mercoledì 31 gennaio 2024

Mercoledì 31 gennaio 2024: Compleanno della Grande MARIELLA BETTARINI: tanti anni fa bussai alla tua porta, mi spalancasti il CUORE...

E oggi permettetemi, amici miei carissimi e instancabili lettori, di parlare di Mariella Bettarini, mia coetanea e amica da oltre quarant’anni. Già da allora, come potrete vedere dalla dettagliata narrazione dello scrittore, poeta, saggista e critico letterario Luigi Fontanella, era molto famosa ed anche molto attenta alla scrittura degli altri, molto selettiva, anche nelle amicizie. La conobbi a Bari durante uno dei Convegni internazionali di “Donne e Poesia” realizzati e condotti da Anna Santoliquido, infaticabile nel promuovere incontri culturali tra i più grandi poeti e scrittori di fine Novecento. Mariella mi spalancò subito le braccia e il cuore dopo aver ascoltato il mio intervento sulla poesia. Da allora abbiamo spesso lavorato insieme, incontrandoci più volte a Firenze, dove risiede e dove incontravamo anche Gabriella Maleti, con cui condivideva la casa, l’amore per la scrittura e per la fotografia, fino alla pubblicazione del suo bellissimo Libro Poesie per mamma Elda con la SECOP edizioni (2019). Ora Gabriella non c’è più, nostro grande rimpianto. Anche lei nata nel 1942 a fine maggio come me. E ora abita nel nostro cuore. Ma per comprendere di più e meglio la grandezza etico-culturale della scrittura di Mariella Bettarini, ecco le parole di Luigi Fontanella:                                        

PER MARIELLA BETTARINI

… noi - congiunti e disgiunti / noi (sfatti)

facitori di guerre e / paci / […] noi

leviamo le tende / d’una occidente gloria

togliamoci le bende / d’una (ac)caduta storia.

1.  Scrivo con vivo piacere questa nota, critica e testimoniale, sulla poesia di Mariella Bettarini la cui conoscenza - e successiva, ancorché saltuaria frequentazione - risale nientemeno che alla lontana estate del 1981.

Ricordo perfettamente l’occasione di quel nostro primo incontro: avvenne a Siena, in concomitanza con una lettura di poesia alla quale partecipai insieme con Mariella (appunto) e vari altri poeti, senesi e romani, fra cui Roberto Gagno, Maria Jatosti, Attilio Lolini, Francesco Paolo Memmo e Achille Serrao. Quest’ultimo, a quel tempo, dirigeva con Carlo Ferrucci, Giancarlo Quiriconi e Marco Marchi una collana letteraria per le Edizioni Quaderni di Messapo, frutto dell’Associazione Culturale “Messapo”, che vedeva due specifiche città, Siena e Roma, impegnate in questo progetto editoriale in comune. Grazie ad esso, furono pubblicati vari libri di poesia, narrativa e saggistica i cui autori erano poeti e scrittori di valore; ne ricordo alcuni, come Ferdinando Falco, Mario Luzi, Francesco Paolo Memmo, lo stesso Serrao e- si parva licet – il sottoscritto.

Anni fervidi, quei primi anni Ottanta, per la poesia italiana, che si andava liberando del metalinguismo neoavanguardistico, che pure aveva lasciato tracce feconde nel linguaggio poetico di non pochi poeti attivi in quell’arco di tempo. La poesia di Mariella non era esente da quello sperimentalismo, a volte esasperato, solipsistico e perfino compiaciuto, ma in esso sapeva e voleva innestare, imprescindibile e personalissimo, il proprio impegno civile e umano. Questo strenuo impegno si è poi protratto per decenni, prima nell’àmbito della scuola elementare nella quale la Bettarini ha lavorato per un quarto di secolo, poi attraverso il sodalizio con Gabriella Maleti e l’intenso lavoro da loro svolto per le riviste “Salvo Imprevisti” prima, e “L’area di Broca” dopo, nonché attraverso la casa editrice Gazebo. Insomma, un’attività polivalente nella quale Mariella ha sempre messo al centro la Scrittura, fosse essa poetica o narrativa o saggistica o drammaturgica, creando uno stretto connubio tra teoria riflessiva del Pensiero e innata Sensibilità. In definitiva, un riflettere e sentire, il suo, fortemente intrecciato, come produttore di scrittura, o, altrimenti detto, usando un accoppiamento caro a Giulio Carlo Argan, che fu uno dei miei Maestri a La Sapienza, di Progetto e Destino. Credo che in tutto questo Mariella Bettarini intendesse anche superare gli steccati dei “generi” - tipici ad esempio certi suoi versi lunghi quasi tendenti a una prosa ritmica e al contempo qua e là improvvisamente smorzati -, ponendo in primo piano lo scrivere tout court, concepito con passione e ragione, impegno e ricerca, immaginazione e argomentazione. Come a dire che, alle spalle di questi binomi, c’era stata, per lei, la lezione vitale di poeti e intellettuali esemplari, veri e propri mentori ideali della Nostra, come Leopardi, Gramsci, Gadda, Landolfi, Pasolini, Volponi, Palazzeschi, don Milani, Zanzotto (sono i primi nomi italiani che mi vengono in mente, ai quali si potrebbero aggiungere opportunamente alcuni nomi storici di assoluto valore internazionale, come Emily Dickinson, Simone Weil - di lei Mariella tradusse e pubblicò nel 1970 Lettre à un religieux, per le Edizioni Borla - Hart Crane, Jean Paul Sartre, Albert Camus, Paul Celan, ecc.

2.  Nella poesia di Mariella appare evidente, fin dalle prime prove, l’impulso cogente del voler e del dover dare voce al mondo di coloro che nell’odierna società apparivano (e appaiono) persone emarginate, sfruttate, strumentalizzate, violate, o razzisticamente vilipese. Da qui la spinta a considerare la figura (e la funzione) del poeta come facente parte non di un’umanità privilegiata, ma di una comunità diversificata in cui sopravvivono vantaggi e benefici di casta, nonché pregiudizi sociali -  ad esempio quelli nei riguardi del lavoro sottopagato delle donne rispetto a quello degli uomini: un scontro, questo per l’emancipazione femminile, che è sempre stato uno dei campi di battaglia di Mariella. Ecco che allora alla base del suo lavoro poetico importa(va), sì, la ricerca linguistica, lo scavo e il rovello nella/sulla parola, ma anche un vero e proprio lavoro intellettuale da considerare mai fine a sé stesso: il linguaggio critico e creativo, concepito, in definitiva, come mezzo e non come scopo ultimo. Da questa piattaforma, il testo poetico per Mariella ha un valore vero solo se alla dimensione estetica si unisce quella socio-etica.  È da questa inscindibile relazione che scaturisce la “semplicità”, o ancora meglio l’autenticità (termini da intendersi nel loro valore, spoglio da un lato ma politicamente pregnante dall’altro). Solo assumendo in sé questa consapevolezza - in una società letteraria che oggi come oggi va sempre più corrompendosi o polverizzandosi telematicamente (Cesare Segre) -, il poeta potrà davvero sentirsi francescanamente “fratello” e “sorella” di ogni Creatura della nostra Terra. Questo eviterà anche che la poesia, come ha affermato più volte Giorgio Caproni (ecco un altro poeta che si potrebbe inserire fra i mentori ideali della Bettarini), diventi “chiacchiera”, futile chiacchiericcio, banalizzazione verbale senza alcuna professionalità, attraverso gli abusatissimi social.

