domenica 25 novembre 2018

Valeria Rossini, "Le piogge e i ciliegi"


Questo libro è un viaggio nella memoria, ma senza un profilo di assoluta verità perché “niente è come sembra eppure tutto è come a noi appare” (p. 6). Il romanzo scorre come un flusso di coscienza, che Bergson contrappone all’idea della temporalità come successione secondo una linea continua. Se noi ci immergiamo nel profondo di noi stessi, astraendoci dallo spazio, veniamo a contatto immediato con una realtà che è assolutamente qualitativa, mobile e indivisa. Essa è costituita da stati di coscienza che si fondono in maniera da produrre un flusso sempre nuovo e originale, ma la cui eterogeneità è tale che ogni suo momento, ricco com’è del passato e già contenente il futuro, rispecchia a suo modo il tutto. Questa è la durata, che non è riconducibile alle categorie dell’unità e della molteplicità, e quindi nemmeno allo spazio, al numero, alla misura. Lo spazio è omogeneità quantitativa, la durata eterogeneità qualitativa; il primo può essere scomposto e ricomposto secondo leggi, l’altra ha un ritmo proprio, semplice, individuale e imprevedibile. 
Secondo Bergson, dunque, il nostro modo usuale di concepire il tempo come una successione di istanti della stessa durata, basato sul movimento delle lancette dell’orologio, è il frutto di un’operazione dell’intelletto, che “spazializza” il tempo, ossia lo concepisce come un corpo fisico e lo divide in segmenti uguali. A questo tempo della fisica Bergson contrappone un tempo interiore, continuo, indivisibile e irripetibile, che è quello della nostra coscienza, nella quale i vari momenti si compenetrano gli uni negli altri senza soluzione di continuità. “Al di fuor di me, nello spazio, c’è un’unica posizione della lancetta e del pendolo, perché delle posizioni passate non resta nulla. Dentro di me si svolge un processo di organizzazione e di mutua compenetrazione di fatti di coscienza, che costituisce la vera durata”.
È esattamente ciò che accade in questo romanzo, che mentre lega presente, passato e futuro, rifugge da qualsiasi postura nostalgica. Del resto, riprendendo Bergson, “la vita è sempre creazione, imprevedibilità e, nello stesso tempo, conservazione integrale e automatica dell'intero passato”. 
E l’intero passato dell’autrice si coagula intorno alla figura educativa del nonno materno, che ha incontrato prima di ogni altro incontro, prima di incontrare sua madre. E qui, assolutamente in accordo con le moderne teorie degli attaccamenti multipli, l’autrice ritrova questo altro significativo nella linea intergenerazionale.
“Per addormentarmi cantavo, ma gli occhi non si chiudevano. Avevo bisogno della tua voce perché sapevo che sapeva fare la magia di accendere tutte le luci della mia anima e un canto di gioia mi saliva alle labbra prima di sognarti o di prendere forza e coraggio da te. Sempre presente nelle ore delle ansie e dei tumulti” (p. 10).
Raccontare serve a costruire una storia condivisa, da tramandare, da lasciare in eredità, con tutto il peso di ricordi struggenti, a volte dolorosi, che forse proprio per questo, non è possibile dimenticare.
“Perché i miei nipoti e pronipoti sappiano che la loro storia non è cominciata con i giorni conosciuti, ma con tutti quelli ignorati e da altri vissuti prima che loro si affacciassero al mondo. Perché i giovani conoscano la Storia non dai libri, ma da chi ha lasciato orme di sogni e di dolore lungo le strade che oggi percorrono. Orme che hanno segnato lunghe scie traslucide, come bava di lumaca, sui muri della dimenticanza e dell’indifferenza. Lunghe scie negli occhi di chi ha ancora uno sguardo diviso tra ieri e domani. E il passato attraversa il presente per farsi futuro” (p.18).  
Efficacissima l’immagine pedagogica del nonno/padre: paziente, attento, protettivo, tenero, fermo. E della relazione educativa, costitutivamente asimmetrica, in costante equilibrio tra autorità e libertà. “Noi palloncini colorati nell’azzurro. Tu, sapienti mani a reggerne i fili per una libertà ancora da guidare” (p. 50).
