venerdì 31 gennaio 2025

Venerdì 31 gennaio 2025: MAURO MASSARI: giovane scrittore-poeta-musicista-compositore-giornalista...

Oggi la chiesa festeggia San Giovanni Bosco: patrono degli Insegnanti, degli Studenti e, quindi, dei Giovani, ma anche degli Editori e gli Ispettori del lavoro. Ed io ho pensato bene di parlare, nel nostro blog, oggi, di un giovane scrittore, poeta, musicista, compositore, giornalista e chi più ne ha più ne metta MAURO MASSARI.
È un giovanissimo talento della parola poetica e della musica. Scrive e canta ballate e canzoni meravigliose. L’ho conosciuto alcuni anni fa, quando con la SECOP edizioni pubblicò la sua prima raccolta di poesie e ballate, Tobacco (Tabacco), di una bellezza davvero da catturare il cuore. Tanto Bob Dylan, moltissimo Mauro Massari. Mi colpirono i suoi versi e mi ferì la sua voce: triste, antica, solitaria. Quasi avesse molti più anni e un solo cuore. Di ieri e di oggi. Non gli ho mai chiesto il perché di tanta tristezza, sperando che, fidandosi di me, fosse lui a parlarmene, ma non è mai accaduto. Anche perché, pur seguendolo sempre con i pensieri e con l’anima dovunque facesse un concerto, abbiamo avuto, dopo Tobacco, poche occasioni di incontro. Alcune però molto importanti, come per la festa dei miei ottant’anni due anni fa. Mi dedicò l’intera serata con una tenerezza filiale incredibile. Lui, viandante solitario, in giro per altri orizzonti, oltre sé stesso. Io sempre più sedentaria e sempre meno autonoma… Ed è stato bello incontrarci.
Con me, generoso oltre ogni possibile aspettativa. Alcuni anni fa si offrì, anticipando persino la mia richiesta, di fare qualche intermezzo musicale durante la presentazione del mio quasi romanzo, Le piogge e i ciliegi, presso l’Università Popolare Santa Sofia di Trani. Poi ci ritrovammo nel prestigioso Palazzo Sagges (in Bari antica), sede della Sopraintendenza Archivistica per la Puglia e la Basilicata, per una nuova presentazione qualche sua ballata, dietro suggerimento della Presidente dell’Associazione “Porta d’Oriente”, la carissima amica Cettina Fazio Bonina, “volitiva” (e cito il carissimo amico Luciano Anelli) organizzatrice della serata, positivamente catturata in precedenza dalla sua bravura. 
Ancora una volta mi disse di sì senza esitare. E “La ballata in sol” incantò l’attento pubblico.
Di Mauro Massari Luciano Anelli scrisse: “Ha chiuso la serata il suono soave di una chitarra magistralmente sfiorata”. 
Sono ancora oggi felice per il mio giovane menestrello.
Allora, per ringraziarlo, gli promisi che gli avrei dedicato qualche pagina del mio blog, di cui vado fiera per i 20.000 e passa lettori che lo/mi leggono (lo so se avessi fatto pubblicità a indumenti intimi - avendo il fisico, l’età e una buona dose di esibizionismo - avrei milioni di follower, ma ognuno nasce con una passione e un karma), e gli chiesi di mandarmi qualche notizia sulle sue molteplici attività di poeta, musicista, cantautore. Lo fece prontamente, come è suo costume, ma si trattò di una lettera strana di quasi confessione e quasi introspezione. Una sorta di flusso di coscienza e un glissare sulla realtà dei suoi giorni. Ma io ho sempre rispettato sia i suoi silenzi sia le sue parole. Mi piacerebbe, ancora oggi, potergli disegnare (non saprei farlo!) il sorriso bambino che mai mi è capitato di leggere sul suo volto. Lo stupore che sempre dipinge il suo sguardo. Ma come lontano. Come mille navi che gli scompigliano i pensieri per spingerlo oltre la rada. Come un cavallo alato che insegue sogni mai realizzati. Come filo di aquiloni mai posseduti…  
Ma ecco quella lettera:
"Angela cara, mi chiedi mie notizie ed eccomi qui.
Tobacco è stato un vero e proprio spartiacque. Due anni dopo la sua pubblicazione, posso dire abbia segnato un punto importante, di rottura tra un periodo e un altro della mia vita. Partendo proprio dal tabacco stesso, fedele e cattivo compagno sin dall’adolescenza, passando alle notti insonni trascorse a battere sui tasti della vecchia macchina da scrivere di mio nonno, fino ad arrivare a stasera che ti scrivo con accanto un pacchetto iniziato e mai finito di American Spirit, mentre fumo una sigaretta dei giorni nostri, di quelle tecnologiche. “Riscalda il tabacco ma non brucia”, recita la pubblicità. Dovrebbe far “meno male” di una normale sigaretta. Sarà vero? Ma poi chi decide cosa fa davvero male e cosa no? Il medico? I giornali? Noi stessi?  
Presto o tardi ritornerò ad usare l’accendino, o almeno questa è la sensazione che ho.
Punto di rottura dicevo. Di rottura tra il passato ed un futuro che sembra essere fin troppo presente.
In questi due anni ho rotto con un amico, e ne soffro. Ho rotto con la donna che ho amato forse più di me stesso, e che ha fatto uscire dal mio petto quasi tutte le parole che ho scritto, come avessi una lacerazione verticale di 10 cm all’altezza del cuore, flussi costanti di un dolore che non accenna ad andar via. E ho rotto con Matteo, il mio compagno di palco, di vino, di silenzi. La metà buona di me, dico sempre, che ho incontrato per caso nel via vai quotidiano di facce, parole, strette di mano e grigiore.
Ha fatto una scelta di vita importante: è volato con la sua compagna in Canada, Vancouver, per cercare la sua strada sotto un cielo diverso.
Solo un arrivederci, forse. Per adesso è lontano e mi manca tanto.
Dalla sua partenza ho cercato nuovi stimoli attorno a me, nuove risorse che mi aiutassero a motivarmi sulla difficile strada artistica che attraversa la mia vita. Confesso la mia debolezza, confesso che più di una volta ho avuto la tentazione di mollare. Chiudere una volta per tutte la custodia della mia chitarra, riportare la vecchia macchina da scrivere di mio nonno, nella sua bella valigetta nera, nella casa in cui l’ho trovata.
Poi ho capito che non è una cosa che si sceglie ciò che si è. Io sono quello che sono, non lo Faccio.
Fare qualcosa ed esserlo sono due cose molto diverse. Scrivere e suonare è ciò che sono. Non è un Hobby, come INVECE direbbe mio padre.
Collezionare monete è un hobby, costruire modellini di aerei è un hobby.
Quello che scrivo e che canto è il mio sangue.
Ho deciso così di tornare nell’unico posto in cui sapevo di poter ritrovare voglia e ambizione, Londra.
Ho trascorso buona parte del mese di novembre prima, e gennaio poi, lì.
Ho fatto concerti, mi sono esibito su tanti palchi, ho conosciuto musicisti provenienti da ogni parte del mondo.
E ho ripreso a scrivere. 
Sì, perché dopo Tobacco mi sono preso del tempo per staccare un po’ dalla scrittura. 
Credo che dopo aver messo tanto di me in quel libro fosse giusta una pausa, un po’ di tempo per rimettere in ordine i pensieri e i sentimenti. Per non cadere nel rischio, in cui tanti prima di me sono caduti, di essere ripetitivo.
Sto lavorando su qualche idea, continuo a scrivere poesie e mi sta venendo voglia di dedicarmi a dei racconti o ad un romanzo breve. 
Ho delle storie da raccontare e presto o tardi le racconterò.
Ti allego una delle mie ultime poesie e la tua cara “Ballata in Sol”.
Che lunga storia ha quella canzone. Mi dicono che 6 minuti e 30 siano troppi per una canzone. Forse è così. Ma sfido chiunque a far entrare 12 anni in 6 minuti e 30. Se qualcuno riesce a far meglio, la canzone è sua! Gliela regalo.
“Quello che il tempo prende, non tornerà”, dice il ritornello. Ed è proprio vero. 
Una delle parole che più mi gira in testa ultimamente è “Perdenza”. Un arcaismo del verbo perdere. Iacopone da Todi, poeta francescano del 1200, la usava in relazione alla dannazione, alla perdita dell’anima. Quindi, perdere qualcosa non di materiale, di fisico, ma di spirituale. 
E cosa c’è di più spirituale dell’Amore? 
Scrivere mi ha sempre portato ad osservare molto (o forse viceversa) e, quindi, a credere di saper guardare bene dentro le persone; sapere, con un solo sguardo, chi ho di fronte. Magari mi sbaglio, ma non credo sia così.
Solitamente, quando sbaglio, lo faccio con me stesso.
                                       
