Sarebbe troppo facile dire che questi cinquanta anni che oggi celebriamo rappresentano la storia di un amore.
Questo è vero, ma riduttivo. Conosco tante coppie che sono giunte a questo traguardo, nella stessa vita o in due
vite diverse – come purtroppo in questo caso – e alcune di queste coppie si sono forse amate di più di Angela e
Primo, se mai l’amore fosse posizionabile lungo una scala. Nessuna di queste coppie mi ha consegnato però, in
modo limpido e inequivocabile, il segno del loro legame, nella forma di pensieri che diventano versi e che, nel
loro riversarsi, travolgono anche le vite degli altri, insinuandosi come desideri acquosi nei nostri occhi mentre
leggiamo, e nei nostri cuori mentre ricordiamo.
Ed ecco il filo conduttore di questa storia d’amore, come io l’ho ricostruita immergendomi nel testo “Per oro e
per sempre”. Questo filo è la memoria, che non c’è. Ferma nel tempo presente è una relazione che non fluisce
altrimenti morirebbe, ma resta immobile in “incontri di sguardi che escludono anche il cielo”.
Se non c’è memoria non c’è neppure il rimpianto, perché l’amore non scorre come sangue o vino, metafora
ricorrente nelle poesie di entrambi gli autori, ma è come “un brindisi sospeso nell’aria”. Primo vive perché non
ha paura della morte. “La notte ci passò accanto, ma non ce ne accorgemmo”, perché anche l’alba si rende
invisibile come vetri trasparenti a liquefare i rimpianti nei bicchieri colmi.
Il tempo è il “delirio della memoria”, e i ricordi si sgretolano lungo quel fiume misterioso di vino e di sangue per
le nostre vite infinite. Ed è in quel fiume che si intreccia il dolore di Angela, che struggente scrive “piegata su
bicchieri di solitudine annego nell’ultima goccia lo sguardo vuoto colmo della tua assenza”.
Lo sguardo di Angela è lo sguardo di una donna, è uno sguardo materno che tiene insieme passato, presente e
futuro come nell’attesa, nel parto e nella cura dei figli, il tempo unico e indiviso della maternità. Ed è
comprensibile quindi che si posi sui ricordi. Tuttavia, l’unico modo di consolare il suo pianto senza fine è non
ricordare. Se ricordiamo, siamo assaliti dai rimpianti. Rimpiangendo, ri-piangiamo. Forse dovremmo invece
pensare alle persone che amiamo – ma non ci sono più – al presente. E il rimpianto si addolcisce nella nostalgia,
per una storia appunto infinita e per qualcuno che in fondo non abbiamo mai perso.
Angela, grazie per averci convinto che “se amiamo una persona dobbiamo lasciarla andare, perché se torna è
sempre stata nostra”. E Primo ritorna, perché la vita per lui è stata soltanto un attimo: il tempo non ha
importanza, non sa neppure trovare una ragione allo stupore per il vostro bisogno disperato dell’altro, per il
vostro amore necessario che fu credo e disperazione.
Molto suggestivo il riferimento a Sartre e alla sua relazione pericolosa con Simone De Beauvoir, cui scrisse un
giorno: “La mia vita non appartiene a me solo. Voi siete sempre me, l’essere stesso del mio essere, il cuore del
mio cuore”.
Il cuore di Primo continua allora a battere in quello di Angela, perché di nuovo il sangue è vino, “per festeggiare
l’eternità del nostro tempo ancora da inventare”. Nello spazio dell’immaginazione questi due corpi, due anime,
due cuori, sono un tanto, un tutto, ma anche un niente. Sono “filo dello stesso aquilone”, padroni dell’eternità,
arroganti come gatti con le loro nove vite da giocare. In questo libro, la vita è un cerchio ludico senza linee né
frecce. Del resto, chi ha stabilito il confine tra la vita e la morte, tra il reale e l’irreale, tra presenza e assenza, tra il
cielo e la terra, tra gli occhi e lo specchio?
Grazie Angela e Primo, per averci regalato la certezza (l’illusione) che si nasce il giorno in cui incontriamo il vero
amore. Se questo significa che Primo continua a vivere nel tuo amore (l’amore che tu gli devi), noi che siamo qui
forse non moriremo mai, perché le persone che sono in cielo sanno amarci “di più, tanto di più, un mondo di più,
immensamente di più”.
Corato, 20 settembre 2017
Valeria Rossini
Ho creato questo blog perché mi piace incontrare gli altri sul filo della poesia e della scrittura in genere. Ascolto, reciprocità, confronto, comprensione, condivisione...
mercoledì 27 settembre 2017
domenica 24 settembre 2017
PER ORO E PER SEMPRE
Un libro.
Un nuovo libro per una
nuova collana della SECOP edizioni.
Una nuova collana di
poesie, “Paralleli poetici”, che vedrà, insolitamente, di volta
in volta, due autori raccontarsi a vicenda.
Storie, ricordi, progetti,
parole come richiami, come echi d'indaco a colorare di sacralità il
respiro poetico, in un incontro/confronto, che li contiene tutti nel
bacio di pagine che, solo dischiudendosi come ali di farfalla,
rivelano il loro contenuto e il loro splendore.
Un nuovo formato.
Una nuova composizione
grafica elegante e armoniosa.
Un titolo che racchiude il
mistero del non detto e si fa messaggio dell'istante puro proiettato
verso l'eternità.
Un libro, il primo, che
tiene a battesimo la collana, dedicato a me e a mio marito, Primo
Leone, nel giorno in cui la nostra storia d'amore conta gli anni
dell'oro che non conosce tramonti...
