giovedì 31 maggio 2018

Divagazioni per innamorarsi

Oggi mi piace riflettere sull’Amore come Palpito del Cuore, Volo e Abisso, Luce dell’Anima in cui è riposta ogni Speranza…

SULL'AMORE

Dell’amore non si dovrebbe parlare perché l’amore va sentito, assaporato, vissuto, sofferto. Eppure tutti parliamo d’amore quasi a colmare il vuoto che ci lascia questo sentimento inappagato perché è tanto grande da comprenderci tutti, ma tanto fragile da lasciarci sempre e comunque una ferita. Anche quando è reciproco. Condiviso. La inevitabile diversa intensità è fonte di dolore. La felicità, in amore, è l’attimo in cui i sensi sono accesi in entrambi e il cuore batte all’unisono…
Ma non è facile che ciò avvenga, occorre appunto “cogliere l'attimo”.
Ogni sentimento, intanto, nasce da un incontro: quello della madre col proprio bambino, che “sente” forse sin dal momento del concepimento; quello tra padre e figlio, appena il papà prende tra le braccia quel batuffolo di carne e di pianto; quello tra nonno e nipotino comincia con la prima carezza; quello di due destinati ad amarsi o a volersi bene o ad odiarsi, a diventare amanti, amici o nemici, comincia così quasi sempre per caso, ed è dovuto ad una folgorazione e non è mai un qualsiasi incontro.
Incontro: termine che sta ad indicare, nel suo intero, “trovare davanti a sé qualcuno”, “andare verso”, “unirsi”. Ma, se diviso in due (in-contro), significa: in= sono con te al centro di me nella mia pienezza, al centro del tuo interesse e al centro di ciò che mi circonda, ci sono; contro= già sono altro da te, e a te mi oppongo per salvaguardare la mia identità. Per non essere da te colonizzato. Prima naturale diffidenza verso l'altro. Perciò, ogni rapporto affettivo è conflittuale, fragile, provvisorio, altalenante. C'è sempre un incontro/scontro di personalità, di culture, generazioni, modi di vivere e di vedere le cose: modi di pensarle, pesarle, valutarle. Con l'istinto, con la testa, con il cuore. Quando un rapporto dura nel tempo, avviene perché ci si “consegna” all'altro o unilateralmente o reciprocamente, perché si impara a conoscere l'altro/a e a riconoscersi in quello che si è, si può dare o ricevere; a fidarsi, a capirsi, a stimarsi e ad affidarsi: ci si abbandona all'altro/a dopo aver conquistato la consapevolezza di ogni altro da sé, oppure per trasporto naturale o, semplicemente, per amore. Soltanto per amore.
Ecco, l'amore. Non è facile parlarne perché tra tutti gli “incontri” è quello più misterioso, complicato, complesso. Non credo, come alcuni studiosi sostengono, che sia pura chimica biologica o un fatto di ormoni o di feromoni; credo che alla base ci sia quella misteriosa attrazione che viene da lontano perché si vada lontano insieme. Perché fra migliaia di persone, che si incontrano nella vita, proprio lui, proprio lei? E magari nel luogo giusto e al momento giusto?
L'amore, dunque, è mistero. Come tutto ciò che è immenso rispetto alla nostra finitezza di piccoli uomini, venuti a far parte, senza sapere come e perché, di un arcano: ricamo di universi, anch'essi innamorati, che vanno a generarsi all'infinito.                  L'IMMENSO nell'IMMENSO!
Allora, l'AMORE è, almeno per me, quella meravigliosa fragilissima FORZA che si fortifica, centuplicando all'infinito la sua POTENZA, per tenere in vita il TUTTO. Parlo di quella energia incommensurabile che tiene insieme fortemente coeso, per l'attrazione dei corpi celesti, il Creato.
Immensamente grande, perciò, è l'AMORE per essere compreso e vissuto nella sua totalità da esseri immensamente piccoli, quali siamo noi uomini.
Mi piace, allora, confrontare quello che io penso e dico e scrivo dell’amore con ciò che hanno scritto poeti, scrittori, pensatori, filosofi, cantautori e, in genere, quegli uomini che noi siamo soliti definire “importanti”. Senza scomodare padre Dante e il suo “amor che a nullo amato amar perdona”, che non mi trova molto d'accordo perché non sempre l'oggetto d'amore corrisponde a chi lo ama, anzi spesso avviene il contrario (non si dice che “in amore vince chi fugge”? Sempre che qualcuno gli corra dietro, aggiungo io!), penso, per esempio, ad una grande filosofa, Luce Irigaray, che al riguardo così afferma: “La festa dell’amore può allora celebrarsi, festa che riunisce il mortale e il divino, il terrestre e il celeste, in un incontro dove dare e ricevere si scambiano nell’esultanza del presente. Ma il dare e il ricevere ha un suo collante misterioso quanto visibile, persino più forte dell’attrazione, ed è la PAROLA, che costruisce l’incontro- fra…; permette di parlare di…, ma soprattutto di parlare con… È questo il dono di sé all’altro/a senza rinunciare a sé”.
L'amore come “festa” reciproca, dunque, in una celebrazione che unisce il cielo alla terra, il divino all'umano, attraverso non solo i sensi, ma soprattutto la “parola”: scambio con l'altro di emozioni, sentimenti, anima. Ed è “esultanza” nel “presente”.
L'amore, infatti, non ha un prima né un dopo: l'amore è. Perché non può essere pensato né ricordato. È vissuto. Il pensiero e il ricordo sono il preludio e la conclusione, non l'attimo puro e vivo e vero dell'amore.
