venerdì 30 novembre 2018

Il profumo e la dolcezza de "Le piogge" - L'attesa e l'allegria de "I ciliegi"


Mamma mia! Mio carissimo Nicola, sono rimasta senza parole! Durante la serata di presentazione non tutte le tue meravigliose annotazioni mi sono giunte chiare all’orecchio! Ma oggi, dopo aver ricevuto il tuo file, che SPLENDORE!!!! Non riesco a formulare altro. Devo metabolizzare tutto incanto per poterne parlare. Lo farò a breve. Dopo aver postato nel mio blog, in due puntate, il tuo straordinario Intervento. Perché ora è tempo di leggere e rileggere parola per parola, un po' come le ciliegie, una tira l'altra, e ne senti il profumo, la dolcezza, l'allegria, l'attesa e il compimento. il PRODIGIO del loro canto, che era/è ringraziamento e preghiera.
Nicola, che gioia immensa l’altra sera, ma ancor di più stamattina. E non faccio altro davvero che leggere e rileggere per riconoscermi e riconoscerti e riscoprire le antiche radici comuni che fanno di noi quelli che siamo. Con quel pizzico di autenticità, di poesia, di amore per le cose belle, la vita, gli altri... In una sintesi armoniosa, che ci viene da lontano e ci connota. Ed è bello scoprirlo insieme. Saperlo. Ti abbraccio con tutto il mio cuore. Lina

Io ringrazio Lina per questo suo romanzo. Innanzitutto per l’emozione che esso riesce a produrre: in fondo le radici di Lina sono le radici di una generazione come la mia che ha avuto padri contadini, una generazione che oggi può dirsi fortunata per aver vissuto quel sogno dell’infanzia e della giovinezza, per non aver conosciuto la noia, per aver visto la luce scivolare sugli alberi e lungo l’arco del cielo, per aver sperimentato la onestà, la generosità, la dignità, l’amore per la vita, l’amore per gli altri: un tempo cadenzato dal suono della lingua dialettale e come segnato da una dimensione profetica, come intriso da una dimensione umana che sapeva di sudore e di rinunce, di attese e di speranze, di giornate grigie, ma anche di giorni che ti facevano respirare una gioia leggera nell’aria, pregna di un profumo che sapeva di ulivo e di sapone, talvolta sfumante nel fiabesco, giorni segnati nell’anima dal sapersi aprire agli altri e resi luminosi dagli occhi dei nostri padri e delle nostre madri che sapevano parlarsi, gli occhi dei nostri padri instancabili e muti che ci amavano senza parole e gli occhi delle nostre madri che avevano le mani coperte di farina o di schiuma.
E il romanzo  di Lina si fa memoria del cuore, perché la memoria comincia dal rumore di un cuore, e si fa voce dell’anima, ovvero si fa racconto di questo viaggio nel tempo a ritroso, con sequenze filmiche che hanno come campo scenico via Maggiore angolo via De Rossi e il cortile di via Montemar dominato da un maestoso gelso rosso: su questo campo scenico si succedono immagini che hanno il tocco di leggerezza, immagini che man mano che scorrono danno la consapevolezza del nostro esistere e tracciano il filo che delinea una traiettoria esistenziale, mentre ci si dispone alla ricerca di sé e si esalta l’ancestrale armonia con gli affetti più cari.
La casa di via Maggiore: “una casa austera, ricca di scale, di travi a vista, di archi e sottoscala, di inesplorati anfratti” dove riporre provviste di olio, grano, vino.
Il cortile di via Montemar ovvero la casa del gelso e delle rose: l’albero del gelso rosso svettante come metafora della vita nel suo rigoglioso e generoso espandersi per offrire ombra e rifugio, accanto una scalinata in pietre bianchissime con grandi lastroni laterali sormontati da un arco a proteggere ballatoi e verdeggianti fioriere, le rose rampicanti, il pergolato, un tripudio di colori e di profumi in uno spazio che sa di paradiso terrestre.
Sono, dunque, il canto e la memoria a costituire la trama di questo romanzo armonioso e complesso che si fa narrazione di una storia a più dimensioni, ora autobiografia ora diario ora vicende degli altri, una storia narrata con vitalità dirompente e attraversata da luci fosforescenti.
La costruzione narrativa si snoda in pagine di coinvolgente liricità, generate dalla coscienza dei molteplici fili, invisibili quanto tenaci, che uniscono il proprio vivere al racconto che senza soste l’autrice intesse. Lo scorrere della propria vita fa e disfa le varie storie, le loro simmetrie, le loro risonanze, senza il bisogno di inventare nulla, storie che si dipanano come le anse di un fiume, le ramificazioni di un delta, le nervature di una foglia.
Il romanzo si apre alla storia di sé e alle storie degli altri: di Francesca (alta, magra, segaligna e brontolona) che, con suo figlio Michelino (che studiava e insegnava filastrocche) e con il marito Agostino (sempre assente), abitava al piano di sopra in via Maggiore e accudiva una mamma vecchissima confinata in un letto (la sua faccia era cerea come di creta bianca, sempre avvolta in un silenzio surreale); poi di Sabellina, una donna gioviale, con un figlio Vitino che realizza il teatrino di legno e di cartapesta in cui far muovere i suoi burattini e amante del clarinetto, e un marito calzolaio, col suo deschetto scuro e pure sagrestano della chiesa di san Giovanni, è mèst Pèpp du càzz, una macchietta gustosissima; di Annìn- St-ddùzz- dai capelli bianchi scarmigliati, instancabile nel bisbigliare parole sconnesse e nel battere il pugno della destra sul palmo aperto della mano sinistra; delle signorine Lanzisera con i loro dolci e caramelle sul bancone stile liberty e i pettinini d’osso nei capelli; di Janna Sànd- d- r- mmìir-, rubiconda nella sua botteguccia impregnata di forte odore di mosto.
Tutte donne ingenue, ignoranti, semplici, tristi o ciarliere, tutte timorate di Dio: “Sembrava non avessero ansie né dubbi. Vivevano come respiravano. Accettavano la vita così come veniva. Senza ribellioni. Senza ripensamenti. Donne senza tempo. Senza età. Senza storia. Ma sempre pronte a portare sulle loro fragili spalle il mondo, sempre pronte a farsi un segno di croce per propiziarsi Dio per sé e soprattutto per gli altri”.
Sono le donne vestite di nero del nostro romanzo. Statuarie, come lo statuario Luigi u tròmb-  destinato a divenire pure lui “un abisso di silenzio, seduto per terra davanti ad un portone con lo sguardo perso nel nulla e la barba bianca incolta”.
Il romanzo di Lina per tutto ciò non puoi non dirlo un romanzo storico e un romanzo di memorie, multiforme e appassionante, nato dalla consapevolezza di possedere saldamente un bagaglio di esperienze umane e dal bisogno di raccontare la propria vita, di raccontare la realtà.
Ti fa pensare a quei forzieri orientali dai molti cassetti incastrati, dove al più interno si arriva solo dopo averne aperti alcuni secondo un ordine preordinato. E tu finisci preso dal desiderio di continuare ad aprire, di riandare indietro, di frugare, di inseguire visioni di cose che senti come tue, di scoprire vicende di persone che hai l’impressione di averle pure tu da sempre conosciute.
Scorre il tempo che passa: il tempo come misura interna agli eventi narrati, come oggetto di rappresentazione diretta, come tema stesso di riflessione.
Il romanzo di Lina legato al ricordo e al suo impossibile recupero ingloba presenze ed incontri e approfondisce il solco che la memoria scava fra i momenti di un passato felice e un presente che spesso si scopre vuoto e smarrito.

