martedì 31 luglio 2018

Alcune ballate del mare

È tempo di vacanze, di mare, montagna, lago, campagna. Io adoro il mare e mi sembra giusto cantarlo in mille modi. Qui mi piace riportare alcune ballate mai pubblicate. Di cui il grande e compianto critico letterario Giorgio Barberi Squarotti, avrebbe dovuto fare la Prefazione. Ma la pubblicazione non c’è più stata. Di esse, però, il mio rimpianto e prezioso amico ebbe a scrivere due anni fa: “… Sono molto interessanti e originalissime. Mi piacciono moltissimo, tanto fascinose e avventurose e colme di stupori e di visioni e di sogni.
C'è, in esse, molto mare e c'è una straordinaria inventività di ritmo e di immagini…”.
Dedico a Lui queste ballate inedite sul mare.

La ballata della lunga onda

Un’onda lunga m’avvolse dorata
Verde chiara tenera quasi rugiada
M’avvolse di ricordi biancospino
Frizzanti bicchieri colmi di vino
Vino invecchiato oltre trent’anni
Con tutti i miei amori i miei affanni
Con lo splendore delle cose passate
Con il dolore delle carezze negate.
Vieni a salvarmi portami un ramo
di mandorlo in fiore noi due siamo
vento di mare e canzone di nostalgia 
siamo forse amore o solo malinconia
Siamo campane a festa siamo violino
siamo silenzio muto e luce del mattino
Siamo distanza vuoto ansia disperazione
ma siamo anche filo dello stesso aquilone
Siamo tanto siamo tutto forse solo niente
Ma siamo noi due e siamo soli tra la gente
Vieni a consolarmi portami del buon vino
brinderemo al sogno gettato nel cestino
Vallo a recuperare amore fammi sognare
Non gettare l’ultimo sogno in fondo al mare
(avremo almeno un sogno da ricordare)

La ballata del mare 2

sono onda azzurra sono acqua di mare
mi esalto tra flutti spuma e alte maree
sorreggo barche che vanno a pescare
ai pescatori regalo pesci e chiari di luna
ai marinai porto sirene e mille idee
di terre ancora vergini da esplorare
vieni al mio richiamo di conchiglia
ti aspetta sempre una fanciulla bruna

(bruna come una notte di giunchiglia
scura come la notte che ingoia la luna)

sono onda di mare acqua azzurra
senti la risacca che ti sorprende
con la sabbia che scivola tra le dita
con il vento che all'orecchio ti sussurra
ti sussurra una brutta stanca canzone
di pirati e scafi che molti cristi vende
per un pugno di sale e sogni di una vita
diversa nuova più ricca più riuscita

(sui loro corpi arditi la notte di pece
scese rapace e mille vittime fece)

e tu non piangere per la loro sorte
portavano negli occhi la propria terra
sapevano che lottavano con la morte
sapevano che partivano per una guerra
partivano con nel petto un aquilone
di rosso fuoco e azzurro come il cielo
un fazzoletto in pegno e una canzone
una nostalgia di baci e un bianco velo

(fu velo bianco che coprì ogni dolore
vieni e saprai la storia di un amore)

vieni e saprai non è feroce il mare
vieni e vedrai che sono dolce culla
a chi venne da voi ignaro di lottare
per un lavoro una casa un po' di nulla
e nulla trovò nel cuore inaridito
neppure consolazione per il pianto
solo dolore e morte si sentì smarrito
di aver in cuore un soldo di rimpianto

(e mi guardi pensierosa dalla bianca riva
negli occhi l'ombra del mio dolce incanto)

La ballata del mare 3

il mare  -  mi specchiavo nei tuoi occhi d'ambra scura
                 che cercavano orizzonti e altre rive
                 spiccavi il volo coi gabbiani nell'aria pura
                 aria tersa che nelle azzurre vie vive
                 estivi incontri palpitanti in pieno sole
                 mentre mi mormoravi parole d'amore
la donna - mi specchiavo nelle onde d'acquaspuma
                 attraversarti volevo con vele in libertà
                 andare lontano dove il cielo si fa piuma
                 che danza con le onde e un bacio ti dà
                 ti ho sempre amato fino allo sfinimento
                 di voli sulle tue acque ne feci più di cento

                 (ci accogliemmo in un abbraccio voluttuoso
                 tu vortice io vela tu turbine io fianco sinuoso)

il mare  -  ti aspetto ancora anche se già è autunno
                 non posso dimenticare i tuoi occhi d'ombra
                 ho canto di conchiglia a togliermi il sonno
                 ascolto la tua voce di sogno ed ambra
                 vieni tra le mie braccia prima che s'alzi il vento
                 vieni prima che la pioggia mi rubi quest'incanto
la donna - non mi aspettare più non posso più venire
                 l'innamorato mio mi sta a guardare
                 seduta sulla riva non voglio più capire
                 perché è andato via e non so più volare
                 non posso più tuffarmi nei tuoi occhi azzurri
                 non posso più ascoltare dolci i tuoi sussurri
                
                 (lasciamoci così senza rancore
                 saremo sempre vela e azzurro mare)

La ballata della casa dei baci

Nell'isola dei baci rossi più di un tramonto
non trovo più il fuoco delle labbra ardenti
di perle e di corallo era la mia bocca allora
un incendio di vene la casa dei miei sorrisi
(incendio di vene i rubini dei tuoi sorrisi)

Aveva trilli d'uccelli la mia ardente casa
tristezza di gabbiani nella conta delle vele
era d'azzurro canto azzurro più del mare
s'inondava di stelle sul finire della sera
(di stelle si colmava l'azzurro fino a sera)

Colma di cesti d'uva ciliege e melograni
dolci più dei favi di miele e d’uvaspina
consumava carezze e baci rossofuoco
ridenti i mattini e più ridenti le parole
(un gioco di mattini erano le parole)

S'è persa nel bosco degli anni la mia casa
che s'allagava di sole in piena estate
viandante d'altre rive io l'ho lasciata
in un intrico di viburni come rovi
(una via senza ritorno tra spine e rovi)

In una fame di baci fame senza respiro
mi sono perduta io nel bosco degl'inganni
tra i fitti rami di un lungo perduto amore
solo un lumicino sulla casa abbandonata
(triste nel chiarore di luna abbandonata)

Fondo più fondo del pozzo profondo
buio più buio nel buio della notte buia
buio il mio cuore di allodole e gabbiani
nel pozzo dove persi il mio azzurro velo
(occhi di bosco nel pozzo senza un cielo)

Bosco dove non giunge più l'eco del mare
dove non ascolto più quell'antica canzone
che faceva della riva un incontro d'amore
della mia tristezza di foglia d’acqua e sale
(la mia tristezza tra il bosco e la riva sale)

Autunno di pioggia vento foglie e nostalgia
autunno di solitudine e un perduto amore
fu sogno, fu dolcezza dolore malinconia
fu assalto al sogno che sogna e non muore
(fra mille solitudini un sogno che non muore)

Mi capita di cercarla di cercarla ancora
tra il canto dei papaveri e un cielo di stelle
quella casa che non ha più verdi persiane
sul finire della sera mia ultima stagione
(piange di spente primavere l’ultima stagione)

