sabato 30 gennaio 2021

Sabato 30 gennaio 2021: Nico Mori, poeta nella vita e nella scrittura

 Vi propongo il suo testo da me commentato ieri: IL VIAGGIO

Partono

all’alba i pescatori di sogni quando

il primo sole arrossa le vele

e il pensiero,

lontano da tortuosi labirinti della mente,

vola su bianche montagne di nuvole.

 

Navigano

verso promesse e miraggi dell’orizzonte,

tra furibonde tempeste di perché,

alla vana ricerca di una dea del mare

che incantevole,

sensuale, magica e innocente,

imprigioni l’Infinito in un sorriso

e nei solchi dell’anima semini speranze.

 

Giungono

a sera sull’orlo del mondo e, nel buio della notte

Incombente, scorgono l’ultimo approdo,

il porto sconosciuto dove la corrente e il vento

spingono le barche nell’ultima traversata.

 

Allora, con occhi stanchi,

accendono lanterne rosse con l’olio dei ricordi

e vanno, scivolando nel silenzio,

verso l’ASSOLUTO

pescatori di sogni…

Il viaggio, dunque, metafora della vita. Parla di Nico e dei poeti, pescatori di sogni, ma parla di noi, di ciascuno di noi. Come già detto. Vorrei puntualizzare solo alcune altre mie interpretazioni e riflessioni che non sono riuscita a evidenziare ieri. Per esempio: “e nei solchi dell’anima semini speranze”, bellissimo verso in cui l’anima diventa metafora di terra fertile e coltivata con cura, arata in attesa dei semi per fare germogliare a primavera le “speranze”. Ed è già un respiro, un protendersi verso il futuro. Che sia breve o lungo non importa. È importante agire, muoversi, navigare per mantenere viva nel cuore la Speranza, nostra eterna primavera dell’anima (di cui abbiamo già parlato).

E presto purtroppo giunge la “sera” tra “promesse” (le attese) e “miraggi” (le illusioni), “sull’orlo del mondo”, e di noi stessi, confine oltre il quale c’è l’altro dal mondo, l’altro da noi, il nulla o l’ASSOLUTO (il TUTTO), ma già la notte incombe e nel quasi buio, e gli “occhi stanchi” per tanto cercare (e spesso non trovare) scorgono a malapena “l’ultimo approdo,/ il porto sconosciuto”. Ed è questo porto sconosciuto che ci angoscia, come tutto ciò che sfugge alla nostra mente, il mistero dell’inconosciuto, che necessariamente occorre affrontare, senza soste e senza una via di fuga, il poter tornare indietro: “la corrente e vento/ sospingono le barche nell’ultima traversata”. Allora, vanno, “scivolando nel silenzio”: occorre riflettere sull’azione non voluta, ma subìta dello “scivolare” non “in” silenzio ma “nel” silenzio: “in” restituirebbe la volontà di chi scivola di lasciarsi andare nell’abisso silenziosamente, “nel” indica la condizione/atmosfera dell’abisso stesso. A mio parere. Ma per fortuna i pescatori di sogni fino alla fine scorgono non l’abisso del NULLA ma sentono l’immergersi nell’ASSOLUTO…

Sarebbe bello e utile per tutti noi se mi mandaste i vostri commenti, le vostre interpretazioni e riflessioni. Per me, la poesia non si decodifica, si interpreta. Quando il poeta l’affida agli altri diventa patrimonio di tutti e di ciascuno…

E nel Retino si sono impigliate tante altre parole: vele, orizzonte, approdo, labirinti, mistero, Assoluto… ne parleremo.

E aggiungo due prose poetiche di Nico, su cui vi invito a confrontarci:

ALLA RICERCA DI ME

Oggi mi sono svegliato… vuoto di me.

Ho ritrovato le chiavi di casa, il telefonino, gli occhiali, esattamente dove li avevo lasciati ieri sera, ma di me… nessuna traccia.

Devo essermi perso, stanotte, nel quartiere malfamato dell’anima che talvolta frequento, tra grovigli di malinconie che tolgono il respiro e pensieri ladri che, al buio, tendono agguati per rapinare emozioni che nascondo nelle tasche.

Aspetterò che il sole sia alto… e andrò a cercarmi.

 

L’ASSENZA

È stato scritto che il dolore e lo strazio dell’assenza di persone care misurano la grandezza e l’intensità dei nostri amori. Perché non la felicità?

Forse perché felicità ed estasi sono concetti finiti, hanno un massimo e ci riempiono di attimi intensi da vivere ma circoscritti nei confini del sogno.

Il dolore - invece - non ha confini: spazia e si trascina oltre il limite di noi e del tempo.

Il dolore naviga nell’Oltre, dove l’assenza dell’altro spegne ogni luce e, nel buio assoluto, i ricordi non sfumano ma, vivi più che mai, graffiano a sangue il cuore.

A tutti noi i commenti…  

E mi preme riportare alcune poesie che le nostre parole suggeriscono:

In questo mionostro deserto ciascuno vorrebbe scappare dalla propria stanza d’amore. Il vero conforto è dentro questo mese, questo giorno, quest’ora in cui l’anima vibra di breve emozione in una danza acrobatica tra note sparse e preghiera. Ci vuole speranza e coraggio per camminare e trascinarsi poiché se il mondo a volte esplode e il suo peso è insostenibile la melodia che arriva da noi può essere lo sguardo oltre…

E Mariateresa Bari mi scrive: Angela cara, quanti temi ardenti, si è toccato in queste righe… Così intense da richiedere un Tempo di riflessione. Il Tempo sacro di una naturale metabolizzazione, per riuscire a staccare i piedi da terra e guardare le cose dall’alto. A presto. E sempre grazie (“Domenica 24 gennaio 2021: ancora alcuni versi di Giovanni Gastel e Gjeke Marinaj…”)

E ancora, sempre da Mariateresa, commentando i “Quarant’anni” di due giorni fa:

Angela… Quanto profondamente conosco queste “bugie”! e, al solito, ho le lacrime agli occhi! Sono di ieri questi miei versi. Te li dono, con una carezza gentile. “Implosione”: Cos’è questo vento/ che implode dentro/ vado di acqua in acqua masticando./ Torbida e stagnante nel ticchettio/ che confonde l’onda amante/ senza sposa da accarezzare./ora che urge la tua mancanza/ faccio risvolti segnati dal troppo sale/ che imbratta i margini del mio cuore/ se più di te non dicono/ e custodisco farfalle.

Sono due poesie da riprendere e commentare. Ne vale davvero la pena. Accadrà. Avremo il Tempo giusto per farlo. Non azzeriamolo nell’attesa. Assaporiamolo, leggendole e facendo tesoro di ogni parola…

Buon fine settimana e… a martedì. Ciao

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 28 gennaio 2021

Quarant'anni... (per te, Nico)

Questa notte erano le 2,14 a tutti gli orologi. Un fulmine ha squarciato il cielo nuvoloso ha attraversato i rami spogli del tiglio infreddolito ha frantumato i vetri della mia finestrella sul giardino solitario di casa si è conficcato nel cuore con tutte le scaglie taglienti più delle lacrime. “Sono Manuela. Nico non c’è più...”. E, per andare in deviazione, come da bambina, dopo ogni perdita, ogni addio, ogni treno a portare via mia madre, col cuore in frantumi io canto. Con le scaglie di vetro e di lacrime taglienti a straziarmi l’anima, io canto “Bésame, bésame mucho/ como si fuera esta noche/ la ultima vez…”, la canzone che a Nico piaceva tanto. Tanto da farne oggetto di una sua dolente poesia: qui attenderò la dama di ghiaccio/ per l’ultimo appuntamento./ Le tenderò la mano/ e ballerò con lei/ e confondendo passi e respiri/ valicheremo i confini del Nulla/ al suono di una musica lontana/ che lentamente si spegne,/ come vita che fugge via dalle vene. (“Como si fuera esta noche la ultima vez” in Nico Mori, Al confine di me, SECOP Edizioni 2015).

E nel canto ti incontro la prima volta, fine anno 1982, in un luogo non luogo che si perde nella memoria dei tempi, dove presentavi la tua prima ironica, scanzonata, leggera come piuma di sorriso, silloge di poesie Non chiamarmi superficiale, e Tea rideva complice di tanta sfrontata dichiarazione di concupiscenza amorosa verso le tante donne che elencavi sornione e compiaciuto. Ma era lei che avvertivi, con una metafora bellissima, quasi carboni ardenti a bruciarti le mani, che sarebbero diventate di gelo se l’avessi lasciata andare. Simpatizzammo subito. Anche io stavo per pubblicare il mio primo libro di poesie e fosti tu a presentarlo nella Sala degli Specchi del Palazzo di Città della mia Bitonto. Cominciò così un sodalizio amicale e letterario che vide coinvolti, Primo, il mio difficile quanto geniale compagno di vita per circa mezzo secolo, e Anna Maria, mia amatissima sorella, ugola graffiante alla Joan Baez e chitarra tra le mani ad accompagnarla tra sogni d’anima e dolore, in tutte le nostre antiche sere di poesia, nelle salette culturali, nelle nostre case accoglienti e un po’ pazze di risate e di allegria, negli impervi luoghi, dove la dignità umana era una rosa coltivata nel giardino da mani ergastolane, e tenere di improvvisa scoperta di poesia. Dove la mente era solo una scheggia impazzita alla mercé degli psicofarmaci. Dove il corpo era umiliato e deriso per delle disabilità evidenti o nascoste ad occhi disattenti. Dove i bambini ti attendevano per imparare a sognare in rima dopo le regole di grammatica e dei numeri sempre uguali.