Spetta al tocco leggero della narrazione della rimembranza e alla suggestiva potenza lirica delle immagini con la loro valenza metaforica intensificare e dilatare i sentimenti. (fine prima parte)


domenica 25 novembre 2018

Valeria Rossini, "Le piogge e i ciliegi"


Questo libro è un viaggio nella memoria, ma senza un profilo di assoluta verità perché “niente è come sembra eppure tutto è come a noi appare” (p. 6). Il romanzo scorre come un flusso di coscienza, che Bergson contrappone all’idea della temporalità come successione secondo una linea continua. Se noi ci immergiamo nel profondo di noi stessi, astraendoci dallo spazio, veniamo a contatto immediato con una realtà che è assolutamente qualitativa, mobile e indivisa. Essa è costituita da stati di coscienza che si fondono in maniera da produrre un flusso sempre nuovo e originale, ma la cui eterogeneità è tale che ogni suo momento, ricco com’è del passato e già contenente il futuro, rispecchia a suo modo il tutto. Questa è la durata, che non è riconducibile alle categorie dell’unità e della molteplicità, e quindi nemmeno allo spazio, al numero, alla misura. Lo spazio è omogeneità quantitativa, la durata eterogeneità qualitativa; il primo può essere scomposto e ricomposto secondo leggi, l’altra ha un ritmo proprio, semplice, individuale e imprevedibile. 
Secondo Bergson, dunque, il nostro modo usuale di concepire il tempo come una successione di istanti della stessa durata, basato sul movimento delle lancette dell’orologio, è il frutto di un’operazione dell’intelletto, che “spazializza” il tempo, ossia lo concepisce come un corpo fisico e lo divide in segmenti uguali. A questo tempo della fisica Bergson contrappone un tempo interiore, continuo, indivisibile e irripetibile, che è quello della nostra coscienza, nella quale i vari momenti si compenetrano gli uni negli altri senza soluzione di continuità. “Al di fuor di me, nello spazio, c’è un’unica posizione della lancetta e del pendolo, perché delle posizioni passate non resta nulla. Dentro di me si svolge un processo di organizzazione e di mutua compenetrazione di fatti di coscienza, che costituisce la vera durata”.
È esattamente ciò che accade in questo romanzo, che mentre lega presente, passato e futuro, rifugge da qualsiasi postura nostalgica. Del resto, riprendendo Bergson, “la vita è sempre creazione, imprevedibilità e, nello stesso tempo, conservazione integrale e automatica dell'intero passato”. 
E l’intero passato dell’autrice si coagula intorno alla figura educativa del nonno materno, che ha incontrato prima di ogni altro incontro, prima di incontrare sua madre. E qui, assolutamente in accordo con le moderne teorie degli attaccamenti multipli, l’autrice ritrova questo altro significativo nella linea intergenerazionale.
“Per addormentarmi cantavo, ma gli occhi non si chiudevano. Avevo bisogno della tua voce perché sapevo che sapeva fare la magia di accendere tutte le luci della mia anima e un canto di gioia mi saliva alle labbra prima di sognarti o di prendere forza e coraggio da te. Sempre presente nelle ore delle ansie e dei tumulti” (p. 10).
Raccontare serve a costruire una storia condivisa, da tramandare, da lasciare in eredità, con tutto il peso di ricordi struggenti, a volte dolorosi, che forse proprio per questo, non è possibile dimenticare.
“Perché i miei nipoti e pronipoti sappiano che la loro storia non è cominciata con i giorni conosciuti, ma con tutti quelli ignorati e da altri vissuti prima che loro si affacciassero al mondo. Perché i giovani conoscano la Storia non dai libri, ma da chi ha lasciato orme di sogni e di dolore lungo le strade che oggi percorrono. Orme che hanno segnato lunghe scie traslucide, come bava di lumaca, sui muri della dimenticanza e dell’indifferenza. Lunghe scie negli occhi di chi ha ancora uno sguardo diviso tra ieri e domani. E il passato attraversa il presente per farsi futuro” (p.18).  
Efficacissima l’immagine pedagogica del nonno/padre: paziente, attento, protettivo, tenero, fermo. E della relazione educativa, costitutivamente asimmetrica, in costante equilibrio tra autorità e libertà. “Noi palloncini colorati nell’azzurro. Tu, sapienti mani a reggerne i fili per una libertà ancora da guidare” (p. 50).
Il nonno non aveva titoli di studio, ma sapeva insegnare le parole del rispetto e della cortesia, “le parole gentili che inteneriscono il cuore” (p. 112), contro il degrado sociale, culturale ed educativo che faceva della bestemmia, dell’ingiuria e del pettegolezzo le sue armi vincenti. Parole gentili che Angela avrebbe dovuto rivolgere a suo padre, di fatto un padre assente, alla cui assenza si ribella proprio attraverso le parole, o meglio il rifiuto di certe parole.
“Uffah, con queste parole gentili. Ma perché le bambine devono per forza pensare e dire parole gentili? Che cosa devo dire a babbo? Grazie, prego, per favore?  
- Puoi dire: caro babbo, sono contenta di vederti. «Caro» è una parola bellissima.
- E io non la dico perché babbo non lo conosco. Si dice «caro» a chi si vuol bene.
- E tu non vuoi bene al tuo babbo?
- Non lo so. Alla fotografia sì, ma a lui non lo so, non lo conosco” (p. 291).
Allora come oggi, le parole si perdono nell’evanescenza dell’assenza, ma anche del non detto, dell’invidia e del pregiudizio, nelle strade e in rete.
“Le voci si rincorrevano per le strette strade del paese antico e non avevano mai suono chiaro, parole precise. Le parole sembravano di fumo e di nebbia. Si addensavano e poi svanivano. Parole come nuvole. Voci. Sussurri. Mezze Verità. Molta fantasia. La gente aveva bisogno di credere in qualcosa” (p. 118).
Abbiamo fatto riferimento all’appartenenza. Eccone un ritaglio suggestivo. Nonostante si fosse appena usciti dalle guerre, dalla dittatura e dall’immane tragedia della Shoah, a metà Novecento “c’era una segreta fiducia ancora negli altri, un volersi ancora bene, un sentirsi solidali con chi aveva una sofferenza di troppo, una sorte avversa, un dispiacere, un’anomalia. Nessuno viveva esclusivamente per sé. Nella gioia come nel dolore. Nel pettegolezzo come nell’odio o nel rancore. Non c’era l’indifferenza che striscia subdola per le strade sempre più larghe e sempre più tristi dei nostri giorni. Tutto riguardava tutti nel bene e nel male. Ed era come un appartenersi” (pp. 123-124).
Oltre che sul tema della solidarietà, il passato si discosta dal presente rispetto alla condizione femminile, e al rapporto con la religione. Le donne e Dio.
“Le ricordo, quasi tutte, molto pratiche e molto sole. Ma anche molto ingenue. Ignoranti. Analfabete quasi tutte. Non sapevano. E si accontentavano di non sapere. Quasi fosse normale, giusto così. Erano brave massaie. Semplici. Tristi o ciarliere e tutte timorate di Dio. Attribuivano a Lui ogni calamità, ogni malattia, ogni dispiacere. E si rassegnavano alla loro sorte e alla Sua volontà. Sembrava non avessero ansie né dubbi. Vivevano come respiravano. Accettavano la vita così come veniva ed anche la loro fede era così come veniva. Senza ribellioni, senza ripensamenti.
Ho molto amato quelle donne semplici, rassegnate, forse anche scontente, forse anche rancorose, ignare della problematicità dell’esistenza, ma sempre pronte a portare sulle loro fragili (in apparenza) spalle il mondo, sempre pronte a farsi un segno di croce per propiziarsi Dio per sé e soprattutto per gli altri, per scongiurare un pericolo, la malattia, la morte. Sempre pronte a darsi una mano. Donne senza tempo. Senza età. Senza storia” (p. 141).     
Nella (non)storia di queste donne, il dolore per i troppi figli perduti troppo presto, l’assenza dei mariti in guerra, la “paura di frastuono, di tuoni e temporali, di rombi d’aerei e di sirene”.
Queste donne non sono più tra noi e non sono noi. Ma segnano il nostro passato, la rappresentazione della maternità, lo sguardo materno sul mondo. Ed è questo sguardo materno di Angela che io vorrei condividere con voi, a regalarvi un privilegio che tengo stretto a me da quando avevo undici anni.
Del resto, questo è romanzo aperto alla relazione e all’alterità. Come ogni scrittore sa, non si scrive per sé, ma per gli altri. E questi altri siete voi, cari ragazzi, giovani che non guardano il cielo “Si è perso il cielo. S’ignorano le stelle” (p.165), perché in questa società gli occhi sono rivolti in basso, verso gli schermi dei cellulari.
Angela De Leo, però, non punta il dito contro niente e nessuno, e tanto meno contro di voi, che siete il nostro futuro.
“(giunge il tempo in cui i nipoti ci sono maestri).
È il passato, che è un futuro capovolto, a riproporre l’amore ricevuto da restituire con amore. Nessuno muore del tutto, dicono e forse è vero, fino a che ci sarà qualcuno a ricordarlo con amore”.
Per questo, ricordateci con amore.
                                                 Valeria Rossini
È tutta qui la professionalità di Valeria Rossini, docente di Pedagogia Sociale presso l’Università degli Studi di Bari. Ed è una professionalità intrisa d’amore, come si è potuto notare dalla lettura di questa sua Relazione conclusiva dell’Incontro che abbiamo avuto, io e il mio amico poeta Nico Mori, con lei, accogliente e disinvolta padrona di casa, e con tantissimi studenti, accorsi davvero numerosi nell’Aula V del terzo piano dell’Ateneo barese. 
E grande è stata la nostra gioia, mia e di Nico, di ritrovarci “giovani” tra i giovani a parlare di un “uomo straordinario”, mio nonno, che sapeva sognare, ridere, scherzare, raccontare fiabe e favole, giocare (ed erano tristissimi tempi di guerra) e, soprattutto, sapeva amare. Di qui la stura a parlare della importanza dei sogni e delle parole, che trasformano ogni esperienza in conoscenza, fondamentale quest'ultima per la conquista della libertà di scegliere, di realizzarsi al meglio delle personali capacità, e di guardare con fiducia e rinnovata speranza al futuro. 
Catturanti le parole di Nico. Perlopiù autoironiche le mie, per sollecitare un sorriso di umana comprensione, in una quasi esaltazione della imperfezione che ci offre la possibilità di essere “dissonanti” e, quindi, davvero “unici” in un mondo che tende ad omologarci, impigliandoci e imbrigliandoci nelle mode, nei modelli, nelle regole del pensiero “unico” e “convergente”.
Ebbene, Valeria ha sintetizzato magnificamente tutto questo, facendo costante riferimento al libro, con la scelta quanto mai oculata di alcuni significativi brani da leggere, per focalizzare il rapporto d’amore e di protezione di un nonno/papà nei riguardi delle nipotine a lui e alla nonna affidate, e un continuo ricorso alla esperienza educativo-didattica che i ragazzi stanno vivendo con lei, con grande impegno ed entusiasmo, sfiorando “a volo d’angelo” gli importanti temi dell’alterità e della relazionalità a sempre più vasto raggio, dei vari stili educativi e del necessario rapporto empatico con ciascun allievo da parte di “insegnanti” (coloro che lasciano il segno) lungimiranti e dall'accogliente “sguardo materno”. Di qui le delicate tematiche della genitorialità, della costante presenza della madre per la crescita serena dei figli. Del distacco e del dolore.
Una Relazione, dunque, da leggere attentamente per trovarvi numerosi spunti di riflessione, offerti in forma leggera, ma anche con notevoli riferimenti colti, e con quella grande “sapientia cordis”, che fa parte dello stile di vita e formativo dei veri “maestri” (coloro che sono tre volte di più: magis-ter).
Grazie, Valeria, per avercelo dimostrato. Con le “atmosfere stellari”, da cui siamo stati avvolti, in una fascinosa “con-vivenza” per due meravigliose, entusiasmanti ore.
                                                                                              Angela  