Roberto Vecchioni scrive: … “non si può non star male d’amore: la sofferenza è insita nell’antinomia interna alla definizione, considerare cioè eterno un altissimo palpito transitorio (…) l’amore è l’atto creativo più grande che possiamo concederci; sta a noi fermarlo nel tempo almeno due volte: al culmine della sua presenza e alla ricostruzione del ricordo.
Hermann Hesse, poi, considerato uno dei maggiori scrittori tedeschi, poeta, pensatore junghiano, interessato soprattutto al misticismo orientale, sostiene: “Ogni fenomeno terrestre è un simbolo, e ogni simbolo è una porta aperta attraverso cui l’anima, se è pronta, può entrare nel cuore del mondo, dove il tu e l’io e il giorno e la notte sono una cosa sola… ; … l’amore non vuole avere; vuole solo amare”.
L’amore, pertanto, non è possesso, ma “coraggio di rischiare e di perdersi (…) tensione infinita all’autenticità, che solo nel profondo dell’anima è raggiungibile, per cui solo chi sa amare è felice. Lo stato d’amore equivale, infatti, in ogni sua forma, ad uno stato di grazia dello spirito e dei sensi: chi ama è più vivo, la sua vita ha più significato, il suo spirito è in fermento, i suoi sensi sono acuiti e gli trasmettono emozioni più forti”. Non a caso si sostiene che l’essere innamorati sia la migliore medicina per il corpo e per la mente. Tutto si illumina e risplende dentro e intorno a noi. Una persona “opaca” difficilmente è una persona innamorata.
Erich Fromm ha fatto dell’arte di amare e, quindi, dell’imparare ad amare un imperativo categorico: “L’amore è indispensabile all’esistenza. Eppure, in molti casi, se ne ignora il vero significato. Per lo più l’amore viene scambiato con il bisogno di essere amati. In questo modo un atto creativo, dinamico e stimolante si trasforma in un tentativo egoistico di piacere. Ma il vero amore è un sentimento molto più profondo, che richiede sforzo e saggezza, umiltà e coraggio, ma, soprattutto, è qualcosa che si può imparare”.
Strana affermazione: si può imparare ad amare! Qui c'è qualcosa che non quadra. Se il sentimento d'amore è spontaneo e irriflesso, come può essere insegnato e appreso fino a farne un'arte? Si tratta, evidentemente, del “modo” di amare (il come), e non dell'essenza dell'amore.
Ed è giusto lavorare un diamante per ottenerne il massimo splendore.
Alda Merini è completamente impregnata d’amore. Straordinaria poetessa del dolore e dell’esperienza terribile negli ospedali psichiatrici, ci ha lasciato la testimonianza di come si possa sopravvivere ad ogni esperienza umana distruttrice attraverso la poesia e l'amore: “Chi ama è il genio dell’amore (…) “A volte Dio/ uccide gli amanti/ perché non vuole/ essere superato/ in amore” (…) “Io sono folle, folle,/ folle di amore per te./ Io gemo di tenerezza/ perché sono folle, folle,/ perché ti ho perduto./ Stamane il mattino era sì caldo/ che a me dettava questa confusione,/ ma io ero malata di tormento/ ero malata di tua perdizione”.
Oriana Fallaci, donna forte, intransigente, spietata prima con sé stessa e, poi, con gli altri, che ha fatto della sua laicità un vessillo di fede e di libertà, così scrive dell'amore, sua vita e perdizione: “Parlo del desiderio fisico che annebbia la vista e interrompe il respiro al solo guardare la creatura amata, del brivido che ti intirizzisce e ti scioglie al sole al solo sfiorarle una mano, una guancia, sicché tutto in lei diventa unico e insostituibile, perfino l'odore del suo fiato, il sudore della sua pelle, i suoi difetti che anziché difetti ti sembrano qualità deliziose: hai bisogno di lei come dell'aria, dell'acqua, del cibo, e in tale schiavitù muori di mille morti ma sempre per resuscitare, esserle schiavo di nuovo...”
 E potrei continuare all’infinito in quanto infiniti sono i modi di vivere e di parlare d’amore, ecco perché è difficile parlarne, ma lo spazio tiranno mi costringe a chiudere qui il mio stesso parlare/tacere d’amore, non senza, però, aver ricordato due versi molto profondi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura 1996: chi non conosce l’amore felice/ dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.// Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire”.
E, per concludere, che dire dell’amore universale praticato e cantato da Madre Teresa di Calcutta? Amore soprattutto per la vita, che diventa anche amore di sé, non come egoistico sentimento, ma come conquista di ben-essere interiore. Preludio ineludibile o auspicabile per poter amare gli altri: “Ama la vita così com’è/ Amala pienamente, senza pretese;/ amala quando ti amano o quando ti odiano,/ amala quando nessuno ti capisce,/ o quando tutti ti comprendono.// Amala quando tutti ti abbandonano,/ o quando ti esaltano come un re./ Amala quando ti rubano tutto,/ o quando te la regalano./ Amala quando ha senso/ o quando sembra non averne neppure un po’.// Amala nella piena felicità,/ o nella solitudine assoluta./ Amala quando sei forte,/ o quando sei debole./ Amala quando hai paura,/ o quando hai una montagna di coraggio./ Amala non soltanto per i grandi piaceri/ e le enormi soddisfazioni;/ amala anche per le piccolissime gioie.// Amala seppure non ti dia ciò che potrebbe,/ amala anche se non è come la vorresti./ Amala ogni volta che nasci/ ed ogni volta che stai per morire./Ma non amare mai senza amore.// Non vivere mai senza vita!”.
E anche questo, o questo soprattutto, è un colmarsi d'AMORE!

