mercoledì 30 agosto 2017

LA NOSTRA LINGUA DELL’ ANIMA

È la lingua che abbiamo ascoltato sin da quando siamo venuti al mondo, sussurrata con amore da nostra madre quando ci teneva al seno. È quella della ninnananna con cui nostra nonna cercava di farci addormentare. È la lingua dei primi giochi. Delle prime tenerezze. La lingua del cuore. Quella che riscopriamo nell'anima ogni volta che una emozione ci sorprende, un dolore ci opprime, una gioia ci fa mettere le ali. È la nostra rabbia. Il nostro rancore. È il nostro ricordo. La nostra nostalgia. È il mondo sotterraneo che ci portiamo dentro e che affiora nei momenti difficili della nostra vita quando, senza maschere o convenevoli sociali, ci consegniamo agli altri nella nostra autenticità, nel nostro stupore di essere nudi eppure non riconosciuti nella nostra pelle, nella parte più scoperta e più vera, che è comunque, a ben vedere, anche la parte più intima e più oscura di noi. Quella che affonda le radici nell’humus fecondo dei nostri antenati, del loro modo di vivere, di esprimersi, di manifestare o contenere sentimenti, emozioni, pensieri. Una sorta di contenitore rustico, fatto di sarmenti intrecciati come le “sporte” che un tempo i contadini portavano in campagna per colmarle di tutto quanto la terra produceva e sapeva di buono: il profumo colorato delle ciliegie, dell’uva, dei gelsi, delle pesche e delle susine, dei gloriosi fioroni e delle timide nespole e azzeruole mescolato con quello delle mandorle fresche e delle olive dolci, delle carrube, delle noci e nocelle dall’odore aspro e forte. E da quel contenitore, simile al cilindro di un mago, noi tiriamo fuori, improvvisamente, la nostra antica storia che sa di terra, di alberi e di frutti, di fiori e di foglie, di fatica e di sudore, di magri raccolti e di fiducia nella bontà divina o nella buona sorte.
La nostra storia di neve col vincotto, mangiata intorno al braciere acceso nelle lunghe sere d’inverno. E, con i rosoli di diversi colori, u grattamarianne all’angolo della strada negli assolati pomeriggi estivi.
Basta un richiamo. Una parola. Un gesto. Uno sguardo. Una ruga in più su un volto che ci sembra millenario e il mondo di oggi cede i suoi scenari vorticosi e spesso disumani a quelli più sofferti, ma forse anche più rassicuranti di un tempo solo apparentemente perduto, ma radicato nell’anima, scritto nei nostri comportamenti atavici di cui, se siamo molto giovani o appena adulti, non conserviamo memoria. Eppure ci appartengono. Sono la storia dei nonni e dei bisnonni. Sono le loro voci, i loro proverbi (rә dәttériә), con cui si semplificavano la vita da percorrere lungo carreggiate già segnate e da indicare alle nuove generazioni per impedire loro di perdere la via maestra o il battuto sentiero e magari di imboccare scorciatoie a volte pericolose e fuorvianti. Sono la meta certa e il sicuro ritorno. Sono la casa, il focolare, il paiolo, le fave e le cicorie, la cena frugale e il ragù della domenica.
Le strade col pietrisco e i carri con muli o cavalli e il cane che abbaia al primo chiarore dell’alba. Sono la preghiera del mattino e il requiem per i morti recitato di sera, quando più acuto era il ricordo e più intenso il dolore, in un latino biascicato e incomprensibile che non era latino e neppure volgare o italiano, ma era una strana lingua, che oggi può farci anche sorridere, divertiti per tanta ingenua fiducia nelle parole apprese di bocca in bocca e ritenute intoccabili e sagge, degne di un miracolo o della benevolenza del Creatore. Eppure è la lingua che racconta la fede e l’affidarsi a Dio dei nostri vecchi. Ci è stata trasmessa con le parole dell’anima imparate nella culla e cucite nel cuore per poterle ritrovare lì, dove l’amore le ha conservate e nascoste per ricordare a noi, che le abbiamo apparentemente dimenticate, chi realmente siamo.
Solo il loro recupero potrà restituire alle nostre parole nuove il senso profondo delle cose, quella matericità che abbiamo perduto con l'astrazione dei nostri discorsi fondati sui concetti e non più sull'esperienza, perché solo esse racchiudono significati antichi da ripercorrere a ritroso fino a ritrovare, intatta e vera, la storia dell’umanità.