Uno scrigno di versi che
s'intrecciano e volano nell'abbraccio condiviso di parole, che
cantano nelle pagine a specchio di due autori, amanti, ferocemente
innamorati come ferocemente sconfitti ma mai arresi.
Un uomo e una donna, che
vibrano in sintonia in un richiamo di note senza fine.
Ecco il sogno che si
rinnova e si avvera.
È il sogno accarezzato da
un editore folle, Peppino Piacente, votato alla poesia.
È una nuova sorprendente
Sfida di una Casa Editrice, nata sotto il segno della creatività
passione, dell'impegno coraggio, del sogno desiderio.
venerdì 22 settembre 2017
LA BALLATA DELLA NINNA-NANNA PER LUNA CHE DORME
Dorme Luna in un campo
lontano
sotto un ramo fiorito
grappoli di cielo
Occhi d’oro spenti in
una notte di pianto.
Occhi d’oro all’ombra
di un lungo rimpianto.
(fai la nanna, Luna, non
ti svegliare,
chè nessuno più potrà
farti del male,
sogna topolini bianchi per
non aver paura,
sogna la tua mamma che di
te si prende cura).
Bianca di luna è questa
notte priva di parole,
tenera al suo chiarore
Luna s’addormenta,
sogna di volare tra mille
stelle d’argento,
sogna di volare tra i rami
sospinta dal vento,
sogna di fare le fusa al
tepore del suo cuore.
Cuore d’Ombra piccolina
a cullare la sua piccina.
Ali immense le sue braccia
d’immenso amore.
(fai la nanna, Luna, non
ti svegliare,
fai la nanna, chè nessuno
potrà farti più male.
Sogna sempre, sogna
d’essere il suo tesoro
finché il sole dormirà
nei tuoi occhi d’oro).
lunedì 18 settembre 2017
INCANTI A BELGRADO
È Danubio d'acque e di luci Belgrado
in una lontananza d'abisso
dall'oblò dell'aereo
che di tristezza decolla in un addio
di speranza forse un arrivederci
Mi sorprende improvviso bagliore
di luna piena
a ricordarmi il cielo da attraversare
Solo un colpo di coda
e il suo volto sorpreso
scivola giù
Che incanto guardare a capo chino
la sprofondata luna
quasi un preghiera d'ansia stupita
(che il ritorno ci sia propizio
con questo insolito prodigio
negli occhi)
giovedì 14 settembre 2017
La necessità può essere un sigillo?
È tempo di
riproporre una raccolta di versi davvero interessante per chi voglia fare
tesoro della parola poetica, coniugata con la parola “ricerca”, in un’appassionata
e appassionante lettura che coinvolge mente e cuore e sa farsi tempo, spazio,
ricordo, speranza, amore, desiderio di “incontrare” gli altri per poter forse “incontrare”
Dio.
Parlo di Sigillo di necessità di Zaccaria Gallo (Secop
edizioni 2012), di cui mi piace riportare in sintesi la mia Prefazione.
“Mettimi come sigillo sul tuo cuore”. Uno
dei più appassionati versi de Il Cantico
dei Cantici mi risuona dentro da quando ho avuto tra le mani quest’ultima
raccolta di poesie di Zaccaria Gallo dal titolo molto suggestivo e catturante.
“Sigillo”, infatti, è una parola antica e regale. Preziosa. Chiudeva lettere
importanti, plichi, dispacci da cui dipendevano spesso le sorti di regni e
nazioni. Racchiudeva, dunque, un segreto, che non si doveva profanare.
Termine pesante come un giuramento e lieve
come una promessa. È un atto di fede, un credo. Crea una sorta di alleanza, di
forte legame. Per conservare un mistero. Per mantenere quel segreto.
Anche la
locuzione “di necessità” é impregnata di obbligo più che di libertà. Un obbligo
interiore forse. A volte può essere solo urgenza del cuore.
E Zaccaria Gallo ci confida nei suoi
versi, appunto, un segreto quasi a fior di labbra. Il segreto di sé. Un
raccontarsi silenzioso che si distende in percorsi intimi, rilevati su piani
spazio-temporali diversi, che s’intersecano continuamente tra emozioni che
riconducono ai ricordi e ricordi che vibrano di emozioni. In rapidissimi
passaggi, dai ritmi eleganti e dagli stilemi molto originali, tutti giocati sui
tanti neologismi, quasi ricami musicali, che offrono la cifra stilistica, connotante
l’insolita poesia del nostro Autore. Poesia sempre raccontata sul filo della
memoria. Nostalgica. Amara. Amata.
Canto della memoria, dunque, che qui si fa
respiro d’infinito.
E, come nelle precedenti raccolte poetiche
di Zaccaria, l’emozione che si traduce in poesia nasce da uno sguardo, “soglia
e confine di conoscenza”.
Nessuno a dimora/ sulle cime degli alberi.//
La primavera testarda/ s’avviava a fiorire giardini…
Nelle sere/ che raggomitoli di stelle/ riempiono
il cielo…
Ha canto la luce,/ quando s’adagia/ sul mare dei
miei tramonti/ e sfolgora con la sue dita/trecento colori dell’azzurro…
In realtà, la sua ansia di guardare il
mondo è desiderio di credere nell’uomo per scoprire la bontà di Dio.
Nelle quattro sezioni, che compongono la
silloge, Zaccaria inizia il suo viaggio alla scoperta della parola, che
potrebbe portarlo a Dio, dapprima percorrendo il tempo: quello che è stato,
quello che attraversa quotidianamente nel presente, e quello che ancora gli
resta.