Sulle ali del canto e del dolore, sulle nostre parole poetiche ad una voce si rinsaldavano emozioni, sentimenti, si intrecciavano fili di luminosa seta e ruvida canapa come gòmena indissolubile d’amicizia vera, pura, disinteressata, generosa. E i nostri figli sono diventati adulti con noi, nelle nostre case, mentre i tuoi capelli e quelli di Primo e di altri compagni di avventura letteraria si facevano sempre più radi e più bianchi. Non i miei e quelli di Anna Maria, in debito con magiche pozioni coloranti a restituirci una illusione di eterna giovinezza.

Confidenze in andata e ritorno e lunghi silenzi di lunghe delusioni, amarezze, disincanti, oltre l’incanto di ogni voce, di ogni poesia. E chi nasce poeta muore poeta. Attinge dalle stelle e alle stelle ritorna con cuore bambino. 

Il più lungo silenzio, durato troppo a lungo per ricordarlo, ti vide superare le prime avvisaglie del tempo che non perdona; vide Primo superare le prime avvisaglie del tempo che non perdona fino a cedere alla curva degli anni, neanche poi tanti, ma quanti bastano alla “dama di ghiaccio” per recidere il filo. Un tempo lungo che vide anche me combattere ad armi impari un feroce duello con la stessa crudele Signora. Ma avevo Angeli a difendermi in terra e in cielo. Soprattutto in Cielo. E sono ancora qui, quasi un “miracolo vivente”. Detto persino dai chirurghi che mi hanno raccolto sulla riva di ogni deriva. E io credo agli Angeli e ai Prodigi. Ma forse il miracolo è avvenuto anche per te.

E oggi, dopo il tempo del nostro ritrovarci come se il tempo non avesse mai intrapreso il viaggio lungo quanto lungo e immenso il tuo mare, il mio mare, il mare da te attraversato con totalizzante passione, da me amato con immenso amore, le tue devastanti sofferenze imploravano un riposo, invocavano un silenzio, vagheggiavano un mare di meraviglie capovolto nel Cielo di ogni approdo. E la “dama di ghiaccio” è venuta in questa fredda notte d’inverno a esaudire il tuo sogno innevato e stanco. Spero che sia così. Mancava un poeta dalle ali d’angelo e dalla risata carica di ironia per sentire nuove ali e nuove battute dove tutto è umano e divino insieme. E oggi è tempo di ricordare.

Fu di nuovo subito Scrittura, subito Poesia. Abbiamo scritto ancora e ancora pubblicato. Io ho scritto le prefazioni ai tuoi nuovi libri. Tu, ancora una volta, ha presentato il primo volume del mio secondo romanzo. Bellissima sintonia, che ha stretto in una carezza leggera come soffio di vento quarant’anni di canto e incanto. Due anni di tribolazioni e croci inchiodate ai nostri corpi e ancor di più alla nostra anima, anime gemelle anche nella sofferenza e nel dolore.

Tu capitano di lungo corso e pescatore di meraviglie, con il tuo fraterno amico cileno Herman Rojas, fino a questa notte. Quanta complicità di sogni e poesie tra voi!

Quanta complicità di sofferenze e poesia tra noi: Tu sei l’amica più cara che ho anche perché la vita non ti ha risparmiato sofferenze e queste soltanto raffinano l’animo e la sensibilità non la gioia. Sapevo che avevi ragione.

E io fino a una settimana fa a fingere, con la morte nel cuore, una resurrezione che non avrebbe visto la nuova alba di oggi: tieni duro. Vai avanti con il coraggio che hai sempre dimostrato. A casa, fra le tue cose e le persone care, sarai più motivato a non lasciarti andare allo scoramento. Tienimi informata. Ti/vi abbraccio tutti.

Senza una tenerezza in più per non cedere al pianto. Ma tu sapevi già che per la prima volta ti stavo mentendo. Angela  

                                                  


domenica 24 gennaio 2021

Domenica 24 gennaio 2021: ancora alcuni versi di Giovanni Gastel e Gjeke Marinaj...

E riprendo, come promesso, con alcuni versi sull’Anima e la Speranza di Giovanni Gastel e Gjeke Marinaj. Venerdì, in una diretta un po’ sfortunata, per problemi di connessione subentrati dopo poche parole di inizio e ripresa dopo cinque minuti (una eternità a confermarmi che il tempo è una misura relativa che, se vissuta a livello psicologico, dilata o accorcia il tempo reale), ho cercato in qualche modo di calmare l’ansia, inevitabile per una come me che ha bisogno di tempi distesi e di atmosfere serene altrimenti va in tilt,e ho commentato in qualche modo una poesia di Gastel e stralci di due poesie di Marinaj senza poter chiarire le caratteristiche molto diverse della poesia dell’uno e dell’altro poeta pur nella loro innegabile bellezza e profondità. Cerco di porre rimedio oggi: Giovanni Gastel non mette mai i titoli alle sue poesie; Gieke Marinaj sempre e a caratteri cubitali; Gastel conclude sempre con il luogo e la data di quando la Musa è andato a visitarlo, Marinaj parla dei luoghi e dei tempi all’interno dei suoi componimenti poetici: luogo e data spesso fanno parte della narrazione. Per Gastel si tratta di un continuum di emozioni che culminano ad un certo punto nella necessità di tradursi in parole; per Marinaj sono momenti della vita che occorre raccontare per condividere con gli altri le gioie e i dolori vissuti. Entrambi amano la narrazione, lo stile discorsivo. In Giovanni le poesie sono quasi sempre brevi, essenziali, malinconiche per la nostalgia della purezza dell’infanzia e per l’assenza fisica di tante persone amate: spesso si passa dal monologo al dialogo, dal dubbio alla riflessione, con versi quasi sempre brevi o brevissimi. In Gjeke i versi sono perlopiù lunghissimi, a volte amari e cupi, altre volte luminosi e tenerissimi. In entrambi il dolore nostalgico per un impossibile ritorno al passato. Metafore ardite in entrambi. Molto più ricorrenti ed effusive in Gjeke. Entrambi fuori dagli schemi. Insoliti. Ironici e malinconici. Entrambi geniali. Giovanni alla ricerca continua di Dio. Gjeke alla ricerca continua dell’umanità nell’uomo.

E in queste poesie ogni lettore può trovarne conferma:

“Se come neve potesse

la pace del cuore

scendere su di noi.

Se il vuoto accogliesse

il nostro dolore

le nostre assenze

e restituisse presenze

e gioia…”

Così mi hai detto

appoggiata alla notte.

E io non ho saputo rispondere

ma ho pregato lo spirito del dolore

di alleggerire il nostro cammino:

Come angeli caduti

 vaghiamo nel mondo

aspettando il Dio che ritornerà

a placare questa terribile solitudine

dell’anima

Basterà una sua carezza a dare

senso ad ogni cosa. (Milano 2020)

Anche questa poesia comincia con un “se”, ma più che dubitativo è un “se” ottativo che la compagna di vita, “appoggiata alla notte” (verso meraviglioso che ci riporta alla notte del cuore a cui la donna sembra appoggiarsi per trovare sostegno e conforto al suo desiderio di venirne fuori, di superare insieme il buio), interrogandosi, cerca di comunicare al nostro poeta quel suo desiderio in un tentativo di dialogo e di riflessione in due. E subito ecco una similitudine dolcissima: “come neve”, che in questo caso è morbida, silenziosa, leggera perché è rivolta alla “pace del cuore”. E ancora un altro “se” anaforico, che accentua il ritmo incalzante della preghiera accorata affinché ogni vuoto possa riempirsi di “dolore e di assenze” per restituire "presenze e gioia". Il poeta non sa rispondere, oppresso egli stesso da quel buio e da quel dolore, ma innalza una preghiera proprio allo “spirito del dolore” per rendere meno greve “il nostro cammino” perché “come angeli caduti/vaghiamo nel mondo”: visione molto presente nell’immaginario artistico-poetico di Giovanni Gastel che ha fotografato una intera serie, davvero meravigliosa, di Angeli caduti sulla terra per punizione divina e costretti a vagare in molteplici situazioni di ribellione o di paura, dispersione di sé o anche disperazione in quanto sono senza la speranza del perdono di Dio. E senza Dio è impossibile “placare la solitudine dell’anima”. gli ultimi due versi sono di una dolcezza estrema che è Certezza più che Speranza: “Basterà una sua carezza a dare/ senso ad ogni cosa”. E qui il poeta abbina l’anima, deserta di Dio, ad una “terribile solitudine”.

Non la filosofia

o l’esempio

o i lunghi discorsi.

Sono le quasi invisibili cose:

Il leggero tremore delle mani

la linea discendente delle labbra

la curva pura del dorso

la ciocca dei capelli che ricade sulla fronte.

