mercoledì 27 settembre 2017

PRESENTAZIONE "PER ORO E PER SEMPRE" da parte di Valeria Rossini

Sarebbe troppo facile dire che questi cinquanta anni che oggi celebriamo rappresentano la storia di un amore. Questo è vero, ma riduttivo. Conosco tante coppie che sono giunte a questo traguardo, nella stessa vita o in due vite diverse – come purtroppo in questo caso – e alcune di queste coppie si sono forse amate di più di Angela e Primo, se mai l’amore fosse posizionabile lungo una scala. Nessuna di queste coppie mi ha consegnato però, in modo limpido e inequivocabile, il segno del loro legame, nella forma di pensieri che diventano versi e che, nel loro riversarsi, travolgono anche le vite degli altri, insinuandosi come desideri acquosi nei nostri occhi mentre leggiamo, e nei nostri cuori mentre ricordiamo. Ed ecco il filo conduttore di questa storia d’amore, come io l’ho ricostruita immergendomi nel testo “Per oro e per sempre”. Questo filo è la memoria, che non c’è. Ferma nel tempo presente è una relazione che non fluisce altrimenti morirebbe, ma resta immobile in “incontri di sguardi che escludono anche il cielo”. Se non c’è memoria non c’è neppure il rimpianto, perché l’amore non scorre come sangue o vino, metafora ricorrente nelle poesie di entrambi gli autori, ma è come “un brindisi sospeso nell’aria”. Primo vive perché non ha paura della morte. “La notte ci passò accanto, ma non ce ne accorgemmo”, perché anche l’alba si rende invisibile come vetri trasparenti a liquefare i rimpianti nei bicchieri colmi. Il tempo è il “delirio della memoria”, e i ricordi si sgretolano lungo quel fiume misterioso di vino e di sangue per le nostre vite infinite. Ed è in quel fiume che si intreccia il dolore di Angela, che struggente scrive “piegata su bicchieri di solitudine annego nell’ultima goccia lo sguardo vuoto colmo della tua assenza”. Lo sguardo di Angela è lo sguardo di una donna, è uno sguardo materno che tiene insieme passato, presente e futuro come nell’attesa, nel parto e nella cura dei figli, il tempo unico e indiviso della maternità. Ed è comprensibile quindi che si posi sui ricordi. Tuttavia, l’unico modo di consolare il suo pianto senza fine è non ricordare. Se ricordiamo, siamo assaliti dai rimpianti. Rimpiangendo, ri-piangiamo. Forse dovremmo invece pensare alle persone che amiamo – ma non ci sono più – al presente. E il rimpianto si addolcisce nella nostalgia, per una storia appunto infinita e per qualcuno che in fondo non abbiamo mai perso. Angela, grazie per averci convinto che “se amiamo una persona dobbiamo lasciarla andare, perché se torna è sempre stata nostra”. E Primo ritorna, perché la vita per lui è stata soltanto un attimo: il tempo non ha importanza, non sa neppure trovare una ragione allo stupore per il vostro bisogno disperato dell’altro, per il vostro amore necessario che fu credo e disperazione. Molto suggestivo il riferimento a Sartre e alla sua relazione pericolosa con Simone De Beauvoir, cui scrisse un giorno: “La mia vita non appartiene a me solo. Voi siete sempre me, l’essere stesso del mio essere, il cuore del mio cuore”. Il cuore di Primo continua allora a battere in quello di Angela, perché di nuovo il sangue è vino, “per festeggiare l’eternità del nostro tempo ancora da inventare”. Nello spazio dell’immaginazione questi due corpi, due anime, due cuori, sono un tanto, un tutto, ma anche un niente. Sono “filo dello stesso aquilone”, padroni dell’eternità, arroganti come gatti con le loro nove vite da giocare. In questo libro, la vita è un cerchio ludico senza linee né frecce. Del resto, chi ha stabilito il confine tra la vita e la morte, tra il reale e l’irreale, tra presenza e assenza, tra il cielo e la terra, tra gli occhi e lo specchio? Grazie Angela e Primo, per averci regalato la certezza (l’illusione) che si nasce il giorno in cui incontriamo il vero amore. Se questo significa che Primo continua a vivere nel tuo amore (l’amore che tu gli devi), noi che siamo qui forse non moriremo mai, perché le persone che sono in cielo sanno amarci “di più, tanto di più, un mondo di più, immensamente di più”.