Una rilettura del suo po(n)deroso volume antologico, intitolato A parte - In immagini 1963-2007, uscito da Gazebo undici anni fa, sta ampiamente a dimostrare questi appunti critici che vado scrivendo. Di questo suo fecondissimo, ormai più che cinquantennio creativo, qui mi piace ricordare velocemente alcuni tratti e modalità espressive.  Per esempio quelle legate alla raccolta Case, Luoghi, la Parola, uscita originariamente presso l’editrice Fermenti di Roma e vincitrice del Premio Anna Borra, in cui l’inesausta “interrogazione” dell’Autrice s’intreccia sapientemente con l’ostinato scavo linguistico e con la sua forza (auto)analitica. Oppure penso al volumetto Per mano d’un Guillotin qualunque (Ed. Orizzonti Meridionali, 1998), dove il tipico rovello linguistico di Mariella sembra a tratti girare centripetamente su sé stesso, trascinando in una spirale fatale la stessa energia verbomentale della scrittrice, sia per il ritmo martellante dei suoi settenari sia per gli effetti di una spietata quanto ironica autoanalisi psicofisica («è la speculazione / un montarsi la testa? / o filosofeggiare / adiuva l’endogena modestia? / dilemma fatuo-fiero / dilettosa tempesta»). Ma in mezzo a queste movenze sempre abbastanza taglienti, ecco a un certo punto farsi strada perfino degli haiku, gentili e delicati, a lei venuti balsamicamente incontro in un magico maggio (mi riferisco alla graziosa plaquette Haiku di maggio (Gazebo, 1999): «Conceda maggio / noi (suoi amatori) / finito omaggio». E come non ricordare poi il denso volume La scelta - la sorte (Gazebo, 2001)? Un libro in cui Mariella scandaglia accanitamente il mondo: quello interno a sé stessa e quello esterno che la circonda, fino a porsi domande estreme sul come e perché del nostro esserci e di tutto ciò che esso percorre attraversando il nostro provvisorio destino di viventi-di passaggio: le scelte e gli accidenti personali e perfino certi umori che li determinano. Un libro memorabile, complesso, lucido, appassionato. Direi tra più ambiziosi e seducenti pubblicati in Italia all’inizio del terzo millennio. E per finire, last but not least, non posso non ricordare il recentissimo, toccante Poesie per mamma Elda (SECOP Ed. 2019) - sto vertiginosamente sintetizzando - , un bel libretto connotato da un appassionato amore filiale, dedicato da Mariella a sua madre Elda Zuppo, «a testimonianza della sua serena, umile, dolorosa Persona» - come annota la stessa autrice nella sua telegrafica Introduzione. E davvero struggenti, come sigillate nel tempo, sono le immagini dell’album fotografico collocato in appendice. Per me assolutamente stellare e indimenticabile la prima fotografia, che ritrae Elda, al suo debutto come soprano, nell’opera Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, al “Massimo” di Palermo, poi al Comunale di Firenze e alla Fenice di Venezia, anno 1940. Commovente e lancinante, nella sua articolazione in memoriam, la poesia a p. 37, a mio avviso l’apice dell’intero libro. Ne trascrivo gli ultimi versi: «le tue cose ritrovare quest’oggi /in una scatola m’hanno portato / tante lacrime - quelle / che non riuscii a piangere (io che mi sapevo pronta / al tuo gran passo - al mio) /quelle che oggi qua /piango per te - per me - per queste farfallette /di latta - queste bigiotterie - / per questa scatola /di tesori da nulla che t’incoronano regina /e madre del mio rimpianto.»

Grazie, Mariella, per tutto ciò che hai donato ai tuoi lettori e alla tua Firenze, città talora impettita e forse fin troppo orgogliosa; una città non sempre propensa alla tenerezza.                 

                                                     Long Island, 7-8 settembre 2019

Luigi Fontanella vive tra Firenze e Long Island, New York. Poeta, saggista e narratore, tra le sue più recenti pubblicazioni di poesia: L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Almanacco dello Specchio, Mondadori, 2010); Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio I Murazzi); Disunita Ombra (Archinto, 2013, Premio Nazionale Frascati Poesia alla Carriera); L’adolescenza e la notte (Passigli, 2015, Premio Pascoli, Premio Viareggio Giuria); La morte rosa (Stampa, 2015); Lo scialle rosso (Moretti & Vitali, 2017).  Vanno anche ricordati i romanzi Controfigura (Marsilio, 2009) e Il dio di New York (Passigli, 2017), e, per Macabor editore, il volume Viaggio nella poesia del Sud nazionale e cosmopolita. La poesia di Luigi Fontanella, a cura di Bonifacio Vincenzi.  luigifontanella02@gmail.com  

Di Mariella e Gabriella parlerò ancora, riportando parole, poesie, pensieri, emozioni…

A presto. Angela

lunedì 29 gennaio 2024

Lunedì 29 gennaio 2024: la "VOCAZIONE" alla POESIA è DONO incommensurabile e completamente gratuito...

Due giorni fa ho parlato di Nico e di come si scoprì poeta. E ho fatto riferimento anche a Neruda, riportando la sua splendida poesia. E poi a Gjeke Marinaj, altro genio poetico che ho “incontrato” grazie alla poesia e che fortunatamente mi è diventato amico con una corrispondenza assidua e molto affettuosa. E mi è tornata in mente la mia scoperta di amare la scrittura e la poesia oltre ogni altro amore. Voglio raccontarvela. È una bella storia, in cui è possibile specchiarsi e ritrovarsi.

                                                        LA POESIA

L'ho incontrata da bimbetta tra le fiabe che mio nonno ci raccontava, nelle albe sui carri, nei tramonti nel sole, tra le onde del mare. Dovunque mi portasse la sua voce. Dovunque si accendessero i suoi occhi. Dovunque ci fosse un sogno da vivere con la fantasia. Era poesia montare a cavallo, giocare con i cani e i gatti, far nascere i pulcini, far volare le tortorelle, parlare con gli uccellini...

Grazie sempre al mio nonno/papà, poi, avevo imparato la poesia più concreta e più “a portata di mani” di riconoscere le uova da cova “cu génjə” (fecondate) da quelle “scjàcquə” (vuote): mettevo le uova controluce davanti alla fiammella di una candela e, se vi notavo all’interno un dischetto più scuro all’apice, l’uovo veniva messo nel cesto della covata, altrimenti veniva da noi mangiato perché non avrebbe potuto far nascere alcun pulcino (non mi sono mai preoccupata nel tempo di sapere come indicare in italiano i due tipi di uova. Quella conoscenza e quell’abilità facevano parte della mia esperienza con mio nonno e tanto mi bastava).

Poi, piano piano, subentrarono nuovi interessi che non avevano niente a che fare con chiocce, pulcini, uova, gusci da far dischiudere per aiutare quelle bocche spalancate e pigolanti a venire fuori non appena si creavano da sole il pertugio iniziale da cui si annunciavano con quel flebile pigolio. Ma continuai a fare per loro da “mamma”: Stessi interventi amorevoli per gli uccellini nei nidi. Venivano fuori con i becchi spalancati in attesa di cibo ed io provvedevo come potevo. (ricordati che ciò che spinge dall’interno è energia che si trasforma in vita ciò che spinge dall’esterno è forza che può distruggere… le parole del nonno, sottese senza saperlo a una metafora perché l’uovo era solo un esempio…). E, se quei corpicini tremavano ed erano ancora bagnati, li avvolgevo nell’ovatta e me li mettevo sul seno tra maglia intima e maglietta “di sopra” perché stessero al calduccio fino a che li sentivo con le piccole ali frementi di salute e libertà.

                                                 Tenera poesia

Quanti gattini avrò allattato in quegli anni con i vari contagocce presi dai flaconi delle medicine che prendevano i nonni (che già avevano i loro acciacchi) quando le loro mamme morivano oppure li trascuravano? E quale poesia più bella del bisbigliarsi frenetico e melodioso dei canarini nella gabbietta e dei rondinini al primo risveglio dell’alba sotto le grondaie e tra i rami del gelso rosso? A me piaceva interpretare i loro racconti e le piccole faccenduole familiari che li rendevano pettegoli e battaglieri in grovigli di piume arruffate che volavano via come spruzzi di mare a rendere biancoazzurro il verde del cortile. Avevo una voce squillante, argentina, e mi piaceva gareggiare con il loro canto. Il nonno mi chiamava: “l'uccellino della casa”...

