silenzio. Spesso con le parole. È ogni incanto che mi scopre ancora a vivere con stupore la vita. Ma per comprendere meglio questa necessità vitale devo rifarmi ad alcuni poeti che mi sostengono nel mio lungo percorso esistenziale con poesia. Per esempio, Alda Merini.

Alda Merini sostiene che la parola “sporca la poesia”. Quest’ultima è, pertanto, innocenza e passione, verginità e peccato, ma è soprattutto luce che purifica, oltre che esaltazione, esorcizzazione, riparazione. Ed io mi ritrovo perfettamente nelle sue parole.

Carlo Ossola scrive: “la poesia è parola essenziale (...) Ferma il tempo e racchiude in sé il cosmo”.

Per Mario Luziè la vita al suo più alto e intenso grado di partecipazione intima…”. Condivido. Ma la poesia non ha, né può avere, definizioni in sé compiute. “Si può solo riconoscerla” affermava Benedetto Croce. Ma non sempre ha avuto ragione. Io penso che la poesia sia anche figlia del proprio tempo, altrimenti sarebbe anacronistica e lontana dal comune sentire. Per esempio, se ieri era legata alla bellezza classica del verso greco/latino, oggi è, per molti poeti dei nostri giorni, “dimora della parola visionaria”, “campo di tensione”, “mondo di sogno”. Ma ci sono molte altre testimonianze di grandi autori che sento di condividere. Per esempio, quella di Rilke che, nei Quaderni di Malte, così scrive della poesia: I versi sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, occorre conoscere a fondo gli animali, sentire il volo degli uccelli; sapere i gesti dei piccoli fiori, quando si schiudono all’alba…

Oppure, dirla con Giuseppe Colombero: la poesia abita in noi. È un particolare modo di sentire e di vedere, un filtro con il quale l’anima colora il suo sguardo sull’universo.

Non a caso, E. Drewermann sostiene che: dovremmo avere la sfrontatezza di guardare in avanti, attraverso l’oscurità, per credere più nelle stelle che nella notte.

La poesia, comunque, sia che dica il reale, sia che inventi un’altra realtà, non conosce - come scriveva la compianta Maria Grazia Lenisa - sensi vietati (..) dà vita a tutte le esistenze possibili.

Essa è un po’ come la “camera oscura” di leopardiana memoria: una sorta di caleidoscopio, che rende fantasmagorici dei semplici pezzettini di carta colorata, grazie agli specchi interni, al movimento esterno che subisce da chi lo agita, e alla luce che sugli specchi si rifrange. Ecco, allora, l’effetto meraviglioso di infinite possibilità altre di una stessa realtà; effetto, che dipende appunto da questi elementi (specchi, movimenti, luce) e non dall’oggetto reale (i pezzettini policromi di carta): (una mia riflessione, ricordando la scatola magica costruita da mio nonno per incantarci con la magia dei pezzettini di carta colorata che al suo interno si animavano, dopo aver sbattuto la scatola e guardando attraverso le finestrelle, che aveva praticato sui suoi lati lunghi, coperte di carta velina e rivolte verso il sole o una piccola fiammella, quando si faceva buio. E tutto questo mi è tornato alla mente, tanti anni fa, dopo aver letto lo Zibaldone).

Il poeta, mago e visionario...

Di qui gli sconfinati universi, inseguiti e mai raggiunti, dell’oggetto poetico. Purché ci sia la LUCE.

È quanto ho sempre scoperto, apprezzato, ammirato anche in tutte le Opere di Giovanni Gastel, nella sua Arte. La LUCE: ANIMA delle sue fotografie e delle sue poesie. Giovanni cercava l’anima in sé stesso, nelle sue modelle, nella parola. Ma noi come possiamo scoprirla nelle sue parole, visto che è molto più facile nell’immagine: basta la luce di uno sguardo ad evidenziarla! Certo, nella parola la faccenda si fa molto più complessa, ma non impossibile.  

Intanto, occorre specificare cosa è per noi la “parola”. Non mi interessa la definizione data dal vocabolario, l’etimologia, ma la elaborazione del pensiero in linguaggio nel tempo del nostro esserci al mondo. La “parola”, come sostiene Paul Valery, è “carne della nostra carne”, in cui si smarrisce un dio disperso e disperato, l’uomo stesso per ritrovarsi “cuore umano”, ma la parola è, a mio parere, anche sentimento di sé e del sé, che si dilata a comprendere ogni altro da sé, in cui l’io e il sé si riscoprono, si ritrovano, si ricompongono in unità. Come già più volte detto. Dobbiamo fare appello, dunque, anche al nostro cuore, al nostro tempo. Come in Giovanni Gastel e nelle sue poesie.

Il cuore ci riporta al sentimento. Il tempo al nostro esserci al mondo. Un mondo, che ha fatto oggi purtroppo dell’opulenza materiale e della vacuità esistenziale il credo dominante.

Ed è così che il poeta contemporaneo, mi piace ribadirlo, segnato dal talento puro di “vivere la poesia”, oltrepassa la poetica della parola, vuota di senso e di significato, per ridonarsi al calore dell’emozione e del sentimento, all’autenticità dell’ispirazione poetica che è frutto di un ritrovato “senso del vivere” con appassionata autenticità e verità.

Si potrebbe parlare di “nostalgia del futuro”, ossia dell’ansia di rinascita continua nella riproposizione di nuovi domani, slargantisi in una fitta rete di comunicazione, di “correlazione universale” (Silvana Folliero, mia preziosissima e indimenticata amica), di “inter-esistenza” tra gli uomini, perché in fondo la PAROLA - e qui cito Zancan - “è il luogo fantastico della rigenerazione”. Ma come possiamo realmente e fattivamente avvicinarci ad essa, mio caro Mattia, e miei cari amici del blog? Spesso me lo chiedo. Timidamente? Con audacia? Con la forza e il coraggio dovuti alla necessità, che avvertiamo dentro, di parlare o di scrivere per esprimerci e/o comunicare? Per far sentire la nostra voce? Per compiere una missione? E quale potrebbe essere? Purtroppo, spesso, ci manca il tempo per parlarne, per confrontarci, per “vivere insieme” la magia della parola, soprattutto quando si traduce in “esperienza” e si fa “poesia”.

E allora vorrei concludere, facendo solo un esempio concreto per scoprire l’importanza di una “sola” parola che può dilatarsi in “tante”. E lo faccio ricordando un lavoro di analisi e di critica letteraria di molti anni fa: Ne Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupery occorre focalizzare, per esempio, la “responsabilità dell’amore” che scopriamo nella parola “addomesticare” (traduzione italiana che a me non piace, mentre sarebbe stato più belle tradurre con: “rendere di casa”, “accogliere” per “far appartenere l’altro da sé alla stessa famiglia o ad una sola persona” e far nascere così il senso bellissimo dell’“appartenenza” contro il senso di “possesso” che “addomesticare” suggerisce). L’amore, dunque, rende unico, diverso, prezioso, l’oggetto amato: la rosa.

Ma, per scoprire ancora meglio quante possibilità di riflessioni potrebbe offrirci una sola parola, se analizzata con la mente, con il cuore, con l’anima, prendiamo, per esempio, la parola “deserto” e utilizziamola, partendo sempre dal contesto, per: percepire, sentire, guardare/vedere la coerenza e il contrasto, la concentrazione e la disgregazione, l’integrazione e la significazione, l’intensità dell’Io e il suo straniamento, la visionarietà e il suo altrove, il silenzio alle domande, il viaggio (che è più uno sprofondare che un volare) e ci accorgeremmo che “deserto” è simbolo e metafora di “silenzio e solitudine”, ma anche di “immaginazione” (le oasi, i miraggi…), di “fantasia” (il pozzo), di “creatività” (l’acqua, le stelle…) e soprattutto che “l’essenziale è invisibile agli occhi”…

E mi fermo qui, ma ciascuno di noi potrebbe scoprire e suggerire altri significati, altre modalità di lettura di una semplice parola che semplice non è mai. La parola è volo e abisso…

E da domani voltiamo pagina! Ma prima desidero ringraziare Mattia Cattaneo e tutti gli amici che fanno parte di CIRCOLARE POESIA per gli stimoli continui che mi provengono dal loro amore viscerale per la POESIA e per il fare “squadra”, “incontro”, “rete”. Per avermi “accolta” con amore! Solo insieme si vola…

  

martedì 26 aprile 2022

Martedì 26 aprile 2022: CIRCOLARE POESIA: Mattia Cattaneo-Angela De Leo... (continua)

Mattia Cattaneo, da perfetto conduttore del programma da lui ideato, sa come stoppare il fiume di parole in piena, quando si trova di fronte a interlocutori logorroici come me, e lo fa sottovoce, con molto garbo, quasi un “atterraggio morbido” su altri aspetti del libro preso in esame. E, infatti, venerdì scorso è tornato a parlare, con una piacevole virata, del mio saggio-lettera e di Giovanni Gastel a cui è dedicato, chiedendomi di lui notizie più dettagliate. E lo faccio anche qui, nel nostro blog, perché si abbia contezza della sua personalità e della sua poesia, di cui sono intrise tutte le sue opere.