S'accende altro giorno più rosso dei vulcani
cancella l'ombra cupa di quell'antico dolore
più forte del dolore è la ragione del cuore
sulla casa ritrovata l’ultimo ricamo di sole
(di baci si colma ancora la mia casa di sole)  
                                     Ed io sono ancora spuma di mare

La ballata del faro

Era là alto bianco altero solitario
là sulla verde altura finestra di mare
sì era lui il fiero paladino del santuario
guardiano di rotte senza saper nuotare
s'accendeva a illuminare le notti scure
a lui bastava sconfiggere le tante paure

(eliminare notti di naufragi e di paure)

Si dice che una barchetta ne fosse innamorata
si chiamava semplicemente Vergine Benedetta
se ne stava tra aguzzi scogli da quando era nata
c'era con lei un bel marinaio giovane di vedetta
ma lei giorno e notte per il suo faro spasimava
e sulle agitate onde col cuore a pezzi scivolava

(a pezzi il suo cuore su agitate onde scivolava)

- Faro lontano solitario dolce mio signore
distante più che mai dalla mia piccola vela
m' incanti con la tua luce nel buio delle ore
senza darmi il raggio che il tuo occhio cela
fasci di bianca luna tu accendi con costanza
luna d'argento per troppe navi in lontananza

(su onde d'argento danzavano in lontananza)

Così la barchetta piano ai suoi piedi mormorava
ma il faro era troppo alto in alto e non la vedeva
guardava il gran pavese delle navi e si estasiava
per loro era più della stella cometa lei lo sapeva
lei guscio di noce vela di brina a mirare le stelle
con la gioia di contare sempre lassù le più belle 

(il faro senza cuore spegneva proprio le più belle)

- Lasciami un po' di chiarore e una speranza
non ti occupare solo di navi in grande festa 
non illuminare solo il mare e la loro danza
lasciami un raggio per il cuore in tempesta
un piccolo raggio d'argento per me soltanto
così mi aiuterai ad asciugare tutto il pianto

(ma solo il marinaio asciugò il suo pianto)

- Troppo vicina sei non ti posso illuminare
- le disse il faro indispettito una brutta sera -
devi allontanarti vai vai nel profondo mare
comincia a navigare e nel tuo cuore spera
Al suo marinaio implorò allora la barchetta
di portarla lontano all'orizzonte senza fretta

(- ti amo io - le disse lui, remando senza fretta)

E fu così che lei s'accorse dei suoi occhi neri
chiari di sole e del sogno in due da realizzare
sradicò dal cuore l'altero faro e i bui pensieri
spense inutili attese gettò le lacrime nel mare
s'accese un nuovo amore lontano dalla caletta
brillò un nuovo faro era lui e la teneva stretta

(lui la inondò di stelle pianse e la tenne stretta)

È ancora lì alto bianco altero il solitario faro...
(e io so che nel suo cuore muto c’è uno sparo)

venerdì 27 luglio 2018

PER ORO E PER SEMPRE (SECOP Edizioni, 2017)

Oggi mi piace proporre all’attenzione di quanti hanno la bontà di leggere queste note quasi quotidiane sul mio blog una bellissima recensione al libro a due voci “PER ORO E PER SEMPRE” della mia meravigliosa amica Marisa Carabellese, grande pittrice molfettese, conosciuta a livello internazionale per le sue numerosissime opere ricche di stupendi cromatismi e di continua ricerca della Spiritualità nella Bellezza e Armonia delle Forme.
Marisa, in questo scritto, rivela la grande sensibilità che la connota non solo come pittrice ma anche come scrittrice e critico letterario, nonché il grande affetto che nutre nei miei riguardi e che ricambio con tutto il cuore.
Grazie, Marisa, per questo dono inatteso e così tanto gradito…

Angela De Leo                                                                                 Primo Leone
                                  PER ORO E PER SEMPRE
                                                                                      SECOP Edizioni       euro 8     

“Per oro e per sempre”: non c’è un refuso tipografico, né un errore di stampa nel titolo del libro, inconcepibile per una pubblicazione della giovane e prestigiosa Casa
Editrice SECOP. L’oro di questo singolare libretto - e ci si riferisce solo al formato - opera di due Autori, l’una per le pagine di sinistra e l’altro per quelle di destra, è l’Oro di un Anniversario di Matrimonio: le Nozze d’Oro, appunto. È una silloge poetica, un dialogo che si sviluppa in una dimensione atemporale, fra cielo e terra.   
Tutto prende vita dal sagace amore di Raffaella, figlia dei due Poeti e raffinata scrittrice di libri per l’infanzia, di suo marito, Peppino Piacente, l’Editore, e dei nipoti Nicola, giovane grafico editoriale e Anna Paola, brillante studentessa. Attraverso le poesie dei due coniugi/poeti, scritte certo in periodi ed anni diversi, essi hanno ricostruito una splendida storia d’amore.
Angela De Leo - Primo Leone: un matrimonio che, come tutte le grandi storie d’amore, ha avuto le sue luci e le sue ombre, ha generato quattro figli e, inoltre, ha fatto fiorire una vasta produzione poetica e letteraria per entrambi.
Angela De Leo, poetessa, scrittrice, saggista, vive a Corato e dirige la collana di poesia “I girasoli” della SECOP Edizioni; numerose le sue pubblicazioni tra narrativa, poesia e saggistica, appunto, in Italia e all’estero.
Primo Leone, nato a Putignano e scomparso nel 2008, poeta, scrittore, pittore, poliedrico e creativo, si è dedicato anche alla fotografia e alla computer art. Ha scritto per varie riviste letterarie e tenuto numerose Mostre Personali e Collettive in molte città italiane. Suoi dipinti sono conservati in una Collezione privata anche a Parigi.
Tante le sue pubblicazioni tra narrativa, poesia e saggistica in Italia e all’estero.
Un grande amore, quello vissuto da queste due forti personalità; amore che, grazie alla scelta di testi poetici, elaborati dai due Autori in epoche diverse, dà vita ad un appassionato canzoniere.
“Noi siamo come due monti…/ da vivi non ci incontreremo più/ basta che a primavera/ tu mi mandi un saluto con le stelle”: potrebbero essere i versi di Anna Achmatova, citati da Angela, la chiave di lettura di questo libro a due voci. Non c’è un qui o un altrove, un passato o un futuro; la dimensione spaziale e temporale è annullata.
Il loro incontro, nei versi di Angela “Nella mia terra piantasti/ radici/ celebrasti la casa l’amore/ portasti il vento dei tuoi mari/ e bucasti le stelle a primavera…” e “Sono nato prima di nascere/ assurdo capricorno / di uno zodiaco senza cielo;”, scrive Primo.
“Tu unica emozione anche stasera tra spente illusioni”, ribadisce Angela. Il distacco è sempre in agguato, per lei, “nella tristezza di un mare attraversato/ da mille tempeste e un solo cuore/ nascosto inascoltato testardo/ indifeso. Ancora lì a tendermi l’agguato dell’addio” e l’amato risponde che “partenze improvvise mi aspettano/ ai confini del bosco/ quel bosco del tempo interrotto/ tra le mani e nella musica/ dei tuoi occhi stanchi/ di cercarmi…”.
Si dipana il filo dei ricordi: “Riempi di passato il mio bicchiere/ - chiede Angela - perché un’ultima goccia di rosso fuoco/ accenda dell’ultimo sorriso d’amore/ le labbra”. “C’era un bicchiere di vino/ tra noi/ un brindisi sospeso nell’aria…”, sembra risponderle Primo.
Gli anni trascorrono inesorabili, ma l’amore non dà tregua: “M’assedia di ricordi quest’ora/ notturna […] Oggi sono qui in un tramonto di anni” … “E tu ritorni ad ogni canto del gallo,/ ritorni con la prima stella a rendere/ chiara la notte”.
La memoria è fuoco anche per Primo: “Diventeremo vino e musica/ e guarderemo le nostre ombre/ ritornate bambine/ danzare al fuoco della memoria…”.
“Ci vinceva una necessità di noi/ ch’escludeva ogni altro da noi”, scrive Angela, e la Poesia è per entrambi il filo d’Arianna che li fa ritrovare: “dorata come il tuo addio la nostra poesia” … “Ci vinse la notte/ al millenario miracolo/ del nostro riconoscerci in un solo verso/ Rinnovato stupore quotidiano/ fu il nostro incontro”.
“Noi ancora noi/ padroni e schiavi di una violata eternità…”, scrive Primo, “Chi ha stabilito il confine tra la vita e la morte?”. 
Poi il dialogo continua fra cielo e terra “Fu fragore di silenzio tra me e te dopo i nostri occhi/ ormai alla deriva di un abisso senza più ritorno/ ma tu ritorni ogni notte a lasciarmi parole sul cuscino….
Primo ha valicato la dimensione temporale ma continua a inviarle il suo messaggio:
“Se un giorno ti diranno/ di amarti immensamente,/ pensami e saprai che/ ti amo di più/ tanto di più/ un mondo di più/ immensamente di più...”.
Chiudono e suggellano il dialogo le parole di Angela: “Il cuore arreso al silenzio/ non avrà mai il coraggio/ di farsi amore…” e quelle di Primo: “Avrei voluto/ inventare l’amore:/ per offrirtene il brevetto”.
Ma la storia non finisce, ritorna ciclicamente. Basta riprendere questo piccolo libro che evidenzia, esalta il dialogo mai interrotto e ripercorrere tutte le tappe di un amore fatto di Passione e Poesia.
                                                                        Marisa Carabellese                                                         

