Ieri, prima di mezzogiorno, come è consuetudine da gennaio,
è andata la diretta del Retino con scarsa partecipazione per via dell’orario
non proprio agevole ai più, come mi state scrivendo, e un po’ per via
dell’atmosfera pasquale con i tanti riti religiosi da seguire fino a Pasqua. E
oggi è la domenica delle Palme. Ieri, infatti, dicevo (è bene
ricordarlo!): Dovremmo augurarci la Pace, ma sappiamo che
purtroppo stiamo vivendo giorni bui e notti insonni per la terribile
guerra fratricida, improvvisa e devastante, in atto tra Russia e Ucraina.
Sempre più stiamo correndo il rischio di distruggere il nostro Pianeta e la
nostra Umanità. Senza falsi ottimismi, però, io ritengo che
ciascuno di noi, nel suo piccolo invisibile vissuto quotidiano, possa fare la
sua parte in quello che sa e può fare. Io, per esempio, scrivo. E il Retino mi
spinge con fermezza a parlare del grande e compianto amico e critico
letterario, Giorgio Barberi Squarotti, che cinque anni fa volò nel cielo delle
sue amatissime Langhe, da dove in questo momento penso che ci stia sorridendo. Avverto
fortissimo il desiderio di ricordarlo oggi, ancora una volta e spero non sia
l’ultima, leggendo innanzitutto stralci di una delle sue ultime lettere
inviatemi, nell’arco di circa vent’anni di preziosa e meravigliosa amicizia,
perché sono il punto iniziale di questa nostra “chiacchierata".
E il Retino mi ha aiutato a trattenere/recuperare le
parole giuste su cui soffermarci oggi. Purtroppo sarò, mio malgrado,
inevitabilmente autoreferenziale e scoprirete, via via, il perché:
“Amica carissima, La tua lettera è un dolcissimo
conforto e un prezioso premio per quello che ancora riesco a fare, parlando e
colloquiando con coloro con cui vengo in contatto. Io sono molto
curioso delle forme mutevolmente infinite della vita, che amo con tutti gli affanni,
tutti i dolori, gli orrori, le gioie, le grazie nella luce della speranza, la
virtù teologale a cui sono appassionatamente legato. Per questo
continuo a scrivere un poco per me, per il piacere e l’ammirazione
della Parola, e con gli altri che mi tengono compagnia come la luce
e il verde delle stagioni migliori. E tra tutti scelgo te, che sai portarmi
le parole del cuore scritte con il cuore (...). Dopo il 25 sarò nel mio
paese delle Langhe, Monforte d’Alba. Sono molto stanco, e ho bisogno di quiete
e di contemplazione per reggere all’età e soprattutto (…) (ometto perché mi
scrive di problemi molto personali). A presto. Con i più affettuosi
saluti. Giorgio”.
Mi piace commentarla, questa lettera, perché Giorgio Bàrberi
Squarotti è qui non solo il critico letterario che tutti ben conosciamo, ma il
poeta delle “forme mutevolmente infinite della vita”, espressione di
straordinaria efficacia letteraria e umana che vale la pena di approfondire, in
quanto tutta la sua produzione poetica è fondata sulle “forme
mutevolmente infinite” a tal punto da diventare il modello insuperato, a mio
parere, di tanti altri grandi poeti del Novecento italiano che ancora oggi
scrivono poesie guardando al futuro. E, per comprendere meglio tutto
questo, credo che sia quanto mai utile e opportuno fare riferimento alla sua
silloge di poesie Le voci e la vita (pubblicata proprio
con la Secop edizioni nel 2016), di cui scrissi la Prefazione.
E mi piace partire dal titolo e poi dalla immagine di
copertina. Già nel titolo è facile imbattersi nelle “voci” che
potrebbero essere poche, tante, innumerevoli, ma sono già esse stesse “le
forme mutevolmente infinite” che riguardano la “vita”. E
quest’ultima, la vita, già le universalizza nella comprensione del
tutto. Ci sono già, dunque, nel titolo, le mille contaminazioni etiche ed
estetiche, come scrissi allora, “perché il poeta si innalzi a quel Respiro che
Tutto comprende e tutti ci comprende. Tentazione umana alla innata,
necessaria ricerca del divino: ipotesi che si innalza dalla materia (mondo
visibile: natura, volti, corpi, nomi) e giustifica, forse, le singole voci
(pensieri, sentimenti, sogni, contraddizioni), connotanti la nostra identità
più profonda, per rimescolarsi in un unico, eppure distinto, viluppo che è la
nostra umanità. (…) Chiarori e ombre dell’esistere… E una
via di fuga verso il cielo che è salvezza e verità. Non a caso Giorgio
Bàrberi Squarotti dice nella lettera, parlando delle forme mutevoli e della
vita, “che amo con tutti gli affanni, tutti i dolori, gli orrori, le gioie,
le grazie nella luce della speranza, la virtù teologale a cui sono
appassionatamente legato”. Fede. Speranza. Carità. La virtù teologale, a
cui Bàrberi Squarotti è legato “appassionatamente” è, senza ombra di dubbio, la
Speranza, ma vedremo in seguito che non gli mancano la Fede e la Carità, sempre
presenti nella sua vita e nella sua scrittura.