                                             BALLATA IN SOL
 
I treni camminano lenti all’ombra dei nostri ricordi
Tu portavi più lunghi i capelli ed io ti provavo a spiegare
Che non mi importa la strada che hai fatto ormai
Mi importa quella che prenderai
E ancora quante notti la sua voce mi parlerà
Era il mio unico vero amore
Diceva sempre Quello che il tempo prende non tornerà
 
Come foglie sotto il vento d’ottobre così i tuoi occhi sui miei lasciavi cadere
Ed io rimanevo in silenzio mentre un cane fuori abbaiava alla sera
Come mai avrei potuto toglierti quello che ami?
Io ti davo le spalle e tu piangevi piano
E ancora quante notti la sua voce mi parlerà
Era il mio unico vero amore
Diceva sempre Quello che il tempo prende non tornerà
 
Domani è una promessa che io non ti ho fatto mai
e adesso non posso mentire per sapere dove ti sveglierai
sento navi veloci viaggiare nella mia mente
tu mi stringi più forte e mi dici per sempre
E ancora quante notti la sua voce mi parlerà
Era il mio unico vero amore
Diceva sempre Quello che il tempo prende non tornerà
 
Ogni volta che dicevo rimani non era per farti del male
ma adesso non voglio più dirti cosa è giusto e cosa no
sono solo qui in piedi a chiedermi perché
se mi guardo allo specchio mi vedo con te
E ancora quante notti la sua voce mi parlerà
Era il mio unico vero amore
Diceva sempre Quello che il tempo prende non tornerà
 
                      L’ULTIMA SIGARETTA
 
L’ultima, ti ho detto
Accendendo la sigaretta
Con mano incerta
Sull’innocente veranda
Quando le tue parole sembravano le mie
E ti rivedevo nello specchio
Cantare vecchie canzoni alla radio
Quali non ricordo, davvero
Non ricordo.
 
Solo dieci minuti, mi hai detto
Mentre il letto
È una brace senza tempo
E la notte
È confusa con il giorno
E la morte
Non è mai stata più lontana.
 