Ma poesia era per me anche il lavoro di ciabattino di mèstə Péppə, che era sempre presente tra quelle quattro mura della sua casa nel sottano vicino alla nostra casa al primo piano di un palazzo antico, perché faceva il calzolaio ed era quotidianamente seduto su uno sgabellino scuro davanti al suo deschetto scuro, in quel quadrato scuro di casa, tutto intento a risuolare scarpe scure, vecchie e con tanto di buchi, con tra le mani il martelletto e tra le labbra tanti chiodini, che prendeva lentamente, uno per volta, con il pollice e l’indice, dopo aver fatto un forellino fra suola e tomaia, credo, “chə l’assùgghjə” (con fustella? punzone? rivetto? mai saputo come si chiamasse in italiano. Per tutti era “l’assùgghjə” e basta!). Io andavo nella sua casa a chiamare Sabellina sua moglie, che veniva su da noi ad aiutare nonna Angelina nelle faccende domestiche, e m’incantavo ad osservare quella operazione così difficile con quei chiodini minuscoli tra quelle dita minuscole e i polpastrelli un po’ anneriti, che temevo venissero schiacciati dal martelletto che batteva batteva fino a far sparire il chiodo nella suola. Rimaneva un tondino lucido che per me era una delle tante stelline che mèstə Péppə disseminava sotto le scarpe, cosicché tutti potessero camminare sulle stelle, anche se le scarpe erano vecchie e logore di anni. Una fiaba. Un sogno. Un cielo stellato anche per la povera gente. Guardavo le mie scarpette belle e lucide e mi sentivo felice anche senza stelle. Tanto quelle mi fiorivano sempre nel cuore. 

Ma le scarpette che mi facevano davvero sognare e volare erano quelle di cotone e cordonetto e fili iridescenti di seta di più colori che mi cantavano tutti i canti della primavera ed erano un ricamo di fiori, farfalline, uccellini, che rendevano i nostri piedini dei prati fioriti.(quel mazzoliin di fiori che vien dalla montaaaagna…). Le confezionava la mamma di una nostra amichetta, di cui non ricordo più il nome. Era una mamma fatata perché faceva fiorire dalle sue mani con il velocissimo uncinetto, più prodigioso di una bacchetta magica, tutti quei ricami di colori diversi che poi, sempre con l’uncinetto, applicava sulle tomaie di cartone pressato, su cui avevamo poggiato i nostri piedini per farle prendere la sagoma. Realizzava, così, quelle splendide e splendenti scarpette che vincevano di gran lunga la gara con quelle di vernice nera con gli occhi di bue, che calzavamo la domenica, uguali a quelle di tante bambine della nostra età e del nostro ambiente e anche di molte bamboline di biscuit. Ma le scarpette magiche le ricordo benissimo. Potere della memoria e della parola scritta. Ma potere anche della fantasia che a quella memoria aggiunge parole mai dette e forse vite mai vissute. La narrazione fa rivivere il passato e appaga la nostra gioia di raccontare…. Del resto, “Scrivere vuol dire farsi eco di ciò che non può cessare di parlare…” (Maurice Blanchot)

Poi, nel tempo di anni a ancora anni ho scritto tanto e ho continuato a scrivere: Saggi, Poesie, Relazioni. Prefazioni. Presentazioni. Romanzi. Di tutto e di più senza stancarmi mai. Una scrittura che riguardava essenzialmente me per guarire, dopo tante vicissitudini dolorose sempre presenti alla mia vita, e gli altri che mi piaceva scoprire con i loro talenti e la loro “buona e bella” scrittura. Ma quante atmosfere perse, quanti sapori dimenticati! Anni e anni vissuti senza potermi affacciare al mondo per troppi impegni, troppo lavoro… Io, tra l’altro, anche preparatrice per i vari Concorsi che permettevano a diplomati e laureati di entrare di ruolo nelle diverse scuole “di ogni ordine e grado”. E persino per Dirigenti Scolastici. Poi, è accaduto qualcosa che mi ha spinto a riprendere il discorso interrotto per un bel po’ di anni. Non parlo di scrivere, mio pane quotidiano, ma di pubblicare. Mi mancava il tempo per strutturare bene poesie, racconti, romanzi, saggi e farne nuovi libri. Non avevo tempo, né serenità. Dopo 10 anni, però, ho ripreso a pubblicare. Ma anche a scrivere poesie, racconti, romanzi, saggi, molti dei quali mai pubblicati. Persino lettere Ad Familiares, mai sistemate per farne un libro e mai pubblicate. Potere della passione per la narrazione e la scrittura. Potere della creatività. È strano a dirsi, ma solo a mamma e babbo, nei tanti anni in cui siamo stati lontani non ho mai scritto lettere o poesie. Aggiungevo uno svogliato saluto in calce alle lettere che Lizia periodicamente scriveva per dare notizie della salute dei nonni e dei nostri studi. Una volta mamma, in una delle rare volte in cui veniva a trovarci nella nostra casa, dopo lunghi ed estenuanti viaggi in treno, mi prese in disparte e con voce dispiaciuta si rammaricò dei miei silenzi e dei miei saluti laconici, dopo aver ricevuto da zio Padre Leonardo (fratello del nonno e famoso oratore in tutto il mondo in tanti anni vissuti in America e poi tornato per ricoprire il ruolo di Padre Provinciale a Perugia) una lettera in cui le parlava della mia scrittura “particolare per l'armonia dei suoni e delle parole, per la musicalità del periodare”.

“Perché, Lina, non ci scrivi mai? Devo sapere dagli altri che scrivi bene?”, si rammaricò mamma. Le risposi evasivamente: “Non so cosa scrivere, mamma. Vi racconta tutto Lizia”. “Ma i tuoi pensieri non sono quelli di Lizia, né le tue parole”, mi rimproverò dolcemente mamma. “I tuoi sentimenti nei nostri riguardi sono esclusivamente tuoi, come fai ad accontentarti che Lizia scriva per te?”. “Lei ha più pazienza ed è più ordinata ed essenziale. Io vi scriverei una montagna di sciocchezze, un romanzo tutto inventato e non ne ho il tempo”. “Non mi risulta che studi più di tua sorella e dunque? Dove e come impieghi il tuo tempo?”. Le risposi ancora una volta in modo evasivo con un “boh” e un “non so”, che la lasciarono dubbiosa e scontenta. Ma io non potevo dirle 'perdo il mio tempo a fantasticare, a chiacchierare con le mie amiche, a leggere romanzi e fumetti, a scrivere poesie e racconti, ad andarmene in giro in bicicletta, a suonare il pianoforte e ad ascoltare la radio'. Non potevo dirle 'mi manchi da morire e per questo non ti scrivo. Per punirti. Perché la tua assenza mi fa male. Perché hai altri quattro figli a cui pensare. Perché io sono così... E Lizia è altra cosa da me. Condividiamo la stessa tua assenza, ma non parliamo mai di come la combattiamo. Lei forse studiando perché le piace farlo ed è contenta di darvi grandi soddisfazioni. Io vagabondando di qua e di là, zingara di me stessa, e litigando con nonna Angelina per i miei ritardi nel tornare a casa dopo ogni biciclettata fuori porta per cercarti oltre il cortile, il gelso, le rose. Perché tu sei oltre l'amore che ti potrei dire...'. A causa della sua lontananza, lei era per me in quegli anni disperazione e lacrime mascherate da superficialità. Leggerezza. CanzoniLei era la mia perenne ATTESA. E anche tutto questo, a ben pensarci oggi, era POESIA.

E grazie alla poesia ho viaggiato molto, fatto bellissimi incontri con persone eccezionali per cultura, creatività, umanità: Alberto Bevilacqua, Maria Rita Parsi, Ivan Graziani, Diego Dalla Palma… a cui ho fatto   interviste. Con lunghe chiacchierate e le insolite albe sul mare. Le nostre parole. Le tante indimenticate parole con accenti diversi e diversi timbri e intonazioni. L’Egitto. La Grecia. La Francia e l’Inghilterra. La Serbia e Belgrado con tutto il blu del Danubio e della Sava e il verde dei pascoli e l’oro dei monasteri. Meravigliosi quelli del Kosovo. L’Ungheria e Budapest con la splendida Cattedrale di Santo Stefano… La poesia, la scrittura a farmi compagnia dappertutto per raccontare storie che altri ignoravano. Per ascoltare storie che io ignoravo. E tanti tanti premi in Italia e all’estero. I più prestigiosi in Serbia: Smederevo, Belgrado. Poi dall’America forse il più importante, ma il 15 marzo sarò nuovamente a Roma, al Palazzo della Regione, per un altro Premio, di cui è prematuro parlare. Mi  ritengo davvero fortunata per ogni apprezzamento ricevuto semplicemente per aver scritto un commento critico per una poesia, postata su FB, per i tanti libri pubblicati, per gli incontri avvenuti durante i numerosi memorabili viaggi con il mio compagno di vita e di poesia e con i miei figli, mio genero, divenuto editore di una bella Casa Editrice “altra”, alla ricerca della bellezza nelle parole di tanti altri validissimi Autori in Puglia, in Italia, all’estero. In numerosi luoghi che non fossero l'Italia: culla di ogni bellezza e di ogni incanto! E altri incontri con persone nuove per scoprirci in un lampo degli occhi, in un gesto della mano. In un sorriso d’intesa. Amo viaggiare. Amo incontrare gli altri. Conoscere altre culture. Altri modi di essere. Sono, invece, decisamente costituzionalmente testardamente refrattaria a imparare le lingue! A mio discapito, purtroppo, perché rischio di perdere i fili meravigliosi di altri rapporti con persone straniere: nuove opportunità di incontri, nuove amicizie che potrebbero farsi lunghe nel tempo, nuove sintonie…. Ma ogni ritorno a casa ha segnato un nodo nel cuore, un canto alla bellezza della nostra penisola. 