Angela De Leo

martedì 29 maggio 2018

Divagazioni sul canto del silenzio


“E i silenzi… i Silenzi… I SILENZI…

                                                
Ho conosciuto il silenzio delle stelle e del mare
e il silenzio della città quando si placa
e il silenzio di un uomo e di una vergine
e il silenzio con cui soltanto la musica trova linguaggio
il silenzio dei boschi
prima che sorga il vento di primavera
e il silenzio dei malati quando girano gli occhi per la stanza
(…)
C’è il silenzio di un grande odio
e il silenzio di un grande amore
e il silenzio di una profonda pace dell’anima
c’è il silenzio degli dèi che si capiscono senza linguaggio
c’è il silenzio della sconfitta
e il silenzio di coloro che sono ingiustamente puniti
e il silenzio del morente la cui mano stringe subitamente la vostra
c’è il silenzio che interviene tra il marito e la moglie
c’è il silenzio dei falliti
(…)
e c’è il silenzio dei morti.
Se noi che siamo vivi non sappiamo parlare di profonde esperienze
perché vi stupite che i morti non vi parlino della morte?
Il loro silenzio avrà spiegazioni quando li avremo raggiunti.
(Edgar Lee Masters, stralci da “Il silenzio”)

Silenzio. Paradossalmente è una parola che mi piace. Se penso al silenzio che fa parlare il cuore. Come dicevi tu, quando sorprendevo te e la nonna seduti vicini nella penombra della sera, dietro i vetri di casa, in silenzio, a salutare il buio che annullava le cose e i rumori e le voci del nostro piccolo mondo quotidiano: la strada di casa, allora ancora un po’ in periferia o la semplice via di un amore che vi teneva indissolubilmente uniti. Sereni, nonostante gli innumerevoli dolori e dispiaceri vissuti da entrambi.
Anche a Primo, il mio tempestoso compagno per circa quarant’anni, piaceva il silenzio del nostro raccontarci con gesti d’amore il giorno, lui che aveva come codice preferito di comunicazione l’urlo, e si meravigliava del mio accoglierlo in silenzio. Per lui ero “la lite senza lo scontro”.
Se torna il silenzio: era una aspirazione ed una invocazione. Una necessità di vita per riscoprirci insieme” (…)
Eppure c’è stato anche il tempo dei nostri “disperati silenzi. Non ho più saputo dei suoi pensieri. Lui ignorava i miei o forse li intuiva. Un tempo “eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo dissipato”, sosteneva il poeta del primo Novecento Renato Serra, ed ora non ci rimaneva che il silenzio. Non il silenzio che amavamo in cui era più facile ascoltare le nostre anime. In quel silenzio della sera io ritrovavo l’atmosfera d’intimità e d’amore che si creava nelle nostre antiche sere, quando al buio, rischiarato dalla luce del crepuscolo, tu e la nonna respiravate il sussurro delle vostre preghiere, il rosario quotidiano, seduti dietro i vetri della porta che s’affacciava sul cortile. Ed era un silenzio d’anime tra le parole del cuore. Anche io e Primo avevamo vissuto per anni quel silenzio che ci univa e ci cantava dentro.

Se torna il silenzio
al di là della strada
allora parleremo piano
muovendo appena le labbra
e il respiro sarà breve
come la distanza
tra le nostre mani.
          Se torna il silenzio
Parleremo con gli occhi,
antichi gesti
fioriti sulla pelle,
             ma saremo pronti
poi
a chiuderlo
in fondo ad un armadio
per guardarlo
                    dopo
quando l’ansia sarà placata
sotto le lenzuola
vinte
e segnate
dal nostro amarci.
(Primo Leone, “Se torna il silenzio”)

Poi lo avevamo perso per strada il silenzio buono e ci era venuto incontro suo fratello, il silenzio cattivo, quello che divide e non perdona. Il silenzio del rancore e delle parole mancate, taciute, disperse e mai più ritrovate.
Sì, il silenzio cattivo che, se si protrae a lungo, non riesce più a ritrovare le parole per creare spiragli nella spenta sintonia, per riaccendere dialoghi con l’ultimo fiammifero dimenticato nella scatola dei ricordi e dei progetti.
                                          E tutto tace. Anche il cuore.