Questo mi manca

e taglia l’anima come una lama

in questa solitudine che sale

inarrestabile come una marea. (Milano 2017)

Stesso tema scopriamo nei seguenti versi che cominciano con una negazione perentoria per risolversi in un’affermazione di tutto quello che al poeta manca e che darebbe senso alla sua vita: “le quasi invisibili cose”. Alla numerazione precedente di tutto quello che non serve per vivere bene segue la numerazione di quanto all’autore manca: il lieve tremore delle mani, la linea discendente delle labbra tristi, la curva levigata e perfetta del dorso, “la ciocca dei capelli che ricade sulla fronte”. È l’assenza di tutto questo che “taglia l’anima come una lama” e la restituisce a una “inarrestabile solitudine”, come appunto avviene con l’alta marea. Questi ultimi versi ci rivelano l’arcano che io mi prefiguro come uno sguardo in andata o di ritorno per “vedere” tutto quanto elencato e di cui il poeta avverte la mancanza. Cioè la presenza dell’altro che è in grado di osservare le “quasi invisibili cose” e di capire e comprenderle. Sia che si tratti del poeta nei riguardi degli altri, sia che si tratti degli altri nei riguardi del poeta stesso. Mancano le persone care, i parenti, gli amici o quanti abbiano la sensibilità di scoprire sentimenti ed emozioni nel linguaggio del corpo, di tutto quello che si prova e non si ha magari il coraggio di dire. Per pudore, per timore, per un disagio esistenziale o sociale, per dissonanza culturale e così via. L’anima è qui abbinata soprattutto alla solitudine e alla mancanza di acutezza (intuitu personae) empatica e di sensibilità emotiva di tante, troppe persone. In realtà, Giovanni Gastel è un affascinante, generoso eroe del nostro tempo. Esempio di raffinatezza mista a grande umiltà e profondo altruismo. Ma anche di grande sofferenza per un senso di appartenenza/non appartenenza alla sua nobile famiglia e al suo mondo dorato e al mondo esterno, fatto di bellezza ma anche di fango, in cui è chiamato (vocato) a contaminarsi per sopravvivere. Per fortuna la sua vocazione poetica è anche per lui salvifica.

Gjeke Marinaj

SENZATETTO AMERICANO

Come anima dispersa cammini,

oltre i vitrei sguardi

dei manichini ben vestiti

nelle vetrine dei negozi,

dietro i vetri con le membra al caldo

in questa decantata America.

Cammini con le piante vescicose

lungo le assi marce del mito

le tue lacrime come schegge in cui inciampi.

La tua sentenza non porta firma,

ma sento l’eco della tua tristezza

anche qui, nel vuoto scavato

del mio cuore pieno di nostalgia.

In questa amara poesia, l’anima è quella “dispersa” del senzatetto che va per le ampie strade di un’America opulenta e stracciona, piena di mille contraddizioni. Il pover’uomo cammina guardando le vetrine con i manichini ben vestiti e confortati dal calore di un luogo protetto, mentre a lui è toccato in sorte il freddo del gelido inverno. Il poeta coglie il contrasto tra il povero clochard e i manichini simili a uomini eleganti e al riparo dietro le vetrine. E biasima il mito americano che si regge su “assi marce” su cui il senzatetto poggia i suoi piedi scalzi e pieni di vescicole doloranti, mentre inciampa nelle schegge taglienti e acuminate delle sue stesse lacrime. Quello che sei non è un abito firmato, pare dica il poeta che accoglie nel profondo del suo cuore tutta la tristezza del povero vecchio, mentre prova tanta nostalgia per la sua terra lontana più povera di beni materiali sicuramente, ma ricca di quell’umanità che ci fa sperare in un futuro migliore. E poi ecco una poesia colma ancora di tanta tanta tenera nostalgia.

 A MIA MADRE

La nostalgia di te

Dalla nostalgia di te sono devastato.

Rimpianto vasto come il mare

Sono gabbiano con le ali spezzate

Se non odi che tuo figlio è morto

cercami sulla soglia della prima alba

Ma se a un flauto io dovessi somigliare

allora per amor mio, madre - anima mia,

abbandona meravigliose visioni e lacrime febbrili  

Perché ultimamente sono angosciato anche nei miei sogni

Alla ricerca di te, perdo la strada in qualche baratro sconosciuto

Nel mio straziante volo grido il tuo nome

E l’incubo mi lascia attraversando una finestra rotta.

Di Gjeke Marinaj ecco una poesia intensa, straziante, evocativa, dedicata alla madre lontana, anima stessa del poeta (“anima mia”). Ed è subito “nostalgia di te”, ricordo dolcissimo e dolore acuto, sia pure velato di malinconia: νόστος e άλγος = dolore del viaggio o viaggio del dolore o, meglio, il ritorno del dolore o dolore che ritorna. Il ricordo del passato che non può tornare si fa cocente nostalgia, tristezza, rimpianto. Ma il “rimpianto” è meno crudele e non è neppure un dolore: è dispiacere che perdura nel tempo per quanto non sia stato possibile realizzare in passato. Infatti, per Gjeke la nostalgia è “devastante”, il rimpianto è “vasto come il mare”, si slarga e si stempera nella vastità del mare, ma non ferisce e non fa sanguinare come la nostalgia. (Almeno secondo me. Mi piacerebbe incontrare il vostro pensiero). Il poeta, pertanto, si paragona al “gabbiano”, uccello di mare per eccellenza che ci affascina col suo volo, ma qui ha “ali spezzate”. E subito il suo pensiero corre alla possibilità di non poterla più rivedere, sua madre, a causa magari non della sua, ma della propria morte: “Se non odi che tuo figlio è morto”: ecco, quel “non” rivela quasi il rifiuto da parte del poeta che la sua morte possa realmente accadere. Se non ti giunge voce della mia morte, “cercami sulla soglia della prima alba”: verso stupendo, in cui avvertiamo l’invocazione accorata “cercami” quando l’alba è appena un filo di luce che già vince il buio e il dolore e si fa chiarore e speranza appena “sulla soglia”. E ricompare ancora la soglia, bellissima parola, di cui abbiamo già parlato. “Ma se a un flauto io dovessi somigliare”: e subito riprende con l’avversativa “ma”, quasi a presagire e temere un destino avverso, e dovesse giungere a lei quasi suono di flauto (e mi sovviene che nel “Flauto magico” di Mozart il dolcissimo quanto dolente e nostalgico suono si vena di significati anche negativi e misteriosi, a cui Gjeke Marinaj potrebbe aver fatto riferimento), allora la prega di non abbandonarsi né a “meravigliose visioni” né a “lacrime febbrili”: di non lasciarsi andare né alla gioia del suo ritorno né al pianto convulso e irrefrenabile della sua perdita. E di farlo per “amor suo” (“Se mi ami non piangere” è  l’invocazione/esortazione/consolazione di Sant’Agostino), “madre - anima mia”: tenerissimo vocativo già da me evidenziato come totale unitaria identità di “madre/figlio”. Gli ultimi quattro versi sono difficilissimi da leggere senza perderci il cuore perché sono rivelatori della segreta e cogente motivazione del poeta a scrivere questa poesia alla madre con infinita nostalgia e straziato/straziante dolore: il ricorrente incubo notturno di cercarla fino allo spasimo ma di essere ostacolato nell’arduo ritorno da un dirupo “sconosciuto”, imprevisto, nel quale precipita gridando il suo nome e svegliandosi mentre attraversa “una finestra rotta” e dunque pericolosamente tagliente. Che lascia ferite e pericolo (presentimento?) di morte. Ma per sua e nostra fortuna Gjeke è ancora vivo ed è al culmine della sua luminosa affermazione come poeta e saggista, docente universitario, mentre la sua teoria filosofica, socio-antropologica e spirituale sta affascinando il mondo intero... 

A martedì 26 gen. h. 19. Ciao 

sabato 23 gennaio 2021

Sabato 23 gennaio 2021:Il Retino si nutre di commenti, chiarimenti, suggerimenti...

Comincio subito con un messaggio del carissimo Vito Di Chio:
Ieri sera purtroppo, non sono riuscito a sintonizzarmi con il “Retino delle parole”, per cui ho perso il commento di Angela sul tema dell’anima e della speranza in poesia. Leggo ora il tuo commento mercoledì 20 gennaio su la POETOLOGA. Grazie per aver pubblicato la poesia di Primo Leone dedicata ad Anna Paola “Fa conto di essere rugiada”. Introdotta dall’esergo di Omar Khayyam, le immagini trasformano le parole e il tutto si fa di una leggerezza amabile e conquistata nel canto e nell’amore per la creatura che sfiora il mondo e lo contiene già tutto intero… Mi piace molto l’immagine dell’anima come “stanza” (Elina). Mi ricorda la raccomandazione di Sant’Agostino: «Non uscire da te stesso, rientra in te: nell'interiorità dell'uomo risiede la verità. (… in interiore homine habitat veritas".) È l’“uomo interiore” che scopriamo, quando c’è Poesia, “che a verità conduce”: la verità di sé e del mondo. Grazie!
Sono io che ti ringrazio, mio caro Vito, perché hai integrato e arricchito, con la tua straordinaria sensibilità poetica e il tuo stracolmo scrigno culturale, il mio commento alla poesia dedicata da Primo ad Anna Paola “Fa’ conto di essere rugiada”. Sì, la poesia vela e rivela l’“uomo interiore”, la parte più profonda e vera del poeta, nella sua essenza e presenza ma anche nella sua imprendibilità e nella sua assenza: il qui e ora. Ma anche l’altro e l’altrove. Dalla sintesi di tutto questo nasce la Poesia che “conduce a verità”. A una delle tante possibili verità? O alla Verità in assoluto? Ci sarebbe da scrivere mille trattati e forse non ne verremmo a capo. Il confronto ci aiuta molto a prendere in considerazione i vari punti di vista su cui riflettere. Le scelte vengono dopo e spesso appartengono alla sfera più intima e segreta e misteriosa di noi. Esseri sempre perfettibili e mai perfetti.
Vito mi manda un altro messaggio: Leggendo nel tuo blog “la POETOLOGA” i commenti alle “Parole del retino”, noto che hai dato molto spazio, com’era giusto nel primo mese dell’anno, al tema “tempo. “All’ombra del tempo” è d’altronde il terzo capitolo della tua silloge L’ora dell’ombra e della riva” (2015) che si apre in esergo con un famoso testo dalle Confessioni di Sant’Agostino, che trascrivo: “Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente, futuro. Forse sarebbe più esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempo esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro l’attesa”. La nostra esperienza del tempo si struttura come processo di continuità, come flusso continuo di percezione interiore di ciò che si sedimenta come memoria e si annuncia come attesa. Il “presente del presente” - afferma Agostino - è la “visione”. Più che visione bisognerebbe tradurre il termine latino che Agostino usa - “contuitus” come “attenzione”: è cioè quello sguardo dello spirito penetrante e libero (- intuitus), quella capacità finissima dello spirito umano di scoprire (di ritrovare) UNITÁ nella molteplicità delle verità parziali (con-tuitus) con cui ci confrontiamo nel nostro quotidiano.
Ancora una volta, Vito, proponi un’opera che mi sta molto a cuore e questa volta è una delle mie ultime sillogi di poesie, in cui c’è appunto la sezione introdotta dall’esergo sul tempo sempre presente, dovuto a Sant’Agostino. Mi piace tanto la tua puntualizzazione che ci guida a comprendere meglio e più approfonditamente la “visione”, che ha sollecitato in me dei punti di domanda e dei dubbi, sciolti da te in maniera semplice, cristallina, coerente con il tuo pensiero cristiano, efficace. Mi piacerebbe il parere anche di altri nostri compagni di lettura…
Così come mi piace l’intervento di uno “sconosciuto che ha letto "Il Retino di giovedì 21 gennaio 2021: le vostre, le mie, le nostre parole..." e ha ringraziato la nostra Mariateresa Bari per l’opportunità di intervenire, in maniera puntuale e attenta, che ho apprezzato molto, anche perché ha condividendo alcune mie affermazioni e distinzioni pubblicate giovedì:
Grazie a Maria Teresa per aver portato questo illuminante approfondimento, soprattutto nel suo aspetto di distorsione. La parola e l'umano sono in relazione, nel bene e nel male. La parola ci dona bellezza, ci migliora, eleva l'umano dalla statica e standardizzata anonima individualità all'essere persona. Unica, irripetibile, inviolabile. Un dono per il mondo. Tanti filosofi, da Ricoeur a Levinas hanno approfondito il senso sacro della persona e il suo portato nella realtà umana. La poesia è per le persone, credo. Né per gli armadi, né per i fiumi, né per il cielo né per gli orologi. La poesia è per e delle persone. Buon proseguimento di giornata a tutti!
Grazie di cuore, mio sconosciuto amico. Spero di averti anche nei prossimi incontri nel Retino e sul blog come fattivo lettore e interlocutore… A domani.