E ti tocco la bocca
La tocco e la disegno
Come se uscisse dalle mie mani
E ti appartengo, e mi appartieni
Per il tempo di un bacio, piccolo"
Ringraziai Mauro con tutto il mio cuore di madre e nonna:
GRAZIE, Mauro, per quello che sei. Per il sangue che versi in ogni poema che sostanzia la tua vita. Per la tua anima gentile e solitaria. Per la trasparenza bianca del tuo Amore, cristallo immortale, in cui e con cui anche tu ti immortalerai.
Angela
Due anni fa mi scrisse brevemente, dicendomi che aveva perso sua nonna, altro punto di riferimento d’amore e solitudine. Piansi per lui, pur sentendo dentro di me una voce che mi diceva: “Di Mauro Massari sentiremo parlare ancora e tanto. Perché Quello che il tempo gli ha preso, prima o poi, ritornerà…”.
E Mauro, oggi, sempre più meritatamente va scrivendo il suo nome sui fogli di nuovi domani, cioè la prestigiosa testata <L’Edicola del Sud>) con diverse Testimonianze di grandi Autori, ma anche di poeti e scrittori emergenti…  
Ed ecco un racconto appena inviatomi da Mauro:
L’Edicola Martedì 14 gennaio 2025 Lanarrativa | 11 MAURO MASSARI IL RACCONTO “In questa lunga notte delle ultime cose” Immagini di un discorso frammentato La storia, illustrata dalla mano sensibile di Valentina Ruggieri, esplora dall’interno una relazione complessa, intrisa di intimità quanto di distanza emotiva. L’autore descrive un incontro onirico, a tratti fumoso, tra due figure che si sfiorano in un gioco di fragili equilibri Non che ci sia poi troppo da dire. Le diapositive, sgranate e fluttuanti, sono sparse sul tavolino, tra residui di tabacco e fondi di caffè. E basterebbe questo, se non fosse che c’è odore di notte fonda e il mondo intero sta dormendo. Probabilmente stai dormendo anche tu, o almeno questo dice il bollettino, la versione ufficiale, così avrai scritto a qualcuno, mentre porti il lenzuolo sopra la testa, cercando il tuo spazio, la solitudine, quei granelli di zucchero, di gioia rotonda. Ecco una di quelle cose che non oso chiederti. Eppure, ci ripromettiamo le grandi domande, noi due, funamboli consumati, ci sentiamo stupidamente immortali, sfidandoci sempre alla corda tesa, al sangue come alla tenerezza. Due animali che si ringhiano in cerchio prima di attaccarsi. La lista dei tuoi desideri Adesso però non è il momento, non è il caso di allarmarsi, mi parli con voce tranquilla, e tutto sembra essere al suo posto. La tua è la voce dei vivi, condividi il pane dei tuoi desideri, e tra le molliche sarebbe bello se, sbadatamente, trovassi me. Invece, inciampo in applausi invisibili di matita per gli occhi e vestiti da sera, e una pace di chiese e teatri vuoti, mentre poco più in là solo scogli e acqua salata, cieli lontani di cui non conosco l’azzurro, io che l’azzurro lo confondo da sempre col blu, con le pieghe del velluto antico, con quello che porto negli occhi. Ma tu sei all’altro capo del telefono e i miei occhi non puoi vederli. Allora tocca guardarmi allo specchio, mettere un dito nella polpa del mattone e scoprire cosa ne viene fuori: il totale è come una vertigine, tra gli aratri di ogni ruga che mi si affaccia sul viso, fatico a immaginarmi come un’unità, e non sarei meravigliato nel ritrovarmi davanti a cento riflessi che mi fissano, ognuno con abiti diversi. Non occorre spiegare, non serve, hai già le risposte nelle tasche. Se vuoi vedermi, ti basta guardarti. Eppure indossi il pigiama, dici, e di tasche non ne hai. Non mi resta che crederti sulla parola, se non altro per questo grande equivoco della distanza che fa festa tra noi, con un vociare invadente di posacenere pieni e bollicine nude, questo arrogante basta luce in cui assomigliarsi al negativo. La ridicola condivisione dei mali. Viviamo i frammenti di qualche vecchia canzone, di queste risa incoscienti, di uccellini da salvare dalle onde: sono disincontri i nostri. A conti fatti, il nostro è solo un tavolo di marmo con una bella scacchiera al centro. Ti prego, fermati, non so che distruzione porti, mi sembra scritto che la partita finirà per implodere. E allora il tavolo si aprirà in due, cadranno per tutta la stanza i pezzi di questo nostro gioco, e la domanda è una sentenza: chi li raccoglie? Non tu, perché, se ho imparato a dire il tuo nome, sei più brava di me a chiudere la valigia dei travestimenti, ad andartene via. No, non chiedermi se a vincere è chi lascia prima il tavolo, o chi lo lascia per ultimo, chi porta in borsa i cerotti, o chi fa seccare la ferita al sole. So per certo che mi strappi cose, che mi fai su e giù, simile a una formica curiosa, esplorando dispense e sembianze, i ricordi assortiti nei barattoli, le briciole di nostalgia. E succede che ti odio, che giro la testa davanti al tuo capriccio, in faccia a quelle corrispondenze che riposano al riparo dai traslochi, dal mio passato. Questa bolla in cui ti guardi, che distruggerai a tuo piacimento, con un solo battito di ciglia. Alle volte sembri una bambola di pezza che una mano incosciente ha cucito e scucito mille volte, cercando l’armonia impossibile. Tu me ne mostri i segni, fiera, come un bambino che esibisce ginocchia sbucciate. Accendo una bionda e ti ascolto spogliarti. Fuori dai nostri inutili dispetti, mi ricordi il riflesso dei lampioni sull'acqua, hai lo stesso tremolio inevitabile e puntuale, gli stessi contorni scostanti. Sembri quasi il racconto di un sogno ricorrente. E proprio come se stessi sognando, se ti facessi una domanda qualunque, se provassi a toccarti, ti agiteresti, libera, per difenderti dal cadere da questa parte. Piuttosto, abiti la dimensione dei gesti meccanici, di chi rifà il letto ogni mattina, scansando l’idea della felicità, col vento di bolina che non ti perdona niente, e il terrore della morte, dei ragni, della follia; ma sono qui per questo, per farti da ponte fino a terra, non ti devi preoccupare. Sono le paure a rendere tutto più reale, è questo pavimento di foglie secche e giocattoli rotti. Che stupido sarebbe dirti che capisco, che tremiamo per le stesse cose. È nel tranello della serenità che il tuo nome diventa illusorio, se nel mio mondo esisti solo sulla mia bocca. Dopo, hai una casa, un cane, un compagno, e tutto un elenco fatto di cose che tranquillizzano. Ma c’è un prima e un dopo solo nei calendari, nel bisogno di dimenticanza quanto di toccarti. A te sembra non importare, dici «non lo so», tieni gli occhi al soffitto, fai il morto a galla in un mare bianco di lenzuola, con i capelli che ti fanno da cuscino, e le tue oscillazioni, fatte di fughe e pirati. Dici che ti spavento, che non sai gestirmi e, sempre senza guardarmi, rimbocchi bene la coperta, la regola inderogabile, mi porgi ancora la tua voce incorporea, questo passerotto allegro e saltellante. Che farcene allora delle nostre incompatibilità in materia di moltitudini, del nostro guardare sbilenco chi accende la scritta luminosa, «HAPPY NEW YEAR». Tutto questo è come i primi momenti di un ritrovarsi dopo molto tempo: sorrisi, domande, lenti allinearsi. Mentre da sotto, montacarichi d’ombra, sale piano un altro presente, fatto di alghe, e morsi, e saliva. E sappiamo che questo incontrarsi potrebbe essere devastante, tu però aggiungi puntuale la postilla, segni a penna l’as te ri sc o: rimandi a dimensioni parallele, ricordandomi un romanzo da tasca, da momento libero al caffè, da aereo in piena notte, da hotel innumerevoli. Ora è quasi mattina, ce lo dice quella luce che si fa capire anche attraverso le persiane abbassate, come mi hai insegnato nel tuo pensiero di futuro. Forse ora stai dormendo per davvero, e allora respiro piano per non svegliarti, rimango a cullare il tuo sogno di dischi che suonano e profumo di bucato, giocando con le dita a ridisegnarlo nell’aria, per restituirtelo, intatto, ma a misura di due. Non adesso, domani, forse. Adesso riposi, e ti lascio al tuo mondo di pace, tra richiami di navi e incontri felici.
È un io parlante il protagonista del racconto. È dentro e fuori. Spiega la storia dei due protagonisti e la vive, vibrando e facendoci vibrare per “la presenza emotiva e la distanza emotiva di due corpi che aderiscono nel letto e di due anime distanti nello stesso letto”. È una notte come tante, ma anche una notte diversa che si affaccia dalla finestra sul Nuovo Anno col suo “HAPPY NEW YEAR” che va prendendo corpo e colore e immagine di cielo/mare sempre discordante dall’azzurro che lo scrittore-poeta-autore ama e che gli sfugge in continuazione. Sospeso tra “moltitudini” e silenzi di “solitudine”. Il suo sentirsi solo sempre, anche con una sigaretta tra le dita, e labbra da baciare per esistere, nonostante in lontananza prema la certezza di “una casa, un cane, un compagno, e tutto un elenco fatto di cose che tranquillizzano. Ma c’è un prima e un dopo solo nei calendari, nel bisogno di dimenticanza quanto di toccarla”. E l’uno si fa doppio senza includere l’altra, un tempo “espediente comico”: da Plauto a Shakespeare, passando per Stevenson, Oscar Wilde, Pirandello, Calvino. Non nel racconto di Mauro Massari, dove il doppio è sempre uno nella solitudine, che gli è propria, nella sigaretta che trattiene tra le labbra e un caffè per non fare domande a lei, abituata a non dare risposte, ma ripetizione di gesti di chi non è certa della propria voce in frantumi alle prime luci dell’alba, che non saluta perché ora dorme, restituendogli un “due” che non è mai tale, ma si espande su “navi” che promettono “incontri felici”. C’è, però, un “forse” leopardiano nelle ultime parole di Mauro, un “forse” che azzera certezze e speranze e rende tutto dubbioso, evanescente, irreale. E la “siepe” è solo una barriera a quell’infinito che “nel pensier si finge” il grande Poeta recanatese, per “naufragare dolcemente nel mare delle illusioni”. Più amaro, allora, il “forse” di Mauro Massari? Ai lettori-“posteri” l’ardua sentenza”(e cito opportunamente Manzoni? Forse…).

mercoledì 29 gennaio 2025

Mercoledì 29 gennaio 2025: GIOVANNI GASTEL: poeta per vocazione, fotografo di professione...

E oggi voglio ricordare ancora e ancora Giovanni Gastel. È andato tra gli angeli e le stelle troppo presto. Troppo pochi i suoi anni per un UOMO come lui. E di lui voglio parlare a sprazzi di ricordi, annidati nel cuore e nell’anima perché Persone così non vanno mai via per sempre. Rimangono più vive che mai per sempre. E parto dalla sua eccezionale umiltà, dote pregnante della sua personalità e umanità. E, del resto, l’umiltà è una dote necessaria all’uomo di fronte al mistero del Creato. Non se ne può fare a meno. Solo la nostra arroganza ci fa dimenticare questa necessità. C’è, a questo proposito, una poesia molto profonda di Giovanni. Eccola: Questo giardino/ potrebbe essere solo/ un bosco di persone/ agitate e complicate dal vento./ Ma non cerco la differenza stasera/ voglio con me il dubbio di non essere diverso/ da questi fiori da queste piante./ Senza più sangue pulsante/ ma verde linfa che scivola dentro di me./ Torna immenso Pan/ a confermarmi che sono ancora parte del tutto/ come era un tempo/ prima della paura e dell’arroganza.