Egli, dunque, è “perdutamente innamorato” di queste
“forme” e soprattutto della vita, che è fatta di queste innumerevoli e infinite
strutture mentali e comportamentali, con tutte “le gioie e i dolori che ogni
umana esistenza comporta”, perché filtrate dalla “luce della speranza”. Ed
è bellissimo scoprire nel linguaggio quotidiano di uno studioso e poeta ultraottantenne,
parole così vibranti di giovanili ardori: “perdutamente innamorato” e “appassionatamente
legato”. Infatti, in tutta la raccolta, è facile scoprire “Una
sensualità dolce e intensa” che “sfiora i versi” e “s’impadronisce
del creato e di tutte le creature che vivono, respirano, amano. Reali. Irreali.
(…) e tutta la natura è tripudio di ogni palpito di esistenza e di
vita. Uno sguardo d’amore, del resto, accompagna tutte le più piccole
creature, tanto umili quanto immense.
Ed è soprattutto “innamorato della Parola” perché
essa è possibilità di comunicazione con gli altri “che mi tengono compagnia
come la luce e il verde delle stagioni migliori”. Meravigliosa
metafora di una scelta di interlocutori che, per sintonia intellettuale e
umana, lo illuminano di verde incanto, come le stagioni della giovinezza,
indubbiamente le migliori, perché tutti noi sentiamo vibrare come non mai la
fede nei nostri sogni e ideali, in quanto ci sentiamo al centro dell’universo e
abbiamo intorno a noi tutti i sentieri esistenziali da percorrere ancora per
realizzarci, e tutti nutriamo la speranza in un futuro dilatato all’infinito,
che è appunto prerogativa della giovinezza, non certamente della vecchiaia.
E tra tutti scelgo te, che sai portarmi le parole del
cuore scritte con il cuore (...) e qui per troppa commozione e pudore
ho saltato tutto il resto. Non poteva Giorgio scrivermi parole più belle,
tanto che mi sono mancate le parole per definirle. Testimonianza di immenso
affetto per me che non ho grandi meriti se non quello di scrivere con il cuore
sempre. Come lui ha sempre rilevato e sostenuto nelle tantissime lettere di un
carteggio prezioso che conservo come “sacra reliquia”.
Non a caso, è soprattutto l’amico che in queste pagine si
confessa con grande semplicità e franchezza, affrontando argomenti difficili da
affidare ad una semplice amica: la salute, gli affanni, i problemi famigliari,
la stanchezza, l’ansia di sentirsi pienamente appagato nel suo paese,
inerpicato nel cuore delle sue amate e sempre contemplate e cantate
Langhe. E mi piace ribadire il valore affettivo ed evocativo di una
giovinezza palpitante e ricca di speranze. Stupendo è l’avverbio che
definisce la sua vitalità ancora ricca di fremiti e di esplosioni
d’incanti: “appassionatamente”. E stupende sono le
affermazioni: “per il piacere e l’ammirazione della Parola”…oppure “come
la luce e il verde delle stagioni migliori”. Sintonia perfetta:
anche lui, come me, ha sempre scelto la bellezza e la pienezza delle parole
dettate dal cuore. E, del resto, anche Dante aveva fatto, nella sua
poetica del dolce stilnovo, la stessa scelta (vedi Purgatorio XXIV canto: I’
mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro
vo significando).
Mi sembra di essere immeritatamente (io davvero formichina!)