giovedì 21 gennaio 2021

Il Retino di giovedì 21 gennaio 2021: le vostre, le mie, le nostre parole...

Mariateresa Bari mi scrive: Questa, invece, è la mia consueta poesia! Un abbraccio. “Dove profumano le parole”. Profumano le parole nel buio di un punto fermo/ che ghiaccia lo sguardo e appanna gli abbracci,/ finestre serrate dal gelo./ Profumano le parole nel rosseggiare del lago,/ soffio di luce, che sopravvive alla luna/ e le regala farfalle incandescenti./ Profumano le parole in un sogno scavato a mani nude/ nella sabbia dei perché/ che sporca l'alba di granelli di eternità.

Il potere delle parole! Esse profumano anche “nel buio di un punto fermo”, nello stallo di giorni di gelo che “appanna gli abbracci”, dietro quelle “finestre serrate”, che tanto ci ricordano queste giornate di paura e chiusura agli altri, anche ai nostri cari, e al mondo intero. Perché è il mondo intero in sofferenza. Profumano le parole anche in situazioni oniriche che più non ci appartengono ma che sollecitano ricordi, “soffio di luce”, che “sopravvive” col profumo delle parole ancora e ancora, fino allo “sporcare” benefico “l’alba di granelli di eternità”. Luminosa certezza che appanna persino la luce dell’alba, che è pur sempre finita rispetto all’eternità che le parole portano in dono a chi le sa fare fiorire… Dono immenso più di ogni altro dono.

E Mariareresa ancora mi scrive: Carissima Angela, ho trovato molto interessante l'intervento di Maria Pia Latorre sulla parola nel suo essere significato e significante. In una delle mie notti insonni, sono inciampata in un articolo molto bello e ricco di spunti di riflessione. Nella speranza che possa essere utile a tutti, te ne posto una parte! A presto 😍

"Perché, in fondo, le parole sanno come diventare, cioè relazione tra un significante fatto di contenuti e il suo significato, ovvero immagini mentali che dialetticamente si specchiano una nell’altro. Alla base del significato delle parole resta comunque la lingua e la sua capacità espressiva collettiva. La significazione approccia la sfera del privato e ne rappresenta concretamente la singolarità degli usi possibili, determinando ricchezza di senso che ciascuno attribuisce con maggiore o minore discrezionalità. Trovarsi dalla parte di chi è bisognoso implica una difficoltà intrinseca: non è facile lasciarsi aiutare, come non lo è imparare l’umiltà. Nel Pantheon dei significati estesi, accogliere l’interesse per le parole vuol dire essere disposti a riconoscere sempre nuovi significati non solo etimologici, ma soprattutto valoriali. Dopo tutto significante e significato sono classi, cioè unità formali e astratte delle comunità sociali, mentre le significazioni sono unità sostanziali, atti linguistici concreti, unici, forse irripetibili, che proprio per questo risultano esecuzioni della comunicazione. Le parole sono dominio della sostanza, sono un generoso atto non solo linguistico, ma pratico, nel quale significanti e significati si compenetrano come classi di significazioni. Le Parole costituiscono una sorta di dominio, non solo della lingua ma della forma, dei sistemi che gli individui definiscono indispensabili per regolare il senso delle cose. Questo non lo ignorano i Critici letterari. Lo dimenticano invece i pontificatori social che di mestiere decidono dell’uso e dell’abuso di parole, rese costipate, manipolate anche nei loro contenuti più profondi. Si decide del destino e dei significati delle parole, che si ripercuotono sempre sulle vite degli altri. Costoro si auto assolvono per ogni peccato commesso, per ogni attribuzione di “poteri” che sanno essi stessi di non possedere veramente; da illiberali, prendono in prestito tutti gli strumenti in loro possesso – ivi compresi quelli afferenti lo stato etico – per strumentalizzare sia parole che linguaggi. Strani Personaggi mediatici popolano TV, carta stampata, testate on line e social. Tutti convinti possessori di una qualche delirante parola di verità inanellata una sull’altra. Costoro troneggiano con pretestuose forme giganteggianti, e creano linguaggi inutili e torbidi, fatti di uno spropositato uso di parole che rifugge i contenuti e i contraddittori, i confronti. Parlatori della categoria urlatori dissodano praterie di parole attraverso cui praticano per lo più l’arte denigratoria, facendo finta di non farlo, sollecitando prevalentemente istinti ed emozioni infelici e negative. Evidenziano ovvietà e luoghi comuni come se fossero fatti nuovi ed eccezionali, con analisi e previsioni improponibili. La significazione “non è nelle parole” ma “nell’interiorità delle persone”. Una parola significa poco in sé, ma agisce al fine di far emergere la significazione, ovvero dare significato al simbolo. La comunicazione dopo tutto avviene esattamente quando vi è accordo di significato, o quando si creano rapporti di significazione che consentono di uscire dalla soggettività per giungere alla rappresentazione simbolica della realtà." Angela Maria Spina

Grazie, Mariateresa, ancora una volta mi confermi che hai colto in pieno lo spirito del nostro Retino. Per buona parte sono d’accordissimo con quanto scrive la studiosa Angela Maria Spina, per alcuni versi invece un po’ meno. Punti di vista. Mi fa molto piacere, per esempio, che la mia “significazione” trovi felice riscontro nelle parole “linguisticamente corrette” sopra usate. Non amo parlare di “individui”, però, perché amo parlare di “persone”. Se sarà possibile cercherò di chiarire meglio il mio pensiero, motivando la mia distinzione tra i due termini.

Maria Pia ha dato un apporto molto interessante con la distinzione tra contenente e contenuto, cioè tra significante e significato, che dovrebbero coerentemente incontrarsi nella pregnanza della “pienezza” della parola. Quando si ha veramente qualcosa da dire e si sa come esprimersi o comunicare. Altra distinzione: esprimersi-comunicare.

Ma, in fondo, tutto nasce dal “vedere” oltre il guardare, e dall’“ascoltare” oltre il sentire? Anche qui occorre fare dei distinguo.

Ci proveremo prossimamente. Ciao

mercoledì 20 gennaio 2021

Il Retino di mercoledì 20 gennaio: L'ANIMA e la SPERANZA in POESIA...

Ieri, a proposito dell’ANIMA e della SPERANZA, ho letto alcuni stralci della poesia di Primo Leone “Fa’ conto di essere rugiada”, dedicata ad Anna Paola e ho cercato di commentarli in qualche modo. Ritengo, però, giusto riportare qui l’intera poesia perché ognuno possa “assaporarla” meglio in tutti i suoi versi, far tesoro dello splendido esergo, tratto da una poesia di Omar Khayyam, e commentarla magari, seguendo le proprie emozioni. Come sempre più voci possono arricchirci di ulteriori riflessioni e sollecitarci a un proficuo confronto.