Mi sembra giusto, però, dopo aver focalizzato la caratteristica che maggiormente lo connota, l’umiltà, rivolgergli un pensiero di affetto e gratitudine per quanto ci raccontano le sue fotografie, i suoi versi, i luoghi da lui attraversati sempre con occhi bambini e attenzione agli altri, al mondo. E voglio ricordarlo con le parole non mie, ma di chi lo ha conosciuto bene perché ha condiviso con lui esperienze di lavoro, gioie familiari, lunghe vacanze e risate insieme. Il testo mi è pervenuto grazie a Caterina De Fusco che lo ha letto per prima e me ne ha fatto dono con la sua consueta generosità. Leggete un po’: “Giovanni Gastel tiene bottega a Milano, in via Tortona numero 16. Anche se l’edificio moderno può trarre in inganno, si tratta di una delle ultime botteghe artistiche di tipo rinascimentale. Qui, sotto l’occhio vigile del maestro, le richieste dei principi della moda vengono soddisfatte da una schiera di professionisti come in ogni bottega d’arte che si rispetti. L’impressione è di un fervore continuo, a cui è molto difficile sottrarsi. Gastel appartiene a quel genere di autori che amano circondarsi di persone mentre lavorano, che traggono alimento dalla condivisione dei progetti. Quando ho accettato di scrivere il testo, non immaginavo che avrei fatto più riunioni per questa piccola mostra che per quella di Arcimboldo a Palazzo Reale. D’altra parte Giovanni è un artista sensibile e generoso e lavorare al suo fianco - almeno su di me - produce un effetto rigenerante. Come tutti gli artisti ricettivi, dotati di talento naturale, nel lavoro è veloce e poco prevedibile. (…) In queste Cose viste mi sembra di riconoscere una parte della personalità di Giovanni più profonda e riflessiva, di certo meno ironica di quella che conosciamo. (…) Come tutte le arti, la fotografia si fonda su un principio di selezione e di cristallizzazione: l’immagine deve diventare forma, e attraverso di essa acquisire un significato. Per risarcire l’indifferenza del tempo e delle cose, l’artista - non solo il fotografo - deve rendere universale l’istante particolare ed effimero, caricandolo di durata e di astrazione. Si potrebbe dire che in queste foto Gastel cerca di cogliere, fin dove gli è possibile, il lato perenne delle cose quotidiane. Gastel sembra comprendere che le forme ideali e le armonie segrete non appartengono più al nostro mondo, e infatti non le propone come modelli. Le lascia trasparire appena, come a indicare che la possibilità di attingere a un senso più vasto rimane anche oggi, se pure nell’incertezza che ci circonda, che la sacralità delle cose permane, se soltanto si è disposti a vederla”. (giovanni gastel, cose viste, a cura di francesco porzio, studiogiangaleazzovisconti, 15 settembre - 22 dicembre 2011, Silvana Editoriale).

Questa la mia nota a quanto letto e riportato: <Si tratta di alcuni stralci della Prefazione del prof. Francesco Porzio al catalogo della mostra di Giovanni Gastel, dall’autore intitolata “cose viste” e curata appunto dal su citato eccellente studioso e critico d’arte. Già la copertina minimalista del catalogo, tutta in minuscolo e ridotta all’essenziale, connota la semplicità e l’umiltà del grande artista, che nel 2011 era già all’apice del suo successo di fotografo. Ma quello che ancora di più mi affascina è il modo pacato, sincero, empatico del prof. Porzio nel descrivere lo studio gasteliano, come luogo fisico e dell’anima, in continuo magico fermento in conformità alla personalità “sensibile e generosa” di Giovanni Gastel, veloce e imprevedibile nella realizzazione dei suoi lavori, in perfetta sintonia e armonia con i tanti professionisti e allievi di cui amava circondarsi per diffondere la sua luce intorno nell’ambiente che abitava e a tutti quelli che lo circondavano. Giovanni cercava, raggiungeva e conquistava ogni giorno attimi puri di felicità per la gioia che gli procuravano la passione e il talento, legati al suo lavoro e alla sua poesia, e per il bisogno/desiderio di condividerla con tutti: con i presenti nel suo studio, ma anche fuori, con quanti (tantissimi) seguivano la sua mitica Pagina FB. Con quanti amava abbracciare con il suo sguardo generatore e donatore di sogni.

E vorrei concludere queste pagine con una nota di Caterina De Fusco che ha spesso condiviso la gioia di Giovanni Gastel nel suo studio di Milano e non solo, collaborando con lui in tante suo Mostre da un capo all’altro del nostro pianeta: Gastel approdò al “pensiero creativo” nel momento in cui iniziò ad eseguire scatti non più con la testa ma con l’anima. in quel preciso istante fu dimentico di diaframmi, esposimetri, tempi controllati, la fotografia per Giovanni divenne estensione automatica di sé stesso; ciò gli permise di far pace con i suoi “demoni”. Scattare divenne “pura gioia”, similmente ad un danzatore di Sufi che entra in connessione tra Cielo-Terra.

E a noi non rimane che la gioia di averlo incontrato, conosciuto, ammirato, amato in quel poetico contagio di anime che diventa conquista quotidiana di attimi di felicità nella consapevolezza che sia stato e sia davvero un dono per sé e per gli altri… Giovanni Gastel soprattutto poeta, per innata, naturale vocazione, e talentuoso fotografo a livello mondiale, per professione.  

E, così, sempre più, a mio parere, la sua personalità e il suo talento si definiscono in un intreccio continuo delle doti straordinarie, che via via si dipanano nel restituirci la sua genialità ricca di mille sfumature: l’umiltà, l’ironia, la gioia di vivere e di produrre bellezza, la malinconia, la poesia intima e notturna per comunicare con sé stesso, con la gente, con il creato e il suo Creatore; la fotografia: lavoro e passione da vivere e da condividere con gli altri, in una esaltazione dei sensi e dell’anima.

Esaltazione che nasce quasi sempre da una folgorazione, dovuta, fin da ragazzino, alla Bellezza del suo lago di Como; all’Armonia, che vi scopriva nella sua immensa villa di Cernobbio sul lago; alla   Parola, che traduceva tutto quell’incanto in Poesia. Non a caso, trascorre, quando può e appena può, tutto il suo tempo libero in quel luogo incantevole, incendiandosi continuamente di passione per l’Arte a trecentosessanta gradi, facendola musa ispiratrice della sua scrittura: Scrivere è “il rumore del tempo” che passa. E ci trasforma pur lasciando intatta la nostra personalità di fondo. E la mia è quella di un sognatore. La parola è per me Luce che è la carezza di Dio, che ci ha donato tanta Armonia nel Creato: il giorno del plotone/ sia benda sopra gli occhi/ questa sconfinata bellezza.

Folgorazione, del resto, da folgorare, per estensione significa: lampeggiare, fulminare, balenare. È l’improvviso accendersi del cielo con luce molto intensa e luminosa. Quindi, è un diffondere vivida luce, ma anche colpire, uccidere (scarica elettrica dovuta ad un fulmine). 

Metaforicamente, la folgorazione è l’illuminazione improvvisa che coglie tutti gli artisti. E di folgorazione si può parlare in “Acque amate”, un Progetto creativo, poetico, fotografico, sollecitato da due straordinarie fotografe, discepole dell’immenso Giovanni Gastel, nel suo studio di Milano. Ho tratto dal loro libro Acque amate, appunto, firmato anche da Giovanni Gastel, due tra le più significative poesie che sono un canto d’amore per il mare Adriatico di Senigallia (Delia Biele) e per il lago di Como (Giulia Caminada).

La poesia di Delia ha per titolo “La vastità del mare” ed è decisamente filosofica. Ci aiuta a pensare e a riflettere: Quali varchi dovremo ancora attraversare/ naufraghi in ogni dove col pensiero/ affacciati sul mare/ confine dell’umanità/ a mani nude ci prepariamo alla lotta/ immersi nei nostri dolori/ accarezziamo l’onda/ sperando di partire/ o di tornare?

La poesia di Giulia s’intitola “Il mondo emerso”: Come tazza dal bordo irregolare,/ come fantasia senza geometria di una stoffa,/ come calligrafia rotta da un tratto/ o energia che sprigiona da un gesto./ Non è più l’occhio/ ma la mente che vede./ Parca di parole/ ascolta il ticchettìo/ della pioggia di primavera,/ partecipe dello splendore dell’universo.

Sono versi che corredano le splendide foto di Delia e Giulia, sotto la evidente ispirazione del loro Maestro, non solo per le immagini ma anche per le parole. L’intero Progetto piacque tanto al grande Giò, il quale sul libro scrisse solo qualche anno fa: … Sono acque tormentate e serene sono scrosci e bagliori. Sono macchine per pensare queste splendide fotografie. Brava Giulia, brava Delia. Con grande stima. Giovanni Gastel.

E ancora mare e ancora amore per questa distesa azzurra che ci regala fremiti di emozione purissima, in cui ritroviamo, ciascuno con la sua storia, gli “istanti” imperituri delle nostre vite.