Corato, 20 settembre 2017
Valeria Rossini

domenica 24 settembre 2017

PER ORO E PER SEMPRE

per-oro-e-per-sempre

Il sogno che si rinnova: “per oro e per sempre”
Un libro.
Un nuovo libro per una nuova collana della SECOP edizioni.
Una nuova collana di poesie, “Paralleli poetici”, che vedrà, insolitamente, di volta in volta, due autori raccontarsi a vicenda.
Storie, ricordi, progetti, parole come richiami, come echi d'indaco a colorare di sacralità il respiro poetico, in un incontro/confronto, che li contiene tutti nel bacio di pagine che, solo dischiudendosi come ali di farfalla, rivelano il loro contenuto e il loro splendore.
Un nuovo formato.
Una nuova composizione grafica elegante e armoniosa.
Un titolo che racchiude il mistero del non detto e si fa messaggio dell'istante puro proiettato verso l'eternità.
Un libro, il primo, che tiene a battesimo la collana, dedicato a me e a mio marito, Primo Leone, nel giorno in cui la nostra storia d'amore conta gli anni dell'oro che non conosce tramonti...
Uno scrigno di versi che s'intrecciano e volano nell'abbraccio condiviso di parole, che cantano nelle pagine a specchio di due autori, amanti, ferocemente innamorati come ferocemente sconfitti ma mai arresi.
Un uomo e una donna, che vibrano in sintonia in un richiamo di note senza fine.
Ecco il sogno che si rinnova e si avvera.
È il sogno accarezzato da un editore folle, Peppino Piacente, votato alla poesia.
È una nuova sorprendente Sfida di una Casa Editrice, nata sotto il segno della creatività passione, dell'impegno coraggio, del sogno desiderio.


                                                                                   






venerdì 22 settembre 2017

LA BALLATA DELLA NINNA-NANNA PER LUNA CHE DORME

Luna

Dorme Luna in un campo lontano
sotto un ramo fiorito grappoli di cielo
Occhi d’oro spenti in una notte di pianto.
Occhi d’oro all’ombra di un lungo rimpianto.
(fai la nanna, Luna, non ti svegliare,
chè nessuno più potrà farti del male,
sogna topolini bianchi per non aver paura,
sogna la tua mamma che di te si prende cura).

Bianca di luna è questa notte priva di parole,
tenera al suo chiarore Luna s’addormenta,
sogna di volare tra mille stelle d’argento,
sogna di volare tra i rami sospinta dal vento,
sogna di fare le fusa al tepore del suo cuore.
Cuore d’Ombra piccolina a cullare la sua piccina.
Ali immense le sue braccia d’immenso amore.
(fai la nanna, Luna, non ti svegliare,
fai la nanna, chè nessuno potrà farti più male.
Sogna sempre, sogna d’essere il suo tesoro
finché il sole dormirà nei tuoi occhi d’oro).



lunedì 18 settembre 2017

INCANTI A BELGRADO

È Danubio d'acque e di luci Belgrado
in una lontananza d'abisso
dall'oblò dell'aereo
che di tristezza decolla in un addio
di speranza forse un arrivederci
Mi sorprende improvviso bagliore
di luna piena
a ricordarmi il cielo da attraversare
Solo un colpo di coda
e il suo volto sorpreso
scivola giù
Che incanto guardare a capo chino
la sprofondata luna
quasi un preghiera d'ansia stupita
(che il ritorno ci sia propizio
con questo insolito prodigio

negli occhi)  

giovedì 14 settembre 2017

La necessità può essere un sigillo?