Ho incontrato prima le poesie sulla sua Pagina fb. Non conoscevo niente di lui se non i suoi versi, così discorsivi, insoliti, veri. Spietati verso i limiti della sua personalità complicata in un mondo tanto complesso e disorientante: limiti evidenziati con coraggio e sincerità. Versi nuovi, spiazzanti: dialoganti e monologanti. Mi sorpresero e affascinarono. Cominciai a postare qualche commento rapidamente, non avendo il tempo neppure di fare una ricerca sul loro Autore. Solo quando mi sorpresero e affascinarono anche alcune sue foto sugli Angeli precipitati dal Paradiso terrestre sulla Terra, scoprii che era un grande fotografo e volli saperne di più. Nascita, vita, miracoli.

Mi aiutarono Google e Wikipedia.

In estrema sintesi, un nobile signore dall’inconfutabile “sigillo” di creatività.

E qui mi sentii a disagio, quasi avessi commesso un atto sacrilego ad entrare nel mondo magico e dorato del nobile Giovanni Gastel, dandogli del tu come si fa con un amico. Ma erano stati i suoi affettuosi rimandi ai miei commenti di “poetologa” a determinare da subito, senza che me ne rendessi conto, un rapporto paritario tra noi.

E, per mia buona pace, ben presto mi accorsi che il grande e irraggiungibile Gio era solito rispondere a tutti i suoi tantissimi lettori sempre con estremo garbo e affettuosa gratitudine.

Il segreto della sua grandezza sta nella sua grande umiltà.  

Ecco un esempio. Sono stata, alcuni anni fa, ospite di ParoLario, una manifestazione culturale molto importante tra Como e Milano, con nomi di prima grandezza tra giornalisti, poeti, scrittori che presentano le loro opere. Io presentavo il mio romanzo Le piogge e i ciliegi. Appena ne feci parola a Giovanni Gastel subito mi disse che avrebbe avuto piacere a presentarmelo lui il mio romanzo, visto che Villa Bernasconi che mi ospitava a Cernobbio era a due passi da casa sua.

Alle 18,30, l’appuntamento con il mio stratosferico interlocutore, e con gli ascoltatori, tutti accorsi per omaggiare il “padrone di casa” in Cernobbio, e furono davvero tanti e tutti si mostrarono molto coinvolti e attenti.

E venerdì scorso ho letto dal mio saggio-lettera, a pag. 22, un po’ la cronaca della sua fantastica presentazione, che non dimenticherò mai (chi avesse il mio libro potrebbe leggere appunto da p. 22 e andare magari anche oltre, per fermarsi a p. 25 dove il capitolo finisce. Avrebbe un quadro più completo di tutta quella magica giornata).

Intanto, mi piace raccontare qualcosa di Giovanni Gastel, della sua personalità e della sua Arte.

Giovanni Gastel è un mito ormai. Ultimo di sette figli di Giuseppe Gastel e Ida Visconti di Modrone, sin dalla pubertà aveva evidenziato di possedere talento creativo da incanalare in più rivoli di sempre più vasta portata: teatro, poesia, romanzo, fotografia. A sedici anni pubblica la sua prima raccolta di poesie e a diciassette scrive il romanzo di formazione Duetto Profano, pubblicato solo alcuni anni fa dalla SECOP edizioni, rivelandosi molto più di un semplice romanzo giovanile. Vi è, infatti, una sorprendente maturità di stile e contenuto da fare invidia agli innumerevoli scrittori dei nostri giorni, specie di quelli che nascono come funghi sui social, vetrina irrinunciabile ormai, senza filtro alcuno e nell’ineludibile rispetto del diritto/libertà di parola di ciascuno. Ma il talento è ben altra cosa. E Giovanni Gastel dà prova di talento puro in più campi e soprattutto nella fotografia che, sin da giovanissimo, nell’arco di un decennio, lo consacrerà fotografo a livello mondiale, con le più grandi riviste di moda a contendersi le foto con la sua firma. È stato, tra l’altro, per la fama ben presto raggiunta, per diversi anni Presidente dell’Afip (Associazione Fotografi Professionisti a livello internazionale che operano in Italia), incarico ricoperto, con grande attenzione e passione, fino alla sua morte.

Nobile non solo di nascita, Giovanni Gastel è stato un gentiluomo anche nell’animo. Uomo di rara eleganza, generosità, umanità. Per questo si era affascinati e conquistati non solo dalla magia della sua Arte e dalla tenera malinconia delle sue parole, ma anche dalla sua complessa e straordinaria personalità, che sfuggiva ad ogni definizione perché eternamente cangiante, sorprendente.  E tutte le sue Opere servono a darci di lui una idea veritiera e sempre apparente. Ossimoro di sé stesso sempre.

Già dall’infanzia, nella tua amatissima Como, città che lo ha visto bambino incantarsi sul lungolago o giocare, spensierato e attento, nell’immenso parco di Villa Erba, residenza di parte della famiglia materna. Luogo di incanti e incantamenti con tanta Arte vissuta in grandi saloni che si animavano di musica, danze, rappresentazioni teatrali, libri. La Cultura trepidava e risuona ancora oggi in ogni angolo della sua casa.

Poi, dalla adolescenza di ragazzino creativo, “arrogante” e visionario che sentiva, nel Duomo di Milano, la voce di un angelo preconizzare il suo destino di albatro, che avrebbe sperimentato l’ebbrezza del volo altissimo ma anche la solitudine, che quel forare il cielo e andare oltre avrebbe comportato. Precognizione avveratasi in pieno.

Genio precoce, seguiva tra l’altro, con vivo interesse zio Luchino Visconti, fratello di sua madre, nelle fasi magiche della “costruzione” di un film, che sarebbe stato sicuramente di volta in volta un capolavoro di Arte sublime.

Giovanni Gastel, dunque, sempre diviso a metà tra la libertà del volo nel suo mondo di sogno e il franare malinconico e disperato nell’abisso di una realtà che faceva male e che voleva dimenticare per non avvertire le ferite e il disinganno. E le sue Foto e i suoi Scritti ne sono la inconfutabile testimonianza. Così come il suo Teatro. Le sue Immagini. Le sue Fantasie. I suoi Personaggi che si raccontano e lo raccontano. In ogni simbolo. In ogni verità. In ogni passaggio esistenziale e artistico a descrivere fortemente i suoi percorsi umani e professionali, non disgiunti dalla cultura familiare, radice profonda e indistruttibile, le cui rigide regole ad essa sottese si rivelano gabbie dorate per i suoi voli pindarici, avvertiti a suo danno per la conseguente solitudine, ma anche a suo appagamento per la genialità che gli concedeva di forare il cielo e di sentirsi incontaminato e compiutamente sé stesso. E tutte le sue contraddizioni alla fine si ricomponevano in Unità: Giovanni Gastel era tutto questo e non poteva essere diversamente. Tutte le sue opere visive e quelle letterarie firmano la sua genialità. La sua umanità. Ma anche i suoi comportamenti affabili, colloquiali, disinvolti, scherzosi, generosi, velati sempre comunque di malinconia e di sottile ironia e autoironia che sempre alla malinconia si accompagnano.

Poi, Mattia mi ha rivolto una domanda precisa, secca: perché leggere il mio saggio-lettera e un po’ la sua genesi. Ripropongo per sommi capi quello che ho risposto a lui venerdì scorso:

Perché è un saggio nato dal Progetto che io e Giovanni Gastel avevamo in mente di realizzare per il suo compleanno del 2018 (27 dicembre), ma poi le nostre intenzioni rimasero tali per via di una serie di ostacoli legati a un mio incidente che mi ha tenuta per ben sette mesi in varie strutture ospedaliere, dalla igienizzazione alla riabilitazione; poi, il Covid 19, a cui subentrarono i suoi problemi di salute e l’improvviso suo volo tra le stelle. Avevo fatto appena in tempo a inviargli una prima bozza cartacea, che lo entusiasmò a tal punto da sollecitarmi a completare l’opera, per la quale mi avrebbe fatto inviare in tempi brevi le sue magnifiche foto a corredo dei miei commenti. Ma è stato un precipitare di eventi. È, dunque, un libro molto sofferto che si è trasformato in un saggio-lettera dopo il 13 marzo dello scorso anno, giorno del suo dirci addio. Con profondo dolore ho modificato in parte quanto avevo scritto e ho portato a termine, tra mille difficoltà, la promessa che gli avevo fatto ancora una volta pochi giorni prima del suo silenzio. È una inconsueta ma forte testimonianza di amicizia, di affetto, di ammirazione per una Persona, eccezionale per genialità e umiltà, che ha lasciato dietro di sé una incancellabile scia di LUCE.

