mercoledì 14 novembre 2018

"Le piogge e i ciliegi" di Angela De Leo


Apro questa lettura del romanzo di Angela De Leo - anzi, del quasi romanzo, come lei stessa lo definisce - con un’analogia con la pittura, materia a me congeniale a cui farò riferimento anche in seguito. E mi sovviene Edouard Manet che spiegava a un’allieva, impegnata a osservare i dettagli per la realizzazione di una Natura Morta, che ella avrebbe dovuto, invece, mettere sulla tela solo l’“Impressione” ricevuta dagli elementi che la componevano. Non poteva fermarsi di certo a contare gli acini di un grappolo d’uva o quelli delle scaglie di un salmone, ma coglierne, nel primo caso, le sfumature ambrate, nell’altro, le tonalità rosa argento.
Anche per la nostra autrice vogliamo descrivere l’“Impressione” che si riceve chiudendo il suo libro, perché non riusciremmo a raccontare le singole pagine che lo compongono, che sono tante, né a ricordarne i dettagli. Ci rimane alla fine un’intensa sensazione di Profumi, Sapori, Suoni, Voci. Il libro cattura cuore e sensi e pare attraversato da un’ispirazione continua, quasi una sorta di trance emotiva che ci accompagna per mano lungo il percorso di un’esistenza, un viaggio attraverso il Tempo in cui domina e si materializza una figura di uomo che potremmo definire, invece, senza Tempo: nonno Mincuccio. E non perché quest’uomo non vivesse il suo tempo. Anzi. Lo viveva così intensamente da riuscire a fare di ogni attimo un’esistenza. Ma, nello scorrere delle pagine, si ritrova la sua e la nostra contemporaneità. Non si spiegherebbe sennò il dipanarsi di una vicenda umana in cui la scrittrice lo riconosce protagonista. Sempre. Nonostante lei cresca e si trasformi da bambina a donna, nonostante il mutare della Società, delle Stagioni, del Costume. Di un’Epoca. Perché era un uomo di luce e di amore: un uomo straordinario, come ella ama definirlo. Ha segnato la sua formazione umana fino a fare di lei una donna altrettanto straordinaria, una poetessa e una scrittrice che tutti oggi conoscono, stimano e amano.
Non so se questo libro sia un romanzo epistolare. Non credo. In realtà potrebbe esserlo perché è una lunga lettera ad un unico destinatario: un ininterrotto canto d’amore verso questo nonno che non è mai andato via. Resta e vive dentro di lei, oggi come allora. E lui le risponde, in una sorta di dialogo solo apparentemente muto, che si trasforma invece in uno spazio interiore della De Leo, uno spazio da nonno Mincuccio intensamente abitato.  
Ciò che accompagna questa narrazione è l’ambientazione bucolica. Lo scenario è pressoché costante: i campi, la natura, il passaggio di riti e di memorie. E proprio perché lo scenario resta invariato, è ancora più evidente lo scorrere del tempo.
E come non associare questo lungo racconto di vita all’opera di Monet, “La Cattedrale di Rouen”? (Ancora una volta l’analogia con la pittura riaffiora con forza).  L’opera è una fra le più significative della Corrente Impressionista. Monet riprende per ben 50 volte lo stesso soggetto, la Cattedrale, sempre dallo stesso punto di vista, in diverse condizioni atmosferiche e in diversi momenti della giornata, dall’alba al crepuscolo. Cosicché, accostando alcune tele in successione di tempo, si percepisce nettamente lo scorrere delle ore e, in altri casi, delle stagioni.
Ed è così anche per il romanzo di Angela De Leo. Lo scenario campestre fa da sfondo al fluire lento del tempo; un tempo fisico che proprio la civiltà contadina conosce più di chiunque altro. Perché il tempo della campagna è segnato da riti e gesti ripetuti - come la semina, la potatura, il raccolto - dal succedersi e il mutare delle stagioni, da una natura che si addormenta e si risveglia ogni volta nello stesso modo. E gli esseri umani, invece, cambiano e invecchiano. Poi, fisicamente lasciano questa vita, così come il nonno ha lasciato la scrittrice. Solo fisicamente, però.  
Questa figura di nonno “straordinario” indossa una triplice veste d’amore. Non solo perché i nonni, come sappiamo, sono genitori due volte: amano i propri figli e, ancora più teneramente, i figli dei figli. Qui c’è di più. Il nonno ha rivestito fisicamente il ruolo di padre. Tanto che lei lo chiama in modo più familiare, papà, mentre chiama babbo suo padre, sostantivo più “estraneo” al linguaggio della sua terra. Cosicché, il teorema si compie.
Nelle pagine troviamo tanti spunti di riflessione che potrebbero dare origine a discussione e approfondimento. Una fra tutte: la preghiera dei fedeli recitata in latino, forse non compresa ma proprio per questo suggestivamente e intimamente sentita. In chiesa, “[…] i numerosi credenti, molti dei quali non capivano assolutamente nulla, […] accorrevano […] per ascoltare la “Parola di Dio”, anche se per lo più incomprensibile. […]”, così scrive l’autrice.  
Non mancano pagine divertenti, particolari curiosi - che inizialmente ci divertono ma che ci fanno anche riflettere - come una caratteristica fisica frequente nelle donne di quel tempo (compreso le suore): i baffi. Particolare buffo ma rivelatore di un’epoca in cui la Natura era rispettata in tutte le sue forme; perché allora tutto era più semplice e le donne non conoscevano cerette, lampade, estetiste, creme, unguenti, lifting, silicone. Avevano una loro bellezza naturale che era data dall’unicità del proprio aspetto, dalla mancanza di omologazione a un cliché che fa apparire invece oggi le donne tutte uguali, apparentemente senza difetti ma in realtà ne evidenziano uno: lo stereotipo.
E poi, le partenze, il distacco dalla propria “famiglia di fatto” in cui viveva col nonno e la nonna, per ritornare a vivere nella famiglia naturale.  Un binario affettivo dilaniante che le crea una crisi esistenziale profonda. Lei che, a un certo punto, non sa più a chi appartiene. E nel suo ritorno finalmente nella casa del nonno le viene restituita la sua vera famiglia ma, soprattutto, la sua vera identità. Non senza lacerazioni affettive. Perché lei non sa più se gioire per quello che ritrova o soffrire per quello che lascia.
Ma, di nonno Mincuccio un particolare domina la scena: le sue Mani.
E, ancora una volta torna prepotente un’immagine pittorica, l’opera postimpressionista “I mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh. Un’opera che racconta in modo forte e suggestivo il significato del lavoro dei campi.
«Ho cercato di sottolineare - scriveva Vincent al fratello Theo - come questa gente che mangia patate al lume della lampada, ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto e quindi parlo del lavoro manuale e di come essi si siano onestamente guadagnato il cibo».
Ma le mani di nonno Mincuccio sanno, oltre che di lavoro nei campi, anche di laboriosità artigiana, di tenerezza, di delicatezza, di culla. Mani che accendono fascine, sbucciano mandorle, raccolgono gelsi rossi, allevano tortore e colombi, spargono mangime, puliscono la colombaia, preparano il “pastone” con la crusca, costruiscono recinti con chiodi, tenaglie, pinze, coltivano fiori. Fino alla delicatezza estrema del gesto di eliminare le spine dalle rose prima di offrirle.
Un altro tema caro alla Nostra è la determinazione nel difendere la propria femminilità, sentirsi e dichiararsi fortunata di essere nata donna. Tutto il significato è racchiuso nell’episodio in cui ella racconta che il suo babbo, per la felicità di avere finalmente avuto il figlio maschio che tanto aveva desiderato, “[…] tra un brindisi e l’altro sfidò, in una gara all’ultimo bicchiere, Bacco che gli sorrideva esaltato, a cui lui rispondeva inebetito e ubriaco. Bacco vinse alla grande.[…]”…
“[…] Io mi congratulavo ancora e ancora con me stessa perché ero nata donna e non avrei mai bevuto e fumato e non mi sarei mai resa così ridicola. ‘Meno maaale’, mi dicevo, ‘meno maaale!’. (Pensiero ricorrente nella mia vita di donna convinta di essere troppo fragile per affrontare il mondo con gli attributi che gli uomini vantano di avere) […]”.
Mi piace, a questo punto, citare una pagina meravigliosa del romanzo dedicata a questo tema:
“[…] (A me piaceva la femminilità:
orchidea fragile e bellissima. Teneramente dischiusa alla vita e all’amore.
A me piaceva la femminilità,
racchiusa nella porpora della rosa appassionata e imprendibile nel suo breve fiorire e impallidire in una cascata di petali esangui.
A me piaceva la femminilità:
morbidezza sfacciata del rosso tulipano, sorriso tremulo di tenera ironia al vento di maggio.
A me piaceva la femminilità:
sensuale allegria dei papaveri, esili e delicati nelle loro corolle simili a rosse labbra dischiuse ad ardenti baci. […]”
Insomma, nel  libro “Le piogge e i ciliegi” c’è tutta l’anima poetica di Angela. Forse possiamo affermare, senza esitazioni, che è una lunga poesia orizzontale. 