martedì 29 agosto 2017

IL GIORNO CHE LE PIETRE DECISERO DI PARLARE

L’alba si svegliò una frazione di secondo prima, perché ci si avviava verso la primavera. Era di latte e di miele, che il sole dipinse di sole non appena fece capolino oltre la siepe. Gli uccellini, appena nati, bisbigliavano sotto i tetti, nel rifugio caldo dei loro nidi, raccontandosi i sogni della notte e l’urgenza di cibo con i becchi spalancati.
Le pietre della casa da qualche giorno stavano lì ad ascoltarli, da quando, cioè, il silenzio dell’alba era stato interrotto da quel festoso parlottio e da quel tripudio di pigolii.
Decisero allora di parlare pure loro. Si fecero coraggio. Non era facile. Non erano abituate.
Avevano sentito dire agli uomini che le pietre cantano.
Avevano sentito dire agli uomini che le pietre raccontano.
Avevano sentito dire agli uomini che le pietre conservano la memoria del tempo. Nel tempo. E alcune di loro erano millenarie.
Le loro parole rimbombarono come nel giorno della Creazione le parole di Dio, e gli uccellini si spaventarono con tutto il resto del Creato.
E, forti della loro millenaria esperienza, raccontarono degli anni e delle stagioni, delle cose e del loro mutamento, del mare e delle sue onde.
Poi parlarono del cielo che si perdeva nell’immenso, e della bellezza inafferrabile e lontana delle stelle. Della follia della luna e della pazienza del sole. Del suo donare a tutti luce e calore.
Parlarono delle nuvole dispettose e del vento frettoloso e della pioggia che cantava sui davanzali dei balconi, che dissetava i fiorellini appena sbocciati, e danzava tra gli alberi, o batteva insolente, insistente, sulle loro sorelle più povere, che lastricavano le strade e venivano sempre calpestate dall’indifferenza degli uomini, Poi finirono col parlare solo degli uomini, e dei loro passi a percorrere anche strade sconosciute per scoprire il mondo e andare lontano. Delle città e delle loro dimore. Dei problemi e dei sogni. Delle cadute e delle rinascite.
E si fermarono a chiedersi del loro cuore. Cuore di pietra o di rose e di spine? Cuore intriso d’amore o grondante odio e dolore? Cuore due volte cuore o cuore senza cuore? Troppo ingarbugliate le vie del cuore per capirci qualcosa.
Le pietre si persero in quel labirinto senza via d’uscita.
Gli uccellini, stanchi di ascoltare storie più grandi dei loro pigolii, si erano riaddormentati.
E le pietre smisero di raccontare. Rispettando il mistero di quell’infanzia di piume e d’innocenza.
Troppo lunga la storia degli uomini per essere capita. Troppo difficile per tutti addentrarsi in quel groviglio di pensieri, di sentimenti, di ambizioni, di potere, di violenza, di tenerezza, di passione, d’indifferenza, di vittorie, di sconfitte. Troppi egoismi per non lacerare intese. Come aiutarli a diventare migliori?
Persino le pietre si sentirono scoraggiate.
Meglio il silenzio. Gli uccellini tra poco avrebbero imparato a volare. Avevano le ali e prima o poi avrebbero spiccato il volo. Guadagnato il cielo.
Spettava a loro farsi sentinelle almeno dei loro nidi. E salvare così ogni nuova primavera.
Sospirarono e tacquero. Piegandosi all’ineluttabilità delle cose del mondo, all’insondabilità dei pensieri degli uomini, all’imponderabilità delle  contraddizioni della vita.
Si stava facendo sempre più tardi e l’alba era stata vinta già dal mattino.

Altre voci avrebbero colmato il giorno.