E voglio concludere con una poesia per affermare poeticamente l’amore per la mia terra e per non smentire clamorosamente la mia “vocatio” alla scrittura e al linguaggio poetico che mi è toccato in sorte, quale dono meraviglioso e gratuito, di cui sono immensamente grata al buon Dio. E a chi ha fatto di me una bambina attenta all’ascolto. L’ASCOLTO! Dall’ascolto delle fiabe di mio nonno è partita la scoperta delle parole e della loro bellezza. Attraverso le PAROLE, poi, mi è stato possibile scoprire gli altri, che vivono con me in sintonia, e il mondo con occhi d’amore e di mai perduto incanto… La poesia è lunghissima e ha come titolo “Canto per la mia terra”: Ha ancora un urlo d’alberi/ questa terra/ che s’inerpica d’azzurro/ e conosce tutte le rive/ del nostro pianto./ Macchia mediterranea/ intrichi di selve interrotte/ dal ricamo festoso/ delle ginestre in fiore/ che cantano al cielo/ l’inno gialloverde/ di questa terra umida/ in lotta contro rovi d’arsura./ Bianche vele ridono/ tra labbra di onde/ che giocano a nascondino/  lontano dalla riva assolata/ con scogli aguzzi/ in gorghi di spuma/ e sabbia dorata./ Questa terra di rimorsi/ di frenesia di pizzica e cicale./ Terra con dita d’argento/ tra rami feriti che artigliano/ un cielo sorpreso e sgomento/ Muoiono secolari ulivi/ come la nostra umanità alla deriva./ Uomini-dei ingannano il sole/ con pronta mannaia di sangue/ arrossando con rossastre macchie/ d’insano assassinio/ la rossa terra del nostro Salento/ pronti a recidere chiome di spavento/ (strangolate ammanettate umiliate)/ delle maestose millenarie/ nostre sculture di dolore e fatica/ concesse dal nostro Cielo/ (promessa di pace ragione di vita)./ Terra che getta un cordone/ di brulle colline/ ad imbrigliare il bianco di calce/ delle case a cono/ dimora di fate e folletti/ misteri di segni e simboli/ e liturgie pagane/ dove il verde delle Murge/ sussurra di funghi e pietre/ e ferule e lumache/ in gara con l’azzurro tra i rami./ Rossastra ruggine/ di monti a nido dipinge/ il Gargano che s’affaccia sul mare/ sfidando superbo le nuvole/ a specchiarsi in golfi e laghi costieri./ E di grano che al vento danza/ e canta come cicala impazzita di sole/ si cinge generosa la piana dauna/ che ai suoi piedi si perde/ trafitta da lame d’arsenico/ che seminò morte e raccolse ferite./ Lunga come la sua lunga storia/ è la mia terra di principi e briganti/ di acque e sale e vento di naviganti./ Alla grotta della poesia/ mi bagnai un giorno/ inseguita dalle mie lunghe trecce e seppi della mia sorte/ segnata d’archi di pianto-incanto/ e da stelle di mare e serti di parole/ a raccontare della mia gente storie/ che fumano dai camini ridono urlano/ e con versi di tenerezza cantano/ lo splendore di questa terra/ dai miei tetti di sole.

Vi siete annoiati? Spero di no. E, comunque, per oggi può bastare. A domani o dopodomani. Mi piacerebbe parlare della importanza delle parole e della possibilità di viverle in sintonia con quanti ci corrispondono. Come avviene nel nostro blog. GRAZIE! Angela

 

 

sabato 27 gennaio 2024

Sabato 27 gennaio 2024: oltre la GIORNATA DELLA MEMORIA, il ricordo sempre vivo di NICO MORI...

Ho scritto ieri il mio NO. Il mio NO a tutte le guerre, a tutti i massacri, a tutti gli Olocausti a livello mondiale per “non dimenticare” e perché oggi avevo e ho altri RICORDI da ricordare: le NOZZE di mio padre e mia madre 84 anni fa e la perdita di Nico Mori, mio carissimo amico fraterno fino a tre anni fa e nell’Oltre, fra la terra e le stelle. Per circa tre anni, mi sono ostinata a ricordare come data della sua morte il 20 gennaio, ma poi, improvvisamente, dopo tre anni davvero difficili per me sul versante salute, ecco che ho ricordato la motivazione per cui avevo dimenticato. Ma non è importante per voi che mi leggete e che mi volete bene, è importante per me che, qualche volta, non mi voglio bene e per questo faccio fatica a ricordare. Ma Nico mi è troppo caro per non parlarne ancora. Magari, questa volta, attingendo dal suo ultimo libro, a cui ho fatto la prefazione, perché si abbia di Nico una idea più completa. E dalla prefazione vi riporto alcuni stralci più significativi:

<Bellissimo titolo quello che Nico Mori ha dato a questo suo nuovo libro, I pescatori di meraviglie

e altre storie (SECOP edizioni, Corato - Bari): un titolo, che contiene in sé l’immensità del mare,

la sua profondità, i suoi tesori nascosti e a pelo d’acqua; il suo mistero e la sua magia; l’amore

che l’Autore nutre per il mare, di cui si nutre: con gli occhi, le mani, il cuore. Inseguendo una vela

bianca, origine e compimento di tutti i suoi sogni, documentata da un romanzo con struttura “ad

anello”, che parte da un Prologo per giungere ad un Epilogo, sempre in un attraversamento delle

azzurre acque, con l’intento di forare il cielo per andare oltre: oltre il tempo, lo spazio, sé stesso e il proprio corpo, i propri pensieri, e persino il proprio cuore…

In mezzo, il viaggio. Il viaggio esistenziale di un uomo di terra e di mare: un uomo nato nell’aspra

terra della Murgia altamurana ma innamorato del mare e che sul mare, anche metaforico, ha vissuto la sua avventura della vita, tra marosi e tempeste, tra scogli appuntiti e rade di temporanei approdi.

Infatti, tra Prologo ed Epilogo si snodano dieci capitoli che, partendo da una crisi cardiaca

che porta Nico Mori dal gustare, nella propria la casa, un brano di musica di Chopin che ama

perdutamente e la lettura di un libro filosofico sul dubbio cartesiano (…) ad una corsia di ospedale dove si ritrova bruscamente a lottare tra la vita e la morte, senza capire il perché, proprio mentre viene sommerso dai ricordi del suo mare e della sua vela in tanta azzurra tenerezza.

La musica di Chopin lo aveva appena avvolto in un abbraccio morbido e lo cullava dolcemente

quando... il fiume di lava era esploso. All’improvviso, con fragore, gli aveva squarciato

il petto come un fendente di spada, gli aveva incendiato la gola, tolto il respiro scaraventandolo

giù dalla poltrona, sul tappeto, accartocciato come una foglia secca a vomitare rantoli soffocati.

Poi, l’urlo lacerante dell’ambulanza, la dottoressa che gli stringeva una mano e parlava

concitatamente al telefono con l’ospedale per segnalare un codice rosso per imminente arresto

cardiaco, l’ago della flebo nel braccio che gocciolava stille di vita e il dolore che si faceva meno aggressivo, o così gli sembrava.