Ecco perché il silenzio è anche una parola che mi sgomenta, quando penso al silenzio che crea un vuoto; che separa con fratture e divisioni; che è culla di odio e di rancore; che cova vendetta; che coltiva un equivoco e lo fa ingigantire nella mente; che nasconde un sentimento mai rivelato e, quindi, mai conosciuto e riconosciuto, mai vissuto nella pienezza del gesto e delle parole e delle accorciate distanze.
Silenzio atteso e temuto, dunque. Silenzio invocato e nutrito. Infranto e chiacchierato. Silenzio raccontato. Come il nostro silenzio, caro papà.
Il silenzio è il nulla prima del Big Bang, esplosione del Creato. Che si racconta con le cose. La materia, innanzitutto. Generata dal nulla per un atto di Energia purissima. 
Il silenzio. È il vuoto tra due rumori, tra due suoni, tra due parole. È attesa e ricordo. Speranza e rimpianto. Pudore e timore. Indifferenza. Ostilità. Invocazione muta dell’anima. Preghiera.
Quando divenni più grandicella, la nostra casa a me sembrava, pur non avendone la struttura, ma solo l’atmosfera che vi si respirava, una cattedrale gotica che s’innalzava con le sue guglie al cielo in una penombra che invitava al raccoglimento per ascoltare meglio “la voce del silenzio” o, meglio, “le voci di dentro”: quelle che ci parlano dell’invisibile che è in noi e fuori di noi: l’arcano, il mistero, il sogno. L’indicibile perché tanto più grande delle nostre parole per esprimerlo. L’immenso. Il linguaggio dell’Universo. L’incontro insaputo con Dio. Nella nostra casa c’erano spesso, dal tardo pomeriggio fino allo sfiorare il buio della sera, penombra e silenzio.
Penombra e Silenzio lasciavano parlare il cuore. Penombra e Silenzio si facevano compagnia. Ci permettevano di incontrarci nell’ascolto delle parole non dette ma sentite ugualmente. Ed era bellissimo ritrovarci nei volti che via via si cancellavano mentre si facevano più evidenti e vivi e veri i sentimenti che provavamo per noi, tra di noi. Lontano il mondo con la sua realtà.
Ma penombra e silenzio ci aiutavano anche a riflettere. A fare scelte, a prendere decisioni. Più grandicelle noi, più anziani e provati da nuovi affanni voi. Quanto ascolto in quelle penombre e in quei silenzi…
Allora, anche Ninì Rosso accompagnava tutto quel silenzio con la sua tromba magica e dolente che penetrava nel cuore e si faceva lacrime per ogni evento triste che il giorno, nostro e degli altri, registrava.
E, ancora oggi, penombra e silenzio, quando è possibile viverli nella nostra casa, accarezzano, l’essenza degli oggetti, delle cose. Intuiscono le verità in questi nascoste, in attesa di scoprire la Verità che nel Tutto le comprenda e le inglobi. Si sostengono e si completano. Si arricchiscono di senso e danno un significato più profondo alla vita.
Annah Arendt afferma che solo nel silenzio e nella penombra è possibile conoscerci e riconoscerci. E la conoscenza di sé e il proprio riconoscimento danno all’essere umano la giusta dimensione di quello che è nel mondo e gli evita errori di valutazione e di autovalutazione. Il clamore è spesso il fallimento della nostra autenticità, perché ci stordisce, ci frastorna, ci impedisce fi pensare. Spesso è la festa della inautenticità: il più delle volte ciò che appare non è. La Verità “è invisibile al mondo”. Per scoprirla ci occorre e ci soccorre il silenzio. Quello che ci riporta alle parole mute delle cose, alla loro storia nascosta e forse dimenticata. Al canto della natura. Al sussurro del giorno che comincia e si racconta in un segreto d’intenti, e di passi per perseguirli e di gesti per realizzarli, perché ogni giorno sia un giorno nuovo e aggiunga qualcosa di diverso alla nostra vita. Un fremito. Una emozione. Un accadimento che ci sorprenda e ci faccia sentire vivi o rinascere. Nel faticoso, gioioso, tormentato, chiaro, complesso, semplice nostro andare. Viandanti in uno spazio/tempo che ci appartiene e che pure non è nostro. Di cui forse dobbiamo dare di conto. Magari in silenzio. Quando la penombra smorza pian piano anche i nostri pensieri…”
(da: Le piogge e i ciliegi, romanzo di prossima pubblicazione)

sabato 26 maggio 2018

Divagazioni (per riflettere)

