Sì. È ancora tempo di parlare di Lei.
‘Come
si fa a sopravvivere alla propria madre?’, mi chiesi mentre la portavano via e
sapevo che era per sempre. Il tempo mi ha insegnato che si può. Si diventa
improvvisamente orfani e adulti. Irrimediabilmente. E si diventa orfani dei
miti e degli eroi. Delle voci che non riesci più ad ascoltare o a ricordare,
delle canzoni che non sai più cantare e delle strade che non puoi più
percorrere, degli amici che ti lasci alle spalle per sempre… Di qui la
solitudine di ciascuno, orfano tra la folla…
Ed
ora posso solo parlare di Lei. Ed è sempre il tempo giusto per farlo. E lo
faccio ogni volta che posso. Troppo è il rimpianto, soffocante la nostalgia.
Perché solo dopo, solo dopo ho capito molte più cose di Lei. Della sua
sofferenza silenziosa. Solo dopo ho sgranato i miei tanti rosari dei
comportamenti sbagliati con Lei, anche con Lei. I lunghi silenzi. I rarissimi
incontri. La solitudine dolente che le procuravo (ti ho persa vivente… non ti preoccupare fai le cose che devi fare…
vieni quando puoi venire… chissà se ti rivedo ancora…)
Ed
ora che mi manca come il respiro, Lei non c’è nella sua casa per andare a
cercarla e coccolarla con tutte le confidenze mai più sussurrate, con i baci
mai più dati, con le carezze che avrei voluto depositare sulle sue guance di
pesca chiara. Mi conforta a malapena il ricordo dei rari incontri nella sua
casa e del mio prenderle la mano per coprirla di teneri tocchi leggeri con le
labbra e i suoi occhi si slargavano di luminosa accoglienza in uno sguardo di illimitato
perdono…
Mia madre la sconosciuta amata/ l’isola
del tesoro la benvenuta/ il giorno della festa/ biglietto di sola andata/ giorni
d’estate voglia di mare/ (mia madre solo sogno da sognare)// Mia madre suonava
da ragazzina/ note di mandolino stelle da contare/ capriccio in si minore/ scarsa
voglia di studiare/ voli di risate incontro al sole/ (mia madre è ricordo di
viole)// Mia madre cantava ogni mattina/ ugola d’argento e ombra della sera/Lilì
Marlen e luce dei fanali/ strade nei boschi tango di capinera/ voce di pioggia
pallida signorinella/ (mia madre era la canzone più bella)// Mia madre giocava
con le amiche/ giochi di vento tra cuscini in volo/ di bicchieri colmi d’acqua
da versare/ giochi di doppi sensi giochi di ruolo/ giochi di divise e folli
divertimenti/ (mia madre regina di travestimenti)// Mia madre ballava anche da
sola/ un valzer blu mazurka spensierata/ tango argentino sguardo malioso/ in un
bolero malinconia ingoiata/ foxtrot polka gonna onda di mare/ (mia madre labbra
dolci da baciare)// Mia madre risata lunga di sua madre/ malizia di parole
dette o taciute/ complicità di segreti mai rivelati/ in passeggiate solitarie e
mute/ e nodi al fazzoletto passi di neve/ (mia madre era una favola lieve)// Mia
madre era pianto trattenuto/ lieve piuma di nido mai partita/ e tenere promesse
alla stazione/ lacrime nascoste e festa finita/ andava via sul finire del
giorno/ (mia madre rondine senza ritorno)// Mia madre cucinava acqua e sale/ angurie
rossofuoco fagiolini da bollire/ profumo di ragù frittate e pomi d’oro/ focaccia
con patate torte da farcire/ forno acceso e paura di sbagliare/ (mia madre una
ricetta da conservare)// Mia madre era pianto silenzioso/ versava lacrime di
solitarie stelle/ lacrime di spine lacrime di vento/ tristezza e rimpianto
sulla pelle/ e labbra mute da non potersi dire/ (mia madre era lacrima da
intuire)// Mia madre era bella più che mai/ pelle di pesca occhi di luna scura/
capelli neri e labbra di rose e miele/ cipria profumata d’ambra pura/ passo
leggero e seni di velluto/ (mia madre bella fino all’ultimo saluto)// Mia madre
era la sconosciuta amata/ l’isola del tesoro la benvenuta/ il giorno della
festa/ biglietto di sola andata. (“La
ballata della madre”, da “Le piogge” I
vol de Le piogge e i ciliegi, romanzo edito, Secop 2017)
Festa
della mamma 2020: Questa notte,/ a
mezzanotte/ - giuro -/ oltre i vetri/ che ancora mi tengono/ prigioniera,/ una
stella cadente,/ luminosissima,/ mi ha attraversato gli occhi/ ingigantendo nel
cuore/ con un desiderio sussurrato/ quasi di preghiera,/ nel silenzio/ che si
fa attesa/ del nuovo giorno/ - tenero richiamo d’anima -/ (per te, mamma
dolcissima,/ questo mio canto
sommesso./ A te, che mi hai mandato giù/ una stella/ perché possa tenerla
accesa/ tra le mie mani).