E di “istanti imperituri” parla Giovanni, quando pone ogni sua speranza nella carezza di Dio a calmare ogni dolore: “Se come neve potesse/ la pace del cuore/ scendere su di noi./ Se il vuoto accogliesse/ il nostro dolore/ le nostre assenze/e restituisse presenza e gioia”./ Così mi hai detto/appoggiata alla notte./E non ho saputo rispondere/ ma ho pregato lo spirito del dolore/di alleggerire il nostro cammino./ Come angeli caduti/vaghiamo nel mondo/ aspettando il Dio che ritornerà/ a placare questa terribile solitudine/dell’anima./ Basterà una sua carezza a dare/ senso ad ogni cosa.

… E vorrei concludere, ancora una volta ma non per l’ultima volta, con il ricordo di quando affidò i suoi sogni d’amore a Dio e acconciò le ali per raggiungerLo, dove ogni ansia terrena si placa e si annulla nella Sua divina carezza. Ma è rimasto nel nostro cuore con tutta la Bellezza che ci ha regalato con le sue poesie e le sue fotografie, con tutta l’amorevole generosità con cui ha accolto ciascuno di noi, pago di veder fiorire la gioia ad ogni suo sguardo, ogni sua parola, ogni suo sorriso a chi aveva incontrato per un giorno o per un’intera vita.

Erano questi gli “abbracci” le “attenzioni minime e immense” che lo rendevano davvero felice. Infatti, solo qualche anno fa, così scriveva sulla sua Pagina FB: Un abbraccio vi manderò/ da questo mio mondo di parole./ Un abbraccio forte/ da questa mia solitaria isola./ Un abbraccio aspetterò/ mentre qui scende la sera/ inesorabilmente come il destino./ Un abbraccio/ che porterò con me fino al giorno/ in cui memoria e sogno/ balleranno confusi nella mia mente./ Un abbraccio. (Castellaro 2019).

Era questo il suo costante aprirsi agli altri per offrire e ricevere amore, senza mai pensare a una “deminutio” della sua fama e grandezza, del suo NOME. Desiderava solo amare ed essere amato. Grazie e ancora GRAZIE, Giovanni!

E per oggi mi fermo qui. Non ho più parole. Solo lacrime di ricordi, commozione, gratitudine. E questo Nuovo Anno si tinge di Rimpianto e di Speranza. E siamo ancora insieme… per RICOMINCIARE!  Tutti! Giovanni Gastel compreso. Sempre presente nella mia anima, scrigno prezioso della sua, della mia poesia. Ne parlerò ancora e tanto!

A presto. Angela/lina

  

mercoledì 22 gennaio 2025

Mercoledì 22 gennaio: "QUALCOSA" di personale e... ancora qualche riflessione sulle "favole" di Mariella Medea Sivo...

Sono ancora qui, nel nostro blog, a parlare innanzitutto di nonna Angelina, di cui porto il nome, perché volò in Cielo incontro al nonno che aveva perso un anno prima e che era tornato a riprendersela, come aveva promesso. A lei ho dedicato oggi questa poesia tenerella per chiederle scusa per tutti i patemi d’animo che le ho fatto vivere nella nostra casa “del gelso e delle rose” per via delle mie eterne ribellioni ai timori e tremori di avere la responsabilità di fare da madre a noi due nipoti: Lizia, tranquilla, studiosa, sempre pronta a inviare ai nostri genitori lontani le notizie della nostra casa; io, sempre in giro con la mia bici per le vie del nostro paese e per andare dalle mie amiche del cuore. Io, ribelle ad ogni suo richiamo, sua raccomandazione o imposizione. Lei sempre in ansia per me, dopo la perdita di ben dieci figli, oltre mamma, l’unica sopravvissuta a tanto strazio, di cui portava i segni, che noi allora non riuscivamo a cogliere, ma che tanta apprensione creavano in nonno Mincuccio, sempre pronto a proteggerla col suo infinito amore…: Te ne andasti così in un soffio leggero/ come la tua anima bella/ a raggiungere il tuo amore perduto/ da un anno appena ma tanto lontano./ Pure venne a prenderti/ per portarti con sé come aveva promesso/ e tu ansiosa lo aspettavi, lo vedevi/ alla soglia di ogni dimenticato dolore./ All’alba suonarono alla porta:/ - nonna - sussurrò,/ - non c’è più - dissi/ e dentro ero già preghiera./ Mi vestii in fretta e ti raggiunsi/ nella tua casa di gelso e rose/ un tempo anche la mia casa/ con la tua voce a indicarmi la retta via,/ che litigava con la mia allegria./ E ora dormi con la tua pelle di rosa e pesca chiara,/ e sogni ormai oltre il cortile/ e le stelle e i canti di bimbi a farti festa./ Sei tornata nella casa del Signore/   (io nella tua casa e da te…)

E dopo questo intenso ricordo, di cui ho avvertito l’urgenza del cuore, eccomi ancora con le prime 12 storie raccontate da Mariella Medea Sivo nella nuova collana editoriale, inaugurata dall’Editore Peppino Piacente della SECOP edizioni, “I libri di Medea”. Ebbene, ne voglio parlare per altre riflessioni che mi sono venute in mente, dopo aver letto quello che ha scritto l’Editore per promozionare il primo Libro dell’Autrice; il primo, si spera, di una lunga serie. Non avevo fatto caso, per esempio, ai nomi delle protagoniste dei racconti aventi come iniziale la M di Mariella oppure di Medea… Ma ecco, per maggiore chiarezza, cosa scrive al riguardo Peppino Piacente: “Le dodici figure femminili, una per ogni racconto, hanno un elemento in comune: l’iniziale del nome, la emme, che è l’iniziale di parole come mare, madre, memoria, matrimonio, magia, mancanza, meraviglia, mappa, mente, malattia… Una lettera a tre zampe che riesce a mantenersi in equilibrio con la stessa abilità degli animali a quattro zampe che ne abbiano persa una. Una lettera che come la stella marina lascia cadere un braccio per far nascere una nuova stella”. Buona lettura… In verità, io sono stata tratta in inganno da due storie, le cui protagoniste esibiscono altri nomi: Livia e Vania, per esempio, oppure la lettera di una madre e un paio di altre, le cui protagoniste non hanno un nome proprio. Ma ecco perché: sono mamme. La M ritorna nella loro maternità. Non ci avevo fatto caso. Ora tutto mi è più chiaro. Pertanto, desidero proporvi alcune mie altre riflessioni sul Libro. Desidero, però, fare una precisazione: anche se la lingua è un organismo vivente che muta continuamente nel corso del tempo, io non parlo mai di “favole” ma di “storie” perché le favole, almeno un tempo, riguardavano il mondo animale personificato e con morale incorporata (vedi Le favole di Esopo; quelle di Fedro indulgono più sulle poesie e spesso dimenticano la morale), anche se oggi, per semplificare, si accetta pure il significato “di storia inventata” dato da Mariella; altro è la fiaba che mette in moto nei bambini la loro naturale creatività, fatta anche di immaginazione e fantasia (la scopa che diventa cavallo, e così via), e ha per protagonisti principi e principesse, spesso supportati dalla magia di una bacchetta magica. Serve, tra l’altro, soprattutto a distinguere il bene dal male, scoprire i propri sentimenti, sentirsi rassicurati dai genitori, imparare ad affrontare il mondo anche attraverso significati psico-analitici come avviene in Bruno Bettelheim  e il suo Il mondo incantato.