“FA’ CONTO DI ESSERE RUGIADA”
Ad Annapaola, domani
“O cuore, fa’ conto d’avere tutte le cose
del mondo
Fa’ conto che tutto ti sia giardino
delizioso di verde
e tu su quell’erba verde fa’ conto
d’essere rugiada”
(Omar Khayyam) 

Fa’ conto di essere rugiada, quasi
un velo sottile tra le nuvole ancora
vergini di acqua trasparente,
per avvolgere parole appena pronunciate
quando tutto è ancora tentativo di silenzio…
È questo il tempo che attraversa la luce
tra le ombre nascoste di foglie quasi verdi
ancora bambine, ingenue e festose
con lo stupore di essere nate
appena tradite da un vento impetuoso…
Fa’ conto di essere rugiada
sempre fresca e sempre timorosa
delicata
come un respiro che l’alba dischiude
rugiada di profumi come pensieri leggeri
quando la pioggia è una trama
di sogni per la tua anima
e accenna sorrisi disegnati sulle nuvole…

Fa’ conto di essere rugiada,
appena la notte scivola via
con gesti furtivi e timide incertezze
a racchiudere attimi che fuggono
come lucciole inseguite dalla notte,
prima che l’alba disegni nuove foglie…
Fa’ conto di essere rugiada,
come timida carezza
che si dispone alle incerte parole
di storie lontane
questa nebbia leggera è
il sogno che ritorna rugiada
d’acqua e di sole…
Fa’ conto di essere quel sogno
sospeso tra i pensieri
tra le parole
tra le attese e tra i ritorni
Ancora timida rugiada che scivola via
a cercare i contorni delle foglie mai nate…
Fa’ conto di rinascere
come rugiada che non si arrende
ostinata e tenera come il pianto di un
bambino
erede inaspettato di un gioco senza fine…
che sempre ritorna…
e sempre ricomincia…

La mia, come è facile notare, è stata una interpretazione del tutto personale e arbitraria. Ritengo, del resto, che il poeta, che si cimenti come critico letterario, debba sì cercare di penetrare l’altrui poesia nella maniera più fedele possibile, ma possa anche andare in deviazione, assecondando la propria visionarietà, che è sempre leale concordanza con l’autore e coraggiosa fedeltà a sé stesso, al personale “sentire” (e anche su questa mia affermazione desidero ascoltare il vostro parere! Siamo insieme anche per questo!). E vorrei sottolineare, per Francesca Pice (che sicuramente comprenderà), il breve ma intenso commento ai versi “quando la pioggia è una trama/ di sogni per la tua anima/ e accenna sorrisi disegnati sulle nuvole…”. Credo di aver detto ieri che la pioggia, cadendo, forma una fitta trama di sogni in caduta libera dalle nuvole e l’anima si sente partecipe di quei sorrisi di complicità che le nuvole le regalano in quel delirio di sogni in sospensione tra terra e cielo. L’Anima, ineffabile attimo che tutto in sé accoglie con la sua ansia d’infinito. Più o meno così, con qualche integrazione dovuta alla distensione psicologica del giorno dopo. Ma agli ultimi versi, commentati in fretta e male per lo scorrere inesorabile del tempo, avrei voluto aggiungere un altro brevissimo stralcio di un’altra poesia di Primo Leone, “Canzone amara” tratta dalla nuova silloge I limiti dell’alba: Fischia il treno/ fin dentro l’anima/ lacrima geme/ il volto chino/ partono uomini/ con sogni negli occhi. E qui l’anima è più concreta. Sicuramente del tutto immanente. Si fa fischio del treno, che “lacrima geme” (e la personificazione rende più viva e vera la scena). Pure, l’anima è anche “il volto chino” dei migranti che portano negli occhi i loro sogni, e l’immanenza sfuma in una trascendenza che abbraccia ancora una volta sogni e speranze. La Speranza in un futuro migliore, più degno di essere vissuto. Ma l’anima è anche una “stanza”. Elina, infatti, suggerisce ancora: Anima è la stanza dove piangiamo, ridiamo, scherziamo, riflettiamo impariamo. Per Elina, dunque, l’anima, “la nostra prima interlocutrice”, è a suo parere “la stanza”. È tutto quello che siamo. Dentro e fuori di noi. Non a caso in psicologia la stanza è la nostra personalità ed è lì che accade l’espressione più vera di noi: lì ridiamo e piangiamo, riflettiamo e impariamo. Ma L’anima ha le ali, il corpo/ il fiore nel quale inciampo/ perdendo l’equilibrio./ Fiuta le trasparenti/ attese, le lettere/ mai spedite, la mutevole/ bellezza e l’accoglienza/ della voce./ Vede, ci vede senza dirci/ subito, per dirci ciò che/ non sappiamo. (16 gennaio 2019). È sempre Elina con questi suoi versi che volano sulle ali della sua Anima. Che è anche corpo e fiore; è “accoglienza della voce” e vede ciò che non sappiamo e che forse solo più tardi ci rivelerà. Quante cose ha in sé la nostra Anima! Quante parole contiene nella sua immensità! Dobbiamo sempre ripartire dalle parole. Sono loro a tessere i fili che ci uniscono e danno un senso al nostro stare insieme… Domani spero di condividere altri vostri preziosi apporti fatti di poesie e di parole. Bacio.

lunedì 18 gennaio 2021

Lunedì 18 gennaio 2021: ultime annotazioni sulla Parola sollecitate da alcuni importanti apporti

Maria Pia Latorre opportunamente commenta: Grazie, Angela! Straordinario questo atteggiamento dei poeti di fronte alla parola. Essi sanno bene che la parola è contemporaneamente il tramite per il salto al sovraumano e il fine di una precisa e connotata esperienza poetica, il suo hic et nunc. Allo stesso modo essa è significante di realtà ma significato di contemplazione poetica. Questa ambivalenza è la croce e la delizia del poeta. Grazie sempre! Buona domenica!... A sintesi eccelsa del mio precedente commento "... Dalla tua testa dalla tua carne dal tuo cuore/ mi sono giunte le tue parole/ le tue parole cariche di te/ le tue parole, madre/ le tue parole, amore/ le tue parole, amica./ Erano tristi, amare/ erano allegre, piene di speranza/ erano coraggiose, eroiche le tue parole/ erano uomini." (Nazim Hikmet).
Sì, è il naturale “atteggiamento dei poeti di fronte alla parola”, non mi stupisce. E “straordinario” vale, per me, come fuori dall’ordinario perché, appunto, “essi sanno bene che la parola è contemporaneamente il tramite per il salto al sovrumano”, cioè ci rende simili agli dèi, come ho azzardato iperbolicamente, ma non troppo, io. E non si tratta di un ego smisurato e arrogante, ma della personale consapevolezza della sacralità della parola alata. Essa è però anche “il fine” dell’attimo della illuminazione poetica, “il suo hic et nunc”. Vero. La consapevolezza del poeta riguarda proprio l’attimo in cui la realtà si tramuta magicamente in poesia attraverso la sua creatività. La parola è, dunque, “significante della realtà ma significato di contemplazione poetica”. E non c’è espressione più poetica e profonda di questa di Maria Pia per comprendere la duplice veste della parola poetica: significante e significato. Ciò che è abito esteriore e ciò che riguarda il contenuto profondo della sua vera significazione. Ed è proprio “questa ambivalenza la croce e la delizia del poeta”. Sentirsi sempre in un qui e ora e in un altrove di sé che è più reale della realtà vissuta quotidianamente. E, a conforto delle sue bellissime intuizioni, la nostra amica ci propone la splendida poesia di Nazim Hikmet che parla delle parole poetiche scaturite dalla “testa-corpo-cuore” del poeta, cioè da ciò che è il poeta stesso, colmo di “madre” “amore” “amica” nel momento in cui il suo animo è intriso di parole tristi o allegre, piene di dolore o di speranza, di eroico coraggio perché tutto questo definisce gli “uomini”. E non abbiamo più parole di fronte a tanta bellezza e verità. grazie Maria Pia.
Mariateresa Bari, invece, mi scrive: Angela ancora tanta commozione...! Il mio cuore non regge! Grazie, grazie, grazie! Solo perché ieri ho commentato a modo mio la sua “catturante” poesia. Sono io che devo ringraziarvi perché mi date modo di condividere con tutti quelli che ci seguono e ci leggono alcune perle poetiche che ci offrono quel “ben-essere” psico-fisico di cui, in questo particolare momento, abbiamo tutti bisogno.
E domani avremo una parola davvero magica nel nostro Retino, suggeritami da Elina Miticocchio con una sua poesia molto delicata e intensa: ANIMA. A domani. Buon lunedì. Angela

domenica 17 gennaio 2021

Domenica 17 gennaio 2021: ancora sul tempo di inizio e fine e un "tra" di mezzo...