sabato 24 novembre 2018

Rita D'Amelio e il suo "atterraggio morbido"


Ieri, 23 novembre, è stata per me una giornata particolare. Sono andata di mattina a presentare il mio romanzo ai tantissimi studenti di Pedagogia Sociale, riuniti nell’aula V del terzo piano dell’Ateneo (Università degli studi) di Bari. Invitata dalla docente, titolare di Cattedra, la professoressa Valeria Rossini, mia alunna circa trent’anni fa. E accompagnata, per dialogare insieme sul mio libro, dal mio carissimo amico, poeta e scrittore di grandissimo impatto emotivo, Nico Mori.
È stata una mattinata fantastica. Ricca davvero di magia.
Ma, subito dopo mezzogiorno, all’uscita su via Crisanzio, ho notato un necrologio, affisso mestamente sul massiccio portone dell’Università. Annunciava la morte della prof.ssa Rita D’Amelio, docente di Storia della Letteratura dell’Infanzia nella Facoltà di Pedagogia e di Materie Letterarie (anni Sessanta-Novanta) dell’Ateneo barese. Studiosa appassionata e infaticabile, scrittrice colta e raffinata, docente attenta e didatticamente ineccepibile per circa un trentennio.
Ho provato un grande dolore. Perché le ero/sono molto affezionata.
Condivisi con lei, Daniele Giancane, erede della sua Cattedra, e Angela Danisi, per un paio d’anni, il piacere di esserle accanto, per quel minimo che potessi fare come volontaria, nella sua infaticabile opera didattica con i suoi numerosi studenti.
Rigorosa con i laureandi, era amabile e tenera con tutti noi. Desiderava che la chiamassimo “zia Rita”, creando nell’Istituto un clima affettuoso e accogliente.
Alcune volte si faceva da me accompagnare in giro per Bari, per delle compere, e persino in banca per alcune delicate operazioni. Dandole il braccio, mi sentivo orgogliosa per la sua stima e fiducia. Sì, si era instaurato un bellissimo rapporto di dolce complicità tra noi. Ci sentivamo spesso anche per telefono, soprattutto quando andò in pensione. Sentivo la sua gioia appena era certa della mia voce.
“Tesoro”, mi salutava, “sei tu?”.
Poi, per via di una incipiente ipoacusia, di cui si rammaricava e si lamentava, divenne diffidente. Chiudeva il telefono senza ascoltare. Persi la sua voce e il suo tenerissimo affetto. Non ebbi più il coraggio di chiamarla, avvertendo l’inutilità del gesto, che ormai le procurava solo ansia. Ne ero certa. E di lei non seppi più nulla.
Da lei e attraverso i suoi libri, però, ho imparato molto. E per questo le sono grata.
Ho letto più volte, in particolar modo, “La lettura come esperienza”, uno dei suoi scritti più illuminanti sulla scelta dei libri da proporre, durante l’intero arco dell’età evolutiva, ai bambini, fanciulli, ragazzi, adolescenti, fino alla prima giovinezza.
Affermava che la fiaba era per i bambini “un atterraggio morbido” nel mondo della realtà. Ed io trovavo efficacissima e bellissima questa metafora che ho fatto un po’ mia, nei tanti anni di “incontri didattici” (e anche amicali) con le mie numerosissime “allieve” (con qualche “allievo”), essendo io “preparatrice” per i Concorsi di reclutamento nella Scuola di ogni ordine e grado per oltre trentacinque anni.
Oggi, mi piace pensare, non senza malinconia e con grande dolore, al suo “atterraggio morbido” tra le stelle.
Che la loro luce possa illuminare il tuo nuovo cammino, zia Rita carissima!
Ed è con questa certezza che mi rimani nel cuore…    