giovedì 26 luglio 2018

26 luglio. Sant’Anna e san Gioacchino


26 luglio, Sant’Anna e san Gioacchino, suo marito. Entrambi genitori attempati di Maria, la madre di Gesù. Dunque, santi importanti nella gerarchia della santità. Ma sant’Anna ha un posto particolare nel cuore di noi donne perché è la protettrice della maternità. A lei un tempo si rivolgevano le donne che non potevano avere figli o avevano gravidanze difficili. Noi avevamo, nella casa dei nonni, una bellissima campana di vetro che, tra ghirlande di fiori ricamati con perline su carta stagnola, custodiva una statua di sant’Anna dolcissima, di porcellana e cartapesta…
“Io, poi, avevo paura anche delle statue dei santi
che non solo in chiesa ma anche nella nostra casa facevano bella mostra di sé, sul comò della vostra camera da letto, protette da “campane” di vetro sottilissimo con all’interno meravigliose ghirlande di fiori di corallo, carta stagnola, fili dorati e argentati: Sant'Anna, tutta di cartapesta e il dolcissimo volto affilato con i bianchi capelli e le mani di porcellana, con accanto, più in basso, la madonnina con un vestito di seta rosa, in atteggiamento di pensosa attesa dei consigli di sua madre, che aveva una mano appoggiata sull’omero della sua bambina e l’altra sollevata con l'indice in alto a redarguirla. Poi, c’era la campana di San Michele, che era di bianco-rosato alabastro; e quella di san Pasquale, che indossava un vestito di stoffa satinata marrone. Su un altro tavolinetto c’era un grande quadro che racchiudeva le due statue dei Santi Medici, Cosma e Damiano, vestiti di seta ricamata con fili dorati, uno con lunga tunica verde e l’altro con abito rosso. Erano circondate da ghirlande di fiori bellissimi tutti in carta stagnola.
Quelle statue mi incutevano tanta paura perché si muovevano, mi parlavano, mi rimproveravano. Mi spiavano. Sapevano sempre tutto di me. Soprattutto sant'Anna che rimproverava sua figlia, che era buonissima con il suo volto celestiale, e, quindi, non perdeva occasione di rimproverare soprattutto me che dicevo sempre bugie e facevo disperare la mia povera nonna. Ed era una paura che avevo paura di rivelare a chicchessia.
Neppure con te ne parlavo per via della “tremarella che fa bene”.
Neppure con Lizia ne parlavo perché avevo paura che lei non le vedesse muovere come capitava a me, e che non la rimproverassero, perché lei era più ubbidiente e silenziosa; che non mi capisse e che mi prendesse in giro. Ero convinta che col suo anno in più, con la sua intelligenza in più e con i suoi silenziosi pensieri in più si spiegasse molte più cose che per me rimanevano oscure e minacciose”.

(…)
In casa, del resto, si parlava spesso di miracoli, di prodigiose guarigioni, di santi: alcuni benevoli, altri vendicativi.
“Si raccontava che sant'Anna puniva le partorienti, che mettevano al mondo i bambini “frutto della colpa”, con parti lunghi e difficilissimi e molte morivano dissanguate. Mi torturavo i pensieri per scoprire quella “colpa” e il significato di “parto difficile”. Tu, alle mie domande specifiche, sorvolavi come acrobata sul trapezio volante. E io ti seguivo nei voli ma poi abbandonavo l’impresa per via di distanze, che si facevano sempre più lunghe e rendevano imprendibili le tue imprecisate risposte.
(…)
 (La campana con sant’Anna, come ben sai, è ora nella mia casa e ogni giorno le rivolgo un saluto di complice propiziazione della giornata. Abbiamo da tempo stretto un patto di alleanza o forse, meglio, di non belligeranza. Le altre sono finite da Pino, che è un ottimo restauratore, e non so da chi altro di noi)”.
A me sant’Anna, alla fine, ha voluto sempre un gran bene: ho avuto felici gravidanze e parti facilissimi. Forse per farsi perdonare dei mille sensi di colpa che provavo al suo cospetto ogni volta che il suo dito accusatore mi faceva pentire di una bugia, di un capriccio, di una disubbidienza.
Ma, poi, il tempo passa, si cresce, si ricorda, si sorride. Ci si assolve…
E Anna è un nome che mi piace proprio tanto. Palindromo. E nella mia famiglia Anna è proprio di famiglia… Alla prossima!
(il testo fra virgolette è tratto sempre dal libro “Le piogge e i ciliegi”)