MAMMA
Melagrana feconda e generosa/ Palma di pace sorriso di mitezza/ Nuvola leggera
di silenziose lacrime/ Perlescente semplicità di luminosa Luna/ Fiamma viva a
riscaldare rimpianti/ Carezza di Luce Anima della nostra Anima
Un soffio di tempo la distanza/ della
tenerezza dei tuoi occhi dai miei,/ un’eternità il tempo della distanza/ da
quel mattino d’inizio primavera quando/ tu pregasti inerme e silenziosa d’andare
via./ - Ancora? - mormoravi distrutta dall’attesa,/ già pronta per il viaggio
di sola andata./ “Ancora?” pigolavi al nostro cuore straziato./ E noi con funi
e catene a trattenerti ancora,/ con baci di liquido amore a lasciarti andare./
Nei campi solo ieri ho visto gemme di mandorli/ e peschi e ciliegi rifiorire
tra i sempreverdi ulivi./ Già cantano al sole la ventesima nuova stagione/ che
ingioiella il verde tenero delle zolle/ di rugiadosi diamanti stillanti gocce
di luce/ SENZA DI TE / E uno splendore di rami festosi esige/ un impossibile
ritorno privo d’attesa./ T’ingemmavi anche tu d’eterna primavera/ con fili di
perle e di corallo e collanine d’oro/ fino che ti ornavano il collo e la pelle
chiara./ E un profumo fresco di fresie e di giunchiglie/ ti avvolgeva come
nuvole di rose nel giardino./ Tu sapore d’estate, di mare e di rosse angurie./
Sapore di lontananza e di silenzi e d’attese./Sei andata via, e io come da
bambina/ ti do le spalle per non vederti sparire/ all’orizzonte di giorni
dimentichi di ieri,/ che rifiutano il ricordo delle tue parole/ e di ogni tuo
andare che colmava di spine/ le strade dei nostri insaziati incontri/ rari sempre più rari / in un silenzio di squarci di deserti
attraversati/ prima di ogni noi e dopo ogni di noi,/ prima di ogni te privo di
te./ (nemesi ignorata e temuta/ sono
qui / madre anch’io di lontananze e di
silenzi/ di inutili straziate attese).
<Il
ricordo
Fu una primavera fredda anche
quell’anno. Stanchi d’aspettarti venimmo da te a febbraio con la neve. E a
marzo. Nell’arco di poco più di un mese avevi subito due interventi e ti
accingevi a sottoporti al terzo. Ti trovammo smagrita, impaurita, rassegnata.
Era un marzo esasperato e senza fiori. Ti raggiungemmo il 21 per portarti un
inizio di primavera e, magari, un raggio di sole. Sarebbe servito a scaldarti,
a illuminare pensieri e cuore. E un raggio di sole, il giorno dopo, si fermò a
fissarti dalla grande vetrata della corsia dove eri insieme ad altre degenti,
tutte più giovani di te e attente ai mali di tutte. “Mamma”, ti dissi
sorridendoti, “vedi? C’è il sole. È venuto pure lui a visitarti. Sorridigli. È
di buon auspicio. Vedrai che starai meglio. Presto ti porteremo a casa”. Non
sorridesti. E non lo guardasti. Guardasti me con occhi vuoti e cuore stanco. E
una tristezza infinita ti rese piccolo il volto, bianco più del lenzuolo. “Possibile
che neppure il sole ti dà un pizzico di sollievo? E dai, mamma, guardalo!
Finalmente è una bella giornata e tu neanche te ne accorgi. Non vuoi accorgertene!”