martedì 20 novembre 2018

Tre poeti da leggere


Oggi, con questo cielo grigio e con la pioggia che ha danzato per tutta la notte e ancora non è stanca di battere con i suoi sandali d’argento sui lucernari piangenti e sui tetti rossi della mia mansarda, ho voglia di tuffarmi nella poesia. Compagna della mia vita più della pioggia. E mi piace farlo con i versi di tre poeti non molto conosciuti, ma da conoscere perché mi hanno regalato l’incanto delle “cose” vere, la pienezza della parola che dice, il respiro di un cielo che sa essere di tanti colori nello spazio infinito che tutti ci comprende…



A RUBARMI IL RESPIRO

Oltre il fiume
lontano
sul punto dell'alba
lasciai le pazze corse
in discesa.

Vaghi riflessi
di rondine
e il cuore scoppiava...
L'ala sulla pelle
bruciava le tempie.

Non c'era, in quei giorni,
tra l'erba,
profumo di fiori
ma caldi capelli
a rubarmi il respiro.

(Gianni Brattoli)



Splendido questo titolo che sa di emozione non solo a fior di pelle ma profonda come la vita che ci manca se ci viene meno il respiro. Non a caso, la poesia comincia con “Oltre” che è già uno spazio dell’anima a conquistare un’“alba” che rammemora al poeta “le pazze corse in discesa” nella primavera dei suoi frementi anni, quando “il cuore scoppiava…” e l’ala della rondine (meravigliosa metafora degli adolescenziali voli) nello sfiorare la pelle, in una sensualità appena scoperta, “bruciava le tempie”. Una sensualità avvolgente e frenetica, che non si accontentava della bellezza di prati fioriti, ma si esaltava tra “caldi capelli” di fanciulla o di donna a… “rubargli il respiro”, lasciandolo senza fiato e come in sospensione tra terra e cielo, tra vivere e morire. Accade, sì accade, con le emozioni che ci penetrano profondamente ed è la prima volta e ci lasciano un segno indelebile per sempre…


(Gianni Brattoli, autore dai molteplici interessi culturali, ha esordito nel dicembre 2012 con il romanzo TERRA ALLA TERRA (SECOP edizioni), che ha ricevuto uno straordinario consenso da parte della critica. Il secondo romanzo “A metà della notte” (sempre della SECOP edizioni) è stato pubblicato nel 2016, con rinnovato successo. Ora sta scrivendo il terzo romanzo che costituirà la trilogia “noir” sulla “violenza”.
Autore di saggi e poesie non ancora pubblicati, è impegnato con l’Associazione culturale FOS in iniziative tendenti ad avvicinare i giovani alla lettura ed al recupero della memoria storica.




GUARDAMI

Guardami
dove gli occhi non hanno punto di fuga,
dove la prospettiva insegue il vento
e si perde nei nidi d'aquila,
sulle cime,
dove tu sei stato.
Guardami
nelle iridi di bosco
e rosmarino,
rifugio di farfalle della luce.
Iridi mai sfuggenti
anche se si specchiano
in pozzanghere immonde
di dolore.
Guardami negli occhi
sorriso e pianto dei pensieri,
fuoco del dire e del tacere
e - se sono chiusi -
agognato sollievo per i baci.

(Rita Vecchi)



Invocazione tenera e intensa all’uomo amato, con anaforico ritmo dolente e accorato, perché s’immerga con lo sguardo nei suoi occhi che “non hanno punti di fuga”, tanto sono sinceri e cristallini, offrendosi in tutto il loro volo di aquila, che guadagna l’azzurro, verso le alte cime dei nidi, non sconosciute ai passi/occhi del loro amore. La reiterata invocazione è invito ad abbandonarsi con fiducia nel suo sguardo che sa di bosco e profuma di rosmarino e dà rifugio a “farfalle di luce”. Meravigliosa metafora che è tutta rivolta al fremito del luminoso candore che vibra nell’anima e si riverbera negli occhi della poetessa, che pure avverte tutta l’atrocità del mondo nel fango che non riesce a vincere. Pure, ad occhi chiusi è più facile, come Endimione sul monte Latmos. Per trent’anni dormì, ignorando le brutture del suo tempo ingrato, conservando così intatta la sua giovinezza.
Rita chiede soltanto un “agognato sollievo per i baci”.
E tutto diventa più chiaro, più semplice, più vivibile. Oltre il dolore e il pianto.



Rita Vecchi è nata a Novara il 27.02.1962.
Dopo la maturità scientifica, conseguita nel 1981, s’iscrive alla Facoltà di Scienze Biologiche dell’Università degli Studi di Pavia, dove consegue la Laurea nel 1985.
Dal 1987, anno del suo matrimonio, vive a Druogno, in Valle Vigezzo.
Dallo stesso anno, insegna Biologia presso vari Istituti Superiori di Domodossola.
È madre di un figlio, Giovanni, nato nel 1988.
Scrive per passione da quando aveva tredici anni (1975).
Non ha all’attivo alcuna pubblicazione, ma alcuni suoi scritti sono stati pubblicati su varie riviste culturali.




PRIMA DI OGNI COSA

Le mie braccia tra i rami di ulivo
sorprendono un battito d’ali:
e risuona l’azzurro.

Le incertezze del mio essere
trovano misericordia
nel profumo dei campi.

Prima di noi, prima di ogni cosa,
lo sa il sole, lo sa la rosa,
lo sa il vento che mi scompiglia,
lo sa il vento che mi somiglia,
lo sa l’angoscia che mi incalza,
lo sa la luna che lenta s’alza;

solo io non so e mi distendo
come antiche lenzuola, sull’erba.

(Alessandro Lunare)



Una via di mezzo questa poesia di Alessandro Lunare tra quella di Gianni Brattoli e i versi di Rita Vecchi. Una via di mezzo tra terra e cielo, tra natura e sentimento, tra un dinamismo d’ali e una profondità di sguardi che penetra l’anima e si fa sentiero verticale alla ricerca di Dio. In tutte e tre la natura regna sovrana e si fa misura del tempo e misura della nostra umanità, spesso dimentica della bellezza del Creato e del mistero che ci avvolge e ci rende mortali e fallibili in quanto uomini. 