sigillo-di-necessità

È tempo di riproporre una raccolta di versi davvero interessante per chi voglia fare tesoro della parola poetica, coniugata con la parola “ricerca”, in un’appassionata e appassionante lettura che coinvolge mente e cuore e sa farsi tempo, spazio, ricordo, speranza, amore, desiderio di “incontrare” gli altri per poter forse “incontrare” Dio.
Parlo di Sigillo di necessità di Zaccaria Gallo (Secop edizioni 2012), di cui mi piace riportare in sintesi la mia Prefazione.
     “Mettimi come sigillo sul tuo cuore”. Uno dei più appassionati versi de Il Cantico dei Cantici mi risuona dentro da quando ho avuto tra le mani quest’ultima raccolta di poesie di Zaccaria Gallo dal titolo molto suggestivo e catturante.
    “Sigillo”, infatti, è una parola  antica e regale. Preziosa. Chiudeva lettere importanti, plichi, dispacci da cui dipendevano spesso le sorti di regni e nazioni. Racchiudeva, dunque, un segreto, che non si doveva profanare.
     Termine pesante come un giuramento e lieve come una promessa. È un atto di fede, un credo. Crea una sorta di alleanza, di forte legame. Per conservare un mistero. Per mantenere quel segreto.
Anche la locuzione “di necessità” é impregnata di obbligo più che di libertà. Un obbligo interiore forse. A volte può essere solo urgenza del cuore.
     E Zaccaria Gallo ci confida nei suoi versi, appunto, un segreto quasi a fior di labbra. Il segreto di sé. Un raccontarsi silenzioso che si distende in percorsi intimi, rilevati su piani spazio-temporali diversi, che s’intersecano continuamente tra emozioni che riconducono ai ricordi e ricordi che vibrano di emozioni. In rapidissimi passaggi, dai ritmi eleganti e dagli stilemi molto originali, tutti giocati sui tanti neologismi, quasi ricami musicali, che offrono la cifra stilistica, connotante l’insolita poesia del nostro Autore. Poesia sempre raccontata sul filo della memoria. Nostalgica. Amara. Amata.
     Canto della memoria, dunque, che qui si fa respiro d’infinito.
     E, come nelle precedenti raccolte poetiche di Zaccaria, l’emozione che si traduce in poesia nasce da uno sguardo, “soglia e confine di conoscenza”.
      Nessuno a dimora/ sulle cime degli alberi.// La primavera testarda/ s’avviava a fiorire giardini…
Nelle sere/ che raggomitoli di stelle/ riempiono il cielo…
Ha canto la luce,/ quando s’adagia/ sul mare dei miei tramonti/ e sfolgora con la sue dita/trecento colori dell’azzurro…
    In realtà, la sua ansia di guardare il mondo è desiderio di credere nell’uomo per scoprire la bontà di Dio.
     Nelle quattro sezioni, che compongono la silloge, Zaccaria inizia il suo viaggio alla scoperta della parola, che potrebbe portarlo a Dio, dapprima percorrendo il tempo: quello che è stato, quello che attraversa quotidianamente nel presente, e quello che ancora gli resta.
Fil-rouge è l’amore: vissuto, sognato, perduto e ritrovato, disperatamente rincorso e avidamente afferrato, nostalgicamente rimpianto, teneramente recuperato.  
Perché “sigillo di necessità” è il sogno per ridonare rugiada  all’andare ormai stanco del poeta. Alla iniziale passione subentra un amore più maturo che, pian piano, si colora di tenerezza, di nostalgia, di ricordo, di una rinnovata presenza, affettuosa e attenta. Il prendersi cura dell’altro è il più grande atto d’amore: “(non prendere freddo stanotte)”.  
 È tutto qui il segreto da conservare con cura nello scrigno del cuore e a cui attingere per sconfiggere la solitudine, la malinconia, la tristezza di questo tempo che ci assedia e ci vince. E dall’amore “nascono parole di poesia”.
    Ecco i due amanti che colmano i giorni del poeta: Amore e Poesia.
    Insieme sono promessa e sigillo d’immortalità.
       Nella seconda sezione si attraversa il ricordo, che si fa canto del dolore, della fuga e della paura, ma anche canto dell’approdo: fisico e metafisico.
        Nuove realtà altrettanto crudeli s’impongono e fanno sigillo di necessità al vivere quotidiano. Nuovi dubbi lacerano l’anima del poeta. Di qui ancora un nuovo viaggio per nuovi orizzonti da raggiungere. Di qui un rinnovato canto del mare: dolente, misterioso, di raro conforto alle attese del cuore. L’inno alla madre, memoria di tutti i ricordi ed eredità di gesti, di sguardi, di silenziose malinconie e sintonie, conclude la personale storia del poeta: “ Madre,/ (…) / bagliori di memorie,/ di segrete cose,/ hai lasciato/ nel mio futuro/ e mi manchi/ come manca/ una nave dispersa.” Colei che ci ha dato la vita riscalda la nostra carne e il nostro cuore sempre.  Nel superamento del buio, del vuoto, del male. Mai come in questo tempo che sta distruggendo la nostra umanità.  Altro rifugio di Zaccaria Gallo è l’Africa, dove è nato e dove fa ritorno spesso il suo cuore. Tunisi. Terra di vento, di limone e albicocco. Versi superbi di una suggestione unica nel fiorire delle metafore bellissime, che respirano i colori del cielo tra anima e  cuore. E tutto è nuvola di ricordi. Storni appollaiati “tra i rami/ della memoria”… E i ricordi ora hanno il volto di suo padre: padre/valigia, padre/mantello, padre/passaporto. Doloroso e tenero rammemoramento al ricordo festoso di un’infanzia che naturalmente vestiva di fiaba ogni nuovo giorno. Ma ci sono giorni ancora da vivere. E ci sono giorni “da utilizzare”, magari recuperando “l’alfabeto dei sogni” perché tutto possa ricominciare. E il domani può essere anche altrove. Il poeta, però, si rammarica, avviluppato in un nuovo lacerante dubbio: “Non saprò mai verso dove si fugge,/ il mistero che non si snoda,/ il silenzio che angola l’eterno,/ il delirio d’acque che navighiamo”. Sembra un punto di non ritorno. Soprattutto quando giunge la sera e le sue ombre accorciano il nostro già breve futuro e ci fanno desiderare più che mai la luce: “guarda guarda e scorgi quella luce/ parla di una stagione che rivive”… Per Zaccaria il penultimo canto, prima del buio, è, appunto, un canto di luce alla luce. Ma è la parola la sorgente primigenia del suo canto: fonte luminosa e “vecchia eterna necessità. Nata da radici di pena. Di stupori”.
     Oh, la Parola! Che il poeta mette “come sigillo sul suo cuore”.
     E non c’è necessità più dolce, più rasserenante, più leggera.

     Necessità fisica e metafisica. Necessità dell’anima. Libera come “ala d’angelo”.

martedì 12 settembre 2017

LA VIOLENZA: "MACCHIA NERA" DELL'UMANITA'