E i giorni si trasformano in un rosario di ricordi che si aggrumano intorno alla società e le sue regole da sovvertire per tentare di cambiarla e migliorarla. E il mare, l’immenso mare che ha il suo linguaggio da rispettare per poter guadagnare la riva e poi ripartire alla scoperta di nuovi orizzonti e di immensi tesori nascosti nei suoi fondali. Sì, i “pescatori di meraviglie” non smettono mai di sognare, neppure quando, stanchi e sfiniti, inseguono più ricordi che sogni, senza smettere mai di afferrare stelle, che sono desideri (e, nel gioco di parole che tanto amo, de-sidera sta a significare: intorno alle stelle; ma anche, con un “de” deprivativo: colmare un vuoto di stelle)… magari in un altro cielo che raccolga nel suo azzurro un mare altro…>

Del resto, Nico è stato un uomo di rara sensibilità, sempre preso dai suoi incanti: marito tenero, affettuoso, prodigo di doni, tanti quelli floreali in giorni non necessariamente deputati a farli, alla sua Tea; padre profondamente, poeticamente innamorato dei suoi figli: Manuela e Alberto. Con toni diversi e modalità legate alla loro personalità, alle loro esigenze; amico attento, sincero, generoso, sia con gli uomini che con le donne, pur avendo una predilezione particolare per il genere femminile; poeta sopra ogni cosa. e, a questo proposito, è necessario riprendere a raccontare dalla prefazione per via di un dettaglio, decisamente importante. Parlo di un <accadimento che hanno lasciato nell’animo di Nico una scia, un segno profondo, una scalfittura, una ferita non rimarginabile. Una scoperta strabiliante a segnarlo per tutta la vita. Il signum: presagio.

Ora vedeva distintamente suo padre, che faceva levare in volo un aquilone azzurro e gli legava il

filo al polso. Lo strano uccello di carta danzava nel vento in compagnia di due gabbiani che gli erano venuti incontro mentre lui correva a perdifiato sulla sabbia, scalzo, inseguendo il cuore che faceva capriole e, pazzo di gioia, urlava, urlava, urlava, ma non parole. A sei anni non possedeva ancora parole adeguate che potessero esprimere quegli attimi di felice delirio. Suoni, emetteva suoni indistinti fatti di vocali e consonanti che si legavano tra loro e si componevano nella meravigliosa armonia di una lingua sconosciuta che, comunque, raccontava emozioni. Più tardi, solo molto più tardi, da adulto, avrebbe capito che quel giorno di fine maggio, su una spiaggia deserta di Torre Canne, la Poesia gli era venuta incontro svelandogli che sarebbe stato possibile - ogni volta che l’avesse voluto - trasformarsi in un aquilone, un gabbiano, nel mare, nelle nuvole e osservare sé stesso e il mondo con altri occhi che non fossero i suoi: occhi di mare, occhi di vento...

Ecco il primo indimenticabile ricordo. Il segno indelebile del suo destino di poeta, tanto che ogni   suo “racconto” si traduce inevitabilmente in pennellate di poesia>.

E mi tornano alla mente i versi di Pablo Neruda quando si accorse di essere un poeta: Accadde in quell’età… La poesia/ venne a cercarmi, non so da dove/ sia uscita, da inverno o fiume./ Non so come né quando,/ no, non erano voci, non erano/ parole né silenzio,/ ma da una strada mi chiamava,/ dai rami della notte,/ bruscamente fra gli altri,/ fra violente fiamme/ o ritornando solo,/ era lì senza volto/ e mi toccava.//  Non sapevo che dire, la mia bocca/ non sapeva nominare,/ i miei orecchi erano ciechi,/ e qualcosa batteva nel mio cuore,/ febbre o ali perdute,/ e mi feci da solo,/ decifrando/ quella bruciatura,/ e scrissi la prima riga incerta,/ vaga, senza corpo, pura/ sciocchezza,/ pura saggezza/ di chi non sa nulla,/ e vidi all’improvviso/ il cielo/ sgranato/ e aperto,/ pianeti,/piantagioni palpitanti,/ombra ferita,/ crivellata/ da frecce, fuoco e fiori,/ la notte travolgente, l’universo.// Ed io, minimo essere,/ ebbro del grande vuoto/ costellato,/ a somiglianza, a immagine/ del mistero,/ mi sentii parte pura/ dell’abisso,/ ruotai con le stelle,/ il mio cuore si sparpagliò nel vento.

E del <grande poeta americano, di origini albanesi, Gjeke Marinaj:

Anche da piccolo correvi per afferrare

l’arcobaleno/ tra le tue mani;/ ma ogni volta

l’arcobaleno veleggiava via/ con i canuti riccioli del

cielo.// Tu tornavi piangendo.// Ora non piangi

né gli corri dietro./ Perché hai il tuo arcobaleno - di

parole./ Non è questo della bellezza raro dono?

(G. Marinaj, “La madre parla al figlio poeta”, in

Schizzi d’immaginazione, SECOP edizioni 2019).

Straordinaria somiglianza tra gli aquiloni di Nico e gli arcobaleni di Gjeke. Sembra che la poesia abbia un’anima universale e che il destino di un poeta sia segnato da accadimenti come questi

che procurano pianto o ebbrezza, ma sono sempre forieri di ricami di parole in veste di poesia.

Nico (questo l’inevitabile nome del protagonista di tutte le storie), però, ha due anime: quella

dell’uomo romantico, innamorato dell’amore, della bellezza, delle donne, della natura e della vita; e quella di un signore disincantato, scontento, ironico, solitario, deluso, scontroso, che parla e si confronta con tutte le “prigioni” della mente e del cuore, da cui il suo spirito libero cerca disperatamente di scappare, rischiando la solitudine e lo sberleffo della sorte, non sempre generosa e benigna nei suoi riguardi, ma spesso arrendevole e compiaciuta per i suoi atti di coraggio e di determinazione a resistere. Nello sport come nella vita.

L’arbitro... aveva contato fino a dieci, il pubblico era ammutolito. Non un applauso, neanche da parte degli atleti della sua squadra. In piedi nel suo angolo, Nico era stremato, aveva voglia di piangere e ridere. Piangere e ridere, mentre Nestore in lacrime urlava: “Campione, campione,

campione, sei il campione dei ferrovieri!!!!!.”.

Il terzo Nico è colui che racchiude in sé i primi due e che racconta, ora commuovendoci, ora

facendoci sorridere divertiti, ora incantandoci con la sua affabulazione, ora facendoci riflettere su un mondo, quello dei nostri giorni (ma Vico ci ha parlato dei “corsi e ricorsi storici”, non dimentichiamolo!), che lo trova estraneo alla sua volgarità, violenza, indifferenza, disumanità.

Metà di me non mi appartiene/ naviga/

dove il chiaro dell’aurora boreale/ si stempera nel

blu infinito della notte./ Metà di me si dissolve in

milioni di grani/ e si sparge e combina/ in simpatia

con miliardi di atomi/ sulla linea d’ombra/

al limite di ogni verità/ dove certezze sconfinano

nel dubbio/

e l’umano sapere è attonita coscienza

dell’immenso.

Nico è sempre dimidiato tra realtà e fantasia, tra ragione e cuore, tra tormenti dell’anima e drastico rifiuto di mondi sconosciuti ai suoi sentimenti e che sente angusti fino a strangolarlo. (…)

Quanti importanti incontri nel percorso esistenziale di Nico: con gli uomini di chiesa e con i

giovani militanti di sinistra, con i parenti, anziani e giovani, alcuni incoraggianti “maestri di vita”,

indimenticabili e indimenticati. Con i coetanei, con le ragazze e poi le donne e con gli amici di

elezione. Uno fra tutti: Germàn Rojas, con cui condivide una fede politica ormai quasi in disuso

anche nella loro mente, ma tenuta viva nel proprio cuore per sentire ancora il palpito di un credo. Una speranza. L’amico giusto, con cui parlare di sogni e illusioni, di ideali di libertà e clamorose sconfitte del pensiero libero in un mondo di “pensiero unico”. Germàn, ventitreenne eroe “per caso” durante i giorni della rivolta contro il democratico Allende per instaurare la dittatura di Pinochet nel suo Cile, e imprigionato, torturato, esiliato, segnato ferocemente nel corpo e nell’anima. L’amico fraterno più volte perduto e ritrovato sotto altri cieli, altre identità, un solo progetto identitario per entrambi, nonostante gli anni e le distanze geografiche: diventare “pescatori di meraviglie”.

