Oltre il blu brulicante di stelle che squarcia il silenzio, il fragore delle favole che iniziano a Cabras è legato ai piedi scalzi come radici radicate alla terra (le vene che affiorano imperiose/impietose sul piede nudo afferrano lo sguardo e vincono il cuore); radici/piedi, che corrono corrono corrono su un sentiero di polvere e sterpi, alberi e azzurro fino a scoprire il mare e una vela bianca contro l’inganno del vento. O il suo prodigio.
E, tra terra aria acqua e fuoco,
inizia la prima favola a raccontarci il mondo primordiale ed eterno nel suo abbracciare il giorno, che attende
nuove albe e nuovi tramonti in una terra che è inno alla bellezza senza
confini, nonostante le luminose acque (il cielo capovolto di stelle?), con onde
alla battigia, a segnare un limite e a spalancarsi all’ardimento della libertà
e alla determinazione nel “fatale andare”.
E l’isola è terra aspra di lunghe
siccità (rossi i capelli spinosi degli isolani) e di pietre che hanno, però,
suoni d’acqua e di fuoco e armonie sonore di lontananze siderali, dove il tempo
incontrò l’eternità e si fece poi respiro d’uomini e d’animali.
L’isola, incanto di morbida lana di
greggi illuminati dal sole che tutto governa e rischiara e dà vita all’erba e
ai fiori del prato, che attendono la pioggia per dissetarsi e cantare l’inno
delle piccole cose al Creato che, immenso, sorride.
Muro come pentagramma, la seconda
fiaba di silenziose note su cui si posano corolle dischiuse di abiti che
rendono omaggio alle donne di tutte le età e di tutti i luoghi abitati della
terra.
E la femminilità, mortificata nel
nero del lutto antico e dell’antico pianto, esplode di colori e di audacia con
rosse bocche che rivendicano baci mai
dati e mai ricevuti.
Carezze di nuova giovinezza esibita
e mai più sepolta o ignorata.
La fiaba più lunga è scritta, nelle
infinite rughe arate dal tempo, sul volto di ieri che si leviga di giovinezza in
una fotografia dei suoi vent’anni appena, e sa di millenaria poesia che mai
conoscerà tramonto. Come le ali immense dell’aquila reale che il solitario
amante delle vette ardite, in un groviglio di tarlate rocce e di cielo frastagliato
d’ali e di rami in gara con il vento, sfida per sapere la verità sulla paura arresa
alla forza del mistero che quel volo immenso scrive, e canta alla vita. E i
piani temporali si sovrappongono, si sfaldano, si rincorrono, si ricompongono
in un tempo che non ha calendari.
E i cunicoli bui che s’inabissano
nel ventre misterioso di una razza che ha sangue di mille razze di guerrieri e
uccellatori e le geometriche guglie che fendono il cristallo intatto della
volta celeste sono lame a ferirlo mentre s’innalzano in bianca preghiera a
raggiungere il sogno di Dio che in questa terra incontra la sua orma.
In un piccolo cerchio di acque,
prive di orizzonti altri, svetta l’“Idea” che si fa nuvola e si moltiplica nel
suo andare senza ostacoli e senza disciplina a produrre meraviglie, come la
corsa dei piedi scalzi che ora tornano tornano tornano perché dall’isola ognuno
ha mente di andare lontano e cuore di ritornare: è qui che canta la pietra, qui
“urla e biancheggia il mare”, qui si eternano la bellezza e la volontà degli uomini
a eternarla in un ritrovarsi, alla fine del rito vestito di bianco, in lacrime e
abbracci di abbandono a quel volersi bene che è un riconoscersi e un appartenersi.
E tutto
vive e palpita (immagini suoni rumori nenie e canti e incanti e natura e sfondo
musicale dolcissimo e parole di favola
antica e sempre nuova), nello splendore sapiente del film “Le favole iniziano a
Cabras”, di un figlio giovanissimo della mia terra, Raffaello Fusaro, che
ringrazio perché mi ha permesso di vivere con lui, e con tutti i coprotagonisti
di questo viaggio fantastico, la Poesia selvaggia della campagna sarda, umile e
appassionata terra di Arte e di spazi incontaminati pur nell’avanzare della
civiltà tecnologica contemporanea, senza dimenticare la poesia forse meno
tumultuosa, ma altrettanto magica, del nostro Sud nutrito da sempre con fiabe
sole creatività fantasia immaginazione visionarietà amore.
E
stelle come soli catturati nelle mani da far esplodere a migliaia. Raffaello ne
è la conferma.
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