La poetica dello sguardo ha un fervido sapore di scoperta della primavera nei campi e nella vita in Gianni Brattoli, il poeta con più anni, che si nutre di ricordi per riconoscersi in quella giovinezza che nel cuore tarda a morire e che si immortala d’amore, appassionato e vitale. 
In Rita Vecchi è uno sguardo più scoperto, fisico e psicologico, persino metafisico. Uno sguardo invocato, che salva e protegge nel riflesso di due occhi che la guardano con amore, quasi fosse l’origine del mondo e dell’innocenza nell’anima che nel mondo attuale non riesce più a riconoscersi.


Nei versi di Alessandro Lunare è meno scoperto, ma c’è nella materica presenza dell’ulivo che le sue braccia serrano tra rami d’ali a raggiungere l’azzurro incanto del cielo.
Splendidi i versi “Le incertezze del mio essere/ trovano misericordia/ nel profumo dei campi”. Tutti i sensi sono acuiti dalla poesia del dubbio e dell’assenza di senso che per un attimo il poeta percepisce in sé. Ma la natura gli va incontro con la sua bellezza e la sua millenaria sapienza. È nell’uomo, che non sa, il mistero. Perché non ricorda l’ancestrale eden di ogni perfezione. Niente è nascosto alla rosa né al vento o alla luna. Persino alla sua angoscia di essere pensante non sfugge la verità del creato che, però, si piega alle elucubrazioni sottili del pensiero. Mentre basta arrendersi alla semplicità dell’Essere per scoprirsi parte del Creato nella contemplazione, distesa “come antiche lenzuola, sull’erba”. Altro verso che conclude il canto con una metafora bellissima su una intimità che sa d’antiche stagioni della mente e del cuore distese sull’erba che rinasce ad ogni primavera senza chiedersi il perché. Lo sa!
Ma purtroppo anch’io so di non sapere!
Per fortuna il cielo! Con un accenno di luminoso arcobaleno che fiorisce di speranza sull’arco dei nostri giorni sempre/mai uguali.



Alessandro Lunare è nato nel ’66 ed è laureato in Giurisprudenza. Vive a Bari in Puglia. Coltiva da sempre l’amore per la poesia, pubblicando di volta in volta i suoi versi, i suoi racconti e articoli su riviste letterarie, antologie e quotidiani. È risultato vincitore in vari Concorsi di poesia. Ha pubblicato raccolte di poesie e racconti.
E il saggio Una metamorfosi.

sabato 17 novembre 2018

17 novembre: la pioggia batte ai lucernari


E' una giornata di pioggia a rendere triste questo cielo d'autunno. Pure, la pioggia mi piace. Spesso colora i miei giorni di rinnovate fantasie. Amo gli ombrelli e le pozzanghere. Amo il cielo capovolto in ogni specchio d'acqua che la pioggia disegna lungo le strade e tra i percorsi del cuore. 
La pioggia è l'azzurro, coperto di nuvole, che non si dà per vinto e scende per farsi incontro di carezza sulle mani, di allegria tra i capelli, di suono e canto tra i pensieri, di danze e balli tra schizzi d'acqua a rendere lucenti le scarpe, dimentiche di fango e di malinconie. Di solitudini. Spesso ignorate da altre solitudini. Spesso condivise. Ma la pioggia le lava. Le salva. Le irrora di imperdibili sentieri d'antica innocenza. E forse di perdono. Aiuta a pensare, la pioggia. Aiuta ad afferrarsi a quei fili di cielo e... a volare su sempre più su... fino a forare le nuvole e a riscoprire l'azzurro e il sole o la luna e le stelle... per farne di nuovo un pieno di raccontati giorni da raccontare ancora. 
Di insperata speranza...
"Non dormo. Soffro d’insonnia da sempre. Ricordo che da bambina contavo i battiti del cuore nel buio che mi faceva paura e non sapevo andare oltre le dita delle mie manine e allora ricominciavo perché i battiti erano tanti e le mie mani erano solo due e non riuscivo ad andare oltre il dieci. Tu mi avevi insegnato a contare sulla punta delle dita, dapprima per indicare i miei anni: uno due tre… poi, per sapere il numero dei giocattoli: uno, la bambola; due, il cavalluccio; tre, il ferro da stiro; quattro, la cucina; cinque, il pianoforte…
Prendevi le mie manine e aprivi ad ogni numero un ditino perché fosse più semplice contare, perché fosse più chiaro il numero raggiunto. Non mi potevo sbagliare. Il pugnetto chiuso era il numero zero. Poi, ecco tirare fuori il pollice e poi l’indice e poi il medio, l’anulare e il mignolo
(cùssə ad arà cùssə a spruà cùssə ad accattà rə ppànə cùssə ad accattà rə mmìrə e cùssə? Friulì friulà friulì friulà…)
(questo ad arare questo a potare questo a comprare il pane questo a comprare il vino e questo? Friulì friulà friulì friulà)
e mi sfregavi il mignolino tra le tue dita e io imparavo e ti sorridevo appagata e mai stanca di ripetere il gioco per apprendere di più e meglio…
Non dormivo e gli occhi in quel buio centuplicavano i fantasmi che si assiepavano sul mio letto e occupavano ogni angolo della mia cameretta, togliendomi il respiro. Per addormentarmi contavo, ma gli occhi non si chiudevano. Avevo bisogno della tua voce perché sapevo che sapeva fare la magia di accendere tutte le luci della mia anima e un canto di gioia mi saliva alle labbra prima di sognarti o di prendere forza e coraggio da te.
                     Sempre presente nelle ore delle ansie e dei tumulti 
Non così quando pioveva. Allora era il suono cadenzato della pioggia a cullare i miei occhi. E la tua voce era un’eco che danzava tra le gocce del cielo, che veniva giù, e i miei pensieri colmi di te. Sempre così la pioggia. Anche oggi che non sono più bambina.
Non dormo ma la pioggia mi calma. Mi porta da lassù fili d’acqua cui aggrapparmi per non naufragare e per tentare ogni volta la risalita. Mi porta la tua voce. Che mi offre un ombrello sempre più rabberciato, ma sicuro di rifugio e protezione.
                                  La pioggia m’intenerisce e mi rallegra

La pioggia ha un vago segreto di tenerezza
una sonnolenza rassegnata e amabile,
una musica umile si sveglia con lei
e fa vibrare l'anima addormentata del paesaggio.