Il giorno che scoprii l’Altro da me era un giorno normale, banale, direi. Ero bambina. L’Altro era mia madre, mio nonno, mia nonna, mia sorella. Insomma, non ero io. L’Altro, nella mia casa, era gioco, amore, tenerezza, calore, fiaba, ma anche litigi, dispetti, rappacificazioni.
Tra la casa e il fuori l’Altro era ostacolo più che incontro.
Poi l’Altro si trasformò in Amicizia. Fidarsi e confidarsi. Condividere ore, risate, pensieri, sogni. Fino al disincanto. Delusione e amarezza. Diffidenza e proponimenti di essere meno entusiasta degli Altri. Delle cosiddette Amiche. Pugnalate alle spalle e ferite. Difficili da rimarginare. Dolore. Allora ebbi ragione di chiedermi:
Chi è l’Amico? Cosa è l’Amicizia? Cosa chiede e cosa dà?
L’innocenza o l’inganno? L’ascolto o il finto interesse? La comprensione o la disapprovazione? La sincerità o l’ipocrisia. La benevolenza espressa o il malanimo celato? La fiducia o la diffidenza? La vicinanza del cuore o la lontananza della supponenza? Il voler bene come amare sé stessi o sentire l’Altro sempre un po’ rivale, un po’ nemico? Solo l’affettuosa presenza nel dolore e nella sofferenza conferma la bontà dell’amico oppure la capacità di condividere con l’Altro la sua felicità fatta di talenti, fortuna, conquiste, vittorie, successo e voli sempre più alti che potrebbero mettere in ombra chi è accanto al più quotato dei due? Finii col ritenere quest’ultima la formula magica della più autentica amicizia tra due persone. Difficile da realizzare o scoprire. Ci vuole un rapporto di grande coraggio e di inossidabile purissimo amore.
Poi, scoprii anche l’Amore. Quello che ti rode il cervello, ti fa galoppare il cuore, ti lascia immersa nel sogno e ti fa forare il cielo. Quello che ti fa vivere il dubbio e la certezza, annebbia il giorno e illumina le notti. Quello che ti fa perdere e ritrovare. Quello che ti esalta e ti danna. Passione, tenerezza, allegria, pianto. Morte e resurrezione. Dove il punto fermo? Dove la verità? Quanti amori finiscono nelle brume della indifferenza? Quanti amori si risolvono nell’odio e nel rancore? Quanti amori risultano degli imperdonabili abbagli? Quanti nascono nel momento sbagliato e muoiono per errore? Dove la misura dell’intensità, della durata, del perdurare dello stare bene insieme? Del prendersi cura l’uno dell’altra? Dove la verità sui sentimenti e sulle emozioni?
Il giorno che ebbi bisogno della Verità, la cercai dappertutto. Nel cuore dell’Altro. Nel cuore dell’Amico. Nel cuore dell’Amore. Nel mio cuore. Ma era dappertutto e altrove. Sfuggente e indefinibile. Imprendibile. Presente e assente. Vicina e lontana. Inconoscibile.
Mi dannai a cercarla. A spiegarla. Secondo me. Secondo te. Ma allora non è una la Verità? Non esiste La Verità. Sono tante le verità. Quante?
Il giorno che mi illusi di afferrarla finalmente. Ero proprio ad un passo da lei. Usai tutti gli strumenti dell’intelligenza, tutti gli arnesi del cuore. Le strategie delle emozioni. Tutti gli appigli della filosofia e i teoremi della scienza. Volevo dimostrare. Capire e farmi capire. Confrontarmi per convincere e farmi convincere. Senza vincitori né vinti. Ma vincere CON e, quindi, vincere tutti. Ma… ne uscimmo tutti sconfitti. Anche la Verità.
Il giorno che si presentò inaspettato e imprevedibile, eppure sempre lì in agguato, in attesa di dire l’ultima parola e di vanificare tutto: Il Punto di vista. Soggettività inconfutabile.
Scetticismo? Pessimismo? Realismo?
Oppure soltanto una provocazione per affermare che, se l’Altro vince questa prova del fuoco o del nove, questa cartina di tornasole, allora abbiamo davvero scoperto l’alterità nella sua accezione più limpida, pura bella e nobile. L’Altro che è capace di autentica amicizia, di autentico amore, di autentica positiva umanità.
L’Altro è dono di sé gratuito e senza limiti…
E sotto questo immenso cielo, su questa terra “di famiglie d’alberi e di animali” e di vette altissime e di colline e poggi e pianure, di fiumi e di laghi e di mari e oceani, su questa terra cuore pulsante di ogni uomo “di buona volontà”, può accadere. Accade. E abbiamo anche rari, ma fulgidissimi esempi. E non sono solo letteratura…
Ma non sono anch’io l’Altro per ogni Altro da me?  
Angela De Leo