lunedì 28 agosto 2017

LE FAVOLE INIZIANO A CABRAS

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Oltre il blu brulicante di stelle che squarcia il silenzio, il fragore delle favole che iniziano a Cabras è legato ai piedi scalzi come radici radicate alla terra (le vene che affiorano imperiose/impietose sul piede nudo afferrano lo sguardo e vincono il cuore); radici/piedi, che corrono corrono corrono su un sentiero di polvere e sterpi, alberi e azzurro fino a scoprire il mare e una vela bianca contro l’inganno del vento. O il suo prodigio.
E, tra terra aria acqua e fuoco, inizia la prima favola a raccontarci il mondo primordiale ed eterno  nel suo abbracciare il giorno, che attende nuove albe e nuovi tramonti in una terra che è inno alla bellezza senza confini, nonostante le luminose acque (il cielo capovolto di stelle?), con onde alla battigia, a segnare un limite e a spalancarsi all’ardimento della libertà e alla determinazione nel “fatale andare”.
E l’isola è terra aspra di lunghe siccità (rossi i capelli spinosi degli isolani) e di pietre che hanno, però, suoni d’acqua e di fuoco e armonie sonore di lontananze siderali, dove il tempo incontrò l’eternità e si fece poi respiro d’uomini e d’animali.
L’isola, incanto di morbida lana di greggi illuminati dal sole che tutto governa e rischiara e dà vita all’erba e ai fiori del prato, che attendono la pioggia per dissetarsi e cantare l’inno delle piccole cose al Creato che,  immenso, sorride. 
Muro come pentagramma, la seconda fiaba di silenziose note su cui si posano corolle dischiuse di abiti che rendono omaggio alle donne di tutte le età e di tutti i luoghi abitati della terra.
E la femminilità, mortificata nel nero del lutto antico e dell’antico pianto, esplode di colori e di audacia con rosse bocche che rivendicano baci  mai dati e mai ricevuti.
Carezze di nuova giovinezza esibita e mai più sepolta o ignorata.  
La fiaba più lunga è scritta, nelle infinite rughe arate dal tempo, sul volto di ieri che si leviga di giovinezza in una fotografia dei suoi vent’anni appena, e sa di millenaria poesia che mai conoscerà tramonto. Come le ali immense dell’aquila reale che il solitario amante delle vette ardite, in un groviglio di tarlate rocce e di cielo frastagliato d’ali e di rami in gara con il vento, sfida per sapere la verità sulla paura arresa alla forza del mistero che quel volo immenso scrive, e canta alla vita. E i piani temporali si sovrappongono, si sfaldano, si rincorrono, si ricompongono in un tempo che non ha calendari.
E i cunicoli bui che s’inabissano nel ventre misterioso di una razza che ha sangue di mille razze di guerrieri e uccellatori e le geometriche guglie che fendono il cristallo intatto della volta celeste sono lame a ferirlo mentre s’innalzano in bianca preghiera a raggiungere il sogno di Dio che in questa terra incontra la sua orma.
In un piccolo cerchio di acque, prive di orizzonti altri, svetta l’“Idea” che si fa nuvola e si moltiplica nel suo andare senza ostacoli e senza disciplina a produrre meraviglie, come la corsa dei piedi scalzi che ora tornano tornano tornano perché dall’isola ognuno ha mente di andare lontano e cuore di ritornare: è qui che canta la pietra, qui “urla e biancheggia il mare”, qui si eternano la bellezza e la volontà degli uomini a eternarla in un ritrovarsi, alla fine del rito vestito di bianco, in lacrime e abbracci di abbandono a quel volersi bene che è un riconoscersi e un appartenersi.
E tutto vive e palpita (immagini suoni rumori nenie e canti e incanti e natura e sfondo musicale dolcissimo e  parole di favola antica e sempre nuova), nello splendore sapiente del film “Le favole iniziano a Cabras”, di un figlio giovanissimo della mia terra, Raffaello Fusaro, che ringrazio perché mi ha permesso di vivere con lui, e con tutti i coprotagonisti di questo viaggio fantastico, la Poesia selvaggia della campagna sarda, umile e appassionata terra di Arte e di spazi incontaminati pur nell’avanzare della civiltà tecnologica contemporanea, senza dimenticare la poesia forse meno tumultuosa, ma altrettanto magica, del nostro Sud nutrito da sempre con fiabe sole creatività fantasia immaginazione visionarietà amore.
E stelle come soli catturati nelle mani da far esplodere a migliaia. Raffaello ne è la conferma.

domenica 27 agosto 2017

UNA PERLESCENZA LUNARE

Ritratto di Angelica Grivel, Giovanni Gastel

Giovanni Gastel, ritratto di ANGELICA GRIVEL. Canon 1dx, 85mm. Luce: due quadra laterali e un beauty frontale. Stampa con leggera dominante rossa. Milano 2015




Una perlescenza lunare sul volto di questa adolescente/ fiore che si schiude al giorno in tutto il suo chiaro splendore. 
L'esile corpo racchiude un tenero pudore tra bianche braccia sulla bianca veste in contrasto con il nero intenso dei capelli, a pioggia sulle spalle. 
E la profondità dello sguardo, immenso, immerso nel mistero del sogno ancora tutto da sognare. 
E labbra di morbida conchiglia a sussurrare/ trattenere un segreto di stupore che ancora l’avvolge…  
Solo la delicata mano a sostenere la leggerezza di un pensiero che vola lontano, ma ha bisogno di un punto fermo per non perdersi oltre tutti i possibili orizzonti che la giovane età le promette e forse già disvela…
Tra luci e ombre di una realtà ancora da scoprire. 
E il cuore palpita di incontaminata emozione…

sabato 26 agosto 2017

IL GIORNO CHE (l’Altro e le nascoste verità)