mercoledì 25 luglio 2018

Brucia la Grecia brucia il cuore della antica civiltà occidentale


Sgomento e orrore per i video sulla Grecia che brucia un po’ dappertutto. E brucia il nostro cuore offeso e bruciano le nostre mani inerti, impotenti a spegnere le fiamme che riducono ad ammassi di cenere persone, case, templi, il verde degli alberi, e persino l’azzurro del mare, dove cerca disperato rifugio chi è riuscito a salvarsi dalle fiamme. Corpi abbracciati. Liquido fuoco dappertutto. A coprire l’inganno. A scoprire i tanti volontari che sono accorsi per prestare la loro opera di salvataggio. Angeli senza ali, ma con tanto coraggio da sovrastare le fiamme e stagliarsi ugualmente nell’azzurro cielo. L’uomo, coacervo di “miseria e nobiltà”! Come sconfiggere la sua parte ignobile per far emergere negli oceani di fango le meravigliose isole fiorite della sua parte buona, generosa, onesta, solidale? Come sconfiggere il male per fare trionfare il bene? In queste ore sembra che davvero il mondo sia diventato migliore, nonostante le fiamme, il fumo, la morte, che aleggia dappertutto. Ma tra qualche giorno avremo già dimenticato le nostre ali per inabissarci nuovamente nella frode, la violenza, l’inganno, lo smemoramento, l’indifferenza. Ci saranno altre notizie a destare la nostra curiosità, lo stesso orrore, ma poi tutto brucia in fretta. Persino il dolore. Che pure sembra eterno. E un tempo forse lo era. Proprio la Grecia ce lo ha insegnato. Oggi. Tutto passa in fretta. E presto si ricomincia.
Ma chi ci ridarà più gli occhi ciechi e lungimiranti di Omero, la terra dei miti e degli eroi, l’Olimpo e i suoi dèi, la solitudine dei vinti e i roghi delle vedove? Chi ci farà fremere di sdegno per la tirannide di Pisistrato e chi ci farà versare lacrime di solidarietà e compenetrazione per le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide? Chi ci farà riflettere sull’iniquo destino degli uomini? Chi ci ridarà il canto di Orfeo? Chi ci farà sognare un mondo migliore per una democrazia che traeva linfa e sostegno dall’Agorà in una Atene libera e priva di mura fortificate?  
Brucia il rosso cuore della Grecia antica e di oggi in un Occidente devastato e incerto, dove neppure i tramonti ci incendiano di stupore.
E io piango di tristezza, scoramento, abisso infinito, dove non scopro più la Bellezza, l’Armonia, l’Incanto, la divina follia...
Ma una Rinascita c’è sempre nella storia degli uomini…
Imperativo categorico è: Credere per poter Sperare e Salvarsi. Sempre. Sulle “sciagure umane”…

lunedì 23 luglio 2018

23 luglio 1995 - 23 luglio 2018

Nicola compie 23 anni. Ed io desidero parlare di lui brevemente per dirgli quanto amore ha portato con sé nella nostra casa e nella mia vita. E riporto ancora una volta brevi stralci del mio libro.

“E, come d’incanto, due mesi dopo, s’affacciò al nostro mondo quotidiano, per farsi amare,
                                                         NICOLA
Col nome del nonno paterno che non era riuscito ad attenderlo. Un nome che aveva anche echi lontani di giovane sposo e padre innamorato, rimasto nel cuore di tutti noi. Bambino benedetto, nato di notte, fiore di rossa estate nel prato verde del panno a coprirlo neonato, per la gioia delle nonne a mangiarlo di meraviglia e di baci.
                                La vita riprese a sperare Riprese a vivere
 Io ripresi a camminare. Male. A tentare nuove vie per ritornare ad essere quella di prima. Invano. E a nulla valsero le vacanze a Palma di Majorca, le strategie di rivalsa sulla sorte con il nipotino da coccolare.
                                        Per lui non ebbi neppure una fiaba
Solo tanto amore racchiuso tra ciglia di altalenante speranza/disperazione.
             Perdita dell’identità fisica e perdita della identità più profonda
Persa per sempre la tua Lina che piroettava col sassolino nella scarpa per essere ammirata e applaudita nella bianca innocenza dei suoi brevissimi anni. E si perse tutti i giochi il mio bambino con una nonna chiusa nel suo dolore muto e inespresso.
                                         Non ebbi per lui che stenti sorrisi”
(…)
Pure, Nicola è stato ed è la mia salvezza…
“Nicola somiglia di più a te e a me. È la tua mitezza di cuore. È la mia allegria di quando ero al centro del tuo universo. È il senso del colore di nonno Primo e quello delle forme di nonno Nicola. E talento innato per la grafica e la composizione di immagini e di parole che danno senso e originalità ai lavori editoriali che realizza con passione.
È volo di scale a prevenire ogni mia necessità. È l’abbraccio del mattino. Il bacio della sera. Premura attenzione amore in ogni attimo del giorno.
Lo connotano la gentilezza e la disponibilità verso gli altri e una signorilità di modi che è suo quotidiano inno alla poesia dei rapporti umani, tuo quotidiano prolungamento.
Disinteressato sempre nel dono di sé verso tutti.
In lui ritrovo incarnata la espressione di don Tonino Bello, il vescovo tanto amato, che ho conosciuto e ammirato come poeta e soprattutto per la sua grande carica di umanità e di santità:
                                    “Il tempo non è denaro. È spazio d’Amore”.
Nicola sembra davvero tuo figlio. Da te ha ereditato tutti i più bei doni che possiede. Soprattutto la tenerezza. E di tenerezza io ho ancora bisogno.
E si ferma il cuore al battito dei vent’anni
del mio ragazzo fortefragile e mite canto 
Corse di bianchi cavalli lungo la riva
le sue carezze che attraversano la casa
grandi mani tenere parole passi giganti
occhi che scrutano piano ogni pensiero
e ansia attenta al mio incedere insicuro
alla mia mano in cerca di sicuro appiglio
ai miei giorni di passi lenti e di celato pianto
Dono del cielo il suo sorriso il suo cuore
Dono del cielo la sua mano pronta
il suo saluto del mattino il bacio della sera
e un correre lungo tutte le scale delle mie ansie
per un abbraccio di tenerezza che mi conforta
e mi rassicura e cancella tutte le mie ombre
e dimezza il tempo mio vissuto e dilata il sogno.
Una certezza nuova ha luminosità di stella:
avrò sempre dimora nella sua anima che trepida
come nella mia vivono tutti quelli che tanto amai
                       Non sarò mai sola
(lui azzurro veliero a solcare d’amore il mio mare)”…
A Nicola oggi il mio GRAZIE immenso e la mia benedizione perché abbia una vita lunga, ricca di tutte le realizzazioni che il suo cuore possa desiderare… AUGURI, AMORE MIO!                                           
                                                                                      Nonna lina

venerdì 20 luglio 2018

Il silenzio e la sua duplice veste


Estate. Tempo di mare. Di monti. Di laghi. Di vacanze. Di chiasso. Di chiacchiere. Di musiche, balli, risate. Difficilmente è tempo di silenzio. Per contrasto, oggi mi piace parlarne. E lo faccio riferendomi ancora una volta al mio libro “Le piogge e i ciliegi” (SECOP Edizioni) di imminente pubblicazione. Ci sono alcune pagine che parlano proprio del silenzio… e che forse ci offrono lo spunto per nuove riflessioni…
“E i silenzi… i Silenzi… I SILENZI…
                                               
Ho conosciuto il silenzio delle stelle e del mare
e il silenzio della città quando si placa
e il silenzio di un uomo e di una vergine
e il silenzio con cui soltanto la musica trova linguaggio
il silenzio dei boschi
prima che sorga il vento di primavera
e il silenzio dei malati quando girano gli occhi per la stanza
(…)
C’è il silenzio di un grande odio
e il silenzio di un grande amore
e il silenzio di una profonda pace dell’anima
c’è il silenzio degli dèi che si capiscono senza linguaggio
c’è il silenzio della sconfitta
e il silenzio di coloro che sono ingiustamente puniti
e il silenzio del morente la cui mano stringe subitamente la vostra
c’è il silenzio che interviene tra il marito e la moglie
c’è il silenzio dei falliti
(…)
e c’è il silenzio dei morti.
Se noi che siamo vivi non sappiamo parlare di profonde esperienze
perché vi stupite che i morti non vi parlino della morte?
Il loro silenzio avrà spiegazioni quando li avremo raggiunti.
(Edgar Lee Masters, stralci da “Il silenzio”)