mercoledì 23 maggio 2018

Divagazioni tra ragionevoli pensieri

Divagazione n. 1

Vorrei parlare di “ragione”, “razionalità”, “ragionevolezza”. Ritengo che si possa ragionevolmente fare un’analisi dei tre termini per comprendere meglio, forse, torti e ragioni o semplicemente il punto di vista.
Ebbene:
ragione = facoltà intellettiva di pensare, facoltà di giudizio, argomentazione per dimostrare…
razionalità = l’essere razionale, discorso fondato su ragionamento logico, ragione come supremo criterio di conoscenza.
Ragionevolezza = ragionevole, conveniente, giusto, equilibrato, opportuno.
A me sembra (un po’ alla Catalano di felice memoria del tempo che fu) che tra i tre termini quello che più possa rendere l’idea di un giudizio obiettivo, giusto, opportuno sia proprio quello di “ragionevolezza”.
La ragione e la razionalità rimandano a un qualcosa di categorico e di arrogante: avere ragione, essere razionale. Perché non sempre avere ragione significa essere obiettivamente nel giusto. Come essere razionale non sempre significa essere detentore di verità. Perché molte cose sfuggono alla ragione e non tutto può essere spiegato facendo ricorso alla razionalità. Quanto di illogico c’è nell’uomo? Altrimenti sarebbe catalogabile, definito in una categoria una volta per tutte. Così non è.
L’animo umano è così complesso da sfuggire ad ogni contenuto spiegabile con la sola ragione. E i sensi e le sensazioni? E le percezioni spesso anche ingannevoli? E le emozioni? E le illusioni, i sogni, i presentimenti, i “deja vu?” Come spiegarli razionalmente? Come farne oggetto di argomentazioni logiche? Quale sillogismo adottare? “Ragionevolmente”, invece, posso sperare che un fondo di verità mi accompagni in ciò che penso, che dico, che ipotizzo, che suppongo. Ragionevolmente posso mettermi al riparo da prese di posizione presuntive e presuntuose, se non pretestuose, per trovare un punto equidistante che ragionevolmente e opportunamente mi dia la misura delle cose, degli oggetti, dei pensieri.
Ed io ragionevolmente ci provo!


Divagazione n. 2
Il giorno dei miei incontri con la vita

Il giorno che mi venne incontro la fantasia, m’accorsi che un vecchio-bambino, per farmi grandi gli occhi, m’inventava parole. Poi mi portò per mano in un bosco incantato dove le streghe abitavano in castelli di zucchero filato e le fate erano serpi distese al sole. Scoprii più tardi, al tempo delle more, che mai è verità ciò che appare. La verità è solo dono d’amore.
Il giorno che incontrai l’amore, occhi già immensi attraversò un “ti amo”. Su un petalo di rosa il suo richiamo. Fu volo rosso fuoco, in un groviglio di stelle e un segreto di luna, a trafiggermi il cuore.
Il giorno che scoprii il mio cuore era un giorno qualunque di primavera. Un petalo di rosa d’improvviso giocò con la magia di due parole… Sul filo teso, corda di violino, acrobata, saltimbanco il suo sorriso. Con grovigli di risate fece capriole e non s’accorse di forare il cielo.
Il giorno che toccai il cielo con un dito, scoprii l’azzurro cristallo nel suo ordito. Sognai corde d’argento per legarlo ai miei pensieri. Una piuma d’angelo cancellò ogni mio ieri. Si fece ala immensa, m’accarezzò il viso. D’arpa e liuto risuonò il mio paradiso. M’avvolse col suo canto di rugiada. Canto di tenerezza ritrovata. E riscoprii più di mille petali di rosa, moltiplicando i “ti amo” senza posa. Ma vero dono d’amore d’ogni mio mattino è ancora e per sempre il mio vecchio-bambino.
Hanno racconto di perle le sue parole e un sorriso chiaro sui miei domani se potesse costruirli con le sue mani.