Il nonno non aveva titoli di studio, ma sapeva insegnare le parole del rispetto e della cortesia, “le parole gentili che inteneriscono il cuore” (p. 112), contro il degrado sociale, culturale ed educativo che faceva della bestemmia, dell’ingiuria e del pettegolezzo le sue armi vincenti. Parole gentili che Angela avrebbe dovuto rivolgere a suo padre, di fatto un padre assente, alla cui assenza si ribella proprio attraverso le parole, o meglio il rifiuto di certe parole.
“Uffah, con queste parole gentili. Ma perché le bambine devono per forza pensare e dire parole gentili? Che cosa devo dire a babbo? Grazie, prego, per favore?  
- Puoi dire: caro babbo, sono contenta di vederti. «Caro» è una parola bellissima.
- E io non la dico perché babbo non lo conosco. Si dice «caro» a chi si vuol bene.
- E tu non vuoi bene al tuo babbo?
- Non lo so. Alla fotografia sì, ma a lui non lo so, non lo conosco” (p. 291).
Allora come oggi, le parole si perdono nell’evanescenza dell’assenza, ma anche del non detto, dell’invidia e del pregiudizio, nelle strade e in rete.
“Le voci si rincorrevano per le strette strade del paese antico e non avevano mai suono chiaro, parole precise. Le parole sembravano di fumo e di nebbia. Si addensavano e poi svanivano. Parole come nuvole. Voci. Sussurri. Mezze Verità. Molta fantasia. La gente aveva bisogno di credere in qualcosa” (p. 118).
Abbiamo fatto riferimento all’appartenenza. Eccone un ritaglio suggestivo. Nonostante si fosse appena usciti dalle guerre, dalla dittatura e dall’immane tragedia della Shoah, a metà Novecento “c’era una segreta fiducia ancora negli altri, un volersi ancora bene, un sentirsi solidali con chi aveva una sofferenza di troppo, una sorte avversa, un dispiacere, un’anomalia. Nessuno viveva esclusivamente per sé. Nella gioia come nel dolore. Nel pettegolezzo come nell’odio o nel rancore. Non c’era l’indifferenza che striscia subdola per le strade sempre più larghe e sempre più tristi dei nostri giorni. Tutto riguardava tutti nel bene e nel male. Ed era come un appartenersi” (pp. 123-124).
Oltre che sul tema della solidarietà, il passato si discosta dal presente rispetto alla condizione femminile, e al rapporto con la religione. Le donne e Dio.
“Le ricordo, quasi tutte, molto pratiche e molto sole. Ma anche molto ingenue. Ignoranti. Analfabete quasi tutte. Non sapevano. E si accontentavano di non sapere. Quasi fosse normale, giusto così. Erano brave massaie. Semplici. Tristi o ciarliere e tutte timorate di Dio. Attribuivano a Lui ogni calamità, ogni malattia, ogni dispiacere. E si rassegnavano alla loro sorte e alla Sua volontà. Sembrava non avessero ansie né dubbi. Vivevano come respiravano. Accettavano la vita così come veniva ed anche la loro fede era così come veniva. Senza ribellioni, senza ripensamenti.
Ho molto amato quelle donne semplici, rassegnate, forse anche scontente, forse anche rancorose, ignare della problematicità dell’esistenza, ma sempre pronte a portare sulle loro fragili (in apparenza) spalle il mondo, sempre pronte a farsi un segno di croce per propiziarsi Dio per sé e soprattutto per gli altri, per scongiurare un pericolo, la malattia, la morte. Sempre pronte a darsi una mano. Donne senza tempo. Senza età. Senza storia” (p. 141).     
Nella (non)storia di queste donne, il dolore per i troppi figli perduti troppo presto, l’assenza dei mariti in guerra, la “paura di frastuono, di tuoni e temporali, di rombi d’aerei e di sirene”.