Guardasti di nuovo me, ignorando il sole e la bella giornata. E avevi occhi di
lacrime e di muto rimprovero. Io, il cuore stretto e un disappunto non detto in
quel silenzio che ci fece male. Due giorni dopo ti portarono nella clinica
nuova per il terzo intervento. Avevi in testa un copricapo di lana rosa che ti
rendeva una bimba impaurita e sperduta. Non avresti voluto subire quel nuovo
massacro alle tue carni, alla tua anima. Ma, ubbidiente come sempre agli altri,
alla sorte, al volere di Dio, eri là. Ti lasciasti portare, agnello sacrificale
al macello. Inerme. Sola. Nonostante i tuoi figli (quattro di sei: due
impossibilitati a raggiungerti) accanto a te. Ci fu la paura a farti compagnia.
Poi venne il coraggio. Speravamo ancora di portarti a casa. “Intervento
riuscito”, ci dissero, “tra qualche giorno la dimettiamo”. Partimmo in attesa
di riaverti con noi. Lungo il viaggio di ritorno facevamo progetti per te, con
te. Ti riportarono dopo due giorni in condizioni disperate. Una dottoressa
coraggiosa percorse con te mille chilometri in ambulanza per riportarti a casa.
Viva. Ti fece estenuata compagnia la figlia più giovane, da tre mesi con te a
Monza. Insieme raccolsero il tuo dolore e le stente parole. Ti portarono nella
tua casa sospesa in un lenzuolo e ti adagiarono nel lettino che avevamo
preparato per te al centro della camera. Ci sorridesti, riconoscendoci tutti:
figlie e generi, figli e nuore, i nipoti. Tentasti qualche parola, un gesto
d’amore per dirci addio. Così per due giorni. Ci chiedevi esausta: “ancora?”.
Eri stanca di soffrire. E cominciò l’attesa: tua, nostra. Volevi andar via.
Volevamo lasciarti andar via. Per amore. Troppo era lo strazio che ci avvolgeva
nella tua casa. Io scappai prima che accadesse. Ti voltai le spalle come da ragazzina
quando ogni tuo raro ritorno era già un addio e, per non vederti andar via, ti
lasciavo prima, scoppiando in lacrime solo dopo, sapendo la tua presenza già un
ricordo.
Ora sei ricordo.
Alle otto del 1° aprile mi giunse
l’attesa telefonata che mi sparò nell’anima la notizia. Sapevo che era vera ma
pensai ad uno scherzo. Era la mia mente che andava in deviazione per non
arrendersi alla realtà. Non c’eri più. E non c’era neppure il sole. Sin
d’allora mi serpeggiò dentro il rimorso, mai più soffocato, di non aver
compreso fino in fondo il tuo dolore, che t’impediva di godere persino di un
raggio di sole. Parecchi anni dopo, anch’io in una corsia d’ospedale, lottando
tra la vita e la morte con lo stesso dolore, un misto d’ansia e di paura, un
tormento che già mi proiettava oltre la vita, non guardavo il sole che
m’invitava a godere di un autunno mite e buono. Non volevo vederlo. Oggi,
sabato 30 marzo, ripercorro il tuo calvario e il rimanente giorno con noi.
Tornasti di giovedì sera, dopo un allucinato viaggio lungo quanto lunga
l’Italia. E siamo stati avvolti dal tuo dolore, visibile nel fremito scosso del
tuo braccio destro e nello spropositato gonfiore della gamba sinistra, nel tuo
corpo di uccellino senza ali, nel tuo stanco sorriso a dirci con appena sussurrate
e biascicate parole che ci sapevi là con te, ancora per poco. Ci alternavamo al
tuo sguardo, alle tue mani. Fu proprio di sabato sera quando, fissandomi
preoccupata di vedermi ancora nella tua casa, io che non c’ero stata mai, mi
mormorasti a stento, “vai a casa se no…”. Preoccupata fino alla fine di non
crearmi problemi nella mia casa. “Non ti preoccupare”, ti dissi affranta. Poi,
andai via. Già. Appunto come da bambina. Ti voltai le spalle per anticipare il
tuo lasciarmi. Sono stata tutta la notte a pregare perché ti venissero
risparmiate altre sofferenze. E, alle otto di quella domenica senza cielo e
senza speranza, il trillo del telefono…
Mi rimane di te feroce questo tormento
e il rimorso di aver per anni rimandato all’infinito i nostri rari incontri:
per un lavoro ingrato/amato che mi attanagliava, logorando/divorando i miei
giorni. Non avevo tempo neppure per te e sistematicamente deludevo la tua ansia
di vedermi. Mi riprende anche oggi lo sconforto di aver ignorato i tuoi giorni
di solitudine. E di attesa dei miei passi a confortarti di un ritorno. Mi
rimangono le carezze alla tua mano, quando un soffio di tempo e di nostalgia mi
riportavano da te in una fretta di minuti che ignoravano le ore. “Avremo
tempo”, ti dicevo, tra lacrime non piante. Non c’è stato più il tempo. Solo il
ricordo. Presente come la tua anima ai miei giorni>. (da “I
ciliegi” II vol. de Le piogge e i ciliegi, romanzo edito, Secop 2017)
(Ma come si fa a sopravvivere alla
propria madre? Come sia possibile ignorare lo sradicamento feroce di quella
parte di te che è ancora il suo prolungamento. Con lei hai vissuto prima che ti
scoprissero gli altri. Prima che ti vedessero nascere e crescere. Sei stata
cullata dal battito del suo cuore. L’hai sentita cantare e ridere e piangere e
le sue parole erano musica, le sue lacrime punte di spilli al tuo cuoricino, le
sue canzoni le ninnenanne che ti avrebbero cullato anche dopo.