Mi piace pensare, inoltre, che questo mio saggio-lettera possa veicolare riflessioni molto profonde sulla possibilità che ha la poesia ancora oggi di essere sorgente di salvezza in un mondo devastato dalla violenza e dalla indifferenza e che si possa ancora oggi vivere in questo mondo con poesia. Giovanni Gastel ci ha lasciato un esempio luminoso di coraggio nel perseguire a tutti i costi e per tutta la vita l’ideale della Bellezza e dell’Amore, cercati soprattutto nella propria anima e in quella dei suoi tantissimi interlocutori, dalle innumerevoli voci nascoste, ma reali, che affollavano la sua esistenza, i suoni, i profumi, la musica, i sogni, le nuvole, le acque del suo lago, il mare… soprattutto quando la natura non era ancora “desacralizzata” (Carlo Sini) e gli uomini non erano diventati “arroganti”. Come più volte ha scritto in prosa, in poesia.

Giovanni Gastel aveva una vita programmata al millesimo eppure trovava sempre il tempo di dedicarsi agli altri, di accettare e realizzare tutti i progetti che i suoi innumerevoli ammiratori gli proponevano e che lui era ben felice di portare a termine, nel rispetto del “perché” e del “come” di ciascuno, non per la sua gloria, non ne aveva bisogno, la sua fama era mondiale, ma per far felici chi si affidava a lui per realizzare un sogno.

Sarebbe bello, in suo nome, formare delle cordate per aiutarci a vicenda e sentirci solidali, forti, sereni. Certo, ci vuole coraggio e determinazione in un mondo ostile e pieno d’insidie e di cattiveria, e di violenza e di guerra e di catastrofi naturali. Soprattutto se pensiamo al futuro. ma possiamo provarci.

Ed è stato mio desiderio concludere l’incontro di venerdì con lo straordinario “padrone di casa” Mattia Cattaneo, parlando per un attimo del nipotino di Giovanni, Sèbastian, figlio di Marco e di sua nuora Guenda, nato solo pochi mesi prima per fargli assaporare l’immensa gioia di essere diventato “NONNO”. Ho voluto poi leggere la quarta di copertina, in cui c’è un meraviglioso messaggio di Gastel sulla necessità di un vaccino per salvare l’intera umanità e, infine, un riferimento alla funzione salvifica della Bellezza. Mattia si è unito a me per sottolineare la bellezza e la forza di Giovanni Gastel nel pensare soprattutto agli altri, come fa CIRCOLARE POESIA nel veicolare la voglia di incontrarci tutti perché solo insieme si diventa forti e in grado di andare avanti per realizzare un futuro migliore per tutti e per ciascuno. Giovanni Gastel ce lo ha insegnato con le sue albe nutrite di Bellezza, d’Amore, di Speranza. 

E anche oggi mi fermo. Con l'intento di continuare la prossima volta per qualche altra riflessione sul mio saggio-lettera e sui richiami valoriali che può sollecitare nei nostri cuori. Grazie, Giovanni. Grazie, Mattia. Grazie a quanti hanno la bontà di leggermi e di seguirmi. Grazie...  

sabato 23 aprile 2022

Sabato 23 aprile 2022: CIRCOLARE POESIA: Mattia Cattaneo-Angela De Leo...

Ieri sera, alle ore 21, con Mattia Cattaneo, ideatore e conduttore di CIRCOLARE POESIA, ho avuto un emozionante incontro per parlare, tra noi, di Giovanni Gastel e del mio saggio-lettera Tenero il tuo lago d’erba tagliente (SECOP edizioni 2021), a lui dedicato. Emozione pura nel ricordare la vita, le poesie, le fotografie, l’Arte, declinata nelle sue varie forme da un Artista geniale quale era Giovanni Gastel, che ci ha lasciato con una imperitura scia di bellezza e umanità, di grandezza e umiltà, di coraggio di vivere fino alla fine dedicandosi, con immensa generosità, a quanti lo avevano conosciuto, apprezzato e amato per un solo giorno o per una intera vita.

Mattia Cattaneo, da ottimo e accogliente padrone di casa, ha cercato di mettermi subito a mio agio, dopo un anno dalla nostra prima chiacchierata in diretta sulla poesia (era il 23 aprile, Giornata Mondiale del Libro, 2021): io, per la prima volta, ospite di CIRCOLARE POESIA.

Ieri, dopo i teneri convenevoli, mi ha rivolto la bellissima, anche se complessa, domanda: Come si può comunicare la Bellezza, che tanta parte ha avuto nella vita e nelle opere di Giovanni Gastel? Ed ecco più o meno la mia risposta, che vado a ricostruire sull’onda del ricordo, dopo una notte insonne per rivivere il nostro felice incontro di ieri: Secondo me la Bellezza non è comunicabile, perché la si vive nel suo offrirsi al nostro sguardo che l’accoglie e la comprende nell’attimo che la coglie nella sua perenne atemporalità (nel senso che noi abbiamo un ideale di bellezza che attraversa intatto i secoli) e nella sua temporalità, legata al tempo breve della nostra esistenza terrena, in cui accade il suo manifestarsi, sempre diversa nel tempo (di pochi o tanti anni vissuti) e nello spazio geografico (ciò che è bello per noi occidentali potrebbe non esserlo per gli orientali e viceversa: per esempio, l’idea di bellezza muliebre che cambia continuamente sia nello spazio sia nel tempo). Il concetto di bellezza temporale, infatti, possiamo elaborarlo, viverlo e comprenderlo soprattutto attraverso le sue innumerevoli contraddizioni e i molteplici aspetti contrastanti anche nella natura stessanella soggettività del gusto, dovuta al retroterra culturale e socio-familiare, alla propria personalità, alla sensibilità individuale, alla esperienza, più o meno quotidiana, che possiamo fare di fronte alla visione della nostra Terra (definita un tempo “Pianeta Azzurro” e diventata, via via, purtroppo, “Pianeta Rosso” per i danni che le abbiamo e le stiamo procurando) e dell’intero Creato con tutte le sue Creature. 

Questa più o meno la mia arzigogolata risposta, chiara nella mente ma difficile da argomentare in maniera semplice. E, a integrazione di quanto detto ieri, ecco avvertire anche la necessita di fare riferimento a un altro concetto, a mio parere importante, sulla bellezza: parola “piena” di molteplici significati che riguardano l’etica, l’estetica, la filosofia, la psicologia, la sociologia, l’armonia o disarmonia dei tantissimi elementi che la compongono, come la forma, il colore, la luce, e così via. E potremmo, così, parlare di Aristotele, Platone, Hegel, sant’Agostino, ma anche di Shakespeare, Dostoevskij… Persino di Umberto Eco, che solo qualche anno fa scrisse due saggi sulla Bellezza e sulla Bruttezza, e i vari modi di viverle più che di comunicarle. Insomma ce ne sarebbe per tutti i gusti. Oscar Wilde, per esempio, sostiene che La bellezza non può essere interrogata: Regna per diritto divino. E, del resto, l’estetismo è la chiave di lettura dell’intera opera di Wilde. Per Gandhi, invece, la Bellezza risiede nella “purezza del cuore”. Penso, poi, di poter affermare che la Bellezza debba fare i conti soprattutto con l’Arte. Qualcuno avrebbe detto, ma non ricordo chi, che: la bellezza è effimera, l’Arte rimane. Sarebbe l’Arte, dunque, a immortalare la bellezza? Lo chiedo anche a tutti noi. 

Comunque, ritornando alla incomunicabilità della bellezza, mi piace ricordare gli ultimi versi della famosa poesia “Davanti San Guido” di Giosuè Carducci. Come ho fatto ieri. E così, mentre il grande poeta, nel rivedere i luoghi della sua infanzia e la loro bellezza, che lo stavano facendo vibrare di grande emozione per i tanti ricordi che colmavano di nostalgia il suo cuore, si accorse che: un asin bigio, rosicchiando un cardo/ rosso e turchino non si scomodò:/ tutto quel chiasso non degnò d’un guardo/ e a brucar serio e lento seguitò. C’è, dunque, purtroppo, sempre un “asin bigio” che non si accorgerà mai dell’incanto che la bellezza procura a chi ha la sensibilità di vederla e di accoglierla. 