Divagazione n. 3
A primavera anche le pietre cantano

L’alba si svegliò una frazione di secondo prima, perché ci si avviava verso la primavera. Era di latte e di miele, che il sole dipinse di sole non appena fece capolino oltre la siepe. Gli uccellini, appena nati, bisbigliavano sotto i tetti, nel rifugio caldo dei loro nidi, raccontandosi i sogni della notte e l’urgenza di cibo con i becchi spalancati.
Le pietre della casa da qualche giorno stavano lì ad ascoltarli, da quando, cioè, il silenzio dell’alba era stato interrotto da quel festoso parlottio e da quel tripudio di pigolii.
Decisero allora di parlare pure loro. Si fecero coraggio. Non era facile. Non erano abituate.
Avevano sentito dire agli uomini che le pietre cantano.
Avevano sentito dire agli uomini che le pietre raccontano.
Avevano sentito dire agli uomini che le pietre conservano la memoria del tempo. Nel tempo. E alcune di loro erano millenarie.
Dapprima tirarono fuori dei suoni cupi e disarticolati, come provenienti da molto lontano e da lungo silenzio. Gli uccellini si ammutolirono spaventati e, zitti zitti, andarono a rifugiarsi sotto le morbide ali della mamma.
E, in quel nuovo silenzio, le pietre si sentirono confortate a ritentare ancora qualche suono, magari alcune note. E, così, dopo lunghi tentativi, simili ad echi di altri suoni, riuscirono a dire “buongiorno, siamo le pietre di questa casa e vogliamo con voi salutare quest’alba meravigliosa. È primavera e anche noi vogliamo rinascere a nuova vita”.
Le loro parole ebbero voce di tuono e di frana e rimbombarono come nel giorno della Creazione le parole di Dio, e gli uccellini di nuovo si spaventarono nel loro caldo rifugio e con loro si spaventò tutto il Creato. Ci fu un nuovo silenzio quasi fosse la fine del mondo. Poi, si schiarirono la voce e, con suoni più chiari e melodiosi, ripresero a parlare. E, forti della loro millenaria esperienza, raccontarono degli anni e delle stagioni, delle cose e del loro mutamento, del mare e delle sue onde.
Poi parlarono del cielo che si perdeva nell’immenso, e della bellezza inafferrabile e lontana delle stelle. Della follia della luna e della generosità del sole. Del suo donare a tutti luce e calore.
Parlarono delle nuvole dispettose e del vento frettoloso e della pioggia che cantava sui davanzali dei balconi, che dissetava i fiorellini appena sbocciati, e danzava tra gli alberi, o batteva insolente, insistente, sulle loro sorelle più povere, che lastricavano le strade e venivano sempre calpestate dall’indifferenza degli uomini. E finirono col parlare solo degli uomini, e dei loro passi a percorrere anche strade sconosciute per scoprire il mondo e andare lontano. Della loro fretta e della stressante velocità delle loro macchine infernali. E tacquero dispiaciute. Troppo vecchie per essere ascoltate”, si dissero con amarezza. “Troppo disincantate per narrare fiabe e storie di fantasia”, si consultarono mortificate.
Poi, ci ripensarono e ripresero a parlare perché sugli uomini c’era ancora tanto da dire: delle loro città e delle dimore. Dei problemi e dei sogni. Delle cadute e delle rinascite.
E si fermarono a chiedersi del loro cuore. Cuore di pietra o di rose e di spine? Cuore intriso d’amore o grondante odio e dolore? Cuore due volte cuore o cuore senza cuore? Troppo ingarbugliate le vie del cuore per capirci qualcosa.
Le pietre si persero in quel labirinto senza via d’uscita.
Gli uccellini, stanchi di ascoltare storie più grandi dei loro pigolii, si erano riaddormentati.
E le pietre smisero di raccontare. Rispettando il mistero di quell’infanzia di piume e d’innocenza.
Troppo lunga la storia degli uomini per essere capita. Troppo difficile per tutti addentrarsi in quel groviglio di pensieri, di sentimenti, di ambizioni, di potere, di violenza, di tenerezza, di passione, d’indifferenza, di vittorie, di sconfitte. Troppi egoismi per non lacerare intese. Come aiutarli a diventare migliori?
Persino le pietre si sentirono scoraggiate.
Meglio il silenzio. Gli uccellini tra poco avrebbero imparato a volare. Avevano le ali e prima o poi avrebbero spiccato il volo. Guadagnato il cielo.
Spettava a loro farsi sentinelle almeno dei loro nidi. E salvare così ogni nuova primavera.
Sospirarono e tacquero. Piegandosi all’ineluttabilità delle cose del mondo, all’insondabilità dei pensieri degli uomini, all’imponderabilità delle contraddizioni della vita.
Si stava facendo sempre più tardi e l’alba era stata vinta già dal mattino.
Altre voci avrebbero colmato il giorno...
Eppure io, da inguaribile romantica e ottimista, penso che accadrà il miracolo della salvezza di questa umanità alla deriva, qualcosa di buono rinascerà nel nostro cuore per reinventare il mondo e renderlo migliore. Accadrà, ne sono certa, che tra le pietre rifiorisca la rosa…
E, così, anche oggi, in questa primavera ballerina, che si veste di sole e poi si dispera di pioggia, sento i loro racconti... il loro canto…

Angela De Leo

domenica 20 maggio 2018

“Il vento il fuoco e le azzurre acque” - parte quinta


L’urlo del nostro canto

Ci divise l’urlo
furia che devasta e uccide
L’urlo estraneo al nostro cielo
di poesia
S’interruppe un andare insieme
sodali di sogni di carta e di segni
il giorno che indifeso offeso
divenne sordo ottuso blasfemo
Vomitato rancore di quasi estate
per anni celato agli occhi e alla mente
mistificato d’apparente armonia
Esplose fungo di morte
sul finire delle nostre stanche primavere
e si era appena a giugno
Perso l’oro della verità abbacinata
di menzogne
come foglie d’estivo uragano
ci disperdemmo al vento di sconfitta
(sconfitti noi sconfitta la poesia)
Non è dato agli umani un incontro
lungo
annodato di tempo e sintonie
Pugno pulsante involontario il cuore
l’altro accoglie e respinge
e senza ragione lo domina con le sue ragioni
Nelle maglie delle onde d’urto
muore nei giorni urlati il sentimento
d’amicizia che credevo sincero
preso ora al laccio di un risentimento
ostile e senza senso che strangola parole

(di conchiglie di perle e d’albe chiare
vorrei sentire ancora il canto del mare)



Mare 2015

il mare è sentiero meridiano
che brulica di stelle
e si racchiude a conchiglia con la valva del cielo
sul tufo bianco di basse case del Salento
tra erba asfalto e incubo di cemento.
S’inginocchia il mare
alla fedeltà di torri sentinelle a coste aspre
un tempo violate da turchi e saraceni.
In questa rosa d’azzurro
di onde increspate
ho inabissato il cuore ferito
dall’assalto feroce d’improvvisi corsari
amici di lungo corso e d’antiche intese.
Ho un cuore svuotato
colmo d’inasprito stupore
e mille domande di frantumata rabbia
roccia devastata da tempeste d’acque
spaventate di vento e urlo di saette
a sbriciolarsi in millenaria sabbia.
Rumore di risacca annulla orme
di tempo condiviso
ignaro di violenza che ha suono di follia.

