domenica 10 aprile 2022

Domenica 10 aprile 2022: il Retino del 9 aprile: Giorgio Bàrberi Squarotti...

Ieri, prima di mezzogiorno, come è consuetudine da gennaio, è andata la diretta del Retino con scarsa partecipazione per via dell’orario non proprio agevole ai più, come mi state scrivendo, e un po’ per via dell’atmosfera pasquale con i tanti riti religiosi da seguire fino a Pasqua. E oggi è la domenica delle Palme. Ieri, infatti, dicevo (è bene ricordarlo!): Dovremmo augurarci la Pace, ma sappiamo che purtroppo stiamo vivendo giorni bui e notti insonni per la terribile guerra fratricida, improvvisa e devastante, in atto tra Russia e Ucraina. Sempre più stiamo correndo il rischio di distruggere il nostro Pianeta e la nostra Umanità. Senza falsi ottimismi, però, io ritengo che ciascuno di noi, nel suo piccolo invisibile vissuto quotidiano, possa fare la sua parte in quello che sa e può fare. Io, per esempio, scrivo. E il Retino mi spinge con fermezza a parlare del grande e compianto amico e critico letterario, Giorgio Barberi Squarotti, che cinque anni fa volò nel cielo delle sue amatissime Langhe, da dove in questo momento penso che ci stia sorridendo. Avverto fortissimo il desiderio di ricordarlo oggi, ancora una volta e spero non sia l’ultima, leggendo innanzitutto stralci di una delle sue ultime lettere inviatemi, nell’arco di circa vent’anni di preziosa e meravigliosa amicizia, perché sono il punto iniziale di questa nostra “chiacchierata". 

E il Retino mi ha aiutato a trattenere/recuperare le parole giuste su cui soffermarci oggi. Purtroppo sarò, mio malgrado, inevitabilmente autoreferenziale e scoprirete, via via, il perché: 

Amica carissima, La tua lettera è un dolcissimo conforto e un prezioso premio per quello che ancora riesco a fare, parlando e colloquiando con coloro con cui vengo in contatto. Io sono molto curioso delle forme mutevolmente infinite della vita, che amo con tutti gli affanni, tutti i dolori, gli orrori, le gioie, le grazie nella luce della speranza, la virtù teologale a cui sono appassionatamente legato. Per questo continuo a scrivere un poco per me, per il piacere e l’ammirazione della Parola, e con gli altri che mi tengono compagnia come la luce e il verde delle stagioni migliori. E tra tutti scelgo te, che sai portarmi le parole del cuore scritte con il cuore (...). Dopo il 25 sarò nel mio paese delle Langhe, Monforte d’Alba. Sono molto stanco, e ho bisogno di quiete e di contemplazione per reggere all’età e soprattutto (…) (ometto perché mi scrive di problemi molto personali). A presto. Con i più affettuosi saluti. Giorgio”.

Mi piace commentarla, questa lettera, perché Giorgio Bàrberi Squarotti è qui non solo il critico letterario che tutti ben conosciamo, ma il poeta delle “forme mutevolmente infinite della vita”, espressione di straordinaria efficacia letteraria e umana che vale la pena di approfondire, in quanto tutta la sua produzione poetica è fondata sulle “forme mutevolmente infinite” a tal punto da diventare il modello insuperato, a mio parere, di tanti altri grandi poeti del Novecento italiano che ancora oggi scrivono poesie guardando al futuro. E, per comprendere meglio tutto questo, credo che sia quanto mai utile e opportuno fare riferimento alla sua silloge di poesie Le voci e la vita (pubblicata proprio con la Secop edizioni nel 2016), di cui scrissi la Prefazione. 

E mi piace partire dal titolo e poi dalla immagine di copertina. Già nel titolo è facile imbattersi nelle “voci” che potrebbero essere poche, tante, innumerevoli, ma sono già esse stesse “le forme mutevolmente infinite” che riguardano la “vita”. E quest’ultima, la vita, già le universalizza nella comprensione del tutto. Ci sono già, dunque, nel titolo, le mille contaminazioni etiche ed estetiche, come scrissi allora, “perché il poeta si innalzi a quel Respiro che Tutto comprende e tutti ci comprende. Tentazione umana alla innata, necessaria ricerca del divino: ipotesi che si innalza dalla materia (mondo visibile: natura, volti, corpi, nomi) e giustifica, forse, le singole voci (pensieri, sentimenti, sogni, contraddizioni), connotanti la nostra identità più profonda, per rimescolarsi in un unico, eppure distinto, viluppo che è la nostra umanità. (…) Chiarori e ombre dell’esistere… E una via di fuga verso il cielo che è salvezza e verità. Non a caso Giorgio Bàrberi Squarotti dice nella lettera, parlando delle forme mutevoli e della vita, “che amo con tutti gli affanni, tutti i dolori, gli orrori, le gioie, le grazie nella luce della speranza, la virtù teologale a cui sono appassionatamente legato”. Fede. Speranza. Carità. La virtù teologale, a cui Bàrberi Squarotti è legato “appassionatamente” è, senza ombra di dubbio, la Speranza, ma vedremo in seguito che non gli mancano la Fede e la Carità, sempre presenti nella sua vita e nella sua scrittura.