È un bacio azzurro che riceve la Terra,
il mito primitivo che si rinnova.
(…)
È l'aurora del frutto. Quella che ci porta i fiori
e ci unge con lo spirito santo dei mari.
Quella che sparge la vita sui seminati
e nell'anima tristezza di ciò che non sappiamo.
La nostalgia terribile di una vita perduta,
il fatale sentimento di esser nati tardi,
o l'illusione inquieta di un domani impossibile
(…)
E son le gocce: occhi d'infinito che guardano
il bianco infinito che le generò…
(Federico G. Lorca, stralci della poesia “Pioggia”)

Piove. Il cielo viene giù e, come da bambina, sporgo le mani oltre i vetri, che mi portano l’autunno in casa, per afferrarlo nelle gocce trasparenti e leggere che raccontano forse storie di lacrime o solo pioggia che cade, sussurro di parole lontane. Ripropongono un tentativo di rossoazzurro perpendicolare che è più un desiderio che un colore. Cadono gocce di cielonuvole sulle mie labbra assetate e sul viso proteso al fresco incanto. Cadono sul giallo bruciato del giardino che è un colore vero d'alberi di foglie di siepi. Fanno salire dal basso profumo di terra... ricordo lontano... il cortile... un inno di gelsi rossi e di rose che mi esalta e mi rincuora.
La pioggia, a volte, può essere Musica d’arpe con mani d’angeli, Ritmo di marce di bimbi nel gioco del loro andare alla conquista del mondo, Voce antica in un richiamo d’altro tempo oltre il tempo
(cielo a pecorelle pioggia a catinelle… rosso di sera bel tempo si spera rosso di mattina la pioggia s’avvicina… ed erano modi di dire
rosso di sara beltempo si spara… e diventava un dramma
quando piove e tira vento fra’ martin resta in convento… ed era racconto
marzo pazzerello se c’è il sole prendi l’ombrello… già proverbio con avvertimento… non saltare sotto la pioggia ché ti bagni tutta… ansia e preoccupazione e ammonimento…
pio-ve pio-ve acqua di limo-ne… quasi un gioco quasi cantilena quasi voci di strada che entravano in casa e allagavano stanze e contagiavano allegria…
e piove piove sul nostro amor… fu canzone e palpito del cuore e fu addio…)
Mi piace la pioggia. Mi fa sentire meno sola. Accompagna la mia nostalgia. S’intrufola nella malinconia degli occhi e nei terrapieni del cuore a fatica costruiti. Poi tace e le stillanti foglie brillano di diamanti e rubini che il cielo sparge a piene mani. Splendore di luce rossodorata, ora che l’autunno si frantuma nel canto di questo tramonto… e il passato ritorna a legarmi ai giorni andati che mai più saranno e che pure sono...
Sempre così la pioggia... sempre così i tramonti pennellati d’autunno in una follia di venti e di foglie ad avvolgere l’anima...
                               Nella pioggia io ero... sono... rinasco..."
 (ne è testimonianza l'incipit de "Le piogge e i ciliegi", SECOP edizioni 2018)

mercoledì 14 novembre 2018

"Le piogge e i ciliegi" di Angela De Leo


Apro questa lettura del romanzo di Angela De Leo - anzi, del quasi romanzo, come lei stessa lo definisce - con un’analogia con la pittura, materia a me congeniale a cui farò riferimento anche in seguito. E mi sovviene Edouard Manet che spiegava a un’allieva, impegnata a osservare i dettagli per la realizzazione di una Natura Morta, che ella avrebbe dovuto, invece, mettere sulla tela solo l’“Impressione” ricevuta dagli elementi che la componevano. Non poteva fermarsi di certo a contare gli acini di un grappolo d’uva o quelli delle scaglie di un salmone, ma coglierne, nel primo caso, le sfumature ambrate, nell’altro, le tonalità rosa argento.
Anche per la nostra autrice vogliamo descrivere l’“Impressione” che si riceve chiudendo il suo libro, perché non riusciremmo a raccontare le singole pagine che lo compongono, che sono tante, né a ricordarne i dettagli. Ci rimane alla fine un’intensa sensazione di Profumi, Sapori, Suoni, Voci. Il libro cattura cuore e sensi e pare attraversato da un’ispirazione continua, quasi una sorta di trance emotiva che ci accompagna per mano lungo il percorso di un’esistenza, un viaggio attraverso il Tempo in cui domina e si materializza una figura di uomo che potremmo definire, invece, senza Tempo: nonno Mincuccio. E non perché quest’uomo non vivesse il suo tempo. Anzi. Lo viveva così intensamente da riuscire a fare di ogni attimo un’esistenza. Ma, nello scorrere delle pagine, si ritrova la sua e la nostra contemporaneità. Non si spiegherebbe sennò il dipanarsi di una vicenda umana in cui la scrittrice lo riconosce protagonista. Sempre. Nonostante lei cresca e si trasformi da bambina a donna, nonostante il mutare della Società, delle Stagioni, del Costume. Di un’Epoca. Perché era un uomo di luce e di amore: un uomo straordinario, come ella ama definirlo. Ha segnato la sua formazione umana fino a fare di lei una donna altrettanto straordinaria, una poetessa e una scrittrice che tutti oggi conoscono, stimano e amano.
Non so se questo libro sia un romanzo epistolare. Non credo. In realtà potrebbe esserlo perché è una lunga lettera ad un unico destinatario: un ininterrotto canto d’amore verso questo nonno che non è mai andato via. Resta e vive dentro di lei, oggi come allora. E lui le risponde, in una sorta di dialogo solo apparentemente muto, che si trasforma invece in uno spazio interiore della De Leo, uno spazio da nonno Mincuccio intensamente abitato.  
Ciò che accompagna questa narrazione è l’ambientazione bucolica. Lo scenario è pressoché costante: i campi, la natura, il passaggio di riti e di memorie. E proprio perché lo scenario resta invariato, è ancora più evidente lo scorrere del tempo.
E come non associare questo lungo racconto di vita all’opera di Monet, “La Cattedrale di Rouen”? (Ancora una volta l’analogia con la pittura riaffiora con forza).  L’opera è una fra le più significative della Corrente Impressionista. Monet riprende per ben 50 volte lo stesso soggetto, la Cattedrale, sempre dallo stesso punto di vista, in diverse condizioni atmosferiche e in diversi momenti della giornata, dall’alba al crepuscolo. Cosicché, accostando alcune tele in successione di tempo, si percepisce nettamente lo scorrere delle ore e, in altri casi, delle stagioni.
Ed è così anche per il romanzo di Angela De Leo. Lo scenario campestre fa da sfondo al fluire lento del tempo; un tempo fisico che proprio la civiltà contadina conosce più di chiunque altro. Perché il tempo della campagna è segnato da riti e gesti ripetuti - come la semina, la potatura, il raccolto - dal succedersi e il mutare delle stagioni, da una natura che si addormenta e si risveglia ogni volta nello stesso modo. E gli esseri umani, invece, cambiano e invecchiano. Poi, fisicamente lasciano questa vita, così come il nonno ha lasciato la scrittrice. Solo fisicamente, però.  
Questa figura di nonno “straordinario” indossa una triplice veste d’amore. Non solo perché i nonni, come sappiamo, sono genitori due volte: amano i propri figli e, ancora più teneramente, i figli dei figli. Qui c’è di più. Il nonno ha rivestito fisicamente il ruolo di padre. Tanto che lei lo chiama in modo più familiare, papà, mentre chiama babbo suo padre, sostantivo più “estraneo” al linguaggio della sua terra. Cosicché, il teorema si compie.
Nelle pagine troviamo tanti spunti di riflessione che potrebbero dare origine a discussione e approfondimento. Una fra tutte: la preghiera dei fedeli recitata in latino, forse non compresa ma proprio per questo suggestivamente e intimamente sentita. In chiesa, “[…] i numerosi credenti, molti dei quali non capivano assolutamente nulla, […] accorrevano […] per ascoltare la “Parola di Dio”, anche se per lo più incomprensibile. […]”, così scrive l’autrice.  
Non mancano pagine divertenti, particolari curiosi - che inizialmente ci divertono ma che ci fanno anche riflettere - come una caratteristica fisica frequente nelle donne di quel tempo (compreso le suore): i baffi. Particolare buffo ma rivelatore di un’epoca in cui la Natura era rispettata in tutte le sue forme; perché allora tutto era più semplice e le donne non conoscevano cerette, lampade, estetiste, creme, unguenti, lifting, silicone. Avevano una loro bellezza naturale che era data dall’unicità del proprio aspetto, dalla mancanza di omologazione a un cliché che fa apparire invece oggi le donne tutte uguali, apparentemente senza difetti ma in realtà ne evidenziano uno: lo stereotipo.
E poi, le partenze, il distacco dalla propria “famiglia di fatto” in cui viveva col nonno e la nonna, per ritornare a vivere nella famiglia naturale.  Un binario affettivo dilaniante che le crea una crisi esistenziale profonda. Lei che, a un certo punto, non sa più a chi appartiene. E nel suo ritorno finalmente nella casa del nonno le viene restituita la sua vera famiglia ma, soprattutto, la sua vera identità. Non senza lacerazioni affettive. Perché lei non sa più se gioire per quello che ritrova o soffrire per quello che lascia.
Ma, di nonno Mincuccio un particolare domina la scena: le sue Mani.
E, ancora una volta torna prepotente un’immagine pittorica, l’opera postimpressionista “I mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh. Un’opera che racconta in modo forte e suggestivo il significato del lavoro dei campi.
«Ho cercato di sottolineare - scriveva Vincent al fratello Theo - come questa gente che mangia patate al lume della lampada, ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto e quindi parlo del lavoro manuale e di come essi si siano onestamente guadagnato il cibo».
Ma le mani di nonno Mincuccio sanno, oltre che di lavoro nei campi, anche di laboriosità artigiana, di tenerezza, di delicatezza, di culla. Mani che accendono fascine, sbucciano mandorle, raccolgono gelsi rossi, allevano tortore e colombi, spargono mangime, puliscono la colombaia, preparano il “pastone” con la crusca, costruiscono recinti con chiodi, tenaglie, pinze, coltivano fiori. Fino alla delicatezza estrema del gesto di eliminare le spine dalle rose prima di offrirle.
Un altro tema caro alla Nostra è la determinazione nel difendere la propria femminilità, sentirsi e dichiararsi fortunata di essere nata donna. Tutto il significato è racchiuso nell’episodio in cui ella racconta che il suo babbo, per la felicità di avere finalmente avuto il figlio maschio che tanto aveva desiderato, “[…] tra un brindisi e l’altro sfidò, in una gara all’ultimo bicchiere, Bacco che gli sorrideva esaltato, a cui lui rispondeva inebetito e ubriaco. Bacco vinse alla grande.[…]”…
“[…] Io mi congratulavo ancora e ancora con me stessa perché ero nata donna e non avrei mai bevuto e fumato e non mi sarei mai resa così ridicola. ‘Meno maaale’, mi dicevo, ‘meno maaale!’. (Pensiero ricorrente nella mia vita di donna convinta di essere troppo fragile per affrontare il mondo con gli attributi che gli uomini vantano di avere) […]”.
Mi piace, a questo punto, citare una pagina meravigliosa del romanzo dedicata a questo tema:
“[…] (A me piaceva la femminilità:
orchidea fragile e bellissima. Teneramente dischiusa alla vita e all’amore.
A me piaceva la femminilità,
racchiusa nella porpora della rosa appassionata e imprendibile nel suo breve fiorire e impallidire in una cascata di petali esangui.
A me piaceva la femminilità:
morbidezza sfacciata del rosso tulipano, sorriso tremulo di tenera ironia al vento di maggio.
A me piaceva la femminilità:
sensuale allegria dei papaveri, esili e delicati nelle loro corolle simili a rosse labbra dischiuse ad ardenti baci. […]”
Insomma, nel  libro “Le piogge e i ciliegi” c’è tutta l’anima poetica di Angela. Forse possiamo affermare, senza esitazioni, che è una lunga poesia orizzontale. 