Caro Nico, (…) Non lasciarci senza la tua parola, senza i tuoi sogni, senza la tua folle geografia italica, senza il tuo mare, senza la tua tenerezza. Vai oltre i “confini di te”, con tutta la forza che

hai, non fermarti, non spegnerti. (…) I nostri confini sono come l’utopia alla quale non

rinunceremo mai. Perché tu ed io siamo l’orizzonte e, insieme, noi siamo l’utopia. Pescatori di meraviglie, ricordi? A costo di annegare nei mari della luna. Ti abbraccio con l’immenso affetto di un fratello. Germán

Ma, per essere pescatori, bisogna aver prima incontrato il MARE. E Nico l’ha incontrato nei suoi pensieri da sempre e se ne è innamorato perdutamente quando da bambino lo ha visto e toccato per la prima volta. Poi… aveva imparato a conoscerlo. Ad attraversare la sua superficie. A scandagliare i suoi fondali, fisici e metafisici, scoprendo meraviglie sempre più profonde e verità su cui riflettere… (…).

E si potrebbe concludere qui il nostro viaggio nelle meravigliose pagine di questo libro, ma c’è un Epilogo che ci riporta all’inizio di tutto, a quel segno rivelatore: Nico sarebbe stato un poeta come lo è stato per tutta la vita (…). Perché, in realtà, poeti si nasce, non si diventa. Ma sarebbe stato anche (…) un solitario ribelle, amante della giustizia e della verità; un uomo che avrebbe dato la propria vita perché non accadesse lo stupro del corpo a Vincenza e quello dell’anima a Francesca; un uomo che, con tutto il suo essere in rivolta contro una società omertosa, volgare e indifferente, ha trovato il modo di parlarne con toni delicati di rara poesia(…), cantando i misfatti di ogni tempo con lievità infinita. E tutta la sua scrittura è un canto in cui si staglia e si anima la vita: tra incontri e scontri, dolore e allegria, libri e uomini, canzoni e poesie, sue e di altri; terra e mare e sempre tanto azzurro oltre le nuvole, tante stelle oltre il buio, tanta voglia di vivere e continuare a meravigliarsi perché tutto è sogno, come altri grandi Poeti (Shakespeare? Calderòn de la Barca? Miguel de Cervantes?) gli hanno insegnato. (…)

Nico ha due amuleti: il MARE e la VELA per continuare a vivere e sognare ancora… o continuare

a sognare per vivere ancora…>

E rimangono a raccontare di lui solo le parole del cuore. Angela

giovedì 25 gennaio 2024

Giovedì 25 gennaio 2024: UNA SCELTA NECESSARIA di DOMINIQUE JEAN PAUL STANISCI...

Nuvole oscurano il cielo
d’inverno
in attesa di albe d’infinito.

(a.d.l.)

Stiamo vivendo giorni bui e notti insonni per la terribile guerra fratricida, improvvisa e devastante, in atto tra Russia e Ucraina; guerra, che sta seminando dolore e lutti con la morte di molti bambini innocenti, di donne disperate e sole, di anziani inermi, di uomini decisi a combattere…. Sempre più stiamo correndo il rischio di distruggere il nostro Pianeta e la nostra Umanità. E non è più tempo di analizzare torti e ragioni…. È tempo di urlare: “NO ALLE ARMI”, “NO ALLA GUERRA”, “NO AGLI INTERESSI ECONOMICI E AL LORO INDISCRIMANATO E AVVILENTE POTERE”. SONO TUTTI DELITTI CONTRO LA NOSTRA UMANITÀ ALLA DERIVA.
Come sta gridava due anni fa Papa Francesco, con fermezza e coraggio: “In nome di Dio, vi chiedo: fermate questo massacro”, bisogna “cessare l’inaccettabile aggressione armata”, che sta riducendo “le città a cimiteri” (13 marzo 2022).
Ecco i cimiteri. Quando ero bambina io venivano chiamati in due modi: cimitero e camposanto. E quest'ultimo era più ricco di Arte e dipinti religiosi per dare maggiore senso di sacralità al luogo. E, ogni 2 novembre, dagli anni Cinquanta in poi, accompagnavamo io e mia sorella Lizia al cimitero/camposanto i nonni materni con cui vivevamo. I nostri genitori, a causa del lavoro di babbo, maresciallo dei carabinieri, andavano ad abitare nelle varie caserme dove babbo aveva il suo alloggio ed erano costretti a lasciarci per fare loro compagnia, essendo mamma figlia unica e alle prese con altri quattro figli, nati dopo il ritorno di babbo dalla guerra. Ebbene, allora a me piaceva andare tra le tombe e mi divertivo anche a leggere le frasi scolpite sulle lapidi, sotto la foto in b/n del defunto: “padre esemplare, marito integerrimo, uomo di acclarate virtù, probo cittadino”… Mai un ladro, un malfattore, un miscredente. E quei vocaboli, poi, fermi nel tempo che mi sembrava fossero nati con Adamo ed Eva. Ma mi piaceva seguire i nonni nelle varie cappelle dove erano sepolti i loro cari defunti e persino dove c’erano i loro loculi vuoti, su cui il nonno infiocchettava battute per stemperare la paura della morte di nonna Angelina. Un giorno, però, ero quasi adolescente, accadde un fatto increscioso. Il nonno volle portarmi con sé a fare visita alla sorella di babbo a cui era morto improvvisamente il marito. Mi trovai immersa in un’atmosfera sconcertante di cupo dolore per la disperazione di mia zia e dei miei cugini. Era estate, il caldo, i fiori, il pianto mi procurarono un malessere tale che mi parve di morire. A stento mio nonno riuscì a portarmi fuori mentre stavo per svenire. Da allora chiusi definitivamente con defunti e cimiteri. Ci tornai proprio per la morte di mio nonno, quando avevo venticinque anni ed ero prossima alle nozze, ma dovettero portarmi fuori dal cimitero perché stetti malissimo alla vista della sua tumulazione. Mi riconciliai con quel luogo santo solo con la morte di mia madre. Ma neppure tanto. Non ci sono tornata fino alla morte di Primo, mio marito (4 giugno 2008). E anche dopo non ci sono più tornata. Anche a lui non piacevano i cimiteri. Personalmente non trovo consolazione davanti a una tomba. Solo il desiderio irrefrenabile di fuggire. I morti me li porto nel cuore. Parlo sempre con loro e di loro. E l’andare al cimitero, soprattutto il 2 novembre, mi sembra solo una pura formalità, un dovere oppure un rito. A tale proposito ecco una poesia da me scritta tanti anni fa: Cipressi cupi contro cieli spenti/ ascoltano mormorii di preghiere/ sotto veli neri di consuetudine./ Il giallo e il bianco/ dei crisantemi immensi/ (ricordi la fiaba della bimba?)/ ingoiano parole su lapidi mute./ Due novembre anche quest’anno/ fiammelle ardono su dolori sopiti/ i morti dormono come ogni altro giorno./ Da casa ho visto tutto/ la lunga strada triste/ i grani del rosario cancelli/ aperti su lacrime rinnovate/ frasi stente marmi ripuliti./ Da casa ho visto tutto/ la via del ritorno occhi inariditi/ le quattro insulse chiacchiere dei vivi/ la vita aumenta problemi d’ogni giorno./ Sono rimasta inchiodata al mio rifiuto./ I miei morti me li porto nel cuore/ più vivi della mia anima/ quando l’anima è viva e soffre/ e si ribella. Assurda./ Questa sera i miei morti/ (passi di tenerezza parole di nostalgia)/ sono venuti nella mia casa./ Hanno chiacchierato a lungo/ con i miei figli. Io/ ho ricordato piano…
Ma ecco che, improvvisamente, mi capita tra le mani un libro particolare, diverso da tutti gli altri libri letti fino ad oggi. Con bellissime fotografie/immagini che danno un senso di pace, di serenità proprio ai cimiteri. Tanti! Sparsi in tutto il mondo. Luoghi diversissimi in cui il silenzio sembra regnare sovrano. Tantissimi i richiami di un Tempo/Spazio che si veste di Eternità e di Umanità in un proprio spazio/tempo/ definito, nel presente, tra passato e futuro, fra mille e mille sciagure umane, volute dall’uomo, determinate dalla natura, temute come punizione divina.
Si tratta di UNA SCELTA NECESSARIA di Dominique Jean Paul Stanisci (della SECOP edizioni, Corato-Bari, 2023) con la pregevole Prefazione di Chiara Cannito, che ne ha curato anche l’editing.
Mi avventuro, pertanto, nei tanti luoghi “della memoria” fotografati da Stanisci (dai cimiteri ai campi di concentramento, al carcere di Alcatraz, dal Ground Zero di New York a Hiroshima in Giappone, a Chernobyl in Ucraina) non solo per testimoniare il silenzio e la pace della terra dove “riposano” i morti di tutti i continenti del nostro Pianeta Terra (silenzio interrotto solo dal dolore e dal pianto dei vivi), ma soprattutto per documentare la aberrante mancanza di umanità degli esseri che dovrebbero essere umani, ma che si rivelano “belluini” in tutti i contesti ferocemente disumani, di cui è fatta la nostra Storia.
Il suo intento è, in pratica, quello di “scuotere le coscienze” perché si facciano “scelte necessarie” e non solo dettate per tutti noi dal fatto di dover/voler superare la paura del tempo che passa e della morte che si avvicina a grandi passi con la sua “falce a pareggiare l’erba del prato” (Manzoni, I Promessi Sposi), stringendoci gli uni agli altri per farci compagnia mentre inevitabilmente ci sorprende l’idea dell’Oltre. Di cosa ci attende dopo. Pensiero costante di tutti i comuni mortali. E sono del parere che vengano risparmiati forse animali e piante che, oltre all’istinto naturale, hanno però una sensibilità particolare nel “sentire” il loro avvicinarsi alla morte nel crudele mattatoio. Da quando ho visto un documentario in tal senso non riesco più a mangiare carne...
La SCELTA, intanto, è sempre un atto di volontà e di coraggio che subentra ad una condizione di vita o ad una imprevista situazione del momento. Ed è una scelta innanzitutto interiore, intenzionata a scavare nel cuore e nell’anima per un viaggio intimo con la Speranza di ritrovare emozioni e sentimenti riposti gelosamente nello “scrigno del cuore” e spesso dimenticati. Custoditi intimamente nelle pieghe/piaghe più profonde dell’anima per riscoprirci nelle nostre fragilità e imperfezioni e per riproporci nei “valori di sempre” che danno “nel per sempre” dignità alla nostra esperienza terrena. Importantissimi, a mio parere, sono i riferimenti che Stanisci, per sentirsi in ottima compagnia, fa, negli eserghi di ogni capitolo, ai tanti autori famosi a livello regionale e istituzionale (giornalisti, scrittori, poeti, registi, conduttori televisivi e documentaristi) che arricchiscono il volume: da Sandro Calvani a Debora Mirabelli, dal mio prezioso amico Gustavo Delgado a Marika Ramunno, da Maria Cristina De Carlo a Valentino Sgaramella, da Gabriele Carmelo Rosato, alla stessa Chiara Cannito, a Carmelo Gallo, “già Dirigente Scolastico in diversi Istituti secondari di I e II grado”. Ma, cosa molto più emozionante, nel libro, è la coralità che fiorisce da queste voci da cui Dominique Jean Paul estrapola altre massime che ci consolano di fronte a tanta disumanità così tenacemente e coraggiosamente da lui documentata.
E così ci capita di incontrare Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, con il suo monito a continuare il lavoro intrapreso; lo scrittore Edward Percival Forster, che descrive un cimitero come “Luogo meraviglioso. Messaggero di pietra. Musica celestiale…”; il ragazzo che per denaro lo accompagna a seguire i vari riti della “cremazione” a Varanasi presso il fiume Gange in India; Oskar Schindler nel film di Steven Spielberg a Cracovia in Polonia; la nonnina/guida di Auschwitz e il suo monito di salvaguardare sempre la dignità umana in ogni tempo e in ogni luogo; Henry Young, il piccolo eroe di Alcatraz e persino Cesare Beccaria (nonno di Alessandro Manzoni e famoso giurista, autore del trattato Dei delitti e delle pene) e il suo senso di giustizia e libertà… E si potrebbe continuare, ma è giusto giungere alle “Considerazioni conclusive” dello stesso Stanisci, che si auspica soprattutto di intraprendere, tutti quanti insieme, un viaggio "spirituale" di “educazione” per le nuove generazioni (ragazzi e insegnanti, compresi i genitori che sono i primi educatori dei figli), per riscoprire valori e sentimenti in un nuovo cammino verso la Pace e “illuminare l’Oscurità con la Luce della Speranza” in un Futuro migliore.
Di qui anche le mie conclusioni che prendo in prestito da Louise Glük, la famosa poetessa americana, Premio Nobel per la Letteratura 2020: “Tutto ciò che torna dall’oblio ritorna per trovare una voce”. Quella di Dominique Jean Paul Stanisci? Di sicuro è meritevole che il suo libro metta le ali per volare lontano... E anche oggi mi fermo qui, accomunando in questo mio scritto, suggeritomi soprattutto dal libro Una scelta necessaria, tutte le vittime della Shoah e quelle delle Foibe del Giorno del Ricordo (10 febbraio) troppo a lungo dimenticate per motivi politici e altro su cui non voglio neppure indagare perché per me vale soltanto la nostra Umanità e non la disumanità che la Storia da sempre registra. 