Fil-rouge è l’amore: vissuto, sognato, perduto e
ritrovato, disperatamente rincorso e avidamente afferrato, nostalgicamente
rimpianto, teneramente recuperato.
Perché
“sigillo di necessità” è il sogno per ridonare rugiada all’andare ormai stanco del poeta. Alla
iniziale passione subentra un amore più maturo che, pian piano, si colora di tenerezza,
di nostalgia, di ricordo, di una rinnovata presenza, affettuosa e attenta. Il
prendersi cura dell’altro è il più grande atto d’amore: “(non prendere freddo stanotte)”.
È tutto qui il segreto da conservare con cura
nello scrigno del cuore e a cui attingere per sconfiggere la solitudine, la
malinconia, la tristezza di questo tempo che ci assedia e ci vince. E
dall’amore “nascono parole di poesia”.
Ecco i due amanti che colmano i giorni del
poeta: Amore e Poesia.
Insieme sono promessa e sigillo
d’immortalità.
Nella seconda sezione si attraversa il
ricordo, che si fa canto del dolore, della fuga e della paura, ma anche canto
dell’approdo: fisico e metafisico.
Nuove realtà altrettanto crudeli
s’impongono e fanno sigillo di necessità al vivere quotidiano. Nuovi dubbi
lacerano l’anima del poeta. Di qui ancora un nuovo viaggio per nuovi orizzonti
da raggiungere. Di qui un rinnovato canto del mare: dolente, misterioso, di
raro conforto alle attese del cuore. L’inno alla madre, memoria di tutti i
ricordi ed eredità di gesti, di sguardi, di silenziose malinconie e sintonie,
conclude la personale storia del poeta: “ Madre,/
(…) / bagliori di memorie,/ di segrete cose,/ hai lasciato/ nel mio futuro/ e
mi manchi/ come manca/ una nave dispersa.” Colei che ci ha dato la vita riscalda
la nostra carne e il nostro cuore sempre.
Nel superamento del buio, del vuoto, del male. Mai come in questo tempo
che sta distruggendo la nostra umanità. Altro
rifugio di Zaccaria Gallo è l’Africa, dove è nato e dove fa ritorno spesso il
suo cuore. Tunisi. Terra di vento, di limone e albicocco. Versi superbi di una
suggestione unica nel fiorire delle metafore bellissime, che respirano i colori
del cielo tra anima e cuore. E tutto è
nuvola di ricordi. Storni appollaiati “tra
i rami/ della memoria”… E i
ricordi ora hanno il volto di suo padre: padre/valigia, padre/mantello,
padre/passaporto. Doloroso e tenero rammemoramento al ricordo festoso di
un’infanzia che naturalmente vestiva di fiaba ogni nuovo giorno. Ma ci sono
giorni ancora da vivere. E ci sono giorni “da utilizzare”, magari recuperando
“l’alfabeto dei sogni” perché tutto possa ricominciare. E il domani può essere
anche altrove. Il poeta, però, si rammarica, avviluppato in un nuovo lacerante
dubbio: “Non saprò mai verso dove si
fugge,/ il mistero che non si snoda,/ il silenzio che angola l’eterno,/ il
delirio d’acque che navighiamo”. Sembra un punto di non
ritorno. Soprattutto quando giunge la sera e le sue ombre accorciano il nostro
già breve futuro e ci fanno desiderare più che mai la luce: “guarda guarda e scorgi quella luce/ parla di
una stagione che rivive”… Per Zaccaria il penultimo canto, prima del buio,
è, appunto, un canto di luce alla luce. Ma è la parola la sorgente primigenia
del suo canto: fonte luminosa e “vecchia
eterna necessità. Nata da radici di
pena. Di stupori”.
Oh, la Parola! Che il poeta mette “come
sigillo sul suo cuore”.
E non c’è necessità più dolce, più
rasserenante, più leggera.
Necessità fisica e metafisica. Necessità dell’anima. Libera come “ala d’angelo”.
martedì 12 settembre 2017
LA VIOLENZA: "MACCHIA NERA" DELL'UMANITA'
'La
violenza , forse una macchia nera in un angolo buio, in un piccolo
anfratto della mente', pensava, 'poi, in un solo attimo si espande e
copre tutto il cervello; mai nessuno potrebbe stabilire il momento in
cui avverrà questa esplosione. Questo grumo scuro è dentro di noi,
come i denti stanno nella bocca, come gli occhi stanno sotto la
fronte, come il sangue scorre nelle arterie. Semplicemente è...'.
Mi sembra
opportuno riproporre la lettura di questi primi due romanzi di una
trilogia che l'autore, Gianni Brattoli, sta portando a termine,
perché trattano di un tema che tanto ci sta angosciando ai nostri
giorni: la violenza, “macchia nera in un angolo buio” della mente
umana.
Carl
Gustav Jung, in Aion.
Ricerche sul simbolismo del Sé, la definisce
“ombra”.
Annah
Arendt, nel suo famoso saggio On violence (Sulla
violenza), afferma che questa è
insita nell'animo umano ed esplode improvvisamente soprattutto per
affermare il proprio potere sugli altri. Altre volte, fortunatamente
forse, contro il potere. E spesso, nell'uno o nell'altro caso, basta
proprio una inezia. Chi non ricorda il film di Fellini “Prova
d'orchestra” del1979? Con chiari riferimenti al nazismo (ogni
dittatura si poggia sulla violenza), qui dei pacifici e sorridenti
musicisti, vessati da un direttore d'orchestra troppo esigente, che
impartisce ordini come un dittatore appunto, esplodono in una
parossistica violenza solo perché un brevissimo black out
scompagina, nel buio, tutto l'ordine faticosamente stabilito. Un
“black out” del cervello? Forse.
