Oggi mi piace riportare uno stralcio del mio
libro “Le piogge e i ciliegi” (SECOP Edizioni), ormai in dirittura d’arrivo. Qualche
spunto di riflessione.
Ho il
biglietto per un viaggio
che promette il Giardino come destino,
l’abitudine di vagare sulle ceneri
per non dimenticare il fuoco
e la voce di mia madre che di sera
mi avvolse con un fruscio di palme.
Ho anche l’obbligo di restare viva,
di preservare l’intoccabile
affinché il mondo continui ad essere
ciò che non sono.
Ma vivere in cerchio come una lancetta
di orologio finisce per stancare.
Quanta ironia: dover invecchiare
per riprendersi alla fine l’infanzia,
dover morire
affinché nessuno possa rubarmela.
(Lauren Mendinueta,
“Ho il biglietto per un viaggio”)
Certo, il mondo cambia
inavvertitamente, giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi e noi ne ignoriamo
il cambiamento fino a quando, improvvisamente, abbiamo la percezione che nulla
è come prima o forse ne è rimasto ben poco. Anche dove credi di avere le tue
radici. Nel nostro paese dei molti ritorni non ci sono più le stesse persone
conosciute o amate o soltanto incontrate per caso. Non ci sono più gli stessi
campi, le stesse strade, la stessa periferia o gli stessi negozi, le stesse
case, gli stessi palazzi, lo stesso viavai, le stesse gonne e scarpe, gli
stessi cappelli, le stesse canzoni, le stesse voci e gli odori e i rumori e
persino l’atmosfera, che tutto racchiude in lontane nostalgie e vivifica con
improvvisi ricordi. Non ci sono più i panni gonfi d’aria e di pulito ai balconi
dell’infanzia né i cortili aperti alle strade amiche né gli schiamazzi dei
bambini sui marciapiedi alla controra. Ora assordati da macchine e assaliti dal
nero di marmitte fumanti.
(cercate di dormire alla controra perché il
sole cocente vi può far venire il mal di testa che a noi viene già per il
chiasso che fate voi bambini… durante l’estate di pomeriggio si dorme
altrimenti la giornata è troppo lunga fino a che si fa sera e poi notte…)
TUTTO CAMBIA E TUTTO RESTA
IMMUTATO DENTRO E FUORI DI ME…
(nuovo mantra per nuovi
appigli di sopravvivenza)
Oggi, in tutti i paesi che
attraverso, sono pochissimi gli usci dischiusi
d’estate con i vecchi a
raccontarsi seduti sui marciapiedi ad un passo da casa. Non ci sono più i
vecchi per strada. Anche se i vecchi sono tanti e i bambini sono pochi. Ma non
si vive più per strada come un tempo. Il tuo tempo è irrimediabilmente perduto.
Ci sono macchine e ancora macchine. E un andirivieni frettoloso. Senza neppure
un saluto. Nessuno ha più tempo né per sé né per gli altri. Persino i ragazzi
s’ignorano tuffati nei loro smartphone anche quando camminano. Le braccia
tatuate come solo i carcerati, un tempo. Anche Giuliano, lo sai, non ha saputo
resistere. Fa parte della generazione allevata a merendine e Nutella, con i
cartoni animati e le guerre stellari e gli ufo nel giardino e la paura
dimenticata
(heidi heidi ti sorridono i monti/ heidi heidi le caprette ti
fanno ciao… dolce remì… anna dai capelli rossi… jeeg robot d’acciaio… goldrake
e l’alabarda spaziale e mazinga e…)
Teneri cartoni animati di prima
generazione, in cui c’erano quasi sempre bambini orfani o abbandonati con un
nonno come te oppure con tante persone di cuore che se ne prendevano cura, in
una natura incontaminata e felice…
Poi, arrivarono dall’America tutti
i meravigliosi cartoni animati della Walt Disney a colmarci di bellezza gli
occhi e il cuore… E più tardi i videogiochi
(pong… tetris… nintendo… spizzico… commodore 1
e 2 e 3 e 4 e la play station e 1 e 2
e 3 e 4… e via via fino ai nostri giorni…)
per
trattenere in casa i bambini e i ragazzi ed evitare così i pericoli della
strada, senza dare fastidio ai genitori sempre più alle prese con il loro
lavoro e la loro realizzazione nel sociale. I sottani e le case a pianterreno
