Apro questa lettura
del romanzo di Angela De Leo - anzi, del quasi romanzo, come lei stessa lo
definisce - con un’analogia con la pittura, materia a me congeniale a cui farò
riferimento anche in seguito. E mi sovviene Edouard Manet che spiegava a
un’allieva, impegnata a osservare i dettagli per la realizzazione di una Natura
Morta, che ella avrebbe dovuto, invece, mettere sulla tela solo l’“Impressione”
ricevuta dagli elementi che la componevano. Non poteva fermarsi di certo a
contare gli acini di un grappolo d’uva o quelli delle scaglie di un salmone, ma
coglierne, nel primo caso, le sfumature ambrate, nell’altro, le tonalità rosa
argento.
Anche per la nostra
autrice vogliamo descrivere l’“Impressione” che si riceve chiudendo il suo
libro, perché non riusciremmo a raccontare le singole pagine che lo compongono,
che sono tante, né a ricordarne i dettagli. Ci rimane alla fine un’intensa
sensazione di Profumi, Sapori, Suoni, Voci. Il libro cattura cuore e sensi e
pare attraversato da un’ispirazione continua, quasi una sorta di trance emotiva che ci accompagna per
mano lungo il percorso di un’esistenza, un viaggio attraverso il Tempo in cui domina e si materializza
una figura di uomo che potremmo definire, invece, senza Tempo: nonno Mincuccio. E non perché quest’uomo non vivesse il suo
tempo. Anzi. Lo viveva così intensamente da riuscire a fare di ogni attimo
un’esistenza. Ma, nello scorrere delle pagine, si ritrova la sua e la nostra
contemporaneità. Non si spiegherebbe sennò il dipanarsi di una vicenda umana in
cui la scrittrice lo riconosce protagonista. Sempre. Nonostante lei cresca e si
trasformi da bambina a donna, nonostante il mutare della Società, delle
Stagioni, del Costume. Di un’Epoca. Perché era un uomo di luce e di amore: un
uomo straordinario, come ella ama definirlo. Ha segnato la sua formazione umana
fino a fare di lei una donna altrettanto straordinaria, una poetessa e una
scrittrice che tutti oggi conoscono, stimano e amano.
Non so se questo libro
sia un romanzo epistolare. Non credo. In realtà potrebbe esserlo perché è una
lunga lettera ad un unico destinatario: un ininterrotto canto d’amore verso
questo nonno che non è mai andato via. Resta e vive dentro di lei, oggi come
allora. E lui le risponde, in una sorta di dialogo solo apparentemente muto,
che si trasforma invece in uno spazio interiore della De Leo, uno spazio da
nonno Mincuccio intensamente abitato.
Ciò che accompagna
questa narrazione è l’ambientazione bucolica. Lo scenario è pressoché costante:
i campi, la natura, il passaggio di riti e di memorie. E proprio perché lo
scenario resta invariato, è ancora più evidente lo scorrere del tempo.
E come non associare
questo lungo racconto di vita all’opera di Monet, “La Cattedrale di Rouen”? (Ancora
una volta l’analogia con la pittura riaffiora con forza). L’opera è una fra le più significative della
Corrente Impressionista. Monet riprende per ben 50 volte lo stesso soggetto, la
Cattedrale, sempre dallo stesso punto di vista, in diverse condizioni
atmosferiche e in diversi momenti della giornata, dall’alba al crepuscolo.
Cosicché, accostando alcune tele in successione di tempo, si percepisce
nettamente lo scorrere delle ore e, in altri casi, delle stagioni.
Ed è così anche per il
romanzo di Angela De Leo. Lo scenario campestre fa da sfondo al fluire lento
del tempo; un tempo fisico che proprio la civiltà contadina conosce più di
chiunque altro. Perché il tempo della campagna è segnato da riti e gesti
ripetuti - come la semina, la potatura, il raccolto - dal succedersi e il mutare
delle stagioni, da una natura che si addormenta e si risveglia ogni volta nello
stesso modo. E gli esseri umani, invece, cambiano e invecchiano. Poi,
fisicamente lasciano questa vita, così come il nonno ha lasciato la scrittrice.
Solo fisicamente, però.
Questa figura di nonno “straordinario” indossa una triplice
veste d’amore. Non solo perché i nonni, come sappiamo, sono genitori due volte:
amano i propri figli e, ancora più teneramente, i figli dei figli. Qui c’è di
più. Il nonno ha rivestito fisicamente il ruolo di padre. Tanto che lei lo
chiama in modo più familiare, papà, mentre chiama babbo suo padre, sostantivo
più “estraneo” al linguaggio della sua terra. Cosicché, il teorema si compie.
