E così, dopo aver parlato della scrittura originalissima di Angelica Grivèl Serra, oggi vorrei riportare uno stralcio del romanzo autobiografico, inedito, di un altro mio carissimo amico, scienziato geniale e scrittore ancora tutto da scoprire, Il ragazzo del villino, per commentarlo in tutta la sua originalità talentuosa e fortemente empatica, tra linguaggio che conosce la semplicità del quotidiano adulto, quello medico, che azzera pressappochismi, e quello che lascia trasparire la fiaba del candore bambino:
“È così che, a tre anni, comincia la mia
reclusione. Mi mandano in collegio. Ma non quello dei bambini speciali, né
quello dei bambini ricchi: quello dei bambini orfani, disperati, senza
possibilità. Non si può fare altrimenti. Anche nonna Camilla era stata
costretta a farlo con alcuni dei suoi figli, nei primi anni di vedovanza, e ha
convinto mia madre a fare altrettanto. Lei non vuole, si agita, quasi
impazzisce, le si strappa il cuore, si fa a brandelli. Ma tutta quella gente,
ormai a doppia cifra, a mangiare dallo stesso piatto, non ci si riesce. Mamma
mi accompagna il mio primo giorno di asilo, non riesce nemmeno a fingere un
sorriso, perché è arrabbiata, perché devo pagare le conseguenze dei suoi
sbagli, quelle dei suoi errori, e di quelli del mondo. Sono triste anch'io.
L'ho
sentita piangere tutta la notte.
2.
Crossing over
Piange lei e piango pure io, qui dove sto
adesso. Non so cosa sia un anno luce, ma so che da qui a casa mia, da qui a
mamma, a nonna, ai limoni, ce ne devono essere almeno tre. Quello che vedo non
mi piace. Non mi piace per niente. Ci
hanno abbandonato, dice il cervello. Siamo diventati orfani, piangono le
lacrime. Mamma non ci può tenere, puntualizza la logica ma siccome a tre anni
di logica ne ho ancora pochina, solo due cose mi riescono: disperarmi e non
capire. Non capisco perché devo stare qui, in un istituto per orfanelli,
circondato da orfanelli e accudito da signore tutte nere e tutte vecchie che di
lavoro allevano orfanelli, come il contadino della cascina alleva galline e
conigli. E mi dispero perché ancora non lo so, ma pure se capissi non mi
piacerebbe per niente: io non sono un orfanello. Nemmeno un po’. Io una mamma
ce l’ho. È brava, e bella. Ho una nonna, una sorella grande. Una casa stupenda,
con un giardino, le pareti pitturate, il tetto diverso da tutte le altre. Le
altre case il tetto ce l’hanno piatto. Il nostro invece è a punta, dritto al
cielo. Come nelle fiabe. Dove sono adesso non è brutto, ma non è casa e quindi
fa schifo. Mi ci hanno mandato perché non mi volevano più. Perché avevo troppa
fame. Perché lasciavo le ditate sui vetri. Sono qui perché mamma non mi vuole
più bene? No. Nonna dice che qui potrò crescere meglio di come crescerei a
casa, e me lo ripete che sta vicina vicina, giusto a due passi. A soli due
isolati da dove sono io. Sì, sì, le dico mentre penso che due isolati è troppo
lontano, è comunque più di un braccio.
Qui, dal Diana, vai sempre dritto, dalla
Chiesa Russa, per soli tre isolati. Il primo villino a destra è il nostro. Dal
primo giorno guardo le finestre. Non ci arrivo ancora, ma prima o poi scappo. (…)
*
Una settimana, due, il primo mese.
Si dimenticherà di me, mamma?
Verrà a trovarmi?
Dormiamo tutti insieme in uno stanzone. È una
camerata lunghissima, come da qui alla Luna, con altri bambini, orfani veri ma
non glielo devo dire. Li guardo e mi chiedo perché. Vicino al mio letto c’è uno
con i piedi che puzzano. Puzzano sempre. Anche quando li lava. Non è che li
lavi spesso. Si vede che ha capito che non serve. Fatto sta che puzzano e ogni
volta che si muove sotto il lenzuolo, io starnutisco poi mi infilo con tutta la
testa sotto il cuscino, dentro la federa. Faccio un po’ fatica a respirare, ma
almeno non sento la puzza. La mia stanza è sotto questo lenzuolo. Colazione con
il latte e il pane della sera prima, pranzo e cena. In mezzo la merenda, ma non
sempre. Mangio. Mangio tutto. Ci metto poco perché se no arriva un bambino più
veloce poi mi ruba il piatto.
Freddo, meno freddo, caldo. Caldissimo. Di
nuovo freddo. Due mesi, tre, un anno. La neve, per la prima volta, fa diventare
tutto bianco, prima, e marrone chiaro, poi. È fredda che scotta le mani e la
lingua. E anche bella e ci si può giocare. Chissà com’è casa, con la neve, mi
chiedo.
Faccio colazione, gioco in cortile, faccio
ginnastica, guardo le finestre. Sogno di scappare, rimangio, rigioco, dico le
preghiere e vado a letto. Quando sono nella camerata, sotto il cuscino, poi le
ridico, le preghiere. Per piacere, chiedo a Gesù, riportami a casa. Le dico a
mente, senza parlare. Oppure con la voce bassa bassa. Lui però non mi sente. O
è sordo, oppure sono io che parlo troppo piano.