TERRA-ALLA-TERRAA-META'-DELLA-NOTTE

'La violenza , forse una macchia nera in un angolo buio, in un piccolo anfratto della mente', pensava, 'poi, in un solo attimo si espande e copre tutto il cervello; mai nessuno potrebbe stabilire il momento in cui avverrà questa esplosione. Questo grumo scuro è dentro di noi, come i denti stanno nella bocca, come gli occhi stanno sotto la fronte, come il sangue scorre nelle arterie. Semplicemente è...'.
Mi sembra opportuno riproporre la lettura di questi primi due romanzi di una trilogia che l'autore, Gianni Brattoli, sta portando a termine, perché trattano di un tema che tanto ci sta angosciando ai nostri giorni: la violenza, “macchia nera in un angolo buio” della mente umana.
Carl Gustav Jung, in Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé, la definisce “ombra”.
Annah Arendt, nel suo famoso saggio On violence (Sulla violenza), afferma che questa è insita nell'animo umano ed esplode improvvisamente soprattutto per affermare il proprio potere sugli altri. Altre volte, fortunatamente forse, contro il potere. E spesso, nell'uno o nell'altro caso, basta proprio una inezia. Chi non ricorda il film di Fellini “Prova d'orchestra” del1979? Con chiari riferimenti al nazismo (ogni dittatura si poggia sulla violenza), qui dei pacifici e sorridenti musicisti, vessati da un direttore d'orchestra troppo esigente, che impartisce ordini come un dittatore appunto, esplodono in una parossistica violenza solo perché un brevissimo black out scompagina, nel buio, tutto l'ordine faticosamente stabilito. Un “black out” del cervello? Forse.
È la stessa tesi che sostiene Gianni Brattoli in entrambi i romanzi.
Nel primo, “Terra alla terra”, la “violenza” esplode nell'uomo quando viene risucchiato dal vortice di una lucida follia, dovuta, come nel caso di prete Antonio, ad un credo, un ruolo, una funzione che ne stravolgono credi, intenti e mezzi. Diabolicamente.
In A metà della notte, invece, essa non solo parte dalle stesse motivazioni o condizioni, ma si fa più subdola, devastante e destabilizzante perché è anche improvvisa e immotivata. È insita nella natura umana, conferma l'autore, che sta continuando ad analizzarla da altre angolazioni per approdare al nuovo romanzo che completerà la trilogia. La macchia scura può rimanere latente per tutta la vita o esplodere senza scampo. È, perciò, ancora più pericolosa perché è un “marchio a fuoco”, impresso dalla notte dei tempi nelle nostre viscere. E il marchio a fuoco è la “notte” del nostro cuore che spesso dilaga nel buio della notte che sopravviene al giorno.
Già dal titolo, infatti, siamo avvolti nel buio della notte: buio fisico e metaforico. Un buio che non si può fugare perché si è lontani sia dalla calda luce del crepuscolo sia dal chiarore salvifico della nuova alba. Quella “metà” è senza via d’uscita. Bisogna ancora attraversarla tutta la notte per scoprire il nuovo giorno. E la notte, si sa, è carica di mistero, di paure e di presagi perlopiù nefasti. È nella notte che si ordiscono le più macchinose trame, che si compiono i peggiori delitti, che si vivono i pensieri più tumultuosi e disperanti. Così è avvenuto in Terra alla terra, il romanzo d’esordio di Gianni Brattoli, così accade in questo nuovo suo libro: quasi tutto quello che avviene è avvolto nell’involucro nebuloso delle tenebre. Certo, c’è anche la luce abbagliante di un caldissimo e soffocante pomeriggio di luglio, in cui si consuma la storia di folle passione tra Dolino, il protagonista diciassettenne, e Luciana (la luminosa), il suo oscuro e bellissimo oggetto del desiderio, ma si tratta di un breve respiro di intensa luce estiva che ben presto smuore e si perde nella sera che avanza sul lungomare barese, soffocato dalle ombre e dalla perdita di ogni innocenza. Quello sfolgorante pomeriggio di ripetuti amplessi, però, giustifica anche la splendida immagine di copertina, “Il Bacio” di Munch, sapientemente rielaborata dal bravissimo e giovanissimo Nicola Piacente, grafic designer della Casa editrice.
Alla base della violenza c'è indubbiamente, ieri come oggi, una sorta di “mancanza”, di “vuoto d'esistenza”, di “nulla”: preludio all’assenza della felicità, che si registra sempre più nella nostra società definita dagli studiosi Miguel Benasaysag e Gérard Schmit delle “passioni tristi”.
Nell’animo di Dolino si fa sempre più precisa la consapevolezza di questo vuoto già per il fatto di appartenere ad un ceto sociale colmo di perbenismo e privo di valori. E questa consapevolezza svuota di senso pure la sua vita, a tal punto che egli più volte ribadisce che non crede all'amore, perché è il più ingannevole di tutti i sentimenti.
Di contro, egli si accorge sempre più di essere impastato di violenza. Una violenza cieca che non nasce da una motivazione precisa: non dall'odio, non dal risentimento, non da una provocazione. È “una macchia nera” che improvvisamente appare e dilaga nel cervello, oscurando tutto, persino la ragione, unica sua certezza e verità. Finché la violenza non ne scompagina i contorni, erosi da una furia che toglie ogni incanto al mondo.
Una chiave di lettura dei due romanzi, dunque, è indubbiamente di natura sociologica, ma anche quella psicologica e psicoanalitica dovrebbe essere presa in considerazione per scoprire “cosa” fa scattare e “perché” nella mente di un essere umano “normale” una forza beluina che lo spinge a farsi lupo contro il suo stesso genere. Non ha teorizzato forse Hobbes che “homo homini lupus”?