Angela

 

lunedì 22 gennaio 2024

Lunedì 22 gennaio 2024: Un pensiero di TENEREZZA per una NONNA mai abbastanza cantata...

E oggi voglio parlare di Lei, di nonna Angelina, di cui porto il nome e di cui non ho mai parlato abbastanza, come meritava e come merita. Nonna Angelina raggiunse tra gli angeli nonno Mincuccio, appena un anno dopo. Era il 1968. Io ero in attesa del mio primo figlio. Il 2 luglio sarebbe nata Raffaella.

<1968

Mi accorsi dopo appena un mese di aspettare un bambino.

E, con il germogliare di una nuova vita, cominciò anche la danza triste degli addii, di cui tu eri stato l’apripista.

                                                      Nonna Angelina

che improvvisamente, dopo un anno dalla tua morte, ti vide accanto a sé e ci disse che eri tornato e che ora le sorridevi e la prendevi per mano… e io che avevo sognato per alcune notti la tua allegria e quella di zio Michele che veniva a baciarmi e tu che mi dicevi che “di là si sta bene” e che era tempo che nonna venisse lì con te… e io che aspettavo un bambino e nonna che stava dormendo con il braccio e la mano a reggere una testa che ciondolava… e io che correvo e l’aiutavo a tenere fermo il braccio che cadeva continuamente e non reggeva più la testa… e le feci una carezza che la svegliò… e lei che mi disse: “pìnzə au mənìnnə ca pùrtə jndə a la véndə nàn zì pənzànnə a mè” (“pensa al bambino che porti nella pancia, non pensare a me”) e io che la vidi nelle lacrime che erano sorgente viva negli occhi e mi scivolarono lungo il vestito premaman e si persero sulle calze e nei piedi… io che ora andavo via perché era tempo di andare e tu che eri ritornato felice di portartela via… E al mattino qualcuno bussò alla porta e, prima che mi dicesse, io dissi “nonna non c’è più” e ci abbracciammo e piangemmo, e nonna era bellissima, era nonna Angelina diciottenne, quando andai a vederla, e il volto non aveva più rughe e sembravano rose le sue guance rifiorite nel sonno che guarisce e salva. E io che cantavo che cantavo che cantavo e non era un sogno.

                                                       Fu realtà

Mi è tornata alla mente, pensando a lei, una poesia tenerissima, non mia ma di un poeta straordinario che ha scolpito, nel raccontare sua nonna, il mio rammemoramento e il mio canto per lei, vissuta sempre alla tua ombra e mai da me, oltre la tua ombra, ascoltata e seguita come meritava. Io vivevo di nuvole e sogni, Lei di pane quotidiano e di quotidiane occupazioni. Io cantavo ad ogni vuoto, Lei riempiva i suoi vuoti con le risate e un dondolio dolce, rassicurante. Io scappavo ad inseguire i voli della mia fantasia e mi intridevo di parole azzurre per sfuggire ai suoi agguati alla mia libertà, Lei m’inseguiva per insegnarmi a vivere nella realtà di quel quadrato di terra in uno spreco di parole inutilmente minacciose. Io ero allodola e uccel di bosco, Lei era ape e formica di cortile. Io ero cielo senza più preghiere con mille orizzonti lontani, Lei era rosari e canti di chiesa.