                                        Rosalba Fantastico di Kastron 

Cosa aggiungere a questa splendida Relazione della straordinaria Rosalba Fantastico Di Kastron, una Donna poliedrica e dal multiforme ingegno, poetessa, scrittrice, attrice e regista di teatro, nonché amica carissima e ottimo critico letterario? Sono rimasta davvero senza parole nell'ascoltarla domenica scorsa, nella Masseria Carrara del '700, dove con il compagno Franco Leccese e la generosa e sempre presente amica Adele Pulice Lozito, ha organizzato, in un'atmosfera bucolica di rara bellezza, un pomeriggio-sera amicale per presentare il mio "quasi romanzo", accolto dal numeroso pubblico con corale allegria e commozione, tra canti e bicchieri di vino novello ad accompagnare squisite pietanze del tempo che fu. E il lettore, attento e colto, non potrà che condividere con me l'incanto di quanto Rosalba è andando ricamando con le parole, riproponendo, in riferimento ad alcune mie descrizioni e pagine, le atmosfere, ravvisate, per personale competenza e passione, in alcuni quadri di Manet, Monet e Van Gogh. Poi, le profonde intuizioni e riflessioni su legami affettivi, distacchi, ritorni e addii; oppure, sull'evolversi del tempo in sintonia con la maturazione della co-protagonista, la scrittrice, all'ombra protettiva e tenere di suo nonno/papà, un uomo senza tempo, perché ancora vivo e presente e salvifico nel suo cuore.
Grazie infinite, mia grande grande amica!

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