Il giorno che scoprii l’Altro da me era un giorno normale, banale, direi. Ed ero bambina. L’Altro era mia madre, mio nonno, mia nonna, mia sorella. Insomma, non ero io. L’Altro, nella mia casa, era gioco, amore, tenerezza, calore, fiaba, ma anche litigi, dispetti, rappacificazioni.
Tra la casa e il fuori l’Altro era ostacolo più che incontro.
Poi l’Altro si trasformò in Amicizia. Fidarsi e confidarsi. Condividere ore, risate, pensieri, sogni. Fino al disincanto. Delusione e amarezza. Diffidenza e proponimenti di essere meno entusiasta degli Altri. Delle cosiddette Amiche. Pugnalate alle spalle e ferite. Difficili da rimarginare. Dolore. Chi l’Amico? Cosa è l’Amicizia? Cosa chiede e cosa dà? L’innocenza o l’inganno?
Poi, scoprii anche l’Amore. Quello che ti rode il cervello, ti fa galoppare il cuore, ti lascia immersa nel sogno e ti fa forare il cielo. Quello che ti fa vivere il dubbio e la certezza, annebbia il giorno e illumina le notti. Quello che ti fa perdere e ritrovare. Quello che ti esalta e ti danna. Passione, tenerezza, allegria, pianto. Morte e resurrezione. Dove il punto fermo? Dove la verità?
Il giorno che ebbi bisogno della Verità, la cercai dappertutto. Nel cuore dell’Altro. Nel cuore dell’Amico. Nel cuore dell’Amore. Nel mio cuore. Ma era dappertutto e altrove. Sfuggente e indefinibile. Imprendibile. Presente e assente. Vicina e lontana. Inconoscibile.
Mi dannai a cercarla. A spiegarla. Secondo me. Secondo te. Ma allora non è una la Verità? Non esiste La Verità. Sono tante le verità. Quante?
Il giorno che mi illusi di afferrarla finalmente. Ero proprio ad un passo da lei. Usai tutti gli strumenti dell’intelligenza, tutti gli arnesi del cuore. Le strategie delle emozioni. Tutti gli appigli della filosofia e i teoremi della scienza. Volevo dimostrare. Capire e farmi capire. Confrontarmi per convincere e farmi convincere. Senza vincitori né vinti. Ma vincere CON e, quindi, vincere tutti. Ma… ne uscimmo tutti sconfitti. Anche la Verità. Il giorno che si presentò inaspettato e imprevedibile, eppure sempre lì in agguato, in attesa di dire l’ultima parola e di vanificare tutto: Il Punto di vista.

Inconfutabile. 

venerdì 25 agosto 2017

IL GIORNO CHE (dedicato al Poeta e alla Poesia)

Il giorno che m’incontrerai avrai un fiore antico tra le mani. Avrai cuore di panna e occhi di nebbia. Avrò un vestito verde di primavera e fiori tra i capelli e stelle di mare. Ricorderai il mio sorriso di ciliegi e rose e le mie mani fiocchi di neve. Nel “parco delle rimembranze” mi porterai in volo. Forse solo allora ti scriverò ancora come mai sul vetro del passato. M’inviterai a ballare come allora e come allora sarai foglia di vento. Sarai fremito ardente, dolce canto, carezza inascoltata, parole di rimpianto.
Non dirmi niente. Sognami soltanto.
Il giorno che mi vedrai arrivare, avrai negli occhi la fanciulla riso d’argento, cometa d’altri cieli, onda di mare, fianchi di luna e passo di giunchiglia. Ti avvolgerà con le sue ali di seta, ti racconterà la sua poesia. Ti sorriderà con gli occhi di mandorla scura del giorno che ti conficcò una lama nel cuore e fuggì via inseguita dal tuo tormento. Non dirle d’averla attesa tanto. Non sai che non si attende chi si ha già?


giovedì 24 agosto 2017

PREFAZIONE AL LIBRO "LA SFIDA DEL GECO"