in ottima compagnia, tenendomi alla larga dai vari sperimentalismi che,
per tutto il Novecento, hanno mortificato la Parola, svuotandola di
significato per privilegiare il significante, spesso senza senso. Dai futuristi
fino alla fine del secolo. “Vuota conchiglia”, la parola, in un
frastuono di voci che nulla hanno detto e dicono al cuore. Fatte le dovute
eccezioni, naturalmente. La parola, nella sua pienezza di senso e
significato, invece, è un capolavoro di chiarezza e verità, pur nella
visionarietà delle “forme mutevolmente infinite della vita”. E ho
fatto un esempio, prendendolo ancora una volta dalla silloge Le voci e
la vita, in cui si parla, soprattutto nel primo capitolo del “vero” che è
molto di più della “verità”, perché il vero è concretezza anche se invisibile
agli occhi, come tutto ciò che è essenziale e profondo (Saint-Exupery e Il
piccolo principe ce lo insegnano); la verità è astrazione nella sua
apparente concretezza (“visibile è il reale, invisibile il vero”, dirà Piero
Bigongiari). Tra vero e verità, comunque, spazio e tempo si dilatano,
si confondono, si smarginano, si sovrappongono, e tutto è presente e tutto è
lontano, tutto è reale e tutto è pensato, immaginato o vissuto nella parte più
profonda e vera del proprio “Io”. Anche se spesso, in questa silloge,
l’io poetante scompare per dare corpo e anima ai grandi della nostra
letteratura e delle letterature mondiali (Shakespeare, Borges). Segno,
da parte di Bàrberi Squarotti, di estrema umiltà e di grande conoscenza e
rispetto e ammirazione per i grandi poeti italiani e di tutto il mondo. Ma
spessissimo i versi di Bàrberi Squarotti ripropongono Nietzsche,
per il quale "il poeta è mago e visionario. Compie una esaltante
incursione nel molteplice, nel movimento multiforme e contraddittorio in cui
si attua la vita". E il lettore, sin dal primo componimento della
raccolta, “La creazione”, si colma, per esempio, di stupore nel
trovarsi di fronte a un Dio del tutto umano che irradia, comunque, con tutto il
suo essere, luce divina.
E vorrei concludere con una breve quanto intensa poesia,
sintesi perfetta di Giorgio Bàrberi Squarotti come poeta, persona,
credente:
“L’amore”
È certamente uno di loro (lui?)
per discrezione camuffato: appoggia
alla fine la mano sulla nostra
spalla, la scuote un poco, la sospinge
verso l’amore che la pietà vince
e il tempo, da quell’attimo di luce
vivo per sempre.
(Torino, 1 luglio 2015)
È l’unica poesia che esplicita con chiarezza la parola amore.
E soprattutto l’amore di Dio, (lui?) in minuscolo. Pure si ha
un inizio che ha in sé una certezza incontrovertibile (“È certamente”), anche
se subito dopo sopravviene il dubbio allusivo (“(lui?)”), che è più di una
conferma. E poi, via via, leggendo tutti gli altri versi: “per discrezione
camuffato”: Dio non irrompe nella vita di ciascuno di noi, imponendo la sua
presenza, ma lo fa con “discrezione”, spesso sotto mentite spoglie, che
comunque Lo rivelano. “Appoggia/ alla fine la mano sulla nostra/ spalla, la
scuote un poco, la sospinge…”: dunque, solo più tardi, fa sentire la sua
amorevole presenza al nostro fianco, magari dandoci qualche segnale forte
perché ci giunga il suo richiamo, ma poi continua a “sospingerci” con
delicatezza verso la concretezza e la verità del suo amore, che tutto “vince”,
originandosi “da quell’attimo di luce” di quando ci dette la vita. Attimo di
luce che è “vivo per sempre”. È, infatti, quella Scintilla divina che si
accende in ogni creatura, irradiandosi per sempre in tutto l’universo.
È questo il MISTERO IMMENSO DELLA VITA.
“Quell’‘attimo di luce’ è pienezza in sé conchiusa. E la luce è, fu, e sarà.
Come eterna Presenza che ci eterna, nonostante l’amara consapevolezza di un
mondo dissacratorio e violento” che offende qualsiasi divinità, lo stesso respiro
della nostra anima. Dio, invece, “è presente, testardamente presente,
infinitamente presente”. Senza un legame visibile, che si fa tangibile “in ogni
voce, ogni luogo, ogni volto. In ogni fremito di foglia. È nel cuore del poeta
che pure, data la grande sensibilità, parla con pudore della Sua immanente
trascendenza e della Sua divina immensità per il timore, tutto umano, che la
segreta ansia di Lui, la sua segreta certezza possano essere violate dalla sua
stessa narrazione. Dio è l’Inesprimibile. Più dell’amore e di ogni altro
umano sentimento, sentito intensamente e intensamente vissuto nell’intimità
della propria anima” (cfr. Prefazione a Le voci e la vita di
Giorgio Bàrberi Squarotti).
FARO acceso rimane per me l’Autore di questi magnifici
versi. Naturalmente, occorre avere Fede, altrimenti tutto cade nel vuoto di chi
non crede e trova altri appigli per sapersi vivo. Ma ritengo che non sia la
stessa meravigliosa certezza della “vita eterna” che germoglia in chi crede.
“Ti sono grata”, Giorgio, mio carissimo e rimpianto amico.
Per queste tue verità ammantate della Luce della Speranza…
Buona domenica delle Palme e Santa e Serena Pasqua per
tutti! Angela
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