Entrambi i libri, del resto, trattando di violenza, come scoprirà chi avrà la curiosità di leggerli, si possono definire anche thryller o gialli e di questi ultimi hanno, in alcuni passaggi, il linguaggio e lo stile, in una narrazione stringata ed essenziale, ma anche profondamente disturbante, da cui i lettori possono trarre utili spunti di riflessione sugli errori che è quasi inevitabile commettere per raggiungere, nel bene e nel male, piena consapevolezza di sé. 

sabato 9 settembre 2017

EMOZIONI DI RIMANDO

Si afferma da più parti che le poesie non debbano essere commentate o, peggio, analizzate, ma assaporate nell'Arte che esprimono e nelle emozioni che comunicano. Giusto. A me, però, piace sottolineare proprio quelle emozioni che ogni poesia mi trasmette con le parole che colgo nei versi e che faccio mie perché abbiano altro senso, altro significato, oppure assorbano magari il respiro dei sentimenti che le hanno ispirate. Io le chiamo EMOZIONI DI RIMANDO. In cui anche l'autore, o ciascun lettore, possa riscoprirsi, ritrovarsi. In una circolarità empatica che è condivisione. Amore.

Ti raggiunga dovunque tu sia
questa lettera che scrivo
mentre il sole sparisce dietro il monte
e sale il vento come una preghiera.
Qui dove sono
il cielo preme sul cuore
e acuisce la mancanza.
Il tempo che mi resta
è poco per dimenticare.
Ma tu cosa vedi
da questa tua nuova distanza?
Quale luce ti scalda?
Quale amore ti conforta?
Ti ricordi ancora di me
o la vuota assenza
divora anche la memoria?
Così fragile sono
fratello mio
aggrappato alla vita che finisce.
Giovanni Gastel, Filicudi 2017

Ho parlato col tuo fantasma mamma.
Gli ho detto
Dove siamo nati
in quell'altro tempo
non c'era tutto questo furore
né questa rabbia”.
Hai risposto
Mi dispiace deluderti amore
tutto questo c'è sempre stato.
Niente è mai diverso”.
La luce filtrava dalle tapparelle,
e io tentavo di calmarmi.
Torna sulla terra”.
Mi hai detto.
Ho risposto
Questo non posso farlo.
Sono un isolato ma non mi sento solo”.
Hai detto
Devi tagliarti i capelli.
Vai dal barbiere in fondo alla strada”.
Camminando pensavo
Non ho quasi più posto nel cuore
per voi
anime partite”.
Giovanni Gastel, Filicudi 2017

Due poesie di Giovanni Gastel, dolcemente incastonate nel mosaico degli affetti familiari più profondi: la dolente lettera al fratello da poco volato tra le stelle, e il dialogo del tutto terreno col fantasma di sua madre in un tormento onirico che si risolve in dubbio.
Nella prima, vibra, al tramonto, ora “che volge il disio ai navicanti e 'intenerisce il core”, un anelito accorato di ricongiunzione tra due anime da Atropo divise. Anelito, che s'innalza dal cuore esacerbato del poeta, per troppo amore e troppo dolore, all'imprecisato aldilà con una lettera che sanguina di ricordi, mentre in un sussurro “sale al vento come una preghiera”, in una verticale sacralità di attesa là dove “il cielo preme sul cuore” e lo sconfigge. Verso, che rende fisico il dolore dell'anima attraverso una metafora bellissima che si raggruma in quel “preme”, quasi macigno ad impedire il suo pulsare e vivere. E le domande tenerissime del poeta, umanamente preoccupato dalla nuova condizione di suo fratello in un luogo misterioso e sconosciuto, che crea timori e dubbi in tutti gli esseri viventi, sono un crescendo d'amore nell'ansia di sapere se non gli mancano le “cose” fondamentali per “stare bene”: la luce che riscalda e l'amore che conforta.
C'è in ogni verso una sofferenza che, se da un lato colma d'amore ogni vuoto, dall'altra rivela la insostenibilità della perdita quasi realtà vissuta come inganno che, purtroppo, rende consapevole il poeta, “aggrappato alla vita che finisce”, della propria fragilità in un tempo che si fa sempre più breve e privo di solidi appigli affettivi. È in quell' “aggrappato” la condizione di solitudine, più intensa e vera, di Giovanni Gastel.
Con versi solo apparentemente semplici e colloquiali, ma quanto profondi e densi di significato in ogni accenno di cielo e di abisso a sfiorare/graffiare l'anima, l'autore racconta a suo fratello, e a noi lettori, i suoi sentimenti più veri, le sue priorità di uomo bisognoso di calore umano e di luce ad illuminare una solitudine che sempre più lo rende vulnerabile al trascorrere del tempo e alle assenze, a cui è necessario arrendersi.
Nell'altra poesia, dedicata alla madre, Giovanni Gastel, in un dialogo del tutto terreno, annulla spazio e tempo nell'attualizzare il dolore che ha ben poco di onirico nella proiezione di quanto è stato verso quello che ancora potrebbe essere. E tutto prende vita nel gioco amaro delle domande e delle risposte reciproche in cui, allo sconforto del poeta di fronte ad un mondo sempre più rumoroso e violento rispetto al passato, la risposta perentoria della madre, che ora sa ogni verità, non addolcisce né azzerare ogni illusione né la nostalgia. Anzi. Niente è cambiato. Il cuore dell'uomo non muta né la sua storia.
Ma si condensano anche, in un solo atto di amore, la realistica premura materna verso quel figliolo che ora, in sua assenza, si trascura, sollecitandolo, in maniera ferma e quasi imperativa, a tagliare i capelli e ad andare dal “barbiere in fondo alla strada”, con l'attenzione del figlio ad attenuare quella sua originaria affermazione “sono un solitario” con un ripensamento, “ma non mi sento solo”, per non darle ulteriori motivi di preoccupazione sulla sua sorte di orfano, a cui è vietato soggiornare e attardarsi dove la madre ora dimora.