Silenzio. Paradossalmente è una parola che mi piace. Se penso al silenzio
che fa parlare il cuore. Come dicevi tu, quando sorprendevo te e la nonna seduti vicini nella penombra della sera, dietro i vetri di casa, in silenzio, a salutare il buio che annullava le cose e i rumori e le voci del nostro piccolo mondo quotidiano: la strada di casa, allora ancora un po’ in periferia o la semplice via di un amore che vi teneva indissolubilmente uniti. Sereni, nonostante gli innumerevoli dolori e dispiaceri vissuti da entrambi. Anche a Primo, il mio tempestoso compagno per circa quarant’anni, piaceva il silenzio del nostro raccontarci con gesti d’amore il giorno, lui che aveva come codice preferito di comunicazione l’urlo, e si meravigliava del mio accoglierlo in silenzio. Per lui ero “la lite senza lo scontro”.
Se torna il silenzio: era una aspirazione ed una invocazione. Una necessità di vita per riscoprirci insieme” (…)
Eppure c’è stato anche il tempo dei nostri “disperati silenzi. Non ho più saputo dei suoi pensieri. Lui ignorava i miei o forse li intuiva. Un tempo “eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo dissipato”, sosteneva il poeta del primo Novecento Renato Serra, ed ora non ci rimaneva che il silenzio. Non il silenzio che amavamo in cui era più facile ascoltare le nostre anime. In quel silenzio della sera io ritrovavo l’atmosfera d’intimità e d’amore che si creava nelle nostre antiche sere, quando al buio, rischiarato dalla luce del crepuscolo, tu e la nonna respiravate il sussurro delle vostre preghiere, il rosario quotidiano, seduti dietro i vetri della porta che s’affacciava sul cortile. Ed era un silenzio d’anime tra le parole del cuore. Anche io e Primo avevamo vissuto per anni quel silenzio che ci univa e ci cantava dentro.

Se torna il silenzio
al di là della strada
allora parleremo piano
muovendo appena le labbra
e il respiro sarà breve
come la distanza
tra le nostre mani.
          Se torna il silenzio
Parleremo con gli occhi,
antichi gesti
fioriti sulla pelle,
             ma saremo pronti
poi
a chiuderlo
in fondo ad un armadio
per guardarlo
                    dopo
quando l’ansia sarà placata
sotto le lenzuola
vinte
e segnate
dal nostro amarci.
(Primo Leone, “Se torna il silenzio”)

Poi lo avevamo perso per strada il silenzio buono e ci era venuto incontro suo fratello, il silenzio cattivo, quello che divide e non perdona. Il silenzio del rancore e delle parole mancate, taciute, disperse e mai più ritrovate.
Sì, il silenzio cattivo che, se si protrae a lungo, non riesce più a ritrovare le parole per creare spiragli nella spenta sintonia, per riaccendere dialoghi con l’ultimo fiammifero dimenticato nella scatola dei ricordi e dei progetti.
                                          E tutto tace. Anche il cuore.
Ecco perché il silenzio è anche una parola che mi sgomenta, quando penso al silenzio che crea un vuoto; che separa con fratture e divisioni; che è culla di odio e di rancore; che cova vendetta; che coltiva un equivoco e lo fa ingigantire nella mente; che nasconde un sentimento mai rivelato e, quindi, mai conosciuto e riconosciuto, mai vissuto nella pienezza del gesto e delle parole e delle accorciate distanze.
Silenzio atteso e temuto, dunque. Silenzio invocato e nutrito. Infranto e chiacchierato. Silenzio raccontato. Come il nostro silenzio, caro papà.
Il silenzio è il nulla prima del Big Bang, esplosione del Creato. Che si racconta con le cose. La materia, innanzitutto. Generata dal nulla per un atto di Energia purissima. 
Il silenzio. È il vuoto tra due rumori, tra due suoni, tra due parole. È attesa e ricordo. Speranza e rimpianto. Pudore e timore. Indifferenza. Ostilità. Invocazione muta dell’anima. Preghiera.
Quando divenni più grandicella, la nostra casa a me sembrava, pur non avendone la struttura, ma solo l’atmosfera che vi si respirava, una cattedrale gotica che s’innalzava con le sue guglie al cielo in una penombra che invitava al raccoglimento per ascoltare meglio “la voce del silenzio” o, meglio, “le voci di dentro”: quelle che ci parlano dell’invisibile che è in noi e fuori di noi: l’arcano, il mistero, il sogno. L’indicibile perché tanto più grande delle nostre parole per esprimerlo. L’immenso. Il linguaggio dell’Universo. L’incontro insaputo con Dio. Nella nostra casa c’erano spesso, dal tardo pomeriggio fino allo sfiorare il buio della sera, penombra e silenzio.
Penombra e Silenzio lasciavano parlare il cuore. Penombra e Silenzio si facevano compagnia. Ci permettevano di incontrarci nell’ascolto delle parole non dette ma sentite ugualmente. Ed era bellissimo ritrovarci nei volti che via via si cancellavano mentre si facevano più evidenti e vivi e veri i sentimenti che provavamo per noi, tra di noi. Lontano il mondo con la sua realtà.
Ma penombra e silenzio ci aiutavano anche a riflettere. A fare scelte, a prendere decisioni. Più grandicelle noi, più anziani e provati da nuovi affanni voi. Quanto ascolto in quelle penombre e in quei silenzi…
Allora, anche Ninì Rosso accompagnava tutto quel silenzio con la sua tromba magica e dolente che penetrava nel cuore e si faceva lacrime per ogni evento triste che il giorno, nostro e degli altri, registrava.
E, ancora oggi, penombra e silenzio, quando è possibile viverli nella nostra casa, accarezzano, l’essenza degli oggetti, delle cose. Intuiscono le verità in questi nascoste, in attesa di scoprire la Verità che nel Tutto le comprenda e le inglobi. Si sostengono e si completano. Si arricchiscono di senso e danno un significato più profondo alla vita.
Hannah Arendt afferma che solo nel silenzio e nella penombra è possibile conoscerci e riconoscerci. E la conoscenza di sé e il proprio riconoscimento danno all’essere umano la giusta dimensione di quello che è nel mondo e gli evita errori di valutazione e di autovalutazione. Il clamore è spesso il fallimento della nostra autenticità, perché ci stordisce, ci frastorna, ci impedisce fi pensare. Spesso è la festa della inautenticità: il più delle volte ciò che appare non è. La Verità “è invisibile al mondo”. Per scoprirla ci occorre e ci soccorre il silenzio. Quello che ci riporta alle parole mute delle cose, alla loro storia nascosta e forse dimenticata. Al canto della natura. Al sussurro del giorno che comincia e si racconta in un segreto d’intenti, e di passi per perseguirli e di gesti per realizzarli, perché ogni giorno sia un giorno nuovo e aggiunga qualcosa di diverso alla nostra vita. Un fremito. Una emozione. Un accadimento che ci sorprenda e ci faccia sentire vivi o rinascere. Nel faticoso, gioioso, tormentato, chiaro, complesso, semplice nostro andare. Viandanti in uno spazio/tempo che ci appartiene e che pure non è nostro. Di cui forse dobbiamo dare di conto. Magari in silenzio. Quando la penombra smorza pian piano anche i nostri pensieri…”

lunedì 16 luglio 2018

Presentazione de La via delle vedove di Angela De Leo

Presentazione de La via delle vedove di Angela De Leo
Sannicandro, 10 luglio 2018