Con la morte di tua madre la parte più vera di te rimane nella sua
tomba, la parte più sicura, quella che non teme il mondo perché c’è lei a
proteggerti, a farsi carico dei tuoi dolori, a sollecitarti alla gioia, ad
attendere con te che la strada da percorrere ti porti alla felicità.
Lei a farti da madre anche quando tu sei madre e senti che hai
bisogno ancora della sua mano, del suo sorriso, del suo coraggio. E che i tuoi
figli hanno bisogno di lei).
‘Come si fa a sopravvivere alla propria madre?’, mi chiesi mentre
la portavano via e sapevo che era per sempre.
Il tempo mi ha insegnato che si può.
Si diventa improvvisamente orfani e adulti.
Irrimediabilmente.
E si diventa orfani dei miti e degli eroi.
Delle voci che non riesci più ad
ascoltare o a ricordare, delle canzoni che non sai più cantare e delle strade
che non puoi più percorrere, degli amici che ti lasci alle spalle per sempre e
di quelli che avrebbero potuto ancora farti compagnia se non ti avessero
tradita. Perché, ad un tratto, scopri che quel sentimento in cui credevi e ti
avrebbe visto sulle barricate sempre in loro difesa non li avrebbe visti
neppure su un minuscolo terrapieno per proclamare la tua innocenza e la tua
lealtà. Altri sfilacciamenti di certezze deluse. Altre ferite ricevute a
bruciapelo alle spalle e in pieno petto da quelli in cui credevi. Stelle
franano senza certezze, senza verità. Ognuno vanta le proprie ragioni senza
ascoltare le ragioni dell’altro, degli altri. Ognuno evita di accettare le
proprie ombre, pago di scoprirle negli altri
per sentirsi innocente.
Come dirlo ai figli senza
spegnere in loro sogni speranze?
Col tempo si
impara da soli e non ci sono più maestri né consiglieri.
<… “pelle di pesca” la chiamavamo, accarezzandole il viso
morbido, liscio, profumato. Il suo profumo la precedeva ovunque, come il suo
passo lieve. Tanto lieve da sembrarci quasi che danzasse, sollevata da terra,
ogni volta che, entrando, illuminava le stanze.
“In punta di piedi” sempre, mia nonna, sembrava fosse stata
baciata dalle Grazie: dalle movenze alle parole al cuore.
Niente in lei era stonato. Nessuna invadenza, nessuna prepotenza,
mai.
Niente che potesse svilirla ai nostri occhi.
Non si poteva non amarla. Non era faticoso farlo, anzi!
Andarle incontro, felici di vederla, era semplice, naturale,
spontaneo per noi nipoti.
Non potevamo fare a meno di abbracciarla: “Ehi, amore mio”,
diceva.
Ci aveva conquistati tutti, dal più estroverso al più timido,
senza inutili smancerie: con lei cadevano le barriere e baciarla, dicendole “Ti
voglio bene”, era più facile che dirlo alle nostre mamme…>
(Raffaella, “NONNA DOLCISSIMA”, stralcio della Lettera aperta a nonna Carmela)
(da “I ciliegi” II vol. de Le piogge e i
ciliegi, romanzo edito, Secop 2017)
Come si fa a non parlare ancora di Lei?
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