Tenerezza reciproca che, però, non consola il poeta perché sollecita in lui un dubbio, dovuto esclusivamente alla sua straordinaria sensibilità, simile a “chiave di violino” come direbbe il buon Pirandello... Anche qui i versi di una purezza diamantina rivelano la purezza del cuore, la fatica di vivere del loro autore.

giovedì 7 settembre 2017

Sintesi della PREFAZIONE A SCRITTURE D’AMORE di Roberta Lipparini


scritture-d'amore

Da sempre si scrive d’amore, in prosa e in versi; da sempre l’amore è il sentimento più cantato anche perché è il più vissuto sotto tutti i cieli. Niente di nuovo, quindi, sotto il sole. Eppure i  versi di Roberta Lipparini, in Scritture d’amore, la raccolta poetica pubblicata con la Secop edizioni, creano un incanto particolare. Sono appunto “nel canto”, che è musica, sonorità, sogno, sussurro, armonia. Mistero che si dilata in un “altrove” che è realtà, ma va oltre. Segreto rivelato, nudo, eppure con un pudore particolare che lo vela e disvela, come perdita e resurrezione, con grazia, con impeto, con arguzia. Con amore. Con tanto amore. Con quel sentimento che tutto può e tutto ottiene.
Eppure qui tutto dona e si dona perché non pretende la reciprocità, ma solo di ESSERE. E di essere riconosciuto in quanto tale. Con una sua identità. Una sua definizione.
     Ecco, Roberta Lipparini è dentro questo sentimento. Lei non canta l’amore. Canta sé stessa, impastata d’amore. Canta le sue emozioni e le sue attese, le sue illusioni e delusioni, il suo donarsi senza ricevere, il suo vivere senza vivere. E non ci offre poesie d’amore, ma “scritture d’amore”. Perché la scrittura non vola come la poesia, ma è più solida, più materica, più concreta.  Rimane. Documenta la vita e il suo contrario. Si fa testimonianza di qualcosa d’incancellabile, perché scritto. Come l’amore, appunto. Incancellabile, se è “SCRITTURA” D'AMORE.
     La scrittura, per chi la ama, è sacra. È la traduzione in parole scritte del pensiero. Quelle stesse parole che volerebbero se non fossero fissate con segni indelebili su pietra, tronchi d’alberi, su carta. Scriverle è volontà di trattenerle per tramandarle perché la memoria si può affievolire, si può perdere. E anche la voce si può affievolire, si può perdere. Ed il cielo è immenso per poterle riafferrare, le parole, che volano e vanno lontano. E, si sa, la poesia si serve di parole “alate”. Meglio affidarle alla scrittura.
     Anche la nostra scrittura personale, allora, è sacra. Di qui la nostra ansia di ESSERE anche attraverso la parola scritta.     Un’ansia che Roberta Lipparini rivela sin dalle prime poesie: ansia delle parole, ansia di amare e di amarsi anche attraverso le parole, ma soprattutto la sua è ansia di essere amore: Appena entrata/ avrebbe cercato qualcuno da amare// Per un dettaglio/ una parola (…) Cercava l’amore sempre/ appena entrava/ in una stanza;
A volte vorrei dargli un nome// A volte avrei bisogno/ di una definizione/ di un battesimo/ della nostra relazione (…) Un verbo, un dire/ una forma per questo sentire// Ma quel nome non lo trovo/ e rimango/ inconsistente di suono/ spoglia di lettere/ più sola/ senza quella parola…  
     Paradossalmente, però, l’autrice rimane senza “quella parola” che darebbe più consistenza al suo sentimento.
     Si delinea così la storia di un “amore folle”, di cui è stata insuperata maestra Alda Merini. Un amore talmente grande da immolarsi sull’altare del non-amore dell’altro. Ma Roberta lo racconta con leggerezza, con sorridente ironia, appena appena accennata nella carezza lieve dei versi che si rincorrono e si dilatano in alcune sorprendenti rime baciate, alternate, sospese e poi riprese immancabilmente nell'ultimo conclusivo verso.
Rime che volteggiano e danzano e danno le ali alla malinconia e al tormento, per metterli in fuga:
Mi hai dato ali fragili amore mio// Fissate alla mia schiena/ con un pezzetto di cera/ mentre ero assorta/ e credevo/ mi stessi baciando le spalle...          
Ma la poesia che è in Roberta non si arrende perché lei sa perdere e sognare. C’è una freschezza di bimba in queste rime così dolci, cadenzate, armoniose che, anche quando parlano dell’inverno, ci regalano una primavera, un respiro chiaro, quasi una filastrocca, una quasi fiaba:
Ancora. Ancora./ Un’altra/ Ancora/ Un’altra fiaba. E poi ancora una/ Fammi toccare la punta della luna/ Fammi vedere il fondo del mare/ Ancora. Ancora/ Continua a raccontare…
     E la reiterazione di quell’“Ancora” (l’anafora e l’allitterazione sono molto usate da Roberta Lipparini) ricorda tanto la curiosità bambina che impone al raccontafiabe di continuare a narrare perché il sogno ad occhi aperti continui.
La fiaba. Il sogno. E Roberta è creatrice di sogni. La sua accesa fantasia le permette di colorare il grigiore della quotidianità.          