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La sfida del geco è la nuova raccolta di poesie di Alberto Tarantini, la terza in poco più di due anni. E, non a caso, è una nuova sfida che l’autore si pone per saggiare sé stesso e la sua capacità di resistere all’intima necessità di essere poeta suo malgrado, e malgrado il disincanto che sempre più si radica razionalmente in lui, quando guarda il mondo, non come per sua natura fa il geco, a rovescio, ma come è possibile al suo sguardo attento che vede le cose per il verso giusto, che poi tanto “giusto” non è, se è costretto ad osservare la loro devastante realtà. Che non lascia illusioni e forse neppure la speranza che qualcosa di buono possa accadere.
Per fortuna, l’ironia e l’autoironia sono sempre in agguato in Alberto Tarantini per vincere la sfida. Sono la sua nota connotante che perdura, ora lieve ora amara ora caustica, sin dalla prima raccolta. Ne è prova divertita e divertente la poesia “Domani si pensa”: Rinviare i problemi è la mia specialità./ Un maestro in questo!/ Vedi 'Poi ci torno' dello stesso autore/ oppure 'Raccolta differenziata'/ sempre in 'Così il tempo' (…) E tornando a prima, devo star messo/ proprio male/ per ridurmi a citar me stesso!
L'autoironia è, però, segno distintivo che minimizza (ma non troppo) la sottile e profonda filosofia sottesa ai suoi versi e al pensiero costante che interroga la vita nella spasmodica ricerca della verità o delle verità che sempre sfuggono alla sua indagine attenta perché attraversata con cuore gonfio di quel “veleno” che solo uno straziante e intenso bisogno d’amore produce e procura.
Già, la poesia di Alberto Tarantini, anche se ci fa sorridere, non è mai scritta con la leggerezza di chi vuole e sa giocare con le parole per divertirsi e far divertire. Nasce, piuttosto, dal continuo bisogno di confrontarsi non con il geco, ma con il mistero. Con il geco avrebbe partita persa (Incollato alla sua roccia mi sfida/ lo sguardo fiero di un geco./ A me… che la morte/ la consegno alla paura! - “Vince il geco”), perché la bestiola, appostata sul soffitto o sui muri in agguato delle sue facili prede, sa per istinto l’ora e lo spazio dei suoi spostamenti e della sua immobilità. La sua sfida è, invece, con il mistero della vita e della morte e della sua anima, che è alla continua vana ricerca di un appiglio, come principio di salvezza, o di una fede, punto fermo in tanto vagare incerto e disperato. Non si tratta, però, di una propensione innata negli uomini, perché, come il geco, Dentro il campo arato di fresco/ consuma il suo rituale/ il seguace della terra:/ lui semina il miracolo/ e si aspetta la vita. (“Lotta tra titani”). E qui ci sarebbe tanto da dire sulla bellezza di questi ultimi due versi che da soli potrebbero valere al poeta una corona d’alloro, anche se lui la rigetterebbe sdegnato per la convinzione che quel poeta sia morto nell’84. Ma sono pareri del tutto personali ed hanno il beneficio della libertà di pensiero e di parola. Qui si tratta di un uomo di estrema sensibilità (“Corda di violino fuori di chiave”, direbbe di lui il buon Pirandello che di anime travagliate non conosceva solo il concetto!) che, mentre vive e osserva sé stesso e il mondo, pensa e ascolta e si ascolta e si logora in una sospensione di giudizio, da cui si salva, almeno per la frazione di un secondo, con la battuta che mette a tacere i sentimenti intensi e i paventati inganni di quel forte richiamo dalla terra al cielo che teme, quasi un buco nero in cui rischia costantemente di precipitare, e sente, come insperata luce in cui finalmente credere.
Se non avesse questa intima profonda speranza, non ne cercherebbe con tanta anelante ansia la fonte e la conferma (… Ed io, che sono la canna pensante,/ l'anello debole per eccellenza,/ dovrei trovare il compromesso,/ i punti di contatto,/ riscriverle a due voci le paure/ del mondo, dotarmi di due mappe,/ una per ogni approdo,/ una per ogni tasca/ ed esibirle all'occorrenza... - “Lotta tra titani”).
Soprattutto ora, dopo la perdita della madre che gli fa scrivere poesie dolenti di insaziato strazio di sconfitta, solitudine, abbandono (Quel dio ora un colpo ha inferto./ Con foga di barbaro ha affondato/ il vil gladio poco sotto il tuo cuore,/ al centro esatto del mio. - “Tu dimenticasti”). Anche qui l'ultimo verso è la sintesi di tutto il dolore del mondo, racchiuso nella ferita inferta proprio al centro del suo cuore, che ora sanguina di rimandate verità. Ora tutto è presenza di un'assenza mai messa in conto perché mai intimamente accettata.
Persino il giardino senza la carezza delle cure materne è metafora della stessa esistenza dell’autore, ora che non sente più la voce amata dare suono e fiato e vita alle stanze e a quegli spazi che vanno via via perdendo il fulgore del verde a fatica e con amore conquistato (Nella casa dove tutto mi ricorda tutto/ - la memoria non fa sconti se vuole! -/ in particolare nell'orto indugio spesso/ per capire da che parte vanno,/ che strada prendono le cose/ quando lasciate al proprio corso,/ abbandonate a loro,/ quando più non c'è il tocco d'un amore,/ il refolo d'una voce sussurrata/ a dirottarle altrove,/ a convogliarle nei rivoli buoni,/ a sottrarle all'indistinta fiumana,/ ad opporsi quel poco/ alla cieca inerzia del male... - “Il tuo orto”).
La stessa Murgia, brulla e impervia, Dove si grida,/ l’Arte del silenzio (“Suggestioni murgiane”) tra cardi spinosi e ferule che s’innalzano a respirare i mattini o il silenzio di ogni tramonto, dove è possibile anche incontrare Dio, è metafora della personalità del poeta, sempre in bilico tra le asprezze della vita e il desiderio che il paesaggio muti come d’incanto e lo riporti a quella primitiva passione, acerba e pulsante, del contatto fisico con la natura, che era materia e anima. Ora non più. Di qui i ripensamenti. Le attese deluse. I ritardi accumulati. I debiti con sé stesso mai risolti. Persino l’amore è perdita e inganno. Il pessimismo che già connotava la poetica tarantiniana ora è diventato più amaro e greve e a nulla valgono le sfide e i fendenti lanciati tra sorrisi a denti stretti.
Persino le parole sono un imbroglio.
All'attento lettore, però, non sfuggono le preziose metafore, la dolcezza del canto di ogni endecasillabo, la continuità del pensiero dolente negli assorti enjembement, la pregnanza delle anafore, la forza degli esclamativi e la fragilità degli interrogativi.
Il dubbio è d'obbligo in un autore che fa della ricerca filosofica e poetica il suo punto di partenza e di arrivo per conoscersi e scoprire il senso del nostro essere al mondo in ogni possibile (im)perfezione.
Tanto è vero che, tra tanto disperante dolore, si fa largo ostinata la vita e scopre salvifiche le “sorgenti del verso”, a cui dissetarsi.
Tormentata ma forte, una preghiera laica sgorga dalle labbra d’arsura di Alberto: M’assista una mente libera/ ed un cuore non trafitto.
È il primo dischiudere le ali alla speranza.
Angela De Leo