C’incontravamo a metà strada solo per un abbraccio, più pensato che vissuto, a dirci in silenzio che c’eravamo l’una per l’altra. Sempre. Ma è una poesia che parla anche di te. In una sovrapposizione della vostra presenza e della vostra serena e laboriosa quotidianità nel nostro cortile. Voi due in uno. Bellissima metafora della vostra vita, in cui è compresa parte della nostra, della mia. È molto lunga, perciò riporto solo qualche verso:

Dall'altra parte del mare                                         

un giorno moriremo, ma prima viene il canto.

Nonna tu nei cortili dell’estate, già alzata all’alba,

sola ad aprire imposte e ricevere il sole,        

accompagnando la febbre dei miei ultimi sogni

con lo strofinio appena udibile dei tuoi passi (…)                                          

io crebbi sulla sponda della tua vestaglia e dei tuoi scialletti, (…)
E sto vedendo la lunghissima treccia che tu lasci libera
quando ti alzi, come un ricordo dei tuoi anni di ragazza.
(…) 
Il nostro giardino durò quanto l’infanzia. Né tu né io lo dimenticheremo (…)
Un giorno moriremo, ma prima viene il canto. (…)

io so che tu stai lì. E che il tuo amore senza altra causa che se stesso
ci sostiene nella notte e ci restituisce l’alba dell’incontro…
(Julio Cortàzar, stralci di “Nonna”, da Le ragioni della collera)>

(cfr. A. De Leo, Le piogge e i ciliegi, Vol. II, 2018)

Ma, per chi dovesse aver gradito questo mio tenero ricordo di nonna Angelina, rimando a quanto mia sorella Lizia, con grande amore, ha scritto di Lei oggi su FB. Un altro tassello che si aggiunge al mio modo di raccontare il mio vissuto per avere di una Donna d’altri tempi e semplice e vera come acqua di fonte, sorgente di vita e di candore, di generosità e di fede, di risate e preghiere, una immagine più chiara, più bella, più densa di emozione per i giovani di oggi e di domani, che si affacciano alla vita in un mondo di violenza, di conflitti e di lutti per l’umanità intera… Mai disperare. Nonna Angelina e Nonno Mincuccio hanno sempre continuato a dare amore a noi e agli altri a piene mani, nonostante gli immensi dolori che hanno attraversato la loro vita.   

Grazie a tutti per la generosa condivisione di questi ricordi personali. Alla prossima. Buon inizio di settimana. Angela 

sabato 20 gennaio 2024

Sabato 20 gennaio 2024: le PAROLE hanno SENSO, SIGNIFICATO, GENERE univoci?...

Buongiorno di pioggia, di grigio in tutte le sue sfumature, di nuovi progetti per non soccombere alla tristezza che tutto questo mi procura. Gennaio non mi piace. Ho perso troppe persone a me molto care in questo mese: mio nonno, mia nonna, Nico Mori, di cui ho spesso parlato e continuerò a parlare. Ma gennaio è per tutti questi dolorosi motivi anche il mese dei progetti, perché è necessario armarsi di coraggio e determinazione per non lasciarsi vincere dallo scoramento. Utilizzo tutte le strategie possibili per non abbattermi. Amo scrivere e allora scrivo. Scrivendo ritrovo la mia identità perduta. Almeno quella letteraria. E mi sento salva. Almeno fino a quando sarà possibile. Dunque, i progetti. Da un po’ di tempo, FB mi ripropone il RETINO, una mia fortunata Rubrica online di qualche anno fa. Provo nostalgia e lo dico. E molti di quelli che allora mi seguivano con piacere mi hanno sollecitata a riprenderla. Spero di poterlo fare in primavera per evitare il grigiore dell’inverno anche nei pensieri. Penso a qualche modifica, a qualche arricchimento. Mi fervono nella testa già le PAROLE, su cui mi piacerebbe disquisire a modo mio e magari avvalermi di un alter ego per una duplice lettura di una stessa parola o di gruppi di parole. Io sono sempre per le trasformazioni, i cambiamenti, le sfide. E così, pensando di giorno e di notte a queste benedette PAROLE da mettere a fuoco nei prossimi mesi, mi pare giusto fare delle puntualizzazioni, secondo il mio punto di vista beninteso, che avrei voluto fare da tempo:

1)      La parola POETA, declinata al femminile. Ho notato che molti miei amici e amiche, validissimi poeti e scrittori, validissime poetesse e scrittrici, l’hanno adottata per rivendicare la parità di genere, ignorando che così facendo (ma ripeto questo è solo il “mio punto di vista”) perpetuano quel maschilismo che giustamente si vuole combattere e superare/debellare in questo terzo millennio. Esisteva fino a qualche anno fa il femminile di “poeta” che era “poetessa”, come di dottore = dottoressa, di principe = principessa. Improvvisamente qualcuno (che non so) cambiò la grammatica italiana (lo so la lingua è un “organismo vivo” che nel tempo subisce delle inevitabili, e spesso attese e accettate come giuste o opportune, trasformazioni), e “poeta” ebbe in sé le due accezioni, maschile e femminile. A parte la cacofonia insita nella parola: la poeta - le poete (orrore!), tutto a vantaggio del genere maschile, ma ci pensate a “dottore” che rimane “dottore” ingenerando degli equivoci, negli eventuali pazienti, ma quel che è peggio “principessa”, femminile di “principe” che rimane “principe” o “principa”. Che ne dite? Noi abbiamo una lingua bellissima (calofonica), che insegue la bellezza e l’armonia delle forme grammaticali, fonetiche, sintattiche, contenutistiche (non a caso abbiamo, tra l’altro, tanti modi diversi di dire e di scrivere, grazie anche ai numerosi sinonimi e contrari). Dante, nel canto XXXIII dell’Inferno, al verso 80, così scrive: “del bel paese dove ‘l sì suona”. E allora? Già siamo costretti a vederla, la nostra bellissima e difficilissima lingua, sempre più fagocitata dalla lingua inglese per ovvie ragioni di utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, sottesi alle nuove tecnologie, perché deturparla di più, senza una reale, giustificata esigenza? Attendo dibattito.

2)      Una volta per tutte, sarebbe opportuno, come i più già fanno, mettere l’accento su “sé stessa”, “sé stesso” e soprattutto “sé stessi” per non ingenerare equivoci con “se stessi”, forma verbale (cfr. M. Magni, Così si dice Così si scrive, De Vecchi editore, Milano 2003, p. 316). Lo so, fino a qualche decennio fa a scuola si insegnava a non mettere l’accento e molti di noi sono ancora restii al cambiamento, ma quest’ultimo ha le sue ineccepibili motivazioni.

3)      La vexata quaestio del vocativo. Oggi nessuno più mette il vocativo tra le virgole. Niente di più sbagliato. Il vocativo va sempre con la virgola se è a inizio frase, con due virgole se è all’interno della frase. Per non ingenerare ridicoli o spiacevoli equivoci. Es. andiamo a mangiare, nonna: è corretto perché nonna è un vocativo. Invece, andiamo a mangiare nonna: è sbagliato perché nonna diventa accusativo del verbo mangiare. E di esempi se ne potrebbero fare parecchi, ma mi sembra uno zelo superfluo: “A buon intenditore poche parole”.

Intanto, chiedo scusa a tutti se mi sono permessa di fare queste puntualizzazioni da maestrina, ma non è questo il mio tono e il mio intento. Chi ama raccontare o scrivere ha a che fare con le PAROLE. È giusto utilizzarle nel migliore dei modi per evitare dubbi, perplessità, equivoci in chi legge. L’incontro empatico tra narratore/scrittore/poeta con il lettore è molto importante. Questo è il mio modo di pensare e di procedere. E narro e scrivo da una vita nella mia lunga vita. Anche andando controcorrente e ribellandomi alle mode. Anche di tutto questo potremmo parlarne tra noi. Credo che anche “Il Retino” potrebbe aiutarci molto in tal senso. Buon fine settimana. Alla prossima. Angela