Sei mesi. Sette, un altro anno.
Poi un giorno sono malato. Sono coperto di
puntini rossi e mi prude tutto. Sto nel letto da solo, lontano dagli altri, in
una stanza con tre letti che chiamano infermeria. Ogni tanto arriva una suora a
vedere come va. Mi mette il termometro, sta lì per un po’, poi lo guarda e alla
fine va via. Io ho solo voglia di grattarmi, ma questo non posso farlo, e di
dormire, che invece va bene. Ho voglia di addormentarmi e svegliarmi nel letto
di mamma. Chiudo gli occhi. Nascondo la faccia sotto il cuscino. Lo bagno
subito perché mi salgono le lacrime dalla pancia. Poi la sento.
- Gianni.
La voce è bassissima. Un soffio. Sto sognando.
Oppure, se magari Gesù non riesce a sentirmi, le orecchie di mamma ci riescono.
- Gianni, tesò, guarda…
È mamma? Sì è proprio mamma. Che bel sogno!
- Esci dal cuscino, dai, guarda che ti ho
portato.
Se è un sogno, non voglio che finisca. Meglio
non muovermi. Se sto fermo fermo, forse va avanti”…
È solo una pagina, ma non è difficile
commuoversi “ascoltando” i pensieri di un piccolino di tre anni, “esiliato” in
un orfanotrofio di “orfanelli veri”, mentre lui una mamma ce l’ha ed “è brava e
bella”. Ma deve rimanere lontano da lei per almeno tre anni. Allora si fa mille
ghirigori mentali, che hanno una loro verità: “Ci hanno abbandonato, dice il
cervello. Siamo diventati orfani, piangono le lacrime. Mamma non ci può tenere,
puntualizza la logica ma siccome a tre anni di logica ne ho ancora pochina, solo
due cose mi riescono: disperarmi e non capire. Non capisco perché devo stare
qui, in un istituto per orfanelli, circondato da orfanelli e accudito da signore
tutte nere e tutte vecchie che di lavoro allevano orfanelli, come il contadino
della cascina alleva galline e conigli”. Ed è un modo decisamente diverso,
originale di riportare i pensieri bambini, ma non troppo. Sopraggiungono mille
dubbi con i mesi che passano in un assalto di treni come alle stazioni di
fermata: “Si dimenticherà di me, mamma? Verrà a trovarmi?”. Nell’orfanotrofio c’è
una tentazione: “le finestre”. Gli hanno detto che il suo villino è ha pochi
passi, ci sono solo tre isolati da attraversare… “più lunghi di un braccio” e
le finestre sono troppo alte per i suoi minuscoli tre anni, ma prima o poi di
là tenterà la fuga per raggiungere il villino, la mamma, la nonna, sua sorella
di parecchi anni maggiore, che ha diritto chissà perché al suo spazio, a lui
negato, nella casa che pure ha un giardino e tetti aguzzi che volano verso il
cielo. Spesso, dopo i pensieri di fuga e dei giochi nel suo giardino d’erba
verde e di limoni, si mette a pregare in un sussurro di dialogo con Gesù perché
lo riporti a casa. “Lui però non mi sente. O è sordo, oppure sono io che parlo
troppo piano. Sei mesi. Sette, un altro anno”.
Poi, un giorno il piccolo Matteo-Gianni (dall’abbinamento
del nome di suo nonno+quello di sua madre, al maschile) si ammala di una
malattia esantematica, che lo ricopre di puntini rossi e di prurito dalla testa
ai piedi e la nostalgia della mamma, delle sue braccia, del suo sorriso si fa
più acuta, più imperativa. “Ho voglia di addormentarmi e svegliarmi nel letto
di mamma. Chiudo gli occhi. Nascondo la faccia sotto il cuscino. Lo bagno
subito perché mi salgono le lacrime dalla pancia”. E le lacrime ora prendono il
sopravvento anche nei nostri occhi di fronte a un pancino che disperato invia
gocce di amaro rimpianto negli occhi del suo piccolo eroe con “la faccia
nascosta sotto il cuscino”. E la voce della mamma lo raggiunge. Ma lui crede
sia un sogno e sta “fermo fermo” per non svegliarsi. E si ferma anche il nostro
cuore per un attimo di tenerezza infinita. Poi, però, realizziamo che è la scrittura
di Matteo Gelardi, medico e scienziato, dotato di tanta creatività e tanta
poesia, a coinvolgerci mirabilmente nella sua storia, catturandoci con il
linguaggio dei bambini, che gli riesce benissimo, per una totale osmosi dei
suoi pensieri e del suo cuore con quelli del suo sé piccolino. Ed è un trionfo
di freschezza d’erba e di limoni, tradotta in pensieri, parole, lacrime, che ci
coinvolgono, sconvolgono, redimono. Nella sua e nella nostra ritrovata
innocenza.
Grazie, Matteo, per tanta bellezza e purezza. Ne
abbiamo tutti bisogno. Oggi più che mai…
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