Ma, infine, conclusi con le parole di Kahlil Gibran, che non ce la comunica, ma ce la fa vibrare nel cuore come una gloria divinaLa bellezza cammina fra di noi come una giovane madre quasi intimidita dalla propria gloria. La bellezza è una forza che incute paura come la tempesta scuote al di sotto e al di sopra di noi la terra e il cielo. La bellezza è fatta di delicati sussurri parla dentro al nostro spirito la sua voce cede ai nostri silenzi come una fievole luce che trema per paura dell’ombra. La bellezza grida tra le montagne tra un battito d’ali e un ruggito di leoni. La bellezza sorge da oriente con l’alba si sporge sulla terra dalle finestre del tramonto arriva sulle colline con la primavera danza con le foglie d’autunno e con un soffio di neve tra i capelli. La bellezza non è un bisogno ma un’estasi, non è una bocca assetata né una mano vuota protesa in avanti ma piuttosto ha un cuore infuocato e un’anima incantata. Non è la linfa della corteccia rugosa né un’ala attaccata a un artiglio. La bellezza è un giardino sempre in fiore e una schiera d’angeli sempre in volo. La bellezza è la vita quando la vita si rivela. La bellezza è l’eternità che si contempla allo specchio e noi siamo l’eternità e lo specchio

Come non coglierla e accoglierla questa Bellezza che sa di infinito? Gibran, mago della parola e di ogni sentimento possibile…

E, per oggi, va bene così. Ma continuerò, nei prossimi giorni, a parlare del mio dialogo con Mattia, che ringrazio dal profondo del cuore, e del mio saggio-lettera sulla poesia e sull’Arte di Giovanni Gastel. Buon fine settimana con le rose e i libri di San Giorgio lungo la Rambla di Barcellona. Indimenticabile esperienza vissuta, per alcuni anni, con la meravigliosa “Nave dei Libri”, su cui presentavamo anche le nostre opere SECOP appena pubblicate. E c’era tanta allegria e un profumo di rose di straordinaria Bellezza ad avvolgerci durante il nostro magico vibrante soggiorno a Barcellona…   

domenica 10 aprile 2022

Domenica 10 aprile 2022: il Retino del 9 aprile: Giorgio Bàrberi Squarotti...

Ieri, prima di mezzogiorno, come è consuetudine da gennaio, è andata la diretta del Retino con scarsa partecipazione per via dell’orario non proprio agevole ai più, come mi state scrivendo, e un po’ per via dell’atmosfera pasquale con i tanti riti religiosi da seguire fino a Pasqua. E oggi è la domenica delle Palme. Ieri, infatti, dicevo (è bene ricordarlo!): Dovremmo augurarci la Pace, ma sappiamo che purtroppo stiamo vivendo giorni bui e notti insonni per la terribile guerra fratricida, improvvisa e devastante, in atto tra Russia e Ucraina. Sempre più stiamo correndo il rischio di distruggere il nostro Pianeta e la nostra Umanità. Senza falsi ottimismi, però, io ritengo che ciascuno di noi, nel suo piccolo invisibile vissuto quotidiano, possa fare la sua parte in quello che sa e può fare. Io, per esempio, scrivo. E il Retino mi spinge con fermezza a parlare del grande e compianto amico e critico letterario, Giorgio Barberi Squarotti, che cinque anni fa volò nel cielo delle sue amatissime Langhe, da dove in questo momento penso che ci stia sorridendo. Avverto fortissimo il desiderio di ricordarlo oggi, ancora una volta e spero non sia l’ultima, leggendo innanzitutto stralci di una delle sue ultime lettere inviatemi, nell’arco di circa vent’anni di preziosa e meravigliosa amicizia, perché sono il punto iniziale di questa nostra “chiacchierata". 

E il Retino mi ha aiutato a trattenere/recuperare le parole giuste su cui soffermarci oggi. Purtroppo sarò, mio malgrado, inevitabilmente autoreferenziale e scoprirete, via via, il perché: 

Amica carissima, La tua lettera è un dolcissimo conforto e un prezioso premio per quello che ancora riesco a fare, parlando e colloquiando con coloro con cui vengo in contatto. Io sono molto curioso delle forme mutevolmente infinite della vita, che amo con tutti gli affanni, tutti i dolori, gli orrori, le gioie, le grazie nella luce della speranza, la virtù teologale a cui sono appassionatamente legato. Per questo continuo a scrivere un poco per me, per il piacere e l’ammirazione della Parola, e con gli altri che mi tengono compagnia come la luce e il verde delle stagioni migliori. E tra tutti scelgo te, che sai portarmi le parole del cuore scritte con il cuore (...). Dopo il 25 sarò nel mio paese delle Langhe, Monforte d’Alba. Sono molto stanco, e ho bisogno di quiete e di contemplazione per reggere all’età e soprattutto (…) (ometto perché mi scrive di problemi molto personali). A presto. Con i più affettuosi saluti. Giorgio”.

Mi piace commentarla, questa lettera, perché Giorgio Bàrberi Squarotti è qui non solo il critico letterario che tutti ben conosciamo, ma il poeta delle “forme mutevolmente infinite della vita”, espressione di straordinaria efficacia letteraria e umana che vale la pena di approfondire, in quanto tutta la sua produzione poetica è fondata sulle “forme mutevolmente infinite” a tal punto da diventare il modello insuperato, a mio parere, di tanti altri grandi poeti del Novecento italiano che ancora oggi scrivono poesie guardando al futuro. E, per comprendere meglio tutto questo, credo che sia quanto mai utile e opportuno fare riferimento alla sua silloge di poesie Le voci e la vita (pubblicata proprio con la Secop edizioni nel 2016), di cui scrissi la Prefazione. 

E mi piace partire dal titolo e poi dalla immagine di copertina. Già nel titolo è facile imbattersi nelle “voci” che potrebbero essere poche, tante, innumerevoli, ma sono già esse stesse “le forme mutevolmente infinite” che riguardano la “vita”. E quest’ultima, la vita, già le universalizza nella comprensione del tutto. Ci sono già, dunque, nel titolo, le mille contaminazioni etiche ed estetiche, come scrissi allora, “perché il poeta si innalzi a quel Respiro che Tutto comprende e tutti ci comprende. Tentazione umana alla innata, necessaria ricerca del divino: ipotesi che si innalza dalla materia (mondo visibile: natura, volti, corpi, nomi) e giustifica, forse, le singole voci (pensieri, sentimenti, sogni, contraddizioni), connotanti la nostra identità più profonda, per rimescolarsi in un unico, eppure distinto, viluppo che è la nostra umanità. (…) Chiarori e ombre dell’esistere… E una via di fuga verso il cielo che è salvezza e verità. Non a caso Giorgio Bàrberi Squarotti dice nella lettera, parlando delle forme mutevoli e della vita, “che amo con tutti gli affanni, tutti i dolori, gli orrori, le gioie, le grazie nella luce della speranza, la virtù teologale a cui sono appassionatamente legato”. Fede. Speranza. Carità. La virtù teologale, a cui Bàrberi Squarotti è legato “appassionatamente” è, senza ombra di dubbio, la Speranza, ma vedremo in seguito che non gli mancano la Fede e la Carità, sempre presenti nella sua vita e nella sua scrittura.

Egli, dunque, è “perdutamente innamorato” di queste “forme” e soprattutto della vita, che è fatta di queste innumerevoli e infinite strutture mentali e comportamentali, con tutte “le gioie e i dolori che ogni umana esistenza comporta”, perché filtrate dalla “luce della speranza”. Ed è bellissimo scoprire nel linguaggio quotidiano di uno studioso e poeta ultraottantenne, parole così vibranti di giovanili ardori: “perdutamente innamorato” e “appassionatamente legato”. Infatti, in tutta la raccolta, è facile scoprire “Una sensualità dolce e intensa” che “sfiora i versi” e “s’impadronisce del creato e di tutte le creature che vivono, respirano, amano. Reali. Irreali. (…) e tutta la natura è tripudio di ogni palpito di esistenza e di vita. Uno sguardo d’amore, del resto, accompagna tutte le più piccole creature, tanto umili quanto immense.

Ed è soprattutto “innamorato della Parola” perché essa è possibilità di comunicazione con gli altri “che mi tengono compagnia come la luce e il verde delle stagioni migliori”. Meravigliosa metafora di una scelta di interlocutori che, per sintonia intellettuale e umana, lo illuminano di verde incanto, come le stagioni della giovinezza, indubbiamente le migliori, perché tutti noi sentiamo vibrare come non mai la fede nei nostri sogni e ideali, in quanto ci sentiamo al centro dell’universo e abbiamo intorno a noi tutti i sentieri esistenziali da percorrere ancora per realizzarci, e tutti nutriamo la speranza in un futuro dilatato all’infinito, che è appunto prerogativa della giovinezza, non certamente della vecchiaia.