È la stessa
tesi che sostiene Gianni Brattoli in entrambi i romanzi.
Nel primo,
“Terra alla terra”, la “violenza” esplode nell'uomo quando
viene risucchiato dal vortice di una lucida follia, dovuta, come nel
caso di prete Antonio, ad un credo, un ruolo, una funzione che ne
stravolgono credi, intenti e mezzi. Diabolicamente.
In A
metà della notte, invece, essa non solo
parte dalle stesse motivazioni o condizioni, ma si fa più subdola,
devastante e destabilizzante perché è anche improvvisa e
immotivata. È insita nella natura umana, conferma l'autore, che sta
continuando ad analizzarla da altre angolazioni per approdare al
nuovo romanzo che completerà la trilogia. La macchia scura può
rimanere latente per tutta la vita o esplodere senza scampo. È,
perciò, ancora più pericolosa perché è un “marchio
a fuoco”, impresso dalla notte dei tempi nelle nostre viscere. E il
marchio a fuoco è la “notte” del nostro cuore che spesso dilaga
nel buio della notte che sopravviene al giorno.
Già
dal titolo, infatti, siamo avvolti nel buio della notte: buio fisico
e metaforico. Un buio che non si può fugare perché si è lontani
sia dalla calda luce del crepuscolo sia dal chiarore salvifico della
nuova alba. Quella “metà” è senza via d’uscita. Bisogna
ancora attraversarla tutta la notte per scoprire il nuovo giorno. E
la notte, si sa, è carica di mistero, di paure e di presagi perlopiù
nefasti. È nella notte che si ordiscono le più macchinose trame,
che si compiono i peggiori delitti, che si vivono i pensieri più
tumultuosi e disperanti. Così è avvenuto in Terra alla terra,
il romanzo d’esordio di Gianni Brattoli, così accade in questo
nuovo suo libro: quasi tutto quello che avviene è avvolto
nell’involucro nebuloso delle tenebre. Certo, c’è anche la luce
abbagliante di un caldissimo e soffocante pomeriggio di luglio, in
cui si consuma la storia di folle passione tra Dolino, il
protagonista diciassettenne, e Luciana (la luminosa), il suo oscuro e
bellissimo oggetto del desiderio, ma si tratta di un breve respiro di
intensa luce estiva che ben presto smuore e si perde nella sera che
avanza sul lungomare barese, soffocato dalle ombre e dalla perdita di
ogni innocenza. Quello sfolgorante pomeriggio di ripetuti amplessi,
però, giustifica anche la splendida immagine di copertina, “Il
Bacio” di Munch, sapientemente rielaborata dal bravissimo e
giovanissimo Nicola Piacente, grafic designer della Casa
editrice.
Alla base
della violenza c'è indubbiamente, ieri come oggi, una sorta di
“mancanza”, di “vuoto d'esistenza”, di “nulla”: preludio
all’assenza della felicità, che si registra sempre più nella
nostra società definita dagli studiosi Miguel Benasaysag e Gérard
Schmit delle “passioni tristi”.
Nell’animo
di Dolino si fa sempre più precisa la consapevolezza di questo vuoto
già per il fatto di appartenere ad un ceto sociale colmo di
perbenismo e privo di valori. E questa consapevolezza svuota di senso
pure la sua vita, a tal punto che egli più volte ribadisce che non
crede all'amore, perché è il più ingannevole di tutti i
sentimenti.
Di contro,
egli si accorge sempre più di essere impastato di violenza. Una
violenza cieca che non nasce da una motivazione precisa: non
dall'odio, non dal risentimento, non da una provocazione. È “una
macchia nera” che improvvisamente appare e dilaga nel cervello,
oscurando tutto, persino la ragione, unica sua certezza e verità.
Finché la violenza non ne scompagina i contorni, erosi da una furia
che toglie ogni incanto al mondo.
Una chiave
di lettura dei due romanzi, dunque, è indubbiamente di natura
sociologica, ma anche quella psicologica e psicoanalitica dovrebbe
essere presa in considerazione per scoprire “cosa” fa scattare e
“perché” nella mente di un essere umano “normale” una forza
beluina che lo spinge a farsi lupo contro il suo stesso genere. Non
ha teorizzato forse Hobbes che “homo homini lupus”?
Entrambi i
libri, del resto, trattando di violenza, come scoprirà chi avrà la
curiosità di leggerli, si possono definire anche thryller o gialli e
di questi ultimi hanno, in alcuni passaggi, il linguaggio e lo stile,
in una narrazione stringata ed essenziale, ma anche profondamente
disturbante, da cui i lettori possono trarre utili spunti di
riflessione sugli errori che è quasi inevitabile commettere per
raggiungere, nel bene e nel male, piena consapevolezza di sé.
sabato 9 settembre 2017
EMOZIONI DI RIMANDO
Si afferma da più parti
che le poesie non debbano essere commentate o, peggio, analizzate, ma
assaporate nell'Arte che esprimono e nelle emozioni che comunicano.
Giusto. A me, però, piace sottolineare proprio quelle emozioni che
ogni poesia mi trasmette con le parole che colgo nei versi e che
faccio mie perché abbiano altro senso, altro significato, oppure
assorbano magari il respiro dei sentimenti che le hanno ispirate. Io
le chiamo EMOZIONI DI RIMANDO. In cui anche l'autore, o ciascun
lettore, possa riscoprirsi, ritrovarsi. In una circolarità empatica
che è condivisione. Amore.