(ora mi culla una nenia di barche solitarie
uncinate all’unica stella cadente
che ha ancora respiro di cielo)

Puglia

Alla mia terra antica mi somiglio.
Ha sete di rugiada tra l’erba verde
e tanto mare a circondarle i fianchi.
Ulivi con tronchi millenari
che del tempo vissuto
urlano il dolore
e chiome sempreverdi
stillanti sorrisi di luce
in gara con il sole e le cicale.
Ha l’allegria dorata del grano maturo
monili d’oro alle braccia alle dita
delle stoppie bruciate la tristezza e l’ardore.
Ha case bianche a cono e vesti di fata.
Tramonti di fuoco e albe assonnate
con fili di perle al collo d’alabastro.
Un capriccio di vento danza tra gli alberi
e il suo ciurlìo canta da onda a onda
vestite d’azzurro vele contromano
in un presagio di tempeste
che mai saranno al verde canto delle colline.
Percorre tutte le età la mia terra
sintesi d’ogni stagione
dove d’annidano sogno mistero incanto,
dove tutto cambia tra rughe d’aratri
e ciliegi e melograni in fiore
(dove l’azzurro rimane sempre uguale)

Il canto del mare

Era un canto di barche e di marinai
quell’anno che con chitarre
solcammo il mare per scoprire la libertà
oltre la riva.
C’erano i miei diciotto anni
e i tuoi baci,
un brulichio di stelle in gara
con i sogni e le azzurre acque
ad inventare l’amore
(avresti voluto offrirmene
            il brevetto…)
Voglio tornare al mare

Richiamo d’azzurro in questa tregua
di giorni di pioggia e di vento
presenti alla collina.
M’invita il mare ad ogni squarcio
di nubi radenti e una briciola di sole.
Portami dove la sabbia è d’oro fino
dove mi viene incontro
il tuo cuore bambino
che sogna sulla battigia l’antico
castello della festa
e un volo d’aquiloni a ridere di cielo.
Tra il frinire di cicale e siepi di ligustro
ai miei fragili sogni offri riparo
e una vela bianca a portarmi
                       dove finisce il giorno.

Quando andrai al mare

non dimenticare i miei occhi
a riempire panieri di onde
fiorite di lapislazzuli e stelle marine
per gl’inverni che verranno.
L’abbraccio di sale sulla pelle di sole.
Il tempo che rimane
e quello che sogni di conchiglie
ed echi di mare ha trascinato
con la sua rete di frodo.
La nenia delle barche il rombo dei motori.
Le mani a nido sul volto levigato
 e gambe a falce tra spruzzi di panna
a navigare allegria.
Oggi abisso di rimpianto è il mare
di piedi nudi disuguali e una scia
d’azzurro senza più la libertà di osare
eppure gli occhi sono ancora
approdi d’oceani alla sconfitta dei giorni
su passi dimentichi della riva
(faro e conchiglia per rinascere schiuma)


Nutrimi di mare

Portami nel secchiello ancora il mare
perché possa sentirne la carezza l’odore
Raccogli per me bianche conchiglie
addormentate nella sabbia dorata
sognanti fanciulle in attesa di un castello
e del principe azzurro e il primo bacio
Nutrimi di mare
Dissetami di onde e di alte maree
(da qualche parte ha pensieri di perle
e conchiglie canto notturno la luna)
Se oggi sogno un porto sicuro
non dirmi che sono stanca di navigare
Nel guscio di noce che mi finsi barchetta
bianca vela di carta leggera incollai
per non andare lontano in cerca
di facili approdi al riparo di un faro
Persa nei miei sogni di bambina
che attraversava tutti gli oceani
ad un passo dalla riva
C’è stato un tempo che il mare
era suono di chitarre nenie di sirene
 e verdi vele a osare il cielo di lacca
o delle rinate stelle ad ogni buio
cielo incantato dalla mia risata
tintinnio di mille forzieri e un solo soldino
per tentare a testa o croce la sorte
tra fondali di corallo e una sfida di baci
E la riva guardata da lontano
e il puntino nero l’ansia di mia madre
all’orizzonte rovesciato di ombrelloni
a spicchi di sole su giochi bambini
con fiabe colorate da ascoltare
Oggi più non m’appartiene il mare
ma sussulto d’acque e d’antichi richiami
è il nastro azzurro oltre i campi e le case
che i miei occhi a festa cinge con sventolio
di mani nei giorni vestiti di silenzio
sulla terrazza assolata della mia casa
(sì è ancora lì a sorridermi il mare…)