Roberta Lipparini è, dunque, una poetessa raffinata, dal versi lievi e sapienti, delicati e forti, lirici e ironici, chiari e profondi, in un percorso di scrittura ardente e appassionato, lucido e temerario, fiabesco e folle. Incentrato sul qui e ora e sull’altrove, su un presente unico e irripetibile come unico e irripetibile è il suo sentimento d’amore che lo pervade e lo eterna.  

martedì 5 settembre 2017

A Lina

Hanno scritto il tuo nome
Grandi lettere col gesso bianco
Hanno scritto il tuo nome
Su di un muro forse rosso
Appena fuori città
C’erano altre parole
Frasi deliranti d’odio
Il tuo nome era lì
Unica parola che avesse un senso
C’erano altre frasi
Oscure minacciose
In nome di una falsa ideologia
Hanno scritto il tuo nome
Mani ignote
Forse un ragazzino
Appena innamorato
Ancora fuori
Dall’impegno di votarsi
Alla violenza
Hanno scritto il tuo nome
Come un grido d’amore
Fra tante di lucida pazzia
Hanno scritto il tuo nome
Quasi un sussurro
Fra un clamore di penosa esaltazione
Il tuo nome era lì
Come un fiore nel fango
Hanno scritto il tuo nome
Su quel muro forse rosso
E ho tremato per te
Quasi fossi tu
Quel fiore sperduto
Tremante
Come ti so
Per tutto ciò
Che sia appena accenno di violenza
Hanno scritto il tuo nome
E volevo cancellarlo
Per non immaginarti sperduta
Tra tante promesse di follia.

Primo Leone, settembre 1974, inedita

domenica 3 settembre 2017

I 12 SEGNI ZODIACALI NEI DIPINTI DI MARISA CARABELLESE

dodici


Da qui bisogna cominciare: il cielo.
Finestra senza davanzale, telaio, vetri.
Un’apertura e nulla più,
ma spalancata…
(W. Szimborska)

Siamo sotto il cielo”, diciamo. Metafora del nostro timore e del nostro tormento nel saperci vivi in balìa di un presente precario e di un futuro che ci prefiguriamo colmo di imprevisti che non ci è dato sapere e controllare. Cosa accadrà domani? Ansia che tutti ci assale, negandoci persino la serenità per il tempo che ci è dato vivere.
E le stelle stanno a guardare” (A. J. Cronin, 1935). Indifferenti alle vicende umane sulla Terra.
Ma è proprio così? E lo zodiaco, le costellazioni, l’oroscopo? Tutte fanfaluche che c’inventiamo per sopravvivere alle nostre stesse paure?
Nell’immensità del cielo abitano, irradianti luce, ben 88 costellazioni: doppio infinito.
Respiro immenso di cielo e di luce…
A noi poveri mortali ne bastano solo 12, quanti sono i mesi dell’anno e in ogni mese ciascuno ha la propria data di nascita, le proprie stelle di riferimento. 12 è un numero che porta bene. È quasi un Mantra da ripetere per liberare la mente dai cattivi pensieri e per propiziarci il nuovo giorno.
12 è 4 volte 3, numero perfetto per eccellenza, e rappresenta “l’ordine terreno e spirituale”.
Esistenza e trascendenza
12 le Costellazioni dello zodiaco
Misteriosi e misterici, i segni zodiacali si trasformano in simboli e miti, sogni e leggende.
Nella risorsa più profonda dell’anima individuale e universale per il nostro viaggio esistenziale nel tempo e nello spazio. Nella vita.
A ritroso: alla ricerca degli archetipi, in cui affondano le nostre radici, le credenze, i presagi. Vaticini e profezie. Vittorie e sconfitte nelle battaglie quotidiane. Inganni della storia. Illusioni delle leggende.
Verso il futuro: con lo sguardo rivolto alle stelle, appigli luminosi contro le nostre fragilità, il nostro tempo mortale.
Unica certezza l’attimo presente: immobile e in sé conchiuso, pur nel fluire eracliteo del tempo che ci avvolge e ci contiene.
Il passato è ricordo e memoria. Il futuro, attesa e speranza.
E le stelle c’erano e ci saranno.
Siamo figli delle stelle? Forse sì, se come madri luminose si protendono sui nostri giorni e ne influenzano le sorti. Forse sì se nel DNA siamo composti degli stessi frammenti degli universi che continuano a generarsi e a rigenerarsi perché infinita è la Creazione.
Ed è nel cuore delle stelle che cerchiamo i segni del nostro andare verso la conoscenza fuori e dentro di noi.
Al loro amore affidiamo il nostro Karma
Le stelle guidano il nostro cammino e c’influenzano come la luna fa con le acque e le maree.
Con il sangue mensile delle donne. Con l’ululato degli uomini quando è mistero di luna piena.
Marisa Carabellese, straordinaria e infaticabile “viandante” alla ricerca di forme e colori, guadagna il cielo e s’inabissa nel mare, fiorisce di terra ed esplode di fuoco per sostanziarsi d’Arte e Poesia. Scruta la figura umana, se ne impossessa e la eterna sulle sue tele, cedendo al richiamo delle passioni dell’inquieta materia e innalzandosi, vibrante e trasognata, alla luminosità dello Spirito divino, che pure la connota.
Nei suoi dipinti si condensano emozioni di conchiglie e di scale, di volute sinuose e di drappeggi fluttuanti, di pepli e copricapi morbidi e leggeri. Teneri sorrisi di bimbi e mani in preghiera quali colombe nel loro nido di verità. Volti di sole e sguardi di donna persi nell’insidia/incanto del sogno. Il fiore acceso delle labbra in un muto richiamo d’amore.
Nei suoi dipinti esplode la luce enigmatica del maschio ardimento giovanile: sfrontati occhi di ragazzi pronti a volare sulle ali di Eros per evitare l’abisso del nulla, paventato nichilismo ai nostri giorni. Nei suoi dipinti i volti delle stelle.
Nei volti il viaggio dell’esistenza che incrocia la VITA.
I volti sono foglie bambine che occhieggiano all’alba della propria primavera e verdeggiano di speranza fino a trasformarsi nel bosco umbratile con schegge di luce a ravvivarne la quiete e a indicarne i percorsi possibili, mentre il tempo ha ragione del suo splendore che lentamente va spegnendo nei colori autunnali fino al giallo e al rosso al marrone al colore accartocciato che sussulta nel vento dei primi geli per posarsi e riposare.
Una tavolozza che oggi veste di magia i ricami misteriosi delle stelle sul notturno bisso del cielo.
Marisa è tutta nei suoi colori, nei tratti acquerellati delle figure di ragazzi e di giovani donne dalla bellezza nouminosa e fiera, che si stagliano in cieli pervinca, rossastri, d’alabastro e d’erba tenera ricalcandone lo splendore.
E ripropone nei loro volti il mito delle stelle con i remoti segni della loro arcana presenza.
Da millenni d’anni luce esse giungono fino a noi e accendono le nostre notti in sordina, senza far rumore, per offrirci il loro canto di bellezza e di armonia, anelito trascendentale all’Infinito Amore che le ha incastonate nel cielo perché possano vincere ogni timore, ogni paura, ogni male di vivere, abbracciandoci d’eternità.