Detto tutto ciò, mi riporto a questo primo Libro delle Favole senza finale felice di una ragazza nata negli anni ‘70 perché è un documento importantissimo non tanto dei costumi di ieri e di oggi, che sono notevolmente e inevitabilmente cambiati, quanto della necessità che ogni donna di oggi avverte di rivendicare i suoi spazi di libertà e di salvaguardia di sé stessa, sotto tutti i punti di vista: economici, culturali, sociali, e nei confronti dell’uomo, sia esso padre, marito, amante, amico, e via di seguito. E lo fa con una spregiudicatezza coraggiosa, forte, sincera, anche quando si addentra nei meandri del corpo e della psiche umana sempre più scabrosi, che portano alla perdizione, ma anche alla scoperta di sé nelle pieghe più riposte del proprio corpo-mente-cuore-anima e della propria possibilità di ESSERE e di esprimersi, al di là di ogni possibile utopia (a proposito non ricordo più chi abbia detto che “l’utopia non è ciò che non si realizzerà mai, ma ciò che non è stato ancora realizzato”, trovandomi perfettamente d’accordo), dilatando sempre più la percezione di sé e del sé nel mondo contemporaneo, che non fa sconti e accetta le sfide di qualsiasi natura. E quelle della nostra Autrice ben si attagliano e si raccordano a tutte queste sfide/opportunità. Un esempio? Proprio il racconto di Livia e Vania con sorprendente finale a sorpresa, oppure quello intitolato “Prima lei, poi io”, in cui il cinismo proprio della storia si allea con l’umorismo e l’ironia di Mariella, come è nelle sue corde. E non mancano i dettagli erotici, come non mancano i dettagli medici per giungere a dimostrare, senza false ritrosie e ipocrisie “l’autenticità del proprio essere” tra due persone che non si amavano ma che, facendo sesso sfrenato e ardito, dopo essersi abbandonati “a un orgasmo intenso, prodigiose, vorticoso”, “erano solo un uomo e una donna che vibravano all’unisono”, “consapevoli del fatto che la verità si trovasse nel sesso (molti scrittori della Letteratura italiana e mondiale ne hanno parlato negli stessi termini. Nell' Italia del Novecento chi non ricorda Moravia il libro La cosa e altri racconti, edito da Bompiani il 1998?), nella disperazione dei limiti”. E su questa “disperazione dei limiti” si potrebbe scrivere un trattato psico-analitico, risalente a Freud per giungere a Lacan, che vede nell’atto sessuale una “mancanza” più che una “presenza”. E ciò, a mio parere, costituirebbe già una “disperazione dei limiti”. La conclusione a cui giunge Mariella? Si era trattato di “uno scambio osmotico di energia vitale tra due corpi, tra due anime, un modo per creare quel legame che manca all’Universo. (vedi 11 minuti - Paolo Coelho) Nulla più.

A questa ineccepibile conclusione non mi resta che aggiungere poche altre riflessioni, per non rendere questo nostro blog troppo “pieno” e non troppo “ricco” a discapito della buona lettura e del salutare confronto. E allora, mi sembra molto interessante lo scrabbooking, messo in atto da Medea nelle ultime pagine. Originale anche il verso orizzontale riservato dall’impaginatore al racconto “Libertas” di Gabriele Piccarreta. Amaro, ma decisamente autentico e vero nella nostra società “vermiglia” perché intrisa del “sangue di milioni di morti” (Joseph Roth)

E, infine, desidero ribadire la mia stima e affettuosa ammirazione per il discreto ma onnipresente compagno di Mariella, Nicola Rizzi, senza il quale la stessa Autrice non avrebbe potuto ideare e realizzare questo suo eclatante esordio nel mondo della scrittura. “Senza di lui”, conclude Mariella Medea Sivo nei ringraziamenti, “starei a scrivere ancora sulle tavolette di cera”. E la sua ironia e autoironia colpisce ancora…

Alla prossima. Vi ringrazio per la pazienza e vi abbraccio per l’affetto che ci lega. Angela/lina      

domenica 19 gennaio 2025

Domenica 19 gennaio 2025: Un Libro insolito e unico da non perdere...

Per mia fortuna faccio parte della Casa editrice SECOP e dell'Associazione Culturale FOS per cui ho avuto il piacere di leggere in anteprima il Libro di Mariella Medea Sivo, che inaugura una nuova Collana editoriale, che prende l' avvio proprio da lei: "I libri di Medea". Ebbene, mie carissime amiche e miei carissimi amici, è oggi l' occasione giusta di parlarvene perché stasera c'è la prima presentazione a Corato in una location di tutto rispetto, come è facile scoprire seguendo FB. Ascoltate un po' cosa ho rilevato da una prima attenta lettura:

Insolito, unico nel suo genere, copertina catturante, formato mini per prendere posto comodamente nella borsetta femminile o nel borsello maschile degli anni '70, anni che segnano anche la data di nascita dell'Autrice, la quale dichiara di non avere velleità letterarie, ma scrive come solo poche scrittrici di oggi sono in grado di fare, proiettandosi indubbiamente in una dimensione letteraria tutta sua verso il Terzo Millennio. 

Mariella è unica come il suo Libro. Il primo di una serie, che le auguro, illimitata...

È una scrittrice ricca di contrasti lunari (leggi: sogni, illusioni e delusioni, ingenuità e provocazioni, e tanto altro ancora nella sua complessa e inafferrabile personalità) e di forti contraddizioni, che sono il suo pane quotidiano. Molto interessante è anche il companatico che ci offre e che fa parte della sua giornata di accanita lettrice e presentatrice dei libri di altri Autori, meritevoli della sua attenzione. Nel suo modo di pensare e di scrivere, oltre che di vivere, mi pare di riscontrare alcune affinità con la filosofa e mistica francese Simone Weil, vissuta nella prima metà del secolo scorso. La Weil fa della contraddizione il punto centrale della sua vita, con la discesa negli inferi del suo corpo aduso alla sofferenza e all'abisso di ogni male, e della sua anima che si libera dalla pesantezza del corpo per librarsi verso l'alto e scoprire Dio, àncora di ogni salvezza. 

In Mariella Medea Sivo, nella sua scrittura, e nei suoi stessi modi di pensare e di vivere, ci sono, infatti, abissi e voli, che determinano la sua libertà e il suo coraggio. Nata in un periodo storico-sociale di mezzo, tra le rivendicazioni sessantottine del secolo scorso e i momenti bui della estrema violenza delle brigate rosse, Mariella si pone l' obiettivo di rivendicare la sua libertà di essere una donna pensante ma non pesante, amante della cultura a vasto raggio, frutto di innumerevoli letture, che le danno la forza e la capacità di sentire la frantumazione positiva e propositiva di sé e del sé, percepito dagli altri, in tutte le donne possibili, in questo suo prima lavoro ci sono le storie di ben 12 donne che hanno bisogno della sua voce, per farsi voce e delle sue storie, per rivendicarsi. 

Splendida la grafica, che accompagna ogni storia di donna, intuita e realizzata del suo eclettico compagno, Nicola Rizzi, che, come sapiente Direttore d'orchestra, insieme ai suggerimenti editoriali di Peppino Piacente e Nicola Piacente, alter ego paterno ormai, ha dato vita a un libro di straordinarie e impagabili soluzioni grafico-poetiche, fino a includere, alla fine di ogni nuovo libro, uno scrapbooking, la storia di un lettore che voglia cimentarsi con la scrittura o di un altro Autore famoso, per valorizzare sempre più "la scrittura di VALORE", come sostiene fermamente l'Editore Peppino Piacente nel presentare, con orgoglio, la nuova Collana, bene-augurale per il Nuovo Anno appena iniziato...

Meritatissimi applausi all'Autrice da parte mia! Confido naturalmente nel confronto che potrà scaturire, con cognizione di causa, nel nostro blog, dalla vostra lettura. Vi abbraccio. Angela/lina

martedì 14 gennaio 2025

Martedì 14 gennaio 2025: Siamo in pieno inverno con pioggia battente, gelo e nevischio...

Vorrei trovare un appiglio per sentire meno violenta questa morsa di gelo che stritola persino i pensieri. Unica risorsa: guardare dal mio finestrino aperto al cielo di latte e panna montata una luna piena inesistente, solo pensata. Mi piacerebbe essere su un aereo e volare oltre le nuvole per ritrovare la luna immensa (come dicono) e offriverla come dono del Nuovo Anno. Ma è solo un sogno irrealizzabile e lontano. Più facile parlarvi dei rami spogli dell’albero che ad ogni alba mi saluta con i primi scriccioli intirizziti a salutare per me il cielo. Ebbene, mi incantano i piccoli diamanti (le goccioline che non cadono, intirizzite dal gelo) che li rendono preziosi. Sono solo gocce d’acqua, ma quanta magia mi regalano appena riesco a vederle. Mi parlano di RESISTENZA per ESISTERE ancora. Per ESSERCI, come afferma il filosofo tedesco Heidegger.  