Castello Normanno-Svevo di Sannicandro (Bari)
Sera del 10 luglio

La pietra mi vince e mi esalta nel lungo salone di archi e volute come insolite nuvole e ali e onde materiche che salgono al cielo e vibrano e cantano la Bellezza che qui fremita di paesaggi murgiani. L’ulivo ha un fruscio di foglie, accarezzate dal vento in una svettante esaltazione d’argento e di verde a smemorarsi sul mare. E capelli di donne come spighe dorate danzano e spighe come capelli s’intrecciano al primo sole di luglio e drappi azzurri, trasparenti e leggeri, fluttuano al mito di una Primavera che cede il passo a Venere in una corsa di giorni da vivere tra la frenesia delle cicale e un “sogno di mezza estate”. E rossi tramonti di camini accesi raccontano storie antiche di donne e bambini, di fatica e bestemmie e mai un sorriso tra bocche cucite su ogni segreto che la vita insegna e tace. Porte spalancate all’alba che sa di preghiera e finestre con panni distesi a rapire un rimpianto di notti di deliri vissute senza amore. E il gallo canta la sveglia dell’ultimo minuto ignaro del tradimento per trenta denari. Ridono i papaveri per tanta dimenticanza mentre esplode un germoglio di mandorlo appena fiorito.
M’incanto a questa siepe di dipinti di rara armonia che fiancheggia la pietra e la rende viva di storie e di stagioni. E la pietra racconta. Si fa memoria e nostalgia. Si fa corona di così tanto splendore di immagini e colori e follie che hanno il respiro della nostra anima. E ritrovo in questa antica pietra e nei dipinti, in cui affondo il mio sguardo avido di bellezza e di sogno, tante descrizioni, nel bene e nel male, di questa nostra Puglia, magica e amara. Descrizioni, che hanno arricchito il mio romanzo La via delle vedove di tante stagioni che si sono succedute nell’arco degli ultimi cento anni, a ridosso del nuovo millennio.
Ed è qui, dove perdo occhi e cuore, che ritrovo le parole.
Quelle di Raffaella che salutano, e presentano le altre voci della serata e invitano il piccolo ma motivato gruppo di ascoltatori a seguire una storia fatta di tante storie di donne in una Puglia che attraversa il “secolo breve” (Eric Hobsbawm) senza avere consapevolezza di sé e delle rapide trasformazioni in atto. E la narrazione comincia. Raffaella è un concentrato di bravura, un vulcano in eruzione d’amore e commozione mentre parla del romanzo La via delle vedove e di sua madre, cioè io, che ne è l’autrice, poi cede la parola a Cettina Fazio Bonina, presidente dell’Associazione culturale “Porta d’Oriente”. Questa splendida Donna ha ricevuto il libro solo due giorni prima e mi sorprende per la sua lettura attenta e commossa. La ritengo eroica e mi commuovo anch’io nel ricordo appassionato che lei fa della sua infanzia così simile alla mia, pur essendo lei più giovane di me ed estranea alla cultura pugliese di quegli anni da me raccontati.
Le infanzie di tutto il mondo, in fondo, si somigliano per lo stupore di fronte ad ogni più piccola mollichina da scoprire; il candore di ogni esperienza vissuta con anima bianca e trasparente come velo di sposa; i giochi di sempre condivisi, tra saltellante gioia e furiosi litigi, con gli altri bambini; le regole degli adulti da imparare per conquistare autonomia e libertà. Per prendere il volo. Ma i nostri voli non andavano lontano. Non superavano la soglia di casa. Grazie, Cettina carissima, per le tue meravigliose parole dettate dal cuore e filtrate dalla tua mente ricca e profonda.
Poi, Valeria, la mia insostituibile Valeria, di cui mi piace pubblicare la “sapiente” Presentazione, che mi ha inviato dietro mia richiesta. Merita di essere letta da molte più persone di quelle che l’hanno sicuramente apprezzata nel magico Castello. Rigorosa, ma quanto illuminante, soprattutto sul versante psico-pedagogico, e con un occhio particolare ai bambini dall’infanzia negata. Eccola.
“Questo intenso romanzo si apre con un riquadro sulle rovine e sull’idea della demolizione, ma in realtà si riavvolge da subito, tondo e curvo come un gesto di amorevole cura, sul tema del tempo, «gomma miracolosa» (p. 15) che cancella (truccandoli) colpe e misfatti, in un tentativo di assoluzione che assomiglia (come diremmo oggi), ai filtri Instagram che usiamo per apparire più giovani, nell’illusione di ritrovare quell’ingenuità perduta che solo i pochi anni, e non i molti sconti possono regalare.
Questo è un romanzo che non pretende più, o soltanto, di incunearsi nella verità, ma che finalmente   cioè la vita – non è menzogna, ma occultamento e l’occultamento è un processo scientifico tagliente come una lama, profondo come la linea dell’orizzonte, lacerante come forbici infuocate a tagliare cielo e mare al tramonto.
La domanda che spinge alla fuga la protagonista, è cruciale: “ma qual è per me la condizione di vita più soddisfacente?” Una domanda senza risposta, che traccia il senso della nostra esistenza e ci inchioda alle nostre responsabilità, soprattutto quando questa si immette nella sua fase finale, mischiandosi alla paura della morte, alla fatica e alla solitudine. E qui mi ritorna in mente Heidegger, quando affermava che «l'esserci compreso nella sua estrema possibilità d'essere, è il tempo stesso e non è nel tempo». In questa estrema possibilità di essere, le persone si mostrano ciascuna con la propria maschera, che è l’interpretazione personale della propria storia. Eva ammette infatti che gli altri «sanno di me quello che fingo di essere e che racconto di me» (p. 34).
Le prime scene sono girate sul palcoscenico dell’infanzia. Non possiamo essere adulti felici se non siamo stati bambini felici. O se non siamo stati bambini. «Quanti giochi interrotti, quante risate paralizzate sul nascere, quanta paura affiorante nei silenzi e nelle lacrime […] quante esperienze mancate, quanti tumulti del cuore soffocati, quanti tormenti nascosti tra pensieri che avevano persino paura di pensare, che avevano imparato a non pensare, che avevano rinunciato a pensare» (p. 55). Angela De Leo descrive molto bene la pedagogia nera con cui Alice Miller ha definito le pratiche autoritarie così diffuse in un passato di fatto abbastanza recente, e le loro conseguenze sullo sviluppo infantile, disperatamente racchiuse in una frase famosa della psicoanalista polacca: «il modo in cui siamo stati trattati da piccoli è il modo in cui tratteremo noi stessi per il resto della vita».
Insieme al tempo, alla vita e ai suoi prodromi, anche lo spazio rappresenta una interessante linea di lettura di questo romanzo. Qui lo spazio è il Sud, come area geografica e metafora di un abitare misero e sofferente, diabolico e maledetto. Mai come in questi giorni è drammaticamente vero il passaggio che dipinge il Sud di tutto il mondo come «l’inferno su questa terra: tutti i mali si concentrano in terre, figlie di un dio dimentico di una umanità che vive, se vive, nell’indigenza, soglia varcata di malattia, dolore, morte» (p. 67). Di questi non-luoghi – per citare Augè – il racconto/ricordo di Eva attraversa con lucidità le vicende che segnano il Novecento, secolo del bambino, i rapporti tra i generi e tra le generazioni, l’educazione familiare e scolastica.
Il filo conduttore di questo itinerario è il concetto di margine e di scarto. Qui, inevitabile è il riferimento ad Ariès, il quale ha dimostrato chiaramente quanto sia stata forte in passato la convinzione che bisognasse mettere al mondo parecchi bambini per conservarne solo qualcuno. Come ha bene ricordato Trisciuzzi, questa forma di rassegnazione ha finito per plasmare la stessa relazione educativa tra genitori e figli, e in generale tra adulti e minori.
Fino a un recente passato, l’atteggiamento di indifferenza verso i bambini, esposti a tutta una serie di malattie e di incidenti mortali, serviva a tenere a freno il sentimento di tenerezza che naturalmente i cuccioli dell’uomo ispirano, proprio in attesa della sorte o del destino. Se non morivano fisicamente, i bambini del tempo morivano psicologicamente e intellettualmente, dispersi nelle maglie di un’istituzione scolastica che pretendeva di «fare parti uguali tra disuguali», come ha denunciato Don Milani. Parafrasando il bel libro di Edith Wharton, gli anni Settanta rappresentarono l’età (della perdita) dell’innocenza, e anche della perdita della ragione, dell’identità e dell’appartenenza, perché gli anni di piombo riuscirono davvero a crivellare il sé individuale e collettivo, e ciò che ne seguì fu che «nessuno seppe più chi fosse veramente» (p. 109).
La rivoluzione sessantottina plasmò i saperi, i poteri, i vizi e gli amori, più o meno dappertutto, tranne che nella via delle vedove e al mare, dove in effetti «il tempo sembrava essersi fermato su quelle vesti scure e su quei volti in dispetto con la vita» (p. 111). Vesti e volti di donne forti e fragili nello stesso tempo, rassegnate e testarde, in grado di tessere pensieri raffinati sulla trama di una incolpevole ignoranza.
Come zia Vienna, che addirittura fa del frammento di Eraclito «il carattere dell’uomo è il suo demone», l’essenza della condizione umana e del suo destino. Del resto la vita degli antenati di Eva, così priva di amore eppure piena di figli (una reale contraddizione in termini per noi) rappresenta la conferma dura e cruda di quanto sosteneva Hillmann sempre a proposito del carattere, che proprio nell’invecchiamento trova la sua forma più estrema e pura di disvelamento. «Il carattere influisce sul nostro modo di dare e di ricevere, sui nostri amori e sui nostri figli. Torna a casa con noi la sera e può tenerci svegli a lungo, la notte».
Questo è accaduto a Eva, che in una notte di girandole tra vita e morte, in una danza incessante tra vivi e morti ha finalmente ritrovato il significato della suo essere nel mondo e del suo romanzo familiare (e criminale). Se ciascuno di noi è Eva, dopo avere letto il libro non possiamo che restare svegli tutta la notte per ottenere qualcosa, e penso alla condizione femminile e alla questione meridionale. Se questo è ciò che vogliamo, e se ciò che vogliamo è giusto, destiamoci e vegliamo insieme, la pioggia ci aiuterà (p. 228)”.
Valeria Rossini