E tra tutti scelgo te, che sai portarmi le parole del cuore scritte con il cuore (...) e qui per troppa commozione e pudore ho saltato tutto il resto. Non poteva Giorgio scrivermi parole più belle, tanto che mi sono mancate le parole per definirle. Testimonianza di immenso affetto per me che non ho grandi meriti se non quello di scrivere con il cuore sempre. Come lui ha sempre rilevato e sostenuto nelle tantissime lettere di un carteggio prezioso che conservo come “sacra reliquia”.

Non a caso, è soprattutto l’amico che in queste pagine si confessa con grande semplicità e franchezza, affrontando argomenti difficili da affidare ad una semplice amica: la salute, gli affanni, i problemi famigliari, la stanchezza, l’ansia di sentirsi pienamente appagato nel suo paese, inerpicato nel cuore delle sue amate e sempre contemplate e cantate Langhe. E mi piace ribadire il valore affettivo ed evocativo di una giovinezza palpitante e ricca di speranze. Stupendo è l’avverbio che definisce la sua vitalità ancora ricca di fremiti e di esplosioni d’incanti: “appassionatamente”. E stupende sono le affermazioni: “per il piacere e l’ammirazione della Parola”…oppure “come la luce e il verde delle stagioni migliori”. Sintonia perfetta: anche lui, come me, ha sempre scelto la bellezza e la pienezza delle parole dettate dal cuore. E, del resto, anche Dante aveva fatto, nella sua poetica del dolce stilnovo, la stessa scelta (vedi Purgatorio XXIV canto: I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando).

Mi sembra di essere immeritatamente (io davvero formichina!) in ottima compagnia, tenendomi alla larga dai vari sperimentalismi che, per tutto il Novecento, hanno mortificato la Parola, svuotandola di significato per privilegiare il significante, spesso senza senso. Dai futuristi fino alla fine del secolo. “Vuota conchiglia”, la parola, in un frastuono di voci che nulla hanno detto e dicono al cuore. Fatte le dovute eccezioni, naturalmente. La parola, nella sua pienezza di senso e significato, invece, è un capolavoro di chiarezza e verità, pur nella visionarietà delle “forme mutevolmente infinite della vita”. E ho fatto un esempio, prendendolo ancora una volta dalla silloge Le voci e la vita, in cui si parla, soprattutto nel primo capitolo del “vero” che è molto di più della “verità”, perché il vero è concretezza anche se invisibile agli occhi, come tutto ciò che è essenziale e profondo (Saint-Exupery e Il piccolo principe ce lo insegnano); la verità è astrazione nella sua apparente concretezza (“visibile è il reale, invisibile il vero”, dirà Piero Bigongiari). Tra vero e verità, comunque, spazio e tempo si dilatano, si confondono, si smarginano, si sovrappongono, e tutto è presente e tutto è lontano, tutto è reale e tutto è pensato, immaginato o vissuto nella parte più profonda e vera del proprio “Io”. Anche se spesso, in questa silloge, l’io poetante scompare per dare corpo e anima ai grandi della nostra letteratura e delle letterature mondiali (Shakespeare, Borges). Segno, da parte di Bàrberi Squarotti, di estrema umiltà e di grande conoscenza e rispetto e ammirazione per i grandi poeti italiani e di tutto il mondo. Ma spessissimo i versi di Bàrberi Squarotti ripropongono Nietzsche, per il quale "il poeta è mago e visionario. Compie una esaltante incursione nel molteplice, nel movimento multiforme e contraddittorio in cui si attua la vita". E il lettore, sin dal primo componimento della raccolta, “La creazione”, si colma, per esempio, di stupore nel trovarsi di fronte a un Dio del tutto umano che irradia, comunque, con tutto il suo essere, luce divina.

E vorrei concludere con una breve quanto intensa poesia, sintesi perfetta di Giorgio Bàrberi Squarotti come poeta, persona, credente:

L’amore”

È certamente uno di loro (lui?)

per discrezione camuffato: appoggia

alla fine la mano sulla nostra

spalla, la scuote un poco, la sospinge

verso l’amore che la pietà vince

e il tempo, da quell’attimo di luce

vivo per sempre.

(Torino, 1 luglio 2015)

È l’unica poesia che esplicita con chiarezza la parola amore. E soprattutto l’amore di Dio, (lui?) in minuscolo. Pure si ha un inizio che ha in sé una certezza incontrovertibile (“È certamente”), anche se subito dopo sopravviene il dubbio allusivo (“(lui?)”), che è più di una conferma. E poi, via via, leggendo tutti gli altri versi: “per discrezione camuffato”: Dio non irrompe nella vita di ciascuno di noi, imponendo la sua presenza, ma lo fa con “discrezione”, spesso sotto mentite spoglie, che comunque Lo rivelano. “Appoggia/ alla fine la mano sulla nostra/ spalla, la scuote un poco, la sospinge…”: dunque, solo più tardi, fa sentire la sua amorevole presenza al nostro fianco, magari dandoci qualche segnale forte perché ci giunga il suo richiamo, ma poi continua a “sospingerci” con delicatezza verso la concretezza e la verità del suo amore, che tutto “vince”, originandosi “da quell’attimo di luce” di quando ci dette la vita. Attimo di luce che è “vivo per sempre”. È, infatti, quella Scintilla divina che si accende in ogni creatura, irradiandosi per sempre in tutto l’universo.

È questo il MISTERO IMMENSO DELLA VITA. “Quell’‘attimo di luce’ è pienezza in sé conchiusa. E la luce è, fu, e sarà. Come eterna Presenza che ci eterna, nonostante l’amara consapevolezza di un mondo dissacratorio e violento” che offende qualsiasi divinità, lo stesso respiro della nostra anima. Dio, invece, “è presente, testardamente presente, infinitamente presente”. Senza un legame visibile, che si fa tangibile “in ogni voce, ogni luogo, ogni volto. In ogni fremito di foglia. È nel cuore del poeta che pure, data la grande sensibilità, parla con pudore della Sua immanente trascendenza e della Sua divina immensità per il timore, tutto umano, che la segreta ansia di Lui, la sua segreta certezza possano essere violate dalla sua stessa narrazione. Dio è l’Inesprimibile. Più dell’amore e di ogni altro umano sentimento, sentito intensamente e intensamente vissuto nell’intimità della propria anima” (cfr. Prefazione a Le voci e la vita di Giorgio Bàrberi Squarotti).

 FARO acceso rimane per me l’Autore di questi magnifici versi. Naturalmente, occorre avere Fede, altrimenti tutto cade nel vuoto di chi non crede e trova altri appigli per sapersi vivo. Ma ritengo che non sia la stessa meravigliosa certezza della “vita eterna” che germoglia in chi crede.

“Ti sono grata”, Giorgio, mio carissimo e rimpianto amico. Per queste tue verità ammantate della Luce della Speranza…

Buona domenica delle Palme e Santa e Serena Pasqua per tutti! Angela

martedì 5 aprile 2022

Martedì 5 aprile 2022: il talento nella scrittura si veste di passione, di fiaba, di pensiero adulto-bambino... con attenzione e umiltà

E così, dopo aver parlato della scrittura originalissima di Angelica Grivèl Serra, oggi vorrei riportare uno stralcio del romanzo autobiografico, inedito, di un altro mio carissimo amico, scienziato geniale e scrittore ancora tutto da scoprire, Il ragazzo del villino, per commentarlo in tutta la sua originalità talentuosa e fortemente empatica, tra linguaggio che conosce la semplicità del quotidiano adulto, quello medico, che azzera pressappochismi, e quello che lascia trasparire la fiaba del candore bambino:

“È così che, a tre anni, comincia la mia reclusione. Mi mandano in collegio. Ma non quello dei bambini speciali, né quello dei bambini ricchi: quello dei bambini orfani, disperati, senza possibilità. Non si può fare altrimenti. Anche nonna Camilla era stata costretta a farlo con alcuni dei suoi figli, nei primi anni di vedovanza, e ha convinto mia madre a fare altrettanto. Lei non vuole, si agita, quasi impazzisce, le si strappa il cuore, si fa a brandelli. Ma tutta quella gente, ormai a doppia cifra, a mangiare dallo stesso piatto, non ci si riesce. Mamma mi accompagna il mio primo giorno di asilo, non riesce nemmeno a fingere un sorriso, perché è arrabbiata, perché devo pagare le conseguenze dei suoi sbagli, quelle dei suoi errori, e di quelli del mondo. Sono triste anch'io.