Ieri ho ricevuto dal cielo un bellissimo buongiorno. Ha inventato i primi fiocchi di neve di un inverno di mezzo: né caldo e né freddo per una stagione che di solito, tra dicembre-gennaio-febbraio, ci lascia sconfitti dal freddo e dal gelo, spingendoci ad accendere caminetti e termosifoni e a indossare indumenti caldi e pantofole per restare in casa in attesa della primavera che sempre ci attende con i primi tepori di marzo, le prime mimose, colore/profumo/simbolo di donna, le prime timide pratoline sull’erba tenera dei prati. E io, come per incanto, sono tornata a guardare quel prodigio con gli occhi di bambina, ricordando il mio stupore nel notare come la lieve neve bianca, invece di volare verso l’alto, con i suoi soffici fiocchi di piume e il suo candore, scendesse dal cielo per insudiciarsi di fango, mentre le rosse scintille guizzanti dai pesanti pezzi di legno, ridotti dalla combustione in cenere e carboni, volassero verso l’alto, quasi una sorta di preghiera al cielo per espiare colpe mai commesse. E, in questo gioco di incrocio a ritroso tra scintille e fiocchi di neve, il mio sguardo si perdeva con i miei pensieri in fuga verso impossibili aggiustamenti di direzioni e intenzioni. La neve! Sogno che si scioglie al primo sole sugli acquitrini. Scintille! Incanto che si spegne al primo soffio di cielo. Nel “tra” i miei pensieri senza soluzione di continuità. Ed è continuità anche il proporre la poesia inviatami da Mariateresa Bari due giorni fa: “Come fiorisce una fine”. Troppo bella e profonda per bypassarla sotto silenzio.
L'ultimo anelito assiste informe/ al suo principio che è fine./ Chiassosa come il mare spettinato dal vento/ come il tumulto di un cuore/ che ripudia l'inverno/ come un calcio al vuoto/ che inscatola luoghi e non luoghi./ Fiorire cui sempre la sera assiste./ Come il morire/ Si gioca al risparmio arginando i prati verdi del cielo./ Morsi di fiele a svezzare il mare/ appena nato in culle di miele./ Sul fondo di sguardi prosciugati/ strizzo ciottoli cerei di vita./ In punta di piedi varco la soglia/ di una parola che non oso./ Per me è ancora, nel varcarla, sfiorare l'abisso. Un abbraccio, Angela!
Mia carissima Mariateresa, è una poesia che mi lascia senza parole, tanto s’inabissa nella mia anima che in questi giorni va in cerca di luce. Spero di trovare le parole giuste. Solo una raccomandazione che vale per tutti voi che mi inviate poesie: per favore, mettete bene in evidenza la scansione dei versi. Sapete benissimo quanto importante essa sia per una possibile giusta interpretazione: una parola che apre il verso ha un significato diverso dalla stessa parola se quest’ultima lo chiude. Gli spazi a volte risultano fondamentali per dare profondità, ampiezza, libertà e volo ad una parola. Paul Èluard (l’accento è acuto e non grave, ma non so utilizzare a dovere tutti i simboli grafici, pardon!) scrive dei “margini bianchi” che parlano più di ogni altro silenzio… E io prima di azzardare un commento ho bisogno di tutte queste “garanzie” (ricordare le premesse fondamentali: la “nominazione, la “derivazione” o “ricerca-azione” o indagine, la “significazione”, e quanto detto in questa sede). Mi ci provo, nella speranza di aver suddiviso bene i versi:
Già nel titolo la “fine” diventa un fiore che germoglia e si schiude su sé stesso. Anche l’anelito, che è il respiro affannoso e incerto, tremulo, insicuro e stentato del moribondo, “assiste”, come visione di un film, senza alcuna definizione di sé, al suo inizio che contiene in sé già la fine. Ogni nascita, in un essere mortale, si risolve in un conto alla rovescia verso l’epilogo (banalmente, nasciamo per morire). Segue un lungo verso, che ritengo davvero splendido nella sua insolita asserzione: la fine è “chiassosa” come: “il mare spettinato dal vento” (e mi riporta a Dylan Thomas: nessuna onda può pettinare il mare, ma il vento può spettinare le sue onde!). Similitudine che è preludio ad altre originali e anaforiche sue consorelle: “come il tumulto del cuore che ripudia l’inverno” (l’inverno metafora di morte, gelo, silenzio, immobilità); “come un calcio al vuoto che inscatola luoghi e non luoghi” (in continuità dei non luoghi di cui si è parlato in precedenza). E gli altri due versi ne sono la conferma: “Fiorire cui sempre la sera assiste./ Come il morire”: inizio e fine sempre. Il verso seguente, poi, rivela una punta di scetticismo nei riguardi dell’animo umano che “gioca al risparmio” persino “arginando i prati verdi del cielo”: e gli “argini” al cielo, che pure dovrebbe avere “prati verdi” sconfinati, indicano la nostra umana imperfezione, così chiusi come siamo nelle nostre esperienze terrene, fatte di delusioni e tormenti tanto da avvelenare (e il verbo “svezzare” è un valore aggiunto) tutto l’azzurro e la vastità del mare, “appena nato in culle di miele”, in cui lo stesso cielo si specchia capovolto: due versi superbi per costrutto interno e per le coraggiose metafore a mettere a nudo la nostra incapacità di conservare il “miele” dell’inizio della nostra alba (le culle) per trasformarlo via via nel “fiele” di ogni risentimento, di ogni aspettativa delusa. Il sogno in frantumi. Nonostante i doni iniziali. Troppo crudele l’inciampo sui “lividi ciottoli” della vita. Eppure all’inizio fu il Verbum, fu la Parola a connotarci come esseri umani, dotati di pensiero “sapiente” (homo sapiens sapiens), ma pronunciarla significa ancora per l’autrice avvertire il timore di “osare varcare” la “soglia” del coraggio per la paura di “sfiorare l’abisso”. Tanto è sacra per lei la Parola. Non a caso ci rende simili agli dèi…
E per oggi mi fermo qui. Non ho promesso di imparare ad essere più breve? Ci sto provando. E anche le altre poesie inviatemi o catturate col mio Retino via via troveranno spazio sul mio blog. Serena domenica “di sereno” a tutti. A martedì con nuove parole e nuovi commenti. Ciao. Angela