Egli, dunque, è “perdutamente innamorato” di queste “forme” e soprattutto della vita, che è fatta di queste innumerevoli e infinite strutture mentali e comportamentali, con tutte “le gioie e i dolori che ogni umana esistenza comporta”, perché filtrate dalla “luce della speranza”. Ed è bellissimo scoprire nel linguaggio quotidiano di uno studioso e poeta ultraottantenne, parole così vibranti di giovanili ardori: “perdutamente innamorato” e “appassionatamente legato”. Infatti, in tutta la raccolta, è facile scoprire “Una sensualità dolce e intensa” che “sfiora i versi” e “s’impadronisce del creato e di tutte le creature che vivono, respirano, amano. Reali. Irreali. (…) e tutta la natura è tripudio di ogni palpito di esistenza e di vita. Uno sguardo d’amore, del resto, accompagna tutte le più piccole creature, tanto umili quanto immense.

Ed è soprattutto “innamorato della Parola” perché essa è possibilità di comunicazione con gli altri “che mi tengono compagnia come la luce e il verde delle stagioni migliori”. Meravigliosa metafora di una scelta di interlocutori che, per sintonia intellettuale e umana, lo illuminano di verde incanto, come le stagioni della giovinezza, indubbiamente le migliori, perché tutti noi sentiamo vibrare come non mai la fede nei nostri sogni e ideali, in quanto ci sentiamo al centro dell’universo e abbiamo intorno a noi tutti i sentieri esistenziali da percorrere ancora per realizzarci, e tutti nutriamo la speranza in un futuro dilatato all’infinito, che è appunto prerogativa della giovinezza, non certamente della vecchiaia.

E tra tutti scelgo te, che sai portarmi le parole del cuore scritte con il cuore (...) e qui per troppa commozione e pudore ho saltato tutto il resto. Non poteva Giorgio scrivermi parole più belle, tanto che mi sono mancate le parole per definirle. Testimonianza di immenso affetto per me che non ho grandi meriti se non quello di scrivere con il cuore sempre. Come lui ha sempre rilevato e sostenuto nelle tantissime lettere di un carteggio prezioso che conservo come “sacra reliquia”.

Non a caso, è soprattutto l’amico che in queste pagine si confessa con grande semplicità e franchezza, affrontando argomenti difficili da affidare ad una semplice amica: la salute, gli affanni, i problemi famigliari, la stanchezza, l’ansia di sentirsi pienamente appagato nel suo paese, inerpicato nel cuore delle sue amate e sempre contemplate e cantate Langhe. E mi piace ribadire il valore affettivo ed evocativo di una giovinezza palpitante e ricca di speranze. Stupendo è l’avverbio che definisce la sua vitalità ancora ricca di fremiti e di esplosioni d’incanti: “appassionatamente”. E stupende sono le affermazioni: “per il piacere e l’ammirazione della Parola”…oppure “come la luce e il verde delle stagioni migliori”. Sintonia perfetta: anche lui, come me, ha sempre scelto la bellezza e la pienezza delle parole dettate dal cuore. E, del resto, anche Dante aveva fatto, nella sua poetica del dolce stilnovo, la stessa scelta (vedi Purgatorio XXIV canto: I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando).