Ma poco fa mi sono imbattuta in due parole meravigliose: TENEREZZA e ANIMA di Raymond Carver ne Il mestiere di scrivere e sto intensamente pensando a quanta tenerezza ci manca nel nostro vissuto quotidiano per un pudore che ci impedisce di esternare i nostri sentimenti più intimi e profondi, per una mancata educazione ai sentimenti, per una forma di assuefazione alla tranquillità dei nostri rapporti in famiglia o, al contrario, agli scontri quotidiani che avvengono tra genitori, tra genitori e figli, tra questi ultimi fra di loro. La tenerezza del tutto assente. Dimenticata. Esclusa. E pensare che basterebbe una carezza, un abbraccio, una domanda semplice per interrompere il silenzio: “hai mangiato?”, come appunto era solita ripetere Elsa Morante, che pure si dice avesse un pessimo carattere per via delle sue esperienze familiari prima di conoscere Moravia. I due scrittori, comunque, ebbero una lunga e tormentata storia d’amore, che non escluse mai la tenerezza e l’anima, essendo entrambi sensibilissimi e amanti della scrittura fino allo spasimo. Del resto, “hai mangiato” mi fa pensare all’amore materno, l’amore oblativo per eccellenza, nell’atto di dare il proprio seno al bambino, atto che è fonte di sopravvivenza e di vita per il figlio. E mi piace concludere queste mie riflessioni, mentre un friccico di sole tra tanto gelo riscalda anche i pensieri, prima rattrappiti e sfiancati dal nevischio, con due mie poesie, in cui ritrovo tutta la Tenerezza della mia Anima:

IMMENSA ROSA BIANCA IL CIELO

 

Immensa rosa bianca il cielo

sfilacciato di petali

in caduta trasognata

e un lento volteggiare nel vento

Ulula la bufera e stride

Bussa impetuosa alle porte

della mia casa stretta nel suo scialle

Nessuno va ad aprire

incatenati gli occhi ai vetri lunari

Bianche piume come di nido

danzano leggere sfogliando

la rosa incantata

che su merletti d’erba frana

stranita

Pigolio affamato di scriccioli

in cerca di ciliegie infreddolite

che di rosa fioriranno a primavera

Spolvera di bianco il giorno

questo gioco di ciglia

dischiuse su strade d’antiche

stagioni

Incontro mi viene

sul cocchio di bianco cristallo

e fiocco di ghiaccio nel cuore

la Regina delle Nevi

Rabbrividisce la vecchia bambina

ai ricordi d’un tempo fioriti

su labbra di parole ora in disuso

Al rosso fuoco del braciere acceso

il cuore di gelo della perfida sovrana

si scioglieva in un lago incantato

che rideva di bianchi cigni

sculture bianche di zucchero filato

Briciole di tenerezza allora

che i fiocchi di neve erano farfalle

da cullare tra mani di geloni

e pane e olive nere sotto la cenere

(noi vincevamo il sonno

al tenero mormorio della sua voce…)

 

mani di vino e di preghiera

 

è un ricordo dorato

l’autunno in un cortile di voci

di rose di gelsi di grappoli d’uva.

I tini danzavano tra piedi nudi

e occhi colmi di sole

(zuccherine le bocche

 dei bimbi rosse di mosto

antico come una favola…

… caldo il pane sfornato

alle quattro del mattino).

Tra ceste e canzoni e una festa di rose

fresche le nostre parole

danzanti tra i muri, sospese sui rami

per conservarne il ricordo

… echi d’infanzia…

Dolceamaro ricordo

del tempo incatenato all’ombra

rossa del gelso maestoso

alla gloria innamorata dei tini

inno alla mia casa.

Sono tutti qui

quelli che ho amato

e perduto.

Sono tutti qui gli assenti

(la tenerezza il sogno e l’allegria

 un rimpianto colmo di foglie).   

 Dita leggere sulla mia pena

dita con mani di fatica e sudore

            (… le manine laboriose

             quante cose sanno fare

             san cucire e ricamare

             san lavare e san stirare

             sanno bene apparecchiare).

Mani che sapevano accarezzare

carezze che sapevano consolare

mani di vino e di preghiera.

E tra le voci d’autunno

una voce d’estate:

voce di mia madre

tra voci d’infanzia.

Le conto ad una ad una…

… pareggiano il conto delle stelle.

                E delle stelle hanno

                un muto richiamo

                un passare lento

                al soffio di un mistero grande

                profondo quanto il silenzio

          (non c’è stato mai il silenzio

                         del cuore)  

E per oggi va bene così. Con tanta tenerezza e con tutta la mia anima. Per un 2025 colmo di carezze e di rinnovata Speranza in un mondo migliore… angela/lina

  

giovedì 2 gennaio 2025

Giovedì 2 gennaio 2025: cambiamo pagina, all'insegna dei buoni propositi per questo Nuovo Anno...

Ci siamo finalmente buttati alle spalle un nefasto anno bisestile, che non ha smentito le antiche credenze: “anno bisesto, anno funesto”. Almeno per molti di noi, direi a livello mondiale. Per la mia salute, ancora tra mille interrogativi, è stato sicuramente così. A conferma? Sono reduce da una mattinata nell’ospedale di Altamura, dove sono stata ricoverata a lungo nei mesi scorsi, per un controllo e devo tornarvi tra una ventina di giorni. Gli strascichi dell’anno appena trascorso si fanno ancora sentire. Spero in una gemma fiorita che mi preannunci la primavera, anche se siamo in pieno inverno. E voglio vivere questi giorni all’insegna di nuovi propositi, che definiscano davvero un cambiamento, come è giusto che sia. Non si può rimanere ancorati al passato, anche se ci appartiene e ci ha sempre più definito fino ad oggi, occorre cambiare pagina per potersi immergere nel futuro, guardando alle nuove generazioni. Saranno queste le protagoniste del Terzo Millennio. E, tra i buoni propositi, metto senza ombra di dubbio la “scrittura a mano”, per cui riprendo a parlare dell’  importanza della Grafologia, che vale la pena riproporre, cominciando da ciò che ritenni opportuno scrivere proprio nell’ospedale di Altamura, dove alcuni mesi fa mi hanno salvato la vita:

A volte una degenza in ospedale, soprattutto di sera tardi quando tace anche il dolore, serve per pensare, riflettere, scoprire qualcosa a cui prima non avevamo pensato o dato importanza.

A me è capitato in questi giorni pensano ai miei scritti, alle mie pubblicazioni (tantissime). E, pensando alla scrittura che da oltre 500 anni non può più chiamarsi “grafia”, mi sono davvero spaventata perché solo la scrittura a mano, continuata nel tempo, perpetua la nostra identità.

Persino gli uomini primitivi si sono impadroniti, con i loro graffiti nelle caverne, di una loro identità, una diversa dall’altra, che noi abbiamo perduto per sempre con l’invenzione delle lettere mobili, la macchina da scrivere, e ancor di più con il computer o con i mezzi di comunicazione social di ultima generazione.

Ne ho parlato con l’ultima mia figliola Daniela Leone, dottoressa in Grafologia con specializzazione in Criminologia, e proprio lei mi ha fatto affiorare alla mente il problema dell’identità che solo la scrittura a mano assicura, con tutti i segni della nostra personalità. Siamo ottimisti? Le nostre parole scritte a mano voleranno verso l’alto del foglio. Pessimisti? Si rifugeranno a nascondersi verso il basso. Ma anche il timido, l’insicuro, quello privo di autostima e così via.

Fondamentale è la lettura della firma, come vedremo in seguito con esempi concreti.

In pratica, il segno grafico ci permette di salvaguardare, oggi più che mai, la nostra identità e personalità, compromessa continuamente dalla scrittura computerizzata.

A cominciare dalla Scuola dell’Infanzia con i salutari e catturanti "pre-grafismi” per giungere alle Scuole Superiori e persino all’Università per poter scoprire le individuali potenzialità: i punti deboli e quelli forti da cui partire per ogni altra conquista.