mercoledì 13 gennaio 2021

Mercoledì 13 gennaio 2021: nel Retino si sono impigliate due parole: vita-morte

È stato un anno molto difficile e doloroso in tutti i sensi. I tantissimi morti per il Covid a livello planetario ci ha quotidianamente devastati e messi di fronte alla morte, al dolore, al silenzio, alla solitudine, alla fragilità della vita umana. Poi, i tanti personaggi famosi nel mondo artistico, letterario, sportivo hanno segnato un vuoto inimmaginabile. Infine la perdita di persone più vicine a noi, le più care, le più amate sono partite per il lungo viaggio senza ritorno. Un anno bisestile da dimenticare con tutto l’insopportabile dolore che si è uncinato dentro e sanguina di ferite irrimarginabili. E che dire di Ebru Timtik, eroina turca, sfinita dai tanti scioperi della fame, morta di inedia e “di ingiustizia” proprio due giorni fa? Tutto il nostro coraggio e la nostra resistenza sono messi a dura prova. E molti sono i crolli psicofisici di tantissimi di noi. Nello sconforto generale.
Nel Retino abbiamo analizzato parecchie parole, ma abbiamo ignorato la parola morte, pur nominandola spesso in questi ultimi tempi, soprattutto abbinandola con la vita e con il dolore. Penso che sia giunto il momento di parlarne apertamente. Come si fa con le cose inevitabili e vere. Spesso si affrontano a muso duro per difenderci dalla nostra stessa fragilità prima ancora che dalla paura. Il mio primo incontro/scontro con la morte, consapevole e traumatico ma per fortuna indiretto, è avvenuto quando ero appena adolescente, tenendomi lontana per un’intera vita da visite ai defunti, cimiteri e persino dal solo parlarne. Stavo male. Avevo attacchi di panico e di rifiuto al solo pensiero. Mi conciliai con la pallida Signora grazie alla morte straziante di mia madre. Ma ancora oggi vado con molta riluttanza al cimitero o a visitare a casa i defunti. Spesso non ci vado affatto. Dentro di me, però, c’è ormai una continua vicinanza alla morte. Anche per via dell’età e delle tante morti che inevitabilmente hanno costellato la mia vita e, col punteruolo del dolore, segnato l’anima. E oggi ne parlo come se fosse un’amica con cui è rasserenante confrontarsi tanto è saggia e dà buoni consigli.
E desidero cominciare a parlarne con una pagina commossa e commovente, catturata su fb due giorni fa. Eccola: I funerali ai tempi del Coronavirus sono un triste inno alla solitudine. Si resta così, persino durante la cerimonia funebre: distanziati, mascherinati, desolati. Eppure, anche prima che il subdolo nemico iniziasse a serpeggiare invisibile tra noi, c’era un momento della veglia in cui la chiesa rimaneva deserta, i banchi vuoti. Di solito, nel primo pomeriggio. È ancora scolpito nel mio cuore, quello torrido di tanti anni fa. Non c’era più nessuno accanto a me. Accoccolato accanto alla bara, carezzavo la trina leggera che ne orlava il rivestimento. Pensavo che la statua dell’Addolorata stesse lacrimando per la medesima mia ragione, Gesù al centro dell’abside era crocifisso come me. Cercai le mani di papà, fra le quali un addetto alle onoranze aveva sistemato pietoso una sberluccicante croce, riassumendo con efficacia, tanto inconsapevole quanto inoppugnabile, l’essenza della vita di quel gigante lì disteso. Ad un certo punto, le sue dita si irrigidirono e strinsero forte forte le mie. Lo chiamano “rigor mortis”, ma forse è soltanto amore. Sembrava che fosse lui a non voler partire e, invece, ero io che non volevo lasciarlo andar via… (Mario Sicolo)
Ne ho parlato ieri nel mio Retino, ma la fretta che i dieci minuti scarsi mi impongono non mi dà la possibilità di essere distesa e tranquilla e molte cose vengono dette a metà e male. Poi, l’emozione da non sottovalutare quando le parole, che mi giungono dentro, mi stanno più a cuore…Cerco qui di porre rimedio in qualche modo. Innanzitutto, mi preme precisare che: distanziati, mascherinati, desolati sono parole piane perché, come sappiamo benissimo, hanno l’accento sulla penultima sillaba e ciò determina un suono più pesante, duro, battente rispetto alla leggerezza della parola sdrucciola. Di qui il martellamento di cui parlavo ieri o la goccia fissa sul capo del torturato a rendere immobile e devastante il dolore. Ma non so cosa posso aver farfugliato ieri, col tempo che mi strangola. Poi, accoccolato (con tutti i suoi sinonimi: rannicchiato e accucciato con riferimento a nicchia e cuccia) e carezzavo hanno creato in me un’onda d’urto di tenerezza infinita verso quel ragazzo straziato, solo, lacerato, e avviluppato nel suo stesso dolore, in cerca di un rifugio consolatorio e protettivo per la sua anima in frantumi. Spero di esserci riuscita in qualche modo a comunicarti, mio carissimo Mario, la mia grande commozione che è, come ben sai, molto di più della stessa emozione. Così per tutto il resto: tu stesso crocifisso (fissato con chiodi e martello alla croce del tuo dolore)… Vorrei soltanto riprendere i versi di Tagore perché mi sembrano la giusta conclusione alla tua meravigliosa pagina.
La morte non è/ una luce che si spegne./ È mettere fuori la lampada/ perché è arrivata l’alba.
C’è quella negazione iniziale che già elimina la stessa morte. Non è la vita (luce) che si spegne. È una nuova alba fatta di luce tanto da rendere inutile la lampada accesa per rischiarare il buio della casa e del cuore desolati (lampada votiva?). Dopo la non-morte, l’alba è luce di rinascita. Resurrezione.
E anch’io, dopo la non-morte, mi riscopro eterna “viandante” con l’anima in tumulto verso un possibile “incontro”, scoprendo sempre più il suo “attraversamento” in un viaggio per raggiungere prima o poi il “non luogo” per eccellenza, la morte che morte non è… Sostiene Marc Augé, che ha “inventato” l’espressione “non luogo”, “Quando il pensiero è incapace di pensare la fine del tempo, cerca sempre di rappresentarsela in termini spaziali. Di qui la possibilità di pensare l’aldilà come un non luogo”. Un non luogo, dunque, uno spazio senza identità e senza memoria che l’uomo si finge per non pensare al nulla? Ma il non luogo assoluto non esiste - sostiene ancora Augé - dato che “in qualsiasi spazio c’è sempre, almeno potenzialmente, la possibilità di un incontro”. Anche una chiesa o, meglio, il camposanto, come un tempo lontano più coerentemente con la fede che animava i nostri vecchi, veniva chiamato il cimitero, è un “non luogo” che ha uno spazio delimitato: le navate per una chiesa, il campo per il cimitero. E un campo è sempre possibilità di incontro. A me dà l’idea della battaglia, della lotta, di una sovraesposizione di forza, di vita. Il campo mi suggerisce anche il rosso della violenza e del sangue, simile all’arena spagnola che vede lottare in un corpo a corpo impari fino all’ultimo sangue il toreador e il toro (oggi per fortuna, causa coronavirus, le corride di primavera sono sospese!). Ma anche il verde della distesa di un prato d’erba pacificato. Il giallo generoso e luminoso del grano. Il marrone bruciato delle stoppie. Il campo, a ben ricordare, è anche un “recinto” dove uomini liberi, in quanto uomini, perdono, con la propria terra, la libertà di vivere come uomini. È di soli due giorni fa la notizia della barbarie umana contrapposta al coraggio e alla giustizia dei giusti: la morte per inedia, dovuta ad un ennesimo sciopero della fame, di Ebru Timtik per difendere la giustizia e la sacralità della vita e della libertà di ogni essere umano. Il camposanto, però, con quell’aggettivo “santo” unito a “campo, si fa nome composto a definire la sacralità del luogo spazio/tempo, di silenzio e solitudine nel perimetro del suo orizzonte. Silenzio e preghiera. Nel suo spazio limitato e delimitato la sacralità della morte: le tombe bianche, colme di luce, quasi a rendere visibile l’assenza/presenza sotto un nome e un volto. Nome e volto riempiono lo spazio vuoto tra due date: la nascita, la morte. Quel nome e quel volto, fermati nel tempo, sono l’identità di una vita, che non ha più corpo, voce. Le date, invece, dipanano una storia. Che non ha più senso (“sic transit gloria mundi”). Che ha ancora senso. Perché un uomo è un uomo sempre. Lascia una profonda traccia di sé in chi lo ha amato. In chi lo ama. Ombre scure sono ferme nei cimiteri con le spalle contro i vialetti che delimitano le aree delle tombe bianche. Di spalle, l’amore. Di spalle, il dolore. Di spalle l’amore-dolore. Non ha volto né voce l’amore-dolore. Nel cuore il luogo del non luogo. Immobile, il dolore è una sagoma scura e solitaria. Immobile, il dolore seduto. Il dolore “accoccolato”. Il dolore arreso. Il dolore piegato/piagato. Il dolore mai dimenticato, che non dimentica. È paziente il dolore. È la paziente attesa dell’incontro, il dolore. Mai rassegnato. Mai vinto. È la certezza dell’incontro. La Speranza. E, nel silenzio muto che muta il dolore in preghiera, fiorisce la consolazione. Il ricordo è un fiore. La consolazione, visibile nei mille petali/lacrime dei crisantemi (ricordate la favola della bimba?); nel profumo intenso dei lilium, calici assetati di luce, dove la memoria è un rimorso o un inganno di verità. Nel non luogo dell’assenza/presenza si ferma il tempo e si fa storia eterna. Si fa memoria. E i cipressi alti si contendono, con le anime, il cielo. E il viaggio continua in tutto il senso e il non senso della vita e della morte, dell’amore e del dolore. E nel viaggio attraverso l’Amore/Dolore incontriamo l’Alba dopo ogni buio. La Luce, la Rinascita. Una possibilità di Incontro. La Resurrezione oltre…
“Il mistero della vita”: Il mistero della vita/ penetra nel mistero della morte,/ il giorno chiassoso/ tace dinanzi al silenzio delle stelle (ancora Tagore).
Ci sono poesie commoventi e profonde sulla morte. È superfluo ricordare “La morte non è niente” di Henry Scott Holland tanto è nota, ma c’è una poesia di Pessoa che ne approfondisce il tema con una visione più alta e più significativa che mi piace condividere. “La morte è la curva della strada”
La morte è la curva della strada,/ morire non è solo non essere visto./ Se ascolto sento i tuoi passi/esistere come io esisto./ La terra è fatta di cielo./ Non ha nido la menzogna./ Mai nessuno s’è smarrito. Tutto è verità e passaggio.
Perdonatemi se ho scritto ancora tanto. Cercherò di ridurre. Lo prometto. Ci riuscirò. E sarà una sfida personale con il tempo… Vi abbraccio. A venerdì 15 gennaio, ore 19. Ciao.

lunedì 11 gennaio 2021

Lunedì 11 febbraio: nel Retino resoconto commenti, riflessioni, poesie (e tanto altro ancora)...