Ti raggiunga dovunque tu
sia
questa lettera che scrivo
mentre il sole sparisce
dietro il monte
e sale il vento come una
preghiera.
Qui dove sono
il cielo preme sul cuore
e acuisce la mancanza.
Il tempo che mi resta
è poco per dimenticare.
Ma tu cosa vedi
da questa tua nuova
distanza?
Quale luce ti scalda?
Quale amore ti conforta?
Ti ricordi ancora di me
o la vuota assenza
divora anche la memoria?
Così fragile sono
fratello mio
aggrappato alla vita che
finisce.
Giovanni Gastel, Filicudi
2017
Ho parlato col tuo
fantasma mamma.
Gli ho detto
“Dove siamo nati
in quell'altro tempo
non c'era tutto questo
furore
né questa rabbia”.
Hai risposto
“Mi dispiace deluderti
amore
tutto questo c'è sempre
stato.
Niente è mai diverso”.
La luce filtrava dalle
tapparelle,
e io tentavo di calmarmi.
“Torna sulla terra”.
Mi hai detto.
Ho risposto
“Questo non posso farlo.
Sono un isolato ma non mi
sento solo”.
Hai detto
“Devi tagliarti i
capelli.
Vai dal barbiere in fondo
alla strada”.
Camminando pensavo
“Non ho quasi più posto
nel cuore
per voi
anime partite”.
Giovanni Gastel, Filicudi 2017
Due poesie
di Giovanni Gastel, dolcemente incastonate nel mosaico degli affetti
familiari più profondi: la dolente lettera al fratello da poco
volato tra le stelle, e il dialogo del tutto terreno col fantasma di
sua madre in un tormento onirico che si risolve in dubbio.
Nella prima,
vibra, al tramonto, ora “che volge il disio ai navicanti e
'intenerisce il core”, un anelito accorato di ricongiunzione tra
due anime da Atropo divise. Anelito, che s'innalza dal cuore
esacerbato del poeta, per troppo amore e troppo dolore,
all'imprecisato aldilà con una lettera che sanguina di ricordi,
mentre in un sussurro “sale al vento come una preghiera”, in una
verticale sacralità di attesa là dove “il cielo preme sul cuore”
e lo sconfigge. Verso, che rende fisico il dolore dell'anima
attraverso una metafora bellissima che si raggruma in quel “preme”,
quasi macigno ad impedire il suo pulsare e vivere. E le domande
tenerissime del poeta, umanamente preoccupato dalla nuova condizione
di suo fratello in un luogo misterioso e sconosciuto, che crea timori
e dubbi in tutti gli esseri viventi, sono un crescendo d'amore
nell'ansia di sapere se non gli mancano le “cose” fondamentali
per “stare bene”: la luce che riscalda e l'amore che conforta.
C'è in ogni
verso una sofferenza che, se da un lato colma d'amore ogni vuoto,
dall'altra rivela la insostenibilità della perdita quasi realtà
vissuta come inganno che, purtroppo, rende consapevole il poeta,
“aggrappato alla vita che finisce”, della propria fragilità in
un tempo che si fa sempre più breve e privo di solidi appigli
affettivi. È in quell' “aggrappato” la condizione di solitudine,
più intensa e vera, di Giovanni Gastel.
Con versi
solo apparentemente semplici e colloquiali, ma quanto profondi e
densi di significato in ogni accenno di cielo e di abisso a
sfiorare/graffiare l'anima, l'autore racconta a suo fratello, e a noi
lettori, i suoi sentimenti più veri, le sue priorità di uomo
bisognoso di calore umano e di luce ad illuminare una solitudine che
sempre più lo rende vulnerabile al trascorrere del tempo e alle
assenze, a cui è necessario arrendersi.
Nell'altra
poesia, dedicata alla madre, Giovanni Gastel, in un dialogo del tutto
terreno, annulla spazio e tempo nell'attualizzare il dolore che ha
ben poco di onirico nella proiezione di quanto è stato verso quello
che ancora potrebbe essere. E tutto prende vita nel gioco amaro delle
domande e delle risposte reciproche in cui, allo sconforto del poeta
di fronte ad un mondo sempre più rumoroso e violento rispetto al
passato, la risposta perentoria della madre, che ora sa ogni verità,
non addolcisce né azzerare ogni illusione né la nostalgia. Anzi.
Niente è cambiato. Il cuore dell'uomo non muta né la sua storia.
Ma si
condensano anche, in un solo atto di amore, la realistica premura
materna verso quel figliolo che ora, in sua assenza, si trascura,
sollecitandolo, in maniera ferma e quasi imperativa, a tagliare i
capelli e ad andare dal “barbiere in fondo alla strada”, con
l'attenzione del figlio ad attenuare quella sua originaria
affermazione “sono un solitario” con un ripensamento, “ma non
mi sento solo”, per non darle ulteriori motivi di preoccupazione
sulla sua sorte di orfano, a cui è vietato soggiornare e attardarsi
dove la madre ora dimora.
Tenerezza
reciproca che, però, non consola il poeta perché sollecita in lui
un dubbio, dovuto esclusivamente alla sua straordinaria sensibilità,
simile a “chiave di violino” come direbbe il buon Pirandello...
Anche qui i versi di una purezza diamantina rivelano la purezza del
cuore, la fatica di vivere del loro autore.
giovedì 7 settembre 2017
Sintesi della PREFAZIONE A SCRITTURE D’AMORE di Roberta Lipparini
Da
sempre si scrive d’amore, in prosa e in versi; da sempre l’amore è il
sentimento più cantato anche perché è il più vissuto sotto tutti i cieli.