I titoli accademici, le prestigiose professioni e i tanti incarichi professionali e culturali, ricoperti dalle due straordinarie relatrici qui non servono: non aggiungono nulla alla loro bravura e unicità. Volendo, si possono recuperare andando a rileggere la locandina. Per me sono due persone che mi porto nel cuore: Cettina è un’amica, davvero impagabile per tante sue doti di grande cultura e umanità; Valeria è la “mia alunna” di passate stagioni, ma sempre presente ai miei giorni, con tanta amore e tanta poesia (scrive bellissimi versi anche lei, ma ora pubblica solo puntuali saggi di Pedagogia!).
Ogni intervento, in verità, ha avuto - durante - il silenzio, attento e commosso, del pubblico empaticamente coinvolto, con gli applausi che - a conclusione - sono esplosi coralmente e sentitamente. In una atmosfera rarefatta e sognante. Davvero abbiamo vissuto insieme un sogno. Da cui non riesco a destarmi… una mano, per favore! Anche per poter essere presente ai prossimi incontri...
E che la Bellezza, l’Incanto, la Poesia trionfino sempre!
Grazie, dunque, al pubblico, non numeroso ma sensibile e qualificato.
Un grazie particolare ai Maestri Pittori: Luigi Basile, Cataldo Mastrorilli, Enzo Morelli per averci fatto respirare Armonia, Eleganza di forme e contenuti, Sinfonia di Colori, Raffinatezza.

E un grazie di vero cuore al marito di Cettina Fazio Bonina (e gli chiedo scusa perché non ho memorizzato il suo nome e cognome, ma colmerò sicuramente questa lacuna!), che ha voluto rendere omaggio alla “appassionante serata”, scattando delle foto meravigliose per eternare la nostra femminilità, resa ancora più bella dalla gioia e dalla commozione che illuminava i nostri volti. Alla prossima... 

Angela De Leo

sabato 14 luglio 2018

Il mondo cambia nel mondo che resta - quinta parte


Ecco, a quelli della mia età non rimane che sperare, al di là di ogni inevitabile cambiamento, che rimanga intatto il cuore. Solo nel cuore i sogni sono veri. Che le nuove generazioni lo sentano battere dentro, forte e vero.
I bambini non hanno bisogno delle nostre preghiere. Essi stessi incarnano la gioia di vivere.
I giovani, invece, vanno scoperti, ascoltati, conosciuti, compresi, amati, perché non si disperdano come foglie al vento, non siano flutti di mare in tempesta, non conoscano il naufragio delle stelle d’agosto col capo piegato in un cespuglio e braccia ferite di nero e di morte.
       Perché s’innamorino eternamente come fanno i ciliegi a primavera
          Solo così l’umanità può contare ancora albe e ancora tramonti
                       E rinascere oltre la notte e le perdute sere
So che dentro viviamo innumerevoli primavere proprio come i ciliegi del tuo antico campo che, fiorivano col primo tepore del sole e s’addormentavano con le prime farfalle di neve.
Tra tante trasformazioni, il cuore dell’uomo rimane immutato e immutabile. Nella sua dimensione di bene e di male. Si deve cercare il BENE
                                                             IL BENE
(domani possiamo morire… bisogna essere buoni oggi, tu dicevi)
Ho bisogno di crederlo per non trasformarmi in un legnetto di grigio rimpianto alla deriva. Ho bisogno di sognare ancora. Ma forse i giovani si stupiscono dei nostri sogni. E non sanno che non bisogna mai perdere la capacità e la volontà di sognare
(il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni, così Paulo Coelho)
Occorre imparare ad amare la vita, soprattutto quando ci si accorge che è già passata. Che siamo al capolinea.
Ama la vita così com’è
Amala pienamente, senza pretese;
amala quando ti amano o quando ti odiano,
amala quando nessuno ti capisce,
o quando tutti ti comprendono. (…)
Amala nella piena felicità,
o nella solitudine assoluta.
Amala quando sei forte,
o quando sei debole.
Amala quando hai paura,
o quando hai una montagna di coraggio. (…)
amala anche se non è come la vorresti.
Amala ogni volta che nasci
ed ogni volta che stai per morire.
Ma non amare mai senza amore.
Non vivere mai senza vita!
(Madre Teresa di Calcutta, stralci di “Ama la vita”)
           