Dovrebbero essere i genitori per primi a insegnare ai propri figli le grandi possibilità di realizzazione personale dovute alla scrittura a mano per le riflessioni che ne conseguono. Poi il compito passa agli insegnanti che, nella Scuola Primaria, possono scoprire meglio la personalità dei loro alunni, aiutandoli a trovare la propria strada prima che si perda troppo tempo nel cercarla.

La scrittura a mano, infatti, offre ai docenti una possibilità di “ascolto” nuovo, diverso, insolito, a più lungo termine per un energico “recupero” di stati d’animo positivi, di energie giovani da incanalare nella giusta direzione e nei tempi giusti perché la loro personalità venga valorizzata, tanto da sollecitare l’autostima che irrompe nella loro vita a dare una marcia in più al processo di autorealizzazione, in cui possano imparare ad ascoltarsi e a riconoscersi. E nel riconoscersi c’è tutta la valorizzazione “di sé”, come viene percepito in prima persona, e “del sé” come viene percepito e vissuto dagli altri.

Tutto questo viene supportato dalla scrittura a mano che offre il tempo per scoprire in sé il coraggio, la determinazione, la creatività: tre sostantivi indispensabili per inseguire i propri sogni e tradurli   quotidianamente in progetti esistenziali da realizzare.

Non si potrebbe fare altrettanto senza la scoperta e lettura della nostra grafia, cioè della nostra scrittura a mano.

Sarebbe opportuno che si tenessero nelle scuole di ogni ordine e grado lezioni di Grafologia, tenute da esperti in materia, perché gli insegnanti e docenti possano far tesoro per i loro interventi nelle proprie classi.

E sento il dovere di aggiungere, al riguardo, l’esperienza, in qualità Grafologa con Specializzazione in Criminologia, di mia figlia Daniela, che, studiando i tratti salienti delle personalità distorte, è riuscita a rilevare e a focalizzare, nelle sue esperienze pregresse in varie Comunità di “riabilitazione psico-fisica, le patologie da cui sono affetti coloro che sono portati al crimine, alla vendetta, alla violenza, alla dispersione di una qualsiasi esperienza identitaria.

Anche questo aspetto va sottolineato e tenuto in debito conto, quando si tengono corsi di Lettura grafologica nelle varie strutture scolastiche (alunni difficili, ribelli, violenti, apatici…), carcerarie (i carcerati assassini, indifferenti a tutto e a tutti, solitari, ribelli a guardie e a quanti nelle carceri svolgono il loro lavoro); nelle famiglie (figli difficili con doppia personalità tra casa e scuola, e comportamenti diversi con docenti diversi, per scoprire cause psicologiche, motivazioni contingenti ai vari ambienti frequentati, vissuti quotidiani, condizionamenti ecc.). Laddove si possano ravvisare rapporti esasperati e reiterati di violenza con conseguenze devastanti, fino al bullismo, al cyberbullismo, al pestaggio di vecchi e bambini, di tutti coloro che non hanno la forza di difendersi, all’assunzione di droghe, o a giungere alla depressione, al mutismo selettivo, femminicidio, suicidio, e così via).

Sarebbe opportuno prevenire piuttosto che curare e la Grafologia offre un importante supporto professionale anche se non in termini di “diagnosi” (per non collidere con altre sensibili categorie professionali) ma di “tracciare “profili di personalità”, studio aperto a 360°…

Ma non è tutto. Tantissimo altro si potrebbe dire e fare ancora.

Ritengo opportuno e necessario, per esempio, continuare a parlare della urgenza di insegnare alle persone di tutte le età a scrivere a mano per riappropriarsi della propria identità che rischiano di perdere per sempre.

E, per farlo, infatti, mi sembra giusto partire da un mio mini-saggio di un paio di anni fa “Caro Don Gaetano” della collana “Storiaè/e Memoria” diretta da Marino Pagano, studioso di Storia locale, giornalista e docente.

Il mio mini-saggio si intitola “ Voci in andata e ritorno ferme nel tempo - Carteggio tra G. Salvemini e L. Gadaleta - “.

Perché mi sembra giusto proporvi questo mio scritto, fortemente voluto dal mio prezioso amico Valentino Romano, Scrittore, Saggista, Archivista, uno dei massimi Studiosi del Brigantaggio postunitario e di tutta la Questione Meridionale non ancora del tutto risolta?

Andiamo per gradi. Il mini-saggio, che fa parte di altri quattro, per il momento, è stato progettato e realizzato da Valentino Romano per festeggiare i centocinquant’anni dalla nascita del noto politico socialista molfettese, Docente universitario e Parlamentare di sinistra Gaetano Salvemini, che non ha bisogno di ulteriori notizie sul suo conto.

Ebbene, perché tutto questo preambolo?

Perché io ho avuto la fortuna di imbattermi, grazie a Valentino Romano, nella scrittura a mano di quest’uomo d’altri tempi che fa parte ancora del nostro tempo, grazie anche alla ultranovantenne Liliana Gadaleta Minervini che è stata sua discepola nei lontani anni Cinquanta dello scorso secolo.

Ebbene, la fluida scrittura a mano di Gaetano Salvemini è in grado di parlarci dell’uomo, della sua persona e personalità come nessun libro battuto a macchina potrebbe fare. Quest’ultimo, infatti, cancella la sua identità, come purtroppo l’ha velata la macchina da scrivere della Signora Gadaleta, che la utilizzò per capire meglio la minuscola e di difficilissima grafia di Don Gaetano, che corresse la sua tesi, diventando sempre più paterno e premuroso amico della sua allieva.

La sua grafia, infatti, ci rivela l’uomo, la sua personalità perlopiù equilibrata, attenta a sottolineare tutto ciò che riteneva più importante, tendente ad un moderato ottimismo con i tratti ascensionali delle righe.

Molto particolare la sua firma: la prima volta alla G di Gaetano segue per intero il cognome, scritto in maniera molto originale ma illeggibile, sostituito subito dopo dalla sigla G.S. a denotare una personalità ricca di autentica umiltà e con tanta concretezza per evitare “i clamori della ribalta” a lui mai congeniali per via di una innata e lungimirante discrezione…

Ma la scrittura a mano serve anche per evitare che l’analfabetismo di ritorno prenda il sopravvento sulla personalità di fondo di chi deve continuare a combattere per l’affermazione di sé nel processo di autoaffermazione.

E che dire dell’opportunità che ci offre la ricerca a sempre più largo raggio, nei secoli precedenti la computerizzazione, per scoprire le vere intenzioni dei protagonisti delle nostre storie e sapere finalmente che Dante, il “ghibellin fuggiasco” amava la sua Firenze a tal punto da desiderare di essere sepolto in Santa Croce e non nella detestata Ravenna?

E studi particolari vengono riservati al cervello dei grandi dittatori della Storia per scoprire somiglianze o divergenze nei loro comportamenti, e il grado di umanità nel loro essere “disumani”, e così via. Hitler amava la musica classica, Mussolini suonava il violino, e così via.

Altri studi di grande rilevanza psicologica sono quelli svolti da Daniela in una Comunità di trans, di cui è stata per alcuni anni consulente grafologa per rilevare il grado di sofferenza dei vari “soggetti” prima di accettarsi e di farsi accettare in famiglia, che di contro non sempre era disposta ad accettarli. Storie diversificate e uguali, su cui si dovrebbe riflettere molto, con umiltà e coraggio, partendo dalle loro singole grafie, alla base di ogni altra conoscenza. A volte è la nostra arroganza che crea pregiudizi, giudizi negativi, indifferenza al problema. Quante vittime facciamo con la nostra scarsa conoscenza, col rifiuto, l’indifferenza…

Il campo degli studi delle “grafie” diventa così indispensabile e illimitato, se vogliamo salvarci dall’anonimato e persino da noi stessi. E che il 2025 sia anno di ri-nascita davvero, rendendoci migliori, per noi e per gli altri!