Niente di nuovo, quindi, sotto il sole. Eppure i versi di Roberta Lipparini, in Scritture d’amore, la raccolta poetica
pubblicata con la Secop edizioni, creano un incanto particolare. Sono appunto
“nel canto”, che è musica, sonorità, sogno, sussurro, armonia. Mistero che si
dilata in un “altrove” che è realtà, ma va oltre. Segreto rivelato, nudo,
eppure con un pudore particolare che lo vela e disvela, come perdita e
resurrezione, con grazia, con impeto, con arguzia. Con amore. Con tanto amore. Con
quel sentimento che tutto può e tutto ottiene.
Eppure
qui tutto dona e si dona perché non pretende la reciprocità, ma solo di ESSERE.
E di essere riconosciuto in quanto tale. Con una sua identità. Una sua
definizione.
Ecco, Roberta Lipparini è dentro questo
sentimento. Lei non canta l’amore. Canta sé stessa, impastata d’amore. Canta le
sue emozioni e le sue attese, le sue illusioni e delusioni, il suo donarsi
senza ricevere, il suo vivere senza vivere. E non ci offre poesie d’amore, ma “scritture
d’amore”. Perché la scrittura non vola come la poesia, ma è più solida, più materica,
più concreta. Rimane. Documenta la vita
e il suo contrario. Si fa testimonianza di qualcosa d’incancellabile, perché
scritto. Come l’amore, appunto. Incancellabile, se è “SCRITTURA” D'AMORE.
La scrittura, per chi la ama, è sacra. È
la traduzione in parole scritte del pensiero. Quelle stesse parole che
volerebbero se non fossero fissate con segni indelebili su pietra, tronchi d’alberi,
su carta. Scriverle è volontà di trattenerle per tramandarle perché la memoria
si può affievolire, si può perdere. E anche la voce si può affievolire, si può
perdere. Ed il cielo è immenso per poterle riafferrare, le parole, che volano e
vanno lontano. E, si sa, la poesia si serve di parole “alate”. Meglio affidarle
alla scrittura.
Anche la nostra scrittura personale,
allora, è sacra. Di qui la nostra ansia di ESSERE anche attraverso la parola
scritta. Un’ansia che Roberta Lipparini
rivela sin dalle prime poesie: ansia delle parole, ansia di amare e di amarsi
anche attraverso le parole, ma soprattutto la sua è ansia di essere amore: Appena
entrata/ avrebbe cercato qualcuno da amare// Per un dettaglio/ una parola (…)
Cercava l’amore sempre/ appena entrava/ in una stanza;
A
volte vorrei dargli un nome// A volte avrei bisogno/ di una definizione/ di un
battesimo/ della nostra relazione (…) Un verbo, un dire/ una
forma per questo sentire// Ma quel nome non lo trovo/ e rimango/ inconsistente
di suono/ spoglia di lettere/ più sola/ senza quella parola…
Paradossalmente, però, l’autrice rimane
senza “quella parola” che darebbe più consistenza al suo sentimento.
Si delinea così la storia di un “amore
folle”, di cui è stata insuperata maestra Alda Merini. Un amore talmente grande
da immolarsi sull’altare del non-amore dell’altro. Ma Roberta lo racconta con
leggerezza, con sorridente ironia, appena appena accennata nella carezza lieve
dei versi che si rincorrono e si dilatano in alcune sorprendenti rime baciate,
alternate, sospese e poi riprese immancabilmente nell'ultimo conclusivo verso.
Rime
che volteggiano e danzano e danno le ali alla malinconia e al tormento, per
metterli in fuga:
Mi
hai dato ali fragili amore mio// Fissate alla mia schiena/ con un pezzetto di
cera/ mentre ero assorta/ e credevo/ mi stessi baciando le spalle...
Ma la poesia che è in Roberta non si arrende perché lei sa perdere
e sognare. C’è una freschezza di bimba in queste rime così dolci, cadenzate,
armoniose che, anche quando parlano dell’inverno, ci regalano una primavera, un
respiro chiaro, quasi una filastrocca, una quasi fiaba:
Ancora. Ancora./ Un’altra/ Ancora/
Un’altra fiaba. E poi ancora una/ Fammi toccare la punta della luna/ Fammi
vedere il fondo del mare/ Ancora. Ancora/ Continua a raccontare…
E la reiterazione di
quell’“Ancora” (l’anafora e l’allitterazione sono molto usate da Roberta
Lipparini) ricorda tanto la curiosità bambina che impone al raccontafiabe di
continuare a narrare perché il sogno ad occhi aperti continui.
La fiaba. Il sogno. E Roberta è creatrice di sogni. La sua accesa
fantasia le permette di colorare il grigiore della quotidianità.