furono divorati dai “grattacieli” di sei-sette piani con gli ascensori e le
porte di casa chiuse e ostili ad aprirsi agli altri per fare amicizia o andare
lontano. Non più i giochi sui marciapiedi; non più i campi in cui scoprire gli
ulivi e i mandorli e i ciliegi e “rə viòulə e rə cəcàlə e rə gəsìppə də fòurə” (e le
cetonie, le cicale, i grilli); non più i nonni come te a raccontare favole e
altre storie; non più le nonne come nonna Angelina con “il tuppo” e i capelli
bianchi e il grembiale mille-usi. I nonni di oggi hanno fatto il Sessantotto e
portano ancora i radi capelli con lunghi astenici e malinconici codini,
l’orecchino al globo sinistro e parlano, come i lontani figli dei fiori, di
rivoluzione e d’avventura. Sono colti, supponenti, spesso arroganti. Hanno
fumato lo spinello e occupato le università, probabilmente hanno anche sniffato
altre droghe, che nel frattempo sono diventate la piaga dei nostri giorni per
ragazzini, giovani e adulti. Gli anziani sono impegnati nei tornei di burraco e
scarsamente propensi a giocare con i bambini o a raccontare storie. A
raccontarsi. Si è perso il tempo del racconto. Vestono come i giovani e hanno
capelli neri e biondi e un abbaglio di denti nuovi e di bocche senza sorrisi.
Pure,
guai se non ci fossero.
Sono proprio i nonni e le nonne, che un tempo hanno fatto la
rivoluzione illudendosi di cambiare il vecchio mondo, le colonne portanti della
nuova società complessa e senza punti di riferimento solidi. Con le loro
pensioni, mai adeguate alle loro esigenze e ai tanti problemi di salute, ma
quantomeno fisse e sicure in tanta precarietà e scarso lavoro per i giovani,
aiutano anche economicamente, come possono, figli e nipoti grandicelli e in
attesa del primo impiego; sono loro a prendersi cura dei nipotini, portandoli a
scuola e sostituendosi ai genitori, sempre più impegnati in lavori che li
portano fuori di casa per molte ore al giorno. E sono loro che vanno a
riprenderli in paziente attesa diero i cancelli delle scuole per portarseli a
casa per il pranzo e/o la merenda e la cena. E li seguono nei compiti. E
guardano insieme la TV. E magari riescono anche a giocarci un po’. Sì, sono
loro i misconosciuti eroi del nostro tempo, a provvedere a tutto questo,
nonostante abbiano ancora hobby e passioni, e un indomito spirito di libertà. E
i più abbienti (sono in molti che vivono con vergognose pensioni da fame)
abitano in comode case con termosifoni e rari camini. Case, blindate
come fossero casseforti o prigioni.
Noi,
nella nostra casa al quarto piano nel nostro paese, che poi ho lasciato ma mai
abbandonato, avevamo una serratura speciale che il capo famiglia, sempre alla
ricerca di novità che destassero meraviglia in noi e negli altri, si era
preoccupato di far installare: una sorta di combinazione da cassaforte con
numeri segreti per ogni scatto. Il nome da comporre era: lina. Con una parola
d’ordine: girasole, l’appellativo che
lui mi dava nei momenti di tenera ironia. Girasole = Lina. Oppure:
lucerto-lina. Per il mio crogiolarmi al sole durante le nostre lunghe e
imperdibili vacanze.
Ma
anche Lina ormai non è più la stessa nella apparente conformità a sé stessa.
Certo, conserva imperterrita i capelli biondi e la matita agli occhi e labbra
di rossetto, ma con nuove rughe a segnarle il viso su un corpo che ha perso
centimetri (tanti) e ha preso chili (molti). E zoppica ed è lenta e cauta nei
movimenti. Come da bambina, non sa più muoversi con la disinvoltura conquistata
negli anni delle immaginate corse e dei reali silenzi. Lungo strade solitarie
più pensate che vissute. Rare e preziose furono quelle percorse con suo padre a
farle da guida e da comando. Lina, finalmente allora, col suo stesso “passo
svelto” ad accompagnarlo nei rari momenti di insolite intese.
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