venerdì 1 settembre 2017

Tatuati di Poesia

Scrivere o parlare di poesia non è facile. Per farlo, mi accompagno ad alcuni Autori famosi, le cui voci sono ben più autorevoli della mia.
Per Platone, “la poesia è qualsiasi forza che porti una cosa dal non- essere all’Essere”.
Dunque, la poesia è energia, forza, creazione.
Definizione, che ha percorso millenni di storia
per giungere intatta, imprendibile ma inconfutabile fino a noi.
Parola essenziale, simbolica, allusiva nella poesia orientale; canto di dolore e di liberazione nei versi in terra d’Africa o degli indiani d’America. È gioco di parole e musica per i francesi; impeto e passione per i tedeschi, rivolta e rabbia e stravolgimento per la beat generation, straniamento…
La poesia è tutto questo e molto altro ancora.
È anche “...‘febbre’ di vita, esorcizzazione della morte; bisogno vitale psichico profondo; riparazione ai mali (visibili e invisibili) ricevuti vivendo”, come sostiene Mariella Bettarini: “Siamo diventati poeti perché abbiamo ricevuto, da qualche parte e in qualche tempo, una ferita”.
Per Alda Merini “la poesia è un po’ come dio-Amore che non vuole essere guardato in faccia, ma tu lo fai lo stesso. Prendila, assaporala, ma non chiederti mai a che specie appartenga, da quale albero essa venga, con mani sempre vergini, pulite, prive di preconcetti per essere sempre trionfatrice prima e dopo il peccato della parola...”.
La poesia è, pertanto, innocenza e passione, verginità e peccato, ma è soprattutto luce che purifica, oltre che esaltazione, esorcizzazione, riparazione.
Per Borges si tratta della “memoria del genere umano”.
Rainer Maria Rilke, nei Quaderni di Malte, così scrive della poesia: “I versi sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, occorre conoscere a fondo gli animali, sentire il volo degli uccelli; sapere i gesti dei piccoli fiori, quando si schiudono all’alba.
La poesia è, allora, la vita vissuta e sentita profondamente dentro come “bellezza e verità” (John Keats). Ma bellezza e verità non sempre chiare, lapalissiane, scontate, piuttosto soffuse di mistero, colme di tutti i sensi e tutti i significati possibili.
La poesia abita in noi. È un particolare modo di sentire e di vedere, un filtro con il quale l’anima colora il suo sguardo sull’universo. La poesia è ri-creare il mondo, un frammento di mondo e di vita, partendo da una emozione, da una vibrazione dell’anima, simile a quella dell’arpa”, così scrive don Giuseppe Colombero.
Sacra, allora, è la poesia, che ha fede in una umanità migliore. Una umanità, che dovrebbe fare della solidarietà e della speranza i suoi punti di forza; dell’intelligenza e della scrittura, i solidi ponti di comunicazione e di “interesistenza” tra gli uomini, perché la “parola” - e qui cito Zancan - è “il luogo fantastico della rigenerazione”.