Roberta Lipparini è, dunque, una poetessa raffinata, dal versi
lievi e sapienti, delicati e forti, lirici e ironici, chiari e profondi, in un
percorso di scrittura ardente e appassionato, lucido e temerario, fiabesco e
folle. Incentrato sul qui e ora e sull’altrove, su un presente unico e
irripetibile come unico e irripetibile è il suo sentimento d’amore che lo
pervade e lo eterna.
martedì 5 settembre 2017
A Lina
Hanno scritto il tuo nome
Grandi lettere col gesso bianco
Hanno scritto il tuo nome
Su di un muro forse rosso
Appena fuori città
C’erano altre parole
Frasi deliranti d’odio
Il tuo nome era lì
Unica parola che avesse un senso
C’erano altre frasi
Oscure minacciose
In nome di una falsa ideologia
Hanno scritto il tuo nome
Mani ignote
Forse un ragazzino
Appena innamorato
Ancora fuori
Dall’impegno di votarsi
Alla violenza
Hanno scritto il tuo nome
Come un grido d’amore
Fra tante di lucida pazzia
Hanno scritto il tuo nome
Quasi un sussurro
Fra un clamore di penosa esaltazione
Il tuo nome era lì
Come un fiore nel fango
Hanno scritto il tuo nome
Su quel muro forse rosso
E ho tremato per te
Quasi fossi tu
Quel fiore sperduto
Tremante
Come ti so
Per tutto ciò
Che sia appena accenno di violenza
Hanno scritto il tuo nome
E volevo cancellarlo
Per non immaginarti sperduta
Tra tante promesse di follia.
Primo Leone, settembre 1974, inedita
Grandi lettere col gesso bianco
Hanno scritto il tuo nome
Su di un muro forse rosso
Appena fuori città
C’erano altre parole
Frasi deliranti d’odio
Il tuo nome era lì
Unica parola che avesse un senso
C’erano altre frasi
Oscure minacciose
In nome di una falsa ideologia
Hanno scritto il tuo nome
Mani ignote
Forse un ragazzino
Appena innamorato
Ancora fuori
Dall’impegno di votarsi
Alla violenza
Hanno scritto il tuo nome
Come un grido d’amore
Fra tante di lucida pazzia
Hanno scritto il tuo nome
Quasi un sussurro
Fra un clamore di penosa esaltazione
Il tuo nome era lì
Come un fiore nel fango
Hanno scritto il tuo nome
Su quel muro forse rosso
E ho tremato per te
Quasi fossi tu
Quel fiore sperduto
Tremante
Come ti so
Per tutto ciò
Che sia appena accenno di violenza
Hanno scritto il tuo nome
E volevo cancellarlo
Per non immaginarti sperduta
Tra tante promesse di follia.
Primo Leone, settembre 1974, inedita
domenica 3 settembre 2017
I 12 SEGNI ZODIACALI NEI DIPINTI DI MARISA CARABELLESE
Da qui bisogna cominciare: il cielo.
Finestra senza davanzale, telaio, vetri.
Un’apertura e nulla più,
ma spalancata…
(W.
Szimborska)
“Siamo
sotto il cielo”, diciamo. Metafora del nostro timore e del nostro
tormento nel saperci vivi in balìa di un presente precario e di un
futuro che ci prefiguriamo colmo di imprevisti che non ci è dato
sapere e controllare. Cosa accadrà domani? Ansia che tutti ci
assale, negandoci persino la serenità per il tempo che ci è dato
vivere.
“E le
stelle stanno a guardare” (A. J. Cronin, 1935). Indifferenti alle
vicende umane sulla Terra.
Ma è
proprio così? E lo zodiaco, le costellazioni, l’oroscopo? Tutte
fanfaluche che c’inventiamo per sopravvivere alle nostre stesse
paure?
Nell’immensità
del cielo abitano, irradianti luce, ben 88 costellazioni: doppio
infinito.
Respiro
immenso di cielo e di luce…
A noi poveri
mortali ne bastano solo 12, quanti sono i mesi dell’anno e in ogni
mese ciascuno ha la propria data di nascita, le proprie stelle di
riferimento. 12 è un numero che porta bene. È quasi un Mantra da
ripetere per liberare la mente dai cattivi pensieri e per propiziarci
il nuovo giorno.
12 è 4
volte 3, numero perfetto per eccellenza, e rappresenta “l’ordine
terreno e spirituale”.
Esistenza e
trascendenza
12 le Costellazioni dello
zodiaco
Misteriosi e
misterici, i segni zodiacali si trasformano in simboli e miti, sogni
e leggende.
Nella
risorsa più profonda dell’anima individuale e universale per il
nostro viaggio esistenziale nel tempo e nello spazio. Nella vita.
A ritroso:
alla ricerca degli archetipi, in cui affondano le nostre radici, le
credenze, i presagi. Vaticini e profezie. Vittorie e sconfitte nelle
battaglie quotidiane. Inganni della storia. Illusioni delle leggende.
Verso il
futuro: con lo sguardo rivolto alle stelle, appigli luminosi contro
le nostre fragilità, il nostro tempo mortale.
Unica
certezza l’attimo presente: immobile e in sé conchiuso, pur nel
fluire eracliteo del tempo che ci avvolge e ci contiene.
Il passato è
ricordo e memoria. Il futuro, attesa e speranza.
E le stelle c’erano e ci
saranno.
Siamo figli
delle stelle? Forse sì, se come madri luminose si protendono sui
nostri giorni e ne influenzano le sorti. Forse sì se nel DNA siamo
composti degli stessi frammenti degli universi che continuano a
generarsi e a rigenerarsi perché infinita è la Creazione.
Ed è nel
cuore delle stelle che cerchiamo i segni del nostro andare verso la
conoscenza fuori e dentro di noi.
Al loro amore affidiamo il nostro
Karma
Le stelle
guidano il nostro cammino e c’influenzano come la luna fa con le
acque e le maree.
Con il
sangue mensile delle donne. Con l’ululato degli uomini quando è
mistero di luna piena.