Dopo l’incontro di venerdì 8 gennaio, sto cercando di fare il punto di quante parole, nelle prime dieci puntate, sono state catturate nel retino e analizzate da parte mia e vostra, tra una quasi verità e una quasi fantasia, con dovizia di particolari e tanta leggera profondità. Siamo partiti da RETE e RETINO per analizzare subito dopo le FINESTRE, con le loro molteplici declinazioni, nei libri di Primo Leone (silloge di poesie), Nicola Pice (antologia poetica), Vito Di Chio (saggio critico). Ed ecco la PIOGGIA, tema multiforme di cui si è fatta suggeritrice Francesca Pice con vari apporti poetici. Abbiamo parlato poi di VIGILIA in tutte le sue varie accezioni, suggeriteci da Vito Di Chio, alle cui felici e colte riflessioni e contestualizzazioni si sono aggiunte anche le mie in riferimento alla SOGLIA e, in qualche modo, anche al DAVANZALE. Ed è stata la volta del DOLORE e della GIOIA, con numerosi commenti da parte vostra dando inizio ad una fattiva interazione, che io mi auguro diventi sempre più corale per un arricchimento reciproco e per un continuo arricchente confronto, arricchente per tutti. Inevitabile è stato poi affrontare la parola TEMPO, al passaggio dal vecchio al nuovo anno. E anche il tempo è stato setacciato nelle sue frammentazioni e ricomposizioni tra presente, passato e futuro. Tra MEMORIA e RICORDI, tra ATTESA e SPERANZA. E la VITA, tra il chiarore dell’ALBA e la realtà del GIORNO, con tutti i suoi   LIMITI. Che andremo ancora a puntualizzare.
Ma il Retino si va facendo sempre più pesante di antiche e nuove voci che attendono impazienti di essere protagoniste delle prossime puntate.
In pratica, in soli due mesi e mezzo, abbiamo messo sotto la lente d’ingrandimento della nostra sensibilità poetica circa 18 parole. E a breve si aggiungerà CLESSIDRA, che fa parte ancora del tempo e che, sin da subito, ha suscitato la curiosità culturale di Marisa e Liliana Carabellese, due carissime amiche che seguono il nostro Retino e il Blog.
Piano piano, ma anche abbastanza velocemente, stiamo perseguendo lo scopo principale del mio Retino: la condivisione della bellezza e dei nostri punti di vista in un sereno “incontro” con la POESIA.
 E ora vorrei concludere il discorso di venerdì sul “TEMPO FERMO”, la poesia di Lizia De Leo che voi tutti conoscete, dedicata alla perdita devastante e improvvisa della sua carissima amica Anna Grazia Moretti. Poesia, che contavo di poter commentare durante la diretta ma che, per mancanza di tempo, è rimasta impigliata nelle mie parole affastellate alla meno peggio e senza senso perché ormai in via di fuga. Riprendo con le poesie di Primo sul “tempo di prima, durante e dopo” per poter fermare il mio sguardo su un’altra possibilità di tempo, quella del “tempo fermo” appunto. E la leggo con profonda commozione e immenso rispetto per un dolore, quello di mia sorella e di quanti hanno amato e apprezzato la dottoressa Grazia, che ha interrotto consuetudini, parole, risate, ma certamente non il grande sentimento che continua a sollecitare lo strazio dell’assenza fisica che diventa fortissima presenza nell’anima:
Il tempo è fermo./ Tempo interrotto./ Tempo infranto.// Né prospettive/ né speranze.// Memorie dolorose/ costruiscono/ i legami negati/ che la morte/ non può distruggere.// E la vita divora i giorni/ divora gli affetti.// Solo parole esauste/ nello strazio cristallizzate.// Il tempo è fermo/ nel tuo parlare/ e parlare.// E su noi due che (era vero?)/ ridevamo insieme…  
Ecco un tempo che interrompe la sua fluidità e il suo scorrere indifferente alle vicende umane. È fermo. Per troppo dolore. Tempo interrotto bruscamente. E, proprio per questo, andato in frantumi. Lasciando davanti a sé il vuoto dei giorni futuri. Ma, per fortuna, non le prospettive o le speranze, ma le memorie tessono ancora intrecci di “legami negati” che vincono persino la morte, mentre la vita divora giorni e affetti. E il reiterato “divora” ci crea uno sgomento di tempo vorace che ci assale quotidianamente senza concederci tregua. E, in tanto strazio, la poetessa avverte persino la stanchezza delle sue parole che non le offrono un respiro… In realtà, il tempo è fermo ma dilatato sul profluvio di parole (lo scorrere ininterrotto, in un movimento che è ancora vita!) che connotava Grazia e ancora la connota, come la sua lunga contagiosa risata. Il dolore per l’assenza fisica fa sorgere anche il dubbio, nell’Autrice, che tutto ora sia una invenzione della mente per non naufragare del tutto. Ma quelle coinvolgenti risate erano vere. E il tempo, ora pietoso, si ferma a dilatarne la gioia della condivisione. Ed è questa condizione di un tempo che rinnova amore e ancora amore a restituire a Lizia parole vive e pulsanti di mai spenta vita, mai spenta poesia. Serve solo spostare il punto di osservazione per scoprire che niente muore del tutto se è radicato nel nostro cuore. (Così alitando sul vetro, si/ tracciano / le iniziali di coloro alla cui/ assenza / non ci si può rassegnare (I. A. Brodskij)
Ed ora, ecco una poesia di Leonardo Sciascia, che Francesca Pice si è premurata di inviarmi, nel giorno del centenario della nascita dello scrittore/poeta. Grata del dono ricevuto, sono felice di riportare qui quanto Francesca ha scritto: … in occasione del centenario di Leonardo Sciascia, mi piace soffermarmi su un’immagine quasi inedita, eclissata, dello scrittore siciliano che fu anche poeta e autore della bellissima raccolta di versi “LA Sicilia, il suo cuore”, pubblicata nel 1952 in un’edizione di pregio di 111 copie numerate accompagnate dai disegni dello scultore catanese Emilio Greco. Lo faccio con la lettura “virtuale” di una poesia dall’andamento prosastico che ricorrendo a lucide immagini disegna “una raggiera di nostalgie” sulle quali si spande l’odore acre della campagna e “la strabica pupilla del sole” che si fa sempre luce di vita
“Pioggia di settembre”: Le gru rigano lente il cielo,/ più avido è il grido dei corvi;/ e il primo tuono rotola improvviso/ tra gli scogli lividi delle nuvole,/ spaurisce tra gli alberi il vento./ La pioggia avanza come nebbia,/ urlante incalza il volo dei passeri./ Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;/ per la rabbia dei lampi preghiere/ cercano le vecchie contadine./ Ma ecco un umido sguardo d’azzurro/ aprirsi nel chiuso volto del cielo;/ lentamente si allarga fino a trovare/ la strabica pupilla del sole./ Una luce radente fa nitido/ il solco dell’aratro, le siepi s’ingemmano;/ tra le foglie sempre più rade/ splende il grappolo niveo dei pistacchi. Un caro abbraccio F.
Ed ecco la mia risposta: Mia carissima Francesca, che gioia risentirti. E che bello quello che mi scrivi. Amo molto Sciascia e mi ha emozionato molto la bellissima poesia che mi hai trascritto col tuo sintetico ma ottimo commento. Lo riporterò sul blog nei prossimi giorni. Oggi temo di non poter fare neppure un piccolo riferimento. Hai colto perfettamente lo spirito del mio Retino e te ne sono grata. Quanto alla poesia “Pioggia di settembre” è la testimonianza che Sciascia non è solo, il grande scrittore della denuncia politico-sociale de Il giorno della civetta e del suo impegno contro la mafia, ma anche un grande poeta. Bella la tua brevissima analisi, e oggi è proprio il giorno adatto per sentirla fin dentro le ossa: piove a dirotto e fa molto freddo. Ma appena possibile mi piacerà, durante il Retino, aggiungere un mio commento. E da fb catturo un’altra bellissima poesia di Leonardo Sciascia, riportata alla memoria da Marino Pagano, altro poeta e cultore della Poesia, oltre che giornalista, studioso di storia locale e tanto altro ancora. A lui, ignaro di questa mia "cattura", va il mio grazie:
“AD UN PAESE LASCIATO”: Mi è riposo il ricordo dei tuoi giorni grigi,/ delle tue vecchie case che strozzano strade,/ della piazza grande piena di silenziosi uomini neri./ Tra questi uomini ho appreso grevi leggende/ di terra e di zolfo, oscure storie squarciate/ dalla tragica luce bianca dell’acetilene./ È l’acetilene della luna nelle notti calme,/ nella piazza le chiese ingramagliate d’ombra;/ e cupo il passo degli zolfatari, come se le strade/ coprissero cavi sepolcri, profondi luoghi di morte./ Nell’alba, il cielo come freddo timpano d’argento/ a lungo vibrante delle prime voci; la case assiderate;/ in ogni luogo la pena di una festa disfatta./ E i tramonti tra i salici, il fischio lungo dei treni;/ il giorno che appassiva come un rosso geranio/ nelle donne affacciate alla prora aerea del viale./ Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro,/ pietà ed amore trovano antiche parole.
E, intanto, un altro grande Poeta del Novecento letterario italiano ci ha detto addio. Parlo di Franco Loi e della sua poesia realistica e spirituale insieme, ricca di arcaismi e neologismi, di pregnanza dialettale per raccontare gli oppressi e gli ultimi con grande carità cristiana, non disgiunta da una forte carica polemica, ironica, profetica. Sarebbero molto graditi e interessanti i vostri commenti alle due poesie di Sciascia, tanto diverse eppure tanto simili nella descrizione così rammemorante dei luoghi del cuore. E a qualche poesia più significativa di Loi. Spero di poterne parlare anche nel Retino. Infine, ci sono ancora nuovi vostri commenti che mi fanno molto piacere e mi suggeriscono che stiamo percorrendo insieme “la retta via”. Ecco cosa mi ha scritto oggi Giulia Basile: Angela sei una fonte di acqua fresca e limpida in un mondo che affoga in acqua stagnante, e tu, invece di adagiarti col passare degli anni in giorni pigri e indolenti, tu fai dei tuoi pensieri un fresco ruscello dissetante per chi sa apprezzare la vita. Grazie per i tuoi stimoli. Bella anche la poesia “Errare” di Mariateresa. (Giulia Basile). Non ricordo se già ve l’ho proposta nelle puntate precedenti del mio blog. Nel dubbio, eccola. È davvero molto originale e profonda. Mariateresa mi scrive: E a proposito della consapevolezza di un ESISTERE che è inno a ciò che di umano ancora resiste... eccone un'altra! “Errare”: Eccomi piuma di un'ala esausta di peso sottrarsi al greve di un fare disfatto./ Eccomi grafia di un verso incompiuto sprecato nello spazio di un rigo troppo stretto./ Eccomi braccia esili a sorreggere un improvviso sapere di sé che imbavaglia l'attimo./ Eccomi chiodo, finestra, focolare. /Eccomi errore nell'errare. Da commentare. È un invito a me. È un invito a voi. E sono davvero felice di tutto questo e della stima affettuosa e sincera verso altri poeti e scrittori che partecipano attivamente al nostro Retino. È questo lo spirito giusto: stare insieme per fare insieme un percorso di reciproca conoscenza e di apprezzamento di quanto ci unisca in nome della scrittura e della poesia. Grazie. E, a questo proposito, vorrei concludere citando la “Rete di Indra”, tramandata dalla tradizione buddhista.
L’UNIVERSO è costituito da una immensa RETE che attraversa tutto l’infinito e abbraccia tutte le esistenze passate, presenti e future in un eterno presente e ogni esistenza è parte della rete e si interseca con le altre in nodi che culminano con infinite “gemme” luminose. La immensa rete di fili colorati e lucenti vive di “interesistenza” e di interdipendenza le une con le altre. E sono tutte attraversate dalla stessa luce in ugual misura e splendore. Se appare una, appaiono tutte. Ma, se la luce per una frazione di millesimo di secondo dovesse spegnersi anche tutte le altre si spegnerebbero. È, a mio parere, una metafora molto bella che ho fatto mia da quando per la prima volta mi capitò di “incontrare”, nel saggio di Francesco Bellino Giusti e solidali: fondamenti di etica sociale, nei lontani anni Novanta, la “Rete di Indra”. Saggio davvero illuminante. Il mio minuscolo Retino è partito proprio da quella magica RETE, ma l’emozione del nostro primo incontro della durata di cinque minuti non mi diede il tempo di parlarvi del respiro di infinito ad essa sotteso. Tra l’altro, il monaco buddhista Thich Nhat Hanh, poeta e attivista vietnamita per la pace, ormai ultranovantenne, parla di “inter-essere” tra le diverse creature del Creato. Dunque, di interconnessione della nostra esistenza a quella di tutti gli altri esseri che respirano l’Universo e si nutrono del mistero della vita nell’Infinito. È una teoria filosofico-poetico-spirituale di straordinaria bellezza e saggezza, a cui davvero e bello ispirarsi. Lo faremo insieme. Con AMORE e l’ARMONIA, ricchi della nostra interesistenza, del nostro illuminarci (in tutte le possibili accezioni) a vicenda… Grazie a tutti e a domani. Vi abbraccio. Angela