Queste donne non sono più tra noi e non sono noi. Ma segnano il nostro passato, la rappresentazione della maternità, lo sguardo materno sul mondo. Ed è questo sguardo materno di Angela che io vorrei condividere con voi, a regalarvi un privilegio che tengo stretto a me da quando avevo undici anni.
Del resto, questo è romanzo aperto alla relazione e all’alterità. Come ogni scrittore sa, non si scrive per sé, ma per gli altri. E questi altri siete voi, cari ragazzi, giovani che non guardano il cielo “Si è perso il cielo. S’ignorano le stelle” (p.165), perché in questa società gli occhi sono rivolti in basso, verso gli schermi dei cellulari.
Angela De Leo, però, non punta il dito contro niente e nessuno, e tanto meno contro di voi, che siete il nostro futuro.
“(giunge il tempo in cui i nipoti ci sono maestri).
È il passato, che è un futuro capovolto, a riproporre l’amore ricevuto da restituire con amore. Nessuno muore del tutto, dicono e forse è vero, fino a che ci sarà qualcuno a ricordarlo con amore”.
Per questo, ricordateci con amore.
                                                 Valeria Rossini
È tutta qui la professionalità di Valeria Rossini, docente di Pedagogia Sociale presso l’Università degli Studi di Bari. Ed è una professionalità intrisa d’amore, come si è potuto notare dalla lettura di questa sua Relazione conclusiva dell’Incontro che abbiamo avuto, io e il mio amico poeta Nico Mori, con lei, accogliente e disinvolta padrona di casa, e con tantissimi studenti, accorsi davvero numerosi nell’Aula V del terzo piano dell’Ateneo barese. 
E grande è stata la nostra gioia, mia e di Nico, di ritrovarci “giovani” tra i giovani a parlare di un “uomo straordinario”, mio nonno, che sapeva sognare, ridere, scherzare, raccontare fiabe e favole, giocare (ed erano tristissimi tempi di guerra) e, soprattutto, sapeva amare. Di qui la stura a parlare della importanza dei sogni e delle parole, che trasformano ogni esperienza in conoscenza, fondamentale quest'ultima per la conquista della libertà di scegliere, di realizzarsi al meglio delle personali capacità, e di guardare con fiducia e rinnovata speranza al futuro. 
Catturanti le parole di Nico. Perlopiù autoironiche le mie, per sollecitare un sorriso di umana comprensione, in una quasi esaltazione della imperfezione che ci offre la possibilità di essere “dissonanti” e, quindi, davvero “unici” in un mondo che tende ad omologarci, impigliandoci e imbrigliandoci nelle mode, nei modelli, nelle regole del pensiero “unico” e “convergente”.
Ebbene, Valeria ha sintetizzato magnificamente tutto questo, facendo costante riferimento al libro, con la scelta quanto mai oculata di alcuni significativi brani da leggere, per focalizzare il rapporto d’amore e di protezione di un nonno/papà nei riguardi delle nipotine a lui e alla nonna affidate, e un continuo ricorso alla esperienza educativo-didattica che i ragazzi stanno vivendo con lei, con grande impegno ed entusiasmo, sfiorando “a volo d’angelo” gli importanti temi dell’alterità e della relazionalità a sempre più vasto raggio, dei vari stili educativi e del necessario rapporto empatico con ciascun allievo da parte di “insegnanti” (coloro che lasciano il segno) lungimiranti e dall'accogliente “sguardo materno”. Di qui le delicate tematiche della genitorialità, della costante presenza della madre per la crescita serena dei figli. Del distacco e del dolore.
Una Relazione, dunque, da leggere attentamente per trovarvi numerosi spunti di riflessione, offerti in forma leggera, ma anche con notevoli riferimenti colti, e con quella grande “sapientia cordis”, che fa parte dello stile di vita e formativo dei veri “maestri” (coloro che sono tre volte di più: magis-ter).
Grazie, Valeria, per avercelo dimostrato. Con le “atmosfere stellari”, da cui siamo stati avvolti, in una fascinosa “con-vivenza” per due meravigliose, entusiasmanti ore.
                                                                                              Angela  


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