                                        Rosalba Fantastico di Kastron 

Cosa aggiungere a questa splendida Relazione della straordinaria Rosalba Fantastico Di Kastron, una Donna poliedrica e dal multiforme ingegno, poetessa, scrittrice, attrice e regista di teatro, nonché amica carissima e ottimo critico letterario? Sono rimasta davvero senza parole nell'ascoltarla domenica scorsa, nella Masseria Carrara del '700, dove con il compagno Franco Leccese e la generosa e sempre presente amica Adele Pulice Lozito, ha organizzato, in un'atmosfera bucolica di rara bellezza, un pomeriggio-sera amicale per presentare il mio "quasi romanzo", accolto dal numeroso pubblico con corale allegria e commozione, tra canti e bicchieri di vino novello ad accompagnare squisite pietanze del tempo che fu. E il lettore, attento e colto, non potrà che condividere con me l'incanto di quanto Rosalba è andando ricamando con le parole, riproponendo, in riferimento ad alcune mie descrizioni e pagine, le atmosfere, ravvisate, per personale competenza e passione, in alcuni quadri di Manet, Monet e Van Gogh. Poi, le profonde intuizioni e riflessioni su legami affettivi, distacchi, ritorni e addii; oppure, sull'evolversi del tempo in sintonia con la maturazione della co-protagonista, la scrittrice, all'ombra protettiva e tenere di suo nonno/papà, un uomo senza tempo, perché ancora vivo e presente e salvifico nel suo cuore.
Grazie infinite, mia grande grande amica!

venerdì 9 novembre 2018

Tra la vita e la morte, il cielo


Immenso. Intimo. Spietato. Pietoso. Dilatato all’infinito. Piccolo quanto il quadrato azzurro del lucernario sul mio letto. Non ha strade il cielo. Né spine né rose. Di giorno ha il sole. Luce e calore. Di notte ha le stelle e un mistero di luna. Ma le stelle come i sogni muoiono ad ogni alba. E nell’alba si accende un’allegria che si fa speranza per il nuovo giorno. Ma il giorno insegue presto il suo tramonto. E la notte sopravviene, invasa da una malinconia di luna nuova e dal brulicare delle permanenti stelle. Tentiamo di contarle, le stelle. Ci illudiamo di poterle contenere negli occhi, di afferrarle col retino dei desideri, il nostro acchiappasogni, perché nella notte ci facciano compagnia, illuminino il buio, mentre da qualche altra parte, nell’universo, sono già spente.
È come imprigionare tra le dita i desideri e vederli, nostro malgrado, scivolare via, già colmi di illusioni deluse.
È un’ombra di cielo il cielo senza stelle. Una parvenza di cielo il cielo senza sogni. E i desideri, che dalle stelle prendono il nome (de-sidera), si tingono di colori già spenti. Come la stessa vita senza sogni, senza desideri.
Ma c’è chi sa accendere di luce anche un cielo senza sogni e senza stelle. E far rinascere i desideri delusi, spezzati, in quell’ombra di cielo, sagomato, coperto di nuvole, definito da terrazzi, e finito in precipizi di buio e di fango. Di pietre, detriti, buche d’asfalto più pericolose dei buchi neri a divorarlo, il cielo.
Senza più mistero né allegria.
C’è chi si copre gli occhi per non vedere lo scempio del cielo, ma spia attraverso le sottili fessure delle dita le sottili lamelle di sole a dare un segno di luce, un senso obliquo o verticale al cielo.
È un cielo che si sfoglia come un fiore, in un ricamo di intenzioni, di domande e risposte attese, quasi un amore che attende conferma. Un ricamo di giorni come un calendario che si apre alla vita.
 Ma… non è un ricamo d’ombre e di sole la vita?
Apparentemente semplice, la vita, come respirare sotto questo quadrato di cielo, che imprigiona il tempo. Tutto qui. Non ci sono orizzonti o respiri altri.
Apparentemente complicata, la vita, quasi una fiaba tra bene e male, con inevitabile lieto fine: “E vissero tutti felici e contenti”.
Ma la fiaba vera della vita è un sole allo zenit che cancella le ombre solo per qualche minuto appena. Poi, ecco di nuovo l’ombra ad inseguire invano il sole per dissolversi nel suo splendore.
Occorre cogliere l’attimo quando non ci sono le ombre ad offuscare il blu del cielo, il verde dei prati, l’azzurro del mare. A rendere temibile e insidioso il bosco dei nostri passi lungo i sentieri non battuti della vita.
Occorre vivere le emozioni quando il sole col suo splendore immacolato è allo zenit. Quando anche tu tocchi il punto più alto del cielo e ti sembra di sfiorarlo con un dito.
Quanto complicata la vita!
L’attimo del sole allo zenit è passato e tu sfiori soltanto un’illusione. Il cielo è sempre oltre. Il tuo attimo non ha imprigionato il cielo. Né l’amore. Il cielo, come l’amore, rimane sempre più su.
E i nostri occhi stupiti stanno a guardare il cielo, con le sue luci e le sue ombre, con i suoi giorni e le sue notti. Con il suo sole e le sue stelle. E un mistero di luna a mescolare le carte… Esaltazione. Disperazione. Progetti. Ricordi. E sogni che fanno parte del cielo e non sono cielo, fanno parte del cuore e non sono cuore, fanno parte della mente, ma non sono la mente.
Fanno parte della vita, ma non sono la vita.
Perché la vita non t’appartiene.
Tra la vita e la morte uno scintillio di luce allo zenit del cielo…