Nelle pagine troviamo tanti spunti di riflessione che potrebbero
dare origine a discussione e approfondimento. Una fra tutte: la preghiera dei
fedeli recitata in latino, forse non compresa ma proprio per questo
suggestivamente e intimamente sentita. In chiesa, “[…] i numerosi credenti,
molti dei quali non capivano assolutamente nulla, […] accorrevano […] per
ascoltare la “Parola di Dio”, anche
se per lo più incomprensibile. […]”, così scrive l’autrice.
Non mancano pagine divertenti, particolari curiosi - che
inizialmente ci divertono ma che ci fanno anche riflettere - come una
caratteristica fisica frequente nelle donne di quel tempo (compreso le suore):
i baffi. Particolare buffo ma rivelatore di un’epoca in cui la Natura era
rispettata in tutte le sue forme; perché allora tutto era più semplice e le
donne non conoscevano cerette, lampade, estetiste, creme, unguenti, lifting,
silicone. Avevano una loro bellezza naturale che era data dall’unicità del
proprio aspetto, dalla mancanza di omologazione a un cliché che fa apparire invece
oggi le donne tutte uguali, apparentemente senza difetti ma in realtà ne
evidenziano uno: lo stereotipo.
E poi, le partenze, il distacco dalla propria “famiglia di
fatto” in cui viveva col nonno e la nonna, per ritornare a vivere nella famiglia
naturale. Un binario affettivo
dilaniante che le crea una crisi esistenziale profonda. Lei che, a un certo
punto, non sa più a chi appartiene. E nel suo ritorno finalmente nella casa del
nonno le viene restituita la sua vera famiglia ma, soprattutto, la sua vera
identità. Non senza lacerazioni affettive. Perché lei non sa più se gioire per
quello che ritrova o soffrire per quello che lascia.
Ma, di nonno Mincuccio
un particolare domina la scena: le sue Mani.
E, ancora una volta
torna prepotente un’immagine pittorica, l’opera postimpressionista “I
mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh. Un’opera che racconta in modo forte
e suggestivo il significato del lavoro dei campi.
«Ho cercato di sottolineare - scriveva Vincent al fratello Theo - come
questa gente che mangia patate al lume della lampada, ha zappato la terra con
le stesse mani che ora protende nel piatto e quindi parlo del lavoro
manuale e di come essi si siano onestamente guadagnato il cibo».
Ma le mani di nonno Mincuccio sanno, oltre che di lavoro nei campi, anche
di laboriosità artigiana, di tenerezza, di delicatezza, di culla. Mani che
accendono fascine, sbucciano mandorle, raccolgono gelsi rossi, allevano tortore
e colombi, spargono mangime, puliscono la colombaia, preparano il “pastone” con
la crusca, costruiscono recinti con chiodi, tenaglie, pinze, coltivano fiori.
Fino alla delicatezza estrema del gesto di eliminare le spine dalle rose prima
di offrirle.
Un altro tema caro
alla Nostra è la determinazione nel difendere la propria femminilità, sentirsi
e dichiararsi fortunata di essere nata donna. Tutto il significato è racchiuso
nell’episodio in cui ella racconta che il suo babbo, per la felicità di avere
finalmente avuto il figlio maschio che tanto aveva desiderato, “[…] tra un
brindisi e l’altro sfidò, in una gara all’ultimo bicchiere, Bacco che gli
sorrideva esaltato, a cui lui rispondeva inebetito e ubriaco. Bacco vinse alla
grande.[…]”…
“[…] Io mi
congratulavo ancora e ancora con me stessa perché ero nata donna e non avrei
mai bevuto e fumato e non mi sarei mai resa così ridicola. ‘Meno maaale’, mi
dicevo, ‘meno maaale!’. (Pensiero ricorrente nella mia vita di donna convinta
di essere troppo fragile per affrontare il mondo con gli attributi che gli
uomini vantano di avere) […]”.
Mi piace, a questo
punto, citare una pagina meravigliosa del romanzo dedicata a questo tema:
“[…] (A me piaceva la
femminilità:
orchidea fragile e
bellissima. Teneramente dischiusa alla vita e all’amore.
A me piaceva la
femminilità,
racchiusa nella
porpora della rosa appassionata e imprendibile nel suo breve fiorire e
impallidire in una cascata di petali esangui.
A me piaceva la
femminilità:
morbidezza sfacciata
del rosso tulipano, sorriso tremulo di tenera ironia al vento di maggio.
A me piaceva la
femminilità:
sensuale allegria dei
papaveri, esili e delicati nelle loro corolle simili a rosse labbra dischiuse
ad ardenti baci. […]”
Insomma, nel libro “Le piogge e i ciliegi” c’è tutta l’anima
poetica di Angela. Forse possiamo affermare, senza esitazioni, che è una lunga
poesia orizzontale.
Rosalba Fantastico di Kastron
Grazie infinite, mia grande grande amica!
Nessun commento:
Posta un commento