L'ho sentita piangere tutta la notte.

2. Crossing over

Piange lei e piango pure io, qui dove sto adesso. Non so cosa sia un anno luce, ma so che da qui a casa mia, da qui a mamma, a nonna, ai limoni, ce ne devono essere almeno tre. Quello che vedo non mi piace.  Non mi piace per niente. Ci hanno abbandonato, dice il cervello. Siamo diventati orfani, piangono le lacrime. Mamma non ci può tenere, puntualizza la logica ma siccome a tre anni di logica ne ho ancora pochina, solo due cose mi riescono: disperarmi e non capire. Non capisco perché devo stare qui, in un istituto per orfanelli, circondato da orfanelli e accudito da signore tutte nere e tutte vecchie che di lavoro allevano orfanelli, come il contadino della cascina alleva galline e conigli. E mi dispero perché ancora non lo so, ma pure se capissi non mi piacerebbe per niente: io non sono un orfanello. Nemmeno un po’. Io una mamma ce l’ho. È brava, e bella. Ho una nonna, una sorella grande. Una casa stupenda, con un giardino, le pareti pitturate, il tetto diverso da tutte le altre. Le altre case il tetto ce l’hanno piatto. Il nostro invece è a punta, dritto al cielo. Come nelle fiabe. Dove sono adesso non è brutto, ma non è casa e quindi fa schifo. Mi ci hanno mandato perché non mi volevano più. Perché avevo troppa fame. Perché lasciavo le ditate sui vetri. Sono qui perché mamma non mi vuole più bene? No. Nonna dice che qui potrò crescere meglio di come crescerei a casa, e me lo ripete che sta vicina vicina, giusto a due passi. A soli due isolati da dove sono io. Sì, sì, le dico mentre penso che due isolati è troppo lontano, è comunque più di un braccio.

Qui, dal Diana, vai sempre dritto, dalla Chiesa Russa, per soli tre isolati. Il primo villino a destra è il nostro. Dal primo giorno guardo le finestre. Non ci arrivo ancora, ma prima o poi scappo. (…)  

*

Una settimana, due, il primo mese.

Si dimenticherà di me, mamma?

Verrà a trovarmi?

Dormiamo tutti insieme in uno stanzone. È una camerata lunghissima, come da qui alla Luna, con altri bambini, orfani veri ma non glielo devo dire. Li guardo e mi chiedo perché. Vicino al mio letto c’è uno con i piedi che puzzano. Puzzano sempre. Anche quando li lava. Non è che li lavi spesso. Si vede che ha capito che non serve. Fatto sta che puzzano e ogni volta che si muove sotto il lenzuolo, io starnutisco poi mi infilo con tutta la testa sotto il cuscino, dentro la federa. Faccio un po’ fatica a respirare, ma almeno non sento la puzza. La mia stanza è sotto questo lenzuolo. Colazione con il latte e il pane della sera prima, pranzo e cena. In mezzo la merenda, ma non sempre. Mangio. Mangio tutto. Ci metto poco perché se no arriva un bambino più veloce poi mi ruba il piatto.

Freddo, meno freddo, caldo. Caldissimo. Di nuovo freddo. Due mesi, tre, un anno. La neve, per la prima volta, fa diventare tutto bianco, prima, e marrone chiaro, poi. È fredda che scotta le mani e la lingua. E anche bella e ci si può giocare. Chissà com’è casa, con la neve, mi chiedo.

Faccio colazione, gioco in cortile, faccio ginnastica, guardo le finestre. Sogno di scappare, rimangio, rigioco, dico le preghiere e vado a letto. Quando sono nella camerata, sotto il cuscino, poi le ridico, le preghiere. Per piacere, chiedo a Gesù, riportami a casa. Le dico a mente, senza parlare. Oppure con la voce bassa bassa. Lui però non mi sente. O è sordo, oppure sono io che parlo troppo piano.

Sei mesi. Sette, un altro anno.

Poi un giorno sono malato. Sono coperto di puntini rossi e mi prude tutto. Sto nel letto da solo, lontano dagli altri, in una stanza con tre letti che chiamano infermeria. Ogni tanto arriva una suora a vedere come va. Mi mette il termometro, sta lì per un po’, poi lo guarda e alla fine va via. Io ho solo voglia di grattarmi, ma questo non posso farlo, e di dormire, che invece va bene. Ho voglia di addormentarmi e svegliarmi nel letto di mamma. Chiudo gli occhi. Nascondo la faccia sotto il cuscino. Lo bagno subito perché mi salgono le lacrime dalla pancia. Poi la sento.

- Gianni.

La voce è bassissima. Un soffio. Sto sognando. Oppure, se magari Gesù non riesce a sentirmi, le orecchie di mamma ci riescono.

- Gianni, tesò, guarda…

È mamma? Sì è proprio mamma. Che bel sogno!

- Esci dal cuscino, dai, guarda che ti ho portato.

Se è un sogno, non voglio che finisca. Meglio non muovermi. Se sto fermo fermo, forse va avanti”…

 

È solo una pagina, ma non è difficile commuoversi “ascoltando” i pensieri di un piccolino di tre anni, “esiliato” in un orfanotrofio di “orfanelli veri”, mentre lui una mamma ce l’ha ed “è brava e bella”. Ma deve rimanere lontano da lei per almeno tre anni. Allora si fa mille ghirigori mentali, che hanno una loro verità: “Ci hanno abbandonato, dice il cervello. Siamo diventati orfani, piangono le lacrime. Mamma non ci può tenere, puntualizza la logica ma siccome a tre anni di logica ne ho ancora pochina, solo due cose mi riescono: disperarmi e non capire. Non capisco perché devo stare qui, in un istituto per orfanelli, circondato da orfanelli e accudito da signore tutte nere e tutte vecchie che di lavoro allevano orfanelli, come il contadino della cascina alleva galline e conigli”. Ed è un modo decisamente diverso, originale di riportare i pensieri bambini, ma non troppo. Sopraggiungono mille dubbi con i mesi che passano in un assalto di treni come alle stazioni di fermata: “Si dimenticherà di me, mamma? Verrà a trovarmi?”. Nell’orfanotrofio c’è una tentazione: “le finestre”. Gli hanno detto che il suo villino è ha pochi passi, ci sono solo tre isolati da attraversare… “più lunghi di un braccio” e le finestre sono troppo alte per i suoi minuscoli tre anni, ma prima o poi di là tenterà la fuga per raggiungere il villino, la mamma, la nonna, sua sorella di parecchi anni maggiore, che ha diritto chissà perché al suo spazio, a lui negato, nella casa che pure ha un giardino e tetti aguzzi che volano verso il cielo. Spesso, dopo i pensieri di fuga e dei giochi nel suo giardino d’erba verde e di limoni, si mette a pregare in un sussurro di dialogo con Gesù perché lo riporti a casa. “Lui però non mi sente. O è sordo, oppure sono io che parlo troppo piano. Sei mesi. Sette, un altro anno”.

Poi, un giorno il piccolo Matteo-Gianni (dall’abbinamento del nome di suo nonno+quello di sua madre, al maschile) si ammala di una malattia esantematica, che lo ricopre di puntini rossi e di prurito dalla testa ai piedi e la nostalgia della mamma, delle sue braccia, del suo sorriso si fa più acuta, più imperativa. “Ho voglia di addormentarmi e svegliarmi nel letto di mamma. Chiudo gli occhi. Nascondo la faccia sotto il cuscino. Lo bagno subito perché mi salgono le lacrime dalla pancia”. E le lacrime ora prendono il sopravvento anche nei nostri occhi di fronte a un pancino che disperato invia gocce di amaro rimpianto negli occhi del suo piccolo eroe con “la faccia nascosta sotto il cuscino”. E la voce della mamma lo raggiunge. Ma lui crede sia un sogno e sta “fermo fermo” per non svegliarsi. E si ferma anche il nostro cuore per un attimo di tenerezza infinita. Poi, però, realizziamo che è la scrittura di Matteo Gelardi, medico e scienziato, dotato di tanta creatività e tanta poesia, a coinvolgerci mirabilmente nella sua storia, catturandoci con il linguaggio dei bambini, che gli riesce benissimo, per una totale osmosi dei suoi pensieri e del suo cuore con quelli del suo sé piccolino. Ed è un trionfo di freschezza d’erba e di limoni, tradotta in pensieri, parole, lacrime, che ci coinvolgono, sconvolgono, redimono. Nella sua e nella nostra ritrovata innocenza.