mercoledì 23 agosto 2017

IL GIORNO CHE (Incontro con la Poesia)

Il giorno che mi venne incontro la fantasia, m’accorsi che un vecchio-bambino, per farmi grandi gli occhi, m’inventava parole. Poi mi portò per mano in un bosco incantato dove le streghe abitavano in castelli di zucchero filato e le fate erano serpi distese al sole. Scoprii più tardi, al tempo delle more, che mai è verità ciò che appare. La verità è solo dono d’amore.
Il giorno che incontrai l’amore, occhi già immensi attraversò un “ti amo”. Su un petalo di rosa il suo richiamo. Fu volo rosso fuoco, in un groviglio di stelle e un segreto di luna, a trafiggermi il cuore.
Il giorno che scoprii il mio cuore era un giorno qualunque di primavera. Un petalo di rosa d’improvviso giocò con la magia di due parole… Sul filo teso, corda di violino, acrobata, saltimbanco il suo sorriso. Con grovigli di risate fece capriole e non s’accorse di forare il cielo.
Il giorno che toccai il cielo con un dito, scoprii l’azzurro cristallo nel suo ordito. Sognai corde d’argento per legarlo ai miei pensieri. Una piuma d’angelo cancellò ogni mio ieri. Si fece ala immensa, m’accarezzò il viso. D’arpa e liuto risuonò il mio paradiso. M’avvolse col suo canto di rugiada. Canto di tenerezza ritrovata. E riscoprii più di mille petali di rosa, moltiplicando i “ti amo” senza posa. Ma vero dono d’amore d’ogni mio mattino è ancora e per sempre il mio vecchio-bambino.

Hanno racconto di perle le sue parole e un sorriso chiaro sui miei domani se potesse costruirli con le sue mani.