mercoledì 7 novembre 2018

Il miracolo dell'eternità nel grembo di una donna


La VITA si mantiene in vita grazie alla donna. Il miracolo dell’eternità nel grembo di una donna. E nel cuore che batte di un bimbo, che non sa ancora la luce.
Maternità: un lievitare di cellule vestite di speranza. L’amore che bussa alla vita e chiede di nascere e rinascere. Dal non essere all’essere: questo il miracolo della vita. Deflagrazione di un inizio che prorompe in miliardi di possibilità, in altrettanti possibili percorsi con trame infinite di incontri, di scontri.
Il bene e il male, concentrati nell’attimo in cui si origina una vita. Nello spazio di un agglomerato di cellule, un feto, fragile e indifeso, ma pur determinato a nascere, a vivere, a crescere, a farsi bambino, fanciullo, ragazzo, giovane, uomo. E andare incontro alla vita.
La sua avventura esistenziale è un’ansia negli occhi chiusi si sua madre su un antico sgomento che lei non osa dire: ‘come sarà mio figlio? Cosa ne sarà di lui?’
Endimione sopravvisse alla realtà perché per trent’anni, sul monte Latmos, tenne gli occhi chiusi e continuò a sognare.
La madre sogna che il suo bambino non scopra mai la realtà. E la realtà è solo un pensiero d’amore sgomento negli occhi chiusi di sua madre: ‘nascerà sano mio figlio? Saprò prendermi cura di lui e preservarlo da ogni male? Saprò indicargli la giusta via dell’amore e della tenerezza perché sia un vero uomo nella libertà di piangere, di ridere, d’amare?’
E il piccolo nasce. Prima strilla, poi si acquieta tra le braccia d’amore di sua madre.
E la realtà è solo un sogno/bisogno negli occhi grandi del bambino a cercare il volto di suo madre, l’unico tra tanti volti. Il solo a dargli sicurezza. Nei loro occhi di abbandono condiviso la vita che sa la vita e la vita che ignora la vita. La mamma sa ma preferisce ignorarla. Il bambino la ignora ma desidera scoprirla, giorno dopo giorno, nei giochi di conquista delle sue mani bambine, nei giochi di scoperta dei suoi incerti piedini.
Sogno-realtà: il doppio volto della vita nei suoi incastri tra progetti e ricordi.
Sul ponte del presente: il passato e il futuro intrecciano incontri e sentimenti. Positivi. Negativi. Controversi. Ambigui. Con mille dubbi e poche certezze. E nessuna verità. O forse tantissime verità apparenti e una sola vera Verità. Spesso ignorata.
E il padre? Ha posto in questa diade, “involucro d’amore” (E. H. Erikson), il padre?
Certo, anche la presenza del padre è importante per la tensione che lo sostiene a realizzare per suo figlio una realtà migliore senza troppo indugiare nel sogno. Per proteggerlo e dargli sicurezza. Per difenderlo e incoraggiarlo. Per sollecitarlo ad accettare e a rispettare le regole. Per guidarlo a muovere passi più concreti e fattivi nella giungla del mondo. Con forza e coraggio.
La madre è penombra di mistero con una tenerezza di luce fra le sue carezze. Testimonianza di sorriso che illumina e riscalda il cuore. La dolcezza del canto e dell’incanto.
Il padre è il giorno certo, la via maestra da seguire, l’audacia della scoperta di orizzonti sempre più lontani. Il viaggio senza canto, ma con piedi lesti che vanno e sanno dove andare e quali ostacoli superare, i nemici da affrontare.
Testimonianza di lealtà e dignità nella forza delle braccia e nella chiarezza delle mete.
E la Vita procede con le sue luci e le sue ombre mentre le generazioni passano.
Oltre l’oblio, solo l’AMORE resta a fare spazio alla memoria…  

Sono passati gli anni

Sono passati gli anni
dei profili intensi delle cose
sugli specchi di ingabbiate
dissolvenze della realtà
vissute come sogno
e di sogni creduti realtà
Presi com’eravamo
dall’urgenza
di noi e del nostro
moltiplicarci
persi in sotterranei grovigli
ch’erano strade sterrate
del cuore
sempre pronto in me
a sanguinare
per ogni rosa scoperta di spine
E rimpianti e attese
e nostalgie e desideri
E mai un fermarci a vivere
a rotolare sul prato sotto casa
e sapere di noi
nella realtà del nostro cielo
che poteva compiere il miracolo
di stringerci insieme
in un groviglio di stelle
in cui naufragare
di smemorato splendore
Troppo tardi ho imparato il relativo
il “qui e ora” il canto della rosa
ch’arde di spine altrimenti muore
Troppo tardi un planare di pensieri
a dare senso ai rossi drappi di felicità
fatta di tutto e di niente
e bere nelle coppe colme di sole
la pienezza dell’esistere
liquore di giorni di miele 
un tempo logorati da devastanti perché
Oggi ho ricami di ore
tra le dita
con fili di seta per innamorarmi
ancora della vita
e stupirmi ancora
Per salvarmi dal nero della morte
che per anni mi sfinì di terrore
Troppi coltelli
mi ferirono di pianto
Troppo urlò la mia carne
alla violenza di un mondo
che ebbe mani assassine
lontane dalla mia casa
non dal mio cuore

Alla ferocia dei nuovi misfatti
sulla terra di fango e palude
oppongo fili colorati di parole
legati agli aquiloni che ridono
per le vie del cielo
e sognano
nelle piccole mani dei bambini