Mi sembra di essere immeritatamente (io davvero formichina!) in ottima compagnia, tenendomi alla larga dai vari sperimentalismi che, per tutto il Novecento, hanno mortificato la Parola, svuotandola di significato per privilegiare il significante, spesso senza senso. Dai futuristi fino alla fine del secolo. “Vuota conchiglia”, la parola, in un frastuono di voci che nulla hanno detto e dicono al cuore. Fatte le dovute eccezioni, naturalmente. La parola, nella sua pienezza di senso e significato, invece, è un capolavoro di chiarezza e verità, pur nella visionarietà delle “forme mutevolmente infinite della vita”. E ho fatto un esempio, prendendolo ancora una volta dalla silloge Le voci e la vita, in cui si parla, soprattutto nel primo capitolo del “vero” che è molto di più della “verità”, perché il vero è concretezza anche se invisibile agli occhi, come tutto ciò che è essenziale e profondo (Saint-Exupery e Il piccolo principe ce lo insegnano); la verità è astrazione nella sua apparente concretezza (“visibile è il reale, invisibile il vero”, dirà Piero Bigongiari). Tra vero e verità, comunque, spazio e tempo si dilatano, si confondono, si smarginano, si sovrappongono, e tutto è presente e tutto è lontano, tutto è reale e tutto è pensato, immaginato o vissuto nella parte più profonda e vera del proprio “Io”. Anche se spesso, in questa silloge, l’io poetante scompare per dare corpo e anima ai grandi della nostra letteratura e delle letterature mondiali (Shakespeare, Borges). Segno, da parte di Bàrberi Squarotti, di estrema umiltà e di grande conoscenza e rispetto e ammirazione per i grandi poeti italiani e di tutto il mondo. Ma spessissimo i versi di Bàrberi Squarotti ripropongono Nietzsche, per il quale "il poeta è mago e visionario. Compie una esaltante incursione nel molteplice, nel movimento multiforme e contraddittorio in cui si attua la vita". E il lettore, sin dal primo componimento della raccolta, “La creazione”, si colma, per esempio, di stupore nel trovarsi di fronte a un Dio del tutto umano che irradia, comunque, con tutto il suo essere, luce divina.

E vorrei concludere con una breve quanto intensa poesia, sintesi perfetta di Giorgio Bàrberi Squarotti come poeta, persona, credente:

L’amore”

È certamente uno di loro (lui?)

per discrezione camuffato: appoggia

alla fine la mano sulla nostra

spalla, la scuote un poco, la sospinge

verso l’amore che la pietà vince

e il tempo, da quell’attimo di luce

vivo per sempre.

(Torino, 1 luglio 2015)

È l’unica poesia che esplicita con chiarezza la parola amore. E soprattutto l’amore di Dio, (lui?) in minuscolo. Pure si ha un inizio che ha in sé una certezza incontrovertibile (“È certamente”), anche se subito dopo sopravviene il dubbio allusivo (“(lui?)”), che è più di una conferma. E poi, via via, leggendo tutti gli altri versi: “per discrezione camuffato”: Dio non irrompe nella vita di ciascuno di noi, imponendo la sua presenza, ma lo fa con “discrezione”, spesso sotto mentite spoglie, che comunque Lo rivelano. “Appoggia/ alla fine la mano sulla nostra/ spalla, la scuote un poco, la sospinge…”: dunque, solo più tardi, fa sentire la sua amorevole presenza al nostro fianco, magari dandoci qualche segnale forte perché ci giunga il suo richiamo, ma poi continua a “sospingerci” con delicatezza verso la concretezza e la verità del suo amore, che tutto “vince”, originandosi “da quell’attimo di luce” di quando ci dette la vita. Attimo di luce che è “vivo per sempre”. È, infatti, quella Scintilla divina che si accende in ogni creatura, irradiandosi per sempre in tutto l’universo.

È questo il MISTERO IMMENSO DELLA VITA. “Quell’‘attimo di luce’ è pienezza in sé conchiusa. E la luce è, fu, e sarà. Come eterna Presenza che ci eterna, nonostante l’amara consapevolezza di un mondo dissacratorio e violento” che offende qualsiasi divinità, lo stesso respiro della nostra anima. Dio, invece, “è presente, testardamente presente, infinitamente presente”. Senza un legame visibile, che si fa tangibile “in ogni voce, ogni luogo, ogni volto. In ogni fremito di foglia. È nel cuore del poeta che pure, data la grande sensibilità, parla con pudore della Sua immanente trascendenza e della Sua divina immensità per il timore, tutto umano, che la segreta ansia di Lui, la sua segreta certezza possano essere violate dalla sua stessa narrazione. Dio è l’Inesprimibile. Più dell’amore e di ogni altro umano sentimento, sentito intensamente e intensamente vissuto nell’intimità della propria anima” (cfr. Prefazione a Le voci e la vita di Giorgio Bàrberi Squarotti).

 FARO acceso rimane per me l’Autore di questi magnifici versi. Naturalmente, occorre avere Fede, altrimenti tutto cade nel vuoto di chi non crede e trova altri appigli per sapersi vivo. Ma ritengo che non sia la stessa meravigliosa certezza della “vita eterna” che germoglia in chi crede.

“Ti sono grata”, Giorgio, mio carissimo e rimpianto amico. Per queste tue verità ammantate della Luce della Speranza…

Buona domenica delle Palme e Santa e Serena Pasqua per tutti! Angela

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