Grazie, Matteo, per tanta bellezza e purezza. Ne abbiamo tutti bisogno. Oggi più che mai…

   

  

venerdì 1 aprile 2022

Venerdì 1° aprile 2022: Ancora di Lei: mia Madre e alcune prose e poesie che la sintetizzano...

Sì. È ancora tempo di parlare di Lei.

‘Come si fa a sopravvivere alla propria madre?’, mi chiesi mentre la portavano via e sapevo che era per sempre. Il tempo mi ha insegnato che si può. Si diventa improvvisamente orfani e adulti. Irrimediabilmente. E si diventa orfani dei miti e degli eroi. Delle voci che non riesci più ad ascoltare o a ricordare, delle canzoni che non sai più cantare e delle strade che non puoi più percorrere, degli amici che ti lasci alle spalle per sempre… Di qui la solitudine di ciascuno, orfano tra la folla…

Ed ora posso solo parlare di Lei. Ed è sempre il tempo giusto per farlo. E lo faccio ogni volta che posso. Troppo è il rimpianto, soffocante la nostalgia. Perché solo dopo, solo dopo ho capito molte più cose di Lei. Della sua sofferenza silenziosa. Solo dopo ho sgranato i miei tanti rosari dei comportamenti sbagliati con Lei, anche con Lei. I lunghi silenzi. I rarissimi incontri. La solitudine dolente che le procuravo (ti ho persa vivente… non ti preoccupare fai le cose che devi fare… vieni quando puoi venire… chissà se ti rivedo ancora…)

Ed ora che mi manca come il respiro, Lei non c’è nella sua casa per andare a cercarla e coccolarla con tutte le confidenze mai più sussurrate, con i baci mai più dati, con le carezze che avrei voluto depositare sulle sue guance di pesca chiara. Mi conforta a malapena il ricordo dei rari incontri nella sua casa e del mio prenderle la mano per coprirla di teneri tocchi leggeri con le labbra e i suoi occhi si slargavano di luminosa accoglienza in uno sguardo di illimitato perdono…

Mia madre la sconosciuta amata/ l’isola del tesoro la benvenuta/ il giorno della festa/ biglietto di sola andata/ giorni d’estate voglia di mare/ (mia madre solo sogno da sognare)// Mia madre suonava da ragazzina/ note di mandolino stelle da contare/ capriccio in si minore/ scarsa voglia di studiare/ voli di risate incontro al sole/ (mia madre è ricordo di viole)// Mia madre cantava ogni mattina/ ugola d’argento e ombra della sera/Lilì Marlen e luce dei fanali/ strade nei boschi tango di capinera/ voce di pioggia pallida signorinella/ (mia madre era la canzone più bella)// Mia madre giocava con le amiche/ giochi di vento tra cuscini in volo/ di bicchieri colmi d’acqua da versare/ giochi di doppi sensi giochi di ruolo/ giochi di divise e folli divertimenti/ (mia madre regina di travestimenti)// Mia madre ballava anche da sola/ un valzer blu mazurka spensierata/ tango argentino sguardo malioso/ in un bolero malinconia ingoiata/ foxtrot polka gonna onda di mare/ (mia madre labbra dolci da baciare)// Mia madre risata lunga di sua madre/ malizia di parole dette o taciute/ complicità di segreti mai rivelati/ in passeggiate solitarie e mute/ e nodi al fazzoletto passi di neve/ (mia madre era una favola lieve)// Mia madre era pianto trattenuto/ lieve piuma di nido mai partita/ e tenere promesse alla stazione/ lacrime nascoste e festa finita/ andava via sul finire del giorno/ (mia madre rondine senza ritorno)// Mia madre cucinava acqua e sale/ angurie rossofuoco fagiolini da bollire/ profumo di ragù frittate e pomi d’oro/ focaccia con patate torte da farcire/ forno acceso e paura di sbagliare/ (mia madre una ricetta da conservare)// Mia madre era pianto silenzioso/ versava lacrime di solitarie stelle/ lacrime di spine lacrime di vento/ tristezza e rimpianto sulla pelle/ e labbra mute da non potersi dire/ (mia madre era lacrima da intuire)// Mia madre era bella più che mai/ pelle di pesca occhi di luna scura/ capelli neri e labbra di rose e miele/ cipria profumata d’ambra pura/ passo leggero e seni di velluto/ (mia madre bella fino all’ultimo saluto)// Mia madre era la sconosciuta amata/ l’isola del tesoro la benvenuta/ il giorno della festa/ biglietto di sola andata. (“La ballata della madre”, da “Le piogge” I vol de Le piogge e i ciliegi, romanzo edito, Secop 2017)

Festa della mamma 2020: Questa notte,/ a mezzanotte/ - giuro -/ oltre i vetri/ che ancora mi tengono/ prigioniera,/ una stella cadente,/ luminosissima,/ mi ha attraversato gli occhi/ ingigantendo nel cuore/ con un desiderio sussurrato/ quasi di preghiera,/ nel silenzio/ che si fa attesa/ del nuovo giorno/ - tenero richiamo d’anima -/ (per te, mamma dolcissima,/ questo mio canto sommesso./ A te, che mi hai mandato giù/ una stella/ perché possa tenerla accesa/ tra le mie mani).

MAMMA Melagrana feconda e generosa/ Palma di pace sorriso di mitezza/ Nuvola leggera di silenziose lacrime/ Perlescente semplicità di luminosa Luna/ Fiamma viva a riscaldare rimpianti/ Carezza di Luce Anima della nostra Anima

 

Un soffio di tempo la distanza/ della tenerezza dei tuoi occhi dai miei,/ un’eternità il tempo della distanza/ da quel mattino d’inizio primavera quando/ tu pregasti inerme e silenziosa d’andare via./ - Ancora? - mormoravi distrutta dall’attesa,/ già pronta per il viaggio di sola andata./ “Ancora?” pigolavi al nostro cuore straziato./ E noi con funi e catene a trattenerti ancora,/ con baci di liquido amore a lasciarti andare./ Nei campi solo ieri ho visto gemme di mandorli/ e peschi e ciliegi rifiorire tra i sempreverdi ulivi./ Già cantano al sole la ventesima nuova stagione/ che ingioiella il verde tenero delle zolle/ di rugiadosi diamanti stillanti gocce di luce/ SENZA DI TE / E uno splendore di rami festosi esige/ un impossibile ritorno privo d’attesa./ T’ingemmavi anche tu d’eterna primavera/ con fili di perle e di corallo e collanine d’oro/ fino che ti ornavano il collo e la pelle chiara./ E un profumo fresco di fresie e di giunchiglie/ ti avvolgeva come nuvole di rose nel giardino./ Tu sapore d’estate, di mare e di rosse angurie./ Sapore di lontananza e di silenzi e d’attese./Sei andata via, e io come da bambina/ ti do le spalle per non vederti sparire/ all’orizzonte di giorni dimentichi di ieri,/ che rifiutano il ricordo delle tue parole/ e di ogni tuo andare che colmava di spine/ le strade dei nostri insaziati incontri/   rari sempre più rari   / in un silenzio di squarci di deserti attraversati/ prima di ogni noi e dopo ogni di noi,/ prima di ogni te privo di te./ (nemesi ignorata e temuta/   sono qui   / madre anch’io di lontananze e di silenzi/ di inutili straziate attese).