        (nessuno muore del tutto se c’è qualcuno che ancora lo ama)
Per risorgere bisogna rimanere vivi nella memoria di chi ci ha amato, ci ama. Ma è prima necessario che chi ci ricorda rimanga egli stesso vivo. Nella consapevolezza di sé e del proprio passato. Ma
Per essere vivi occorre abitare sé stessi. Occorre accettare d’intraprendere il viaggio dentro di sé che ci spaventa tanto perché ci mette di fronte a noi stessi (Antonella Boralevi).
E abitare noi stessi significa afferrare tutto il coraggio possibile per intraprendere quel viaggio nei meandri più profondi della nostra anima, in cui si annidano tutti i bandoli dispersi della nostra identità. Occorre denudarsi. E guardarsi e farsi guardare in tutte le pieghe/piaghe più riposte della propria pelle e del proprio cuore.
Per questo, io, parlando di te, ho dovuto necessariamente parlare di me, nel bene e nel male, perché solo così si è credibili in quanto autentici, veri e, perciò, si riesce a universalizzare la propria esperienza di vita. Soprattutto nella sua
         IMPERFEZIONE e nei suoi ERRORI perché questa è l’UMANITA’
(…)
Per riconoscerci, dunque, è necessario scoprirsi, accendere i fari sui ritrovati ricordi perché si facciano memoria di noi e degli altri, individuale e universale, in un andare a ritroso in quella galleria personale, dove spazio e tempo si azzerano per sconfinare in un “luogo” che ci spaurisce perché cela il mistero di noi e lo attualizza con spietata crudeltà. I fari illuminano quanto avevamo a fatica dimenticato, quanto ci eravamo illusi di azzerare, quanto ci era sembrato giusto soffocare nelle spire della “camera oscura”, dove si aggirano le nostre ombre. Quelle del passato e quelle del presente, in una confusa sarabanda di tempi luoghi azioni situazioni.
                                                   Soprattutto le ombre
                               (analizzate a fondo da Carl Gustav Jung),
che avevano reso buio il nostro cielo, condizionato comportamenti nel nostro personale naufragio, in uno scrosciare di pianto da non dire. Occorre imparare a convivere con le nostre ombre se vogliamo salvarci dai sensi di colpa e dai rimorsi. Le lacrime non devono fare rumore se vogliamo essere accettati dagli altri. Se vogliamo accettarci. Per questo le ascoltiamo di notte. Le accogliamo e soffochiamo nel cuscino. Eppure sarebbe bello scoppiare in lacrime di fronte al mondo e dire ecco la mia fragilità, ecco il mio coraggio
(“e quanto è bello chiagnere”, dirà Filumena Marturano dopo una vita di lacrime ingoiate e occhi di ostinato silenzio).
E sono convinta che si può scrivere con autenticità solo delle esperienze vissute in prima persona. Ed essere credibili. Altrimenti è solo una costruzione logica o fantastica, ma priva di verità. Ed è quest’ultima che rende universale la nostra storia privata. Soprattutto quando fa male perché ognuno può ritrovare sé stesso in quella ferita. In quel pianto.
Tutto il resto è letteratura per mentire e mentirsi. Divertendosi e divertendo anche. Indicando mondi irreali perché si imparino gli sconfinati spazi della creatività, della fantasia e della immaginazione. E sono stata e sono la prima ad inchinarmi alla grandezza immaginifica dell’uomo. Ma sconfiniamo anche dalla realtà. Che è tanto più vera quanto più ci appartiene e appartiene alla gente che si dibatte in mille contraddizioni e si riconosce nelle qualità e nei limiti, nelle conquiste e negli errori, nell’ideale di quello che vorrebbe essere, e nel reale di ciò che è. E i ricordi servono anche a questo. A darci la nostra giusta dimensione nel tempo e nello spazio.
     E oggi è soprattutto tempo di memoria e di verità, se vogliamo salvarci.
Ci sono, infatti, ricordi luminosi che non abbiamo mai dimenticato, che mettono in fuga le nostre ombre e ci aiutano a riafferrare il senso della vita con maggiore gioia di vivere. Soprattutto quando gli anni sono tanti. E ci sorprende come ladro di sogni il disincanto.
È bene, allora, farci illuminare e riscaldare dalla tenerezza di quei ricordi, se vogliamo rinascere e non solo sopravvivere a noi stessi: volti voci richiami per mettere in fuga la pioggia che batte con piede cattivo sui nostri pensieri e fare spazio all’arcobaleno che ogni scrosciare d’acque porta con sé.
                       E ogni notte si fa Alba Mattino Tramonto Sera
Poi, si ricomincia. In una scia di luci-ombre-luci… senza fine…
(…)
                       E scoprire che il cuore è Cuore dappertutto
    Come il Sogno, la Bellezza, la Poesia. Basta saperli scoprire ogni giorno.
Nata in una primavera oscurata dalla guerra, fosti tu, mio caro papà, a prenderti cura, del germoglio che si sarebbe dischiuso per far fiorire al mondo una donna fortunata. Oggi so di esserlo a tutto tondo.
                                   Non mi ritengo più rapinata dalla vita
Anche dalla vita e non solo dagli dèi ho avuto tanto. Il dono immenso della creatività che fa immensa ogni minuscola cosa. Ogni più piccola scoperta. Ogni esperienza. Intorno a me, nonostante tutto, scopro sempre e ancora tanta Fiaba. Era là a sorriderci quando insieme ce la inventavamo: era nella natura, nella nostra casa, nelle nostre parole, nei nostri sogni e nella inesausta speranza che illuminava di prato i nostri giorni.
                                       E anche ora mi accompagna
(bisogna guardare il mondo con gli occhi del bambino nel giorno delle sue prime albe… solo così non s’invecchia neppure a cento anni…
la vécchjə tənèvə cìnd’ànnə e sə ‘mbarèvə angòurə
la vecchia aveva cento anni e aveva ancora voglia d’imparare… la curiosità allunga la vita…
vivrò cent’anni e avrò sempre voglia di sognare di credere di amare’…)
                                                          (fine)
NB. E mi fermo qui. Ma vorrei precisare che quanto ho riportato in queste brevi pagine è forse quanto di più amaro e disincantato abbia scritto nel mio libro perché, in realtà, molte sono le pagine che fanno ridere, piangere, commuovere, riflettere, così come accade nella vita. E in questo mio ampio “zibaldone” vive la vita, in cui ciascuno di noi potrebbe ritrovarsi e riconoscersi, dai tre ai cento anni. Perché ogni esperienza esistenziale, che trascini con sé i sentimenti, positivi o negativi, insiti nel nostro cuore, è di tutti e di ciascuno.