Marisa
Carabellese, straordinaria e infaticabile “viandante” alla
ricerca di forme e colori, guadagna il cielo e s’inabissa nel mare,
fiorisce di terra ed esplode di fuoco per sostanziarsi d’Arte e
Poesia. Scruta la figura umana, se ne impossessa e la eterna sulle
sue tele, cedendo al richiamo delle passioni dell’inquieta materia
e innalzandosi, vibrante e trasognata, alla luminosità dello Spirito
divino, che pure la connota.
Nei suoi
dipinti si condensano emozioni di conchiglie e di scale, di volute
sinuose e di drappeggi fluttuanti, di pepli e copricapi morbidi e
leggeri. Teneri sorrisi di bimbi e mani in preghiera quali colombe
nel loro nido di verità. Volti di sole e sguardi di donna persi
nell’insidia/incanto del sogno. Il fiore acceso delle labbra in un
muto richiamo d’amore.
Nei suoi
dipinti esplode la luce enigmatica del maschio ardimento giovanile:
sfrontati occhi di ragazzi pronti a volare sulle ali di Eros per
evitare l’abisso del nulla, paventato nichilismo ai nostri giorni.
Nei suoi dipinti i volti delle stelle.
Nei volti il viaggio dell’esistenza che incrocia la
VITA.
I volti sono
foglie bambine che occhieggiano all’alba della propria primavera e
verdeggiano di speranza fino a trasformarsi nel bosco umbratile con
schegge di luce a ravvivarne la quiete e a indicarne i percorsi
possibili, mentre il tempo ha ragione del suo splendore che
lentamente va spegnendo nei colori autunnali fino al giallo e al
rosso al marrone al colore accartocciato che sussulta nel vento dei
primi geli per posarsi e riposare.
Una
tavolozza che oggi veste di magia i ricami misteriosi delle stelle
sul notturno bisso del cielo.
Marisa è
tutta nei suoi colori, nei tratti acquerellati delle figure di
ragazzi e di giovani donne dalla bellezza nouminosa e fiera, che si
stagliano in cieli pervinca, rossastri, d’alabastro e d’erba
tenera ricalcandone lo splendore.
E ripropone
nei loro volti il mito delle stelle con i remoti segni della loro
arcana presenza.
Da millenni
d’anni luce esse giungono fino a noi e accendono le nostre notti in
sordina, senza far rumore, per offrirci il loro canto di bellezza e
di armonia, anelito trascendentale all’Infinito Amore che le ha
incastonate nel cielo perché possano vincere ogni timore, ogni
paura, ogni male di vivere, abbracciandoci d’eternità.
venerdì 1 settembre 2017
Tatuati di Poesia
Scrivere
o parlare di poesia non è facile. Per farlo, mi accompagno ad alcuni
Autori famosi, le cui voci sono ben più autorevoli della mia.
Per
Platone, “la poesia è qualsiasi forza che porti una cosa dal non-
essere all’Essere”.
Dunque,
la poesia è energia, forza, creazione.
Definizione,
che ha percorso millenni di storia
per
giungere intatta, imprendibile ma inconfutabile fino a noi.
Parola
essenziale, simbolica, allusiva nella poesia orientale; canto di
dolore e di liberazione nei versi in terra d’Africa o degli indiani
d’America. È gioco di parole e musica per i francesi; impeto e
passione per i tedeschi, rivolta e rabbia e stravolgimento per la
beat
generation,
straniamento…
La
poesia è tutto questo e molto altro ancora.
È
anche “...‘febbre’ di vita, esorcizzazione della morte; bisogno
vitale psichico profondo; riparazione ai mali (visibili e invisibili)
ricevuti vivendo”, come sostiene Mariella Bettarini: “Siamo
diventati poeti perché abbiamo ricevuto, da qualche parte e in
qualche tempo, una ferita”.
Per
Alda Merini “la poesia è un po’ come dio-Amore che non vuole
essere guardato in faccia, ma tu lo fai lo stesso. Prendila,
assaporala, ma non chiederti mai a che specie appartenga, da quale
albero essa venga, con mani sempre vergini, pulite, prive di
preconcetti per essere sempre trionfatrice prima e dopo il peccato
della parola...”.
La
poesia è, pertanto, innocenza e passione, verginità e peccato, ma è
soprattutto luce che purifica, oltre che esaltazione, esorcizzazione,
riparazione.
Per
Borges si tratta della “memoria del genere umano”.
Rainer
Maria Rilke, nei Quaderni
di Malte,
così scrive della poesia: “I versi sono esperienze. Per scriverne
anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, occorre
conoscere a fondo gli animali, sentire
il volo degli uccelli; sapere i gesti dei piccoli fiori, quando si
schiudono all’alba.
La
poesia è, allora, la vita vissuta e sentita
profondamente
dentro come “bellezza e verità” (John Keats). Ma bellezza e
verità non sempre chiare, lapalissiane, scontate, piuttosto soffuse
di mistero, colme di tutti i sensi e tutti i significati possibili.
“La
poesia abita in noi. È un particolare modo di sentire e di vedere,
un filtro con il quale l’anima colora il suo sguardo sull’universo.
La poesia è ri-creare il mondo, un frammento di mondo e di vita,
partendo da una emozione, da una vibrazione dell’anima, simile a
quella dell’arpa”, così scrive don Giuseppe Colombero.
Sacra,
allora, è la poesia, che ha fede in una umanità migliore. Una
umanità, che dovrebbe fare della solidarietà e della speranza i
suoi punti di forza; dell’intelligenza e della scrittura, i solidi
ponti di comunicazione e di “interesistenza” tra gli uomini,
perché la “parola” - e qui cito Zancan - è “il luogo
fantastico della rigenerazione”.
Iscriviti a:
Post (Atom)