<Il ricordo

Fu una primavera fredda anche quell’anno. Stanchi d’aspettarti venimmo da te a febbraio con la neve. E a marzo. Nell’arco di poco più di un mese avevi subito due interventi e ti accingevi a sottoporti al terzo. Ti trovammo smagrita, impaurita, rassegnata. Era un marzo esasperato e senza fiori. Ti raggiungemmo il 21 per portarti un inizio di primavera e, magari, un raggio di sole. Sarebbe servito a scaldarti, a illuminare pensieri e cuore. E un raggio di sole, il giorno dopo, si fermò a fissarti dalla grande vetrata della corsia dove eri insieme ad altre degenti, tutte più giovani di te e attente ai mali di tutte. “Mamma”, ti dissi sorridendoti, “vedi? C’è il sole. È venuto pure lui a visitarti. Sorridigli. È di buon auspicio. Vedrai che starai meglio. Presto ti porteremo a casa”. Non sorridesti. E non lo guardasti. Guardasti me con occhi vuoti e cuore stanco. E una tristezza infinita ti rese piccolo il volto, bianco più del lenzuolo. “Possibile che neppure il sole ti dà un pizzico di sollievo? E dai, mamma, guardalo! Finalmente è una bella giornata e tu neanche te ne accorgi. Non vuoi accorgertene!” Guardasti di nuovo me, ignorando il sole e la bella giornata. E avevi occhi di lacrime e di muto rimprovero. Io, il cuore stretto e un disappunto non detto in quel silenzio che ci fece male. Due giorni dopo ti portarono nella clinica nuova per il terzo intervento. Avevi in testa un copricapo di lana rosa che ti rendeva una bimba impaurita e sperduta. Non avresti voluto subire quel nuovo massacro alle tue carni, alla tua anima. Ma, ubbidiente come sempre agli altri, alla sorte, al volere di Dio, eri là. Ti lasciasti portare, agnello sacrificale al macello. Inerme. Sola. Nonostante i tuoi figli (quattro di sei: due impossibilitati a raggiungerti) accanto a te. Ci fu la paura a farti compagnia. Poi venne il coraggio. Speravamo ancora di portarti a casa. “Intervento riuscito”, ci dissero, “tra qualche giorno la dimettiamo”. Partimmo in attesa di riaverti con noi. Lungo il viaggio di ritorno facevamo progetti per te, con te. Ti riportarono dopo due giorni in condizioni disperate. Una dottoressa coraggiosa percorse con te mille chilometri in ambulanza per riportarti a casa. Viva. Ti fece estenuata compagnia la figlia più giovane, da tre mesi con te a Monza. Insieme raccolsero il tuo dolore e le stente parole. Ti portarono nella tua casa sospesa in un lenzuolo e ti adagiarono nel lettino che avevamo preparato per te al centro della camera. Ci sorridesti, riconoscendoci tutti: figlie e generi, figli e nuore, i nipoti. Tentasti qualche parola, un gesto d’amore per dirci addio. Così per due giorni. Ci chiedevi esausta: “ancora?”. Eri stanca di soffrire. E cominciò l’attesa: tua, nostra. Volevi andar via. Volevamo lasciarti andar via. Per amore. Troppo era lo strazio che ci avvolgeva nella tua casa. Io scappai prima che accadesse. Ti voltai le spalle come da ragazzina quando ogni tuo raro ritorno era già un addio e, per non vederti andar via, ti lasciavo prima, scoppiando in lacrime solo dopo, sapendo la tua presenza già un ricordo.

Ora sei ricordo.

Alle otto del 1° aprile mi giunse l’attesa telefonata che mi sparò nell’anima la notizia. Sapevo che era vera ma pensai ad uno scherzo. Era la mia mente che andava in deviazione per non arrendersi alla realtà. Non c’eri più. E non c’era neppure il sole. Sin d’allora mi serpeggiò dentro il rimorso, mai più soffocato, di non aver compreso fino in fondo il tuo dolore, che t’impediva di godere persino di un raggio di sole. Parecchi anni dopo, anch’io in una corsia d’ospedale, lottando tra la vita e la morte con lo stesso dolore, un misto d’ansia e di paura, un tormento che già mi proiettava oltre la vita, non guardavo il sole che m’invitava a godere di un autunno mite e buono. Non volevo vederlo. Oggi, sabato 30 marzo, ripercorro il tuo calvario e il rimanente giorno con noi. Tornasti di giovedì sera, dopo un allucinato viaggio lungo quanto lunga l’Italia. E siamo stati avvolti dal tuo dolore, visibile nel fremito scosso del tuo braccio destro e nello spropositato gonfiore della gamba sinistra, nel tuo corpo di uccellino senza ali, nel tuo stanco sorriso a dirci con appena sussurrate e biascicate parole che ci sapevi là con te, ancora per poco. Ci alternavamo al tuo sguardo, alle tue mani. Fu proprio di sabato sera quando, fissandomi preoccupata di vedermi ancora nella tua casa, io che non c’ero stata mai, mi mormorasti a stento, “vai a casa se no…”. Preoccupata fino alla fine di non crearmi problemi nella mia casa. “Non ti preoccupare”, ti dissi affranta. Poi, andai via. Già. Appunto come da bambina. Ti voltai le spalle per anticipare il tuo lasciarmi. Sono stata tutta la notte a pregare perché ti venissero risparmiate altre sofferenze. E, alle otto di quella domenica senza cielo e senza speranza, il trillo del telefono…

Mi rimane di te feroce questo tormento e il rimorso di aver per anni rimandato all’infinito i nostri rari incontri: per un lavoro ingrato/amato che mi attanagliava, logorando/divorando i miei giorni. Non avevo tempo neppure per te e sistematicamente deludevo la tua ansia di vedermi. Mi riprende anche oggi lo sconforto di aver ignorato i tuoi giorni di solitudine. E di attesa dei miei passi a confortarti di un ritorno. Mi rimangono le carezze alla tua mano, quando un soffio di tempo e di nostalgia mi riportavano da te in una fretta di minuti che ignoravano le ore. “Avremo tempo”, ti dicevo, tra lacrime non piante. Non c’è stato più il tempo. Solo il ricordo. Presente come la tua anima ai miei giorni>. (da “I ciliegi” II vol. de Le piogge e i ciliegi, romanzo edito, Secop 2017)

 

(Ma come si fa a sopravvivere alla propria madre? Come sia possibile ignorare lo sradicamento feroce di quella parte di te che è ancora il suo prolungamento. Con lei hai vissuto prima che ti scoprissero gli altri. Prima che ti vedessero nascere e crescere. Sei stata cullata dal battito del suo cuore. L’hai sentita cantare e ridere e piangere e le sue parole erano musica, le sue lacrime punte di spilli al tuo cuoricino, le sue canzoni le ninnenanne che ti avrebbero cullato anche dopo.

Con la morte di tua madre la parte più vera di te rimane nella sua tomba, la parte più sicura, quella che non teme il mondo perché c’è lei a proteggerti, a farsi carico dei tuoi dolori, a sollecitarti alla gioia, ad attendere con te che la strada da percorrere ti porti alla felicità.

Lei a farti da madre anche quando tu sei madre e senti che hai bisogno ancora della sua mano, del suo sorriso, del suo coraggio. E che i tuoi figli hanno bisogno di lei).

‘Come si fa a sopravvivere alla propria madre?’, mi chiesi mentre la portavano via e sapevo che era per sempre.

Il tempo mi ha insegnato che si può.

Si diventa improvvisamente orfani e adulti.

Irrimediabilmente.

E si diventa orfani dei miti e degli eroi.

Delle voci che non riesci più ad ascoltare o a ricordare, delle canzoni che non sai più cantare e delle strade che non puoi più percorrere, degli amici che ti lasci alle spalle per sempre e di quelli che avrebbero potuto ancora farti compagnia se non ti avessero tradita. Perché, ad un tratto, scopri che quel sentimento in cui credevi e ti avrebbe visto sulle barricate sempre in loro difesa non li avrebbe visti neppure su un minuscolo terrapieno per proclamare la tua innocenza e la tua lealtà. Altri sfilacciamenti di certezze deluse. Altre ferite ricevute a bruciapelo alle spalle e in pieno petto da quelli in cui credevi. Stelle franano senza certezze, senza verità. Ognuno vanta le proprie ragioni senza ascoltare le ragioni dell’altro, degli altri. Ognuno evita di accettare le proprie ombre, pago di scoprirle negli altri per sentirsi innocente.

                     Come dirlo ai figli senza spegnere in loro sogni speranze?

Col tempo si impara da soli e non ci sono più maestri né consiglieri.

 

<… “pelle di pesca” la chiamavamo, accarezzandole il viso morbido, liscio, profumato. Il suo profumo la precedeva ovunque, come il suo passo lieve. Tanto lieve da sembrarci quasi che danzasse, sollevata da terra, ogni volta che, entrando, illuminava le stanze.

“In punta di piedi” sempre, mia nonna, sembrava fosse stata baciata dalle Grazie: dalle movenze alle parole al cuore.

Niente in lei era stonato. Nessuna invadenza, nessuna prepotenza, mai.

Niente che potesse svilirla ai nostri occhi.

Non si poteva non amarla. Non era faticoso farlo, anzi!

Andarle incontro, felici di vederla, era semplice, naturale, spontaneo per noi nipoti.

Non potevamo fare a meno di abbracciarla: “Ehi, amore mio”, diceva.

Ci aveva conquistati tutti, dal più estroverso al più timido, senza inutili smancerie: con lei cadevano le barriere e baciarla, dicendole “Ti voglio bene”, era più facile che dirlo alle nostre mamme…>

(Raffaella, “NONNA DOLCISSIMA”, stralcio della Lettera aperta a nonna Carmela)

(da “I ciliegi” II vol. de Le piogge e i ciliegi, romanzo edito, Secop 2017)

 Come si fa a non parlare ancora di Lei?