martedì 17 maggio 2022

Martedì 17 maggio 2022: mese delle ciliegie, mese mariano e i ricordi di un tempo lontano (seconda e ultima parte)...

“E così anche il coro, a cui dava inizio comare Melina, una vicina di casa, che interloquiva volentieri con zia Angelina, facendo a gara con lei nell’esprimersi in ‘italiano corretto’ a suon di ‘pilaccio’ (peluria) e di ‘roséo’ (bell’incarnato) e di ‘pastina incultivado’, riferendosi alla ‘pastina glutinata’, era tutto un susseguirsi di strabilianti strafalcioni, esibiti quanto ignorati /necessario scotto che bisognava pagare per impadronirsi, improvvisando, della lingua ufficiale). Ma la caratteristica più esilarante in tutto quel contesto di innocenti presunzioni era l’ottimismo incommensurabile di zia Angelina sulla sua buona sorte: ogni volta che un ragazzo o giovincello amico dei suoi nipoti le faceva una gentilezza, lei diceva immancabilmente: ‘a buon rendere, e grazie figlio mio, non ti preoccupare che poi ti dico una réquie metèrna così ti assicuro il paradiso’. Comare Melina non le era da meno, oltre ad essere sicura del fatto suo su molte cose che andava blaterando con zia Angelina, presumeva di avere anche una voce melodiosa e intonata, ed era lei a dare il ‘la’ ai canti di fine rosario, che facevano pressappoco così: Ai tuoi pieèt, Maria dileetta,  vengon tuutti i figli tuooi… oppure Evviva Maria e Chi la salvò (sic!)… e, ancora, Bella tu sei qual sole, bianca come la luna e le stelle  lee più belle non son belle al par di teee… Ma quest’ultima scorreva come fiume tranquillo di note e parole senza evidenti scogli linguistici. Nonno Antonuccio si univa al coro delle ‘pie donne’ non senza averle prima rimproverate col suo sguardo severo per le numerose interruzioni tra una preghiera e l’altra. Il canto conclusivo riconciliava tutti.

A Eva piaceva molto quello alla Vergine, Bella tu sei qual sole, perché era un inno dolce e poetico che donne e uomini cantavano all’alba dei giorni d’estate, quando con i carri raggiungevano il mare con accanto la nidiata dei figlioli, per trascorrere l’intero giorno sulla spiaggia e, durante il viaggio,  si alternavano le voci delle donne a quelle degli uomini in un controcanto, che creava una sorta di fuga di note in una corale armonia fino a perdersi nei campi in una scia di tenera preghiera che il canto innalzava al cielo.  nelle rare volte in cui Eva si era trovata sul calesse con i suoi nonni e i loro amici e parenti, prima di partire per le vacanze da nonna Sabina e nonno Angiulinu, aveva provato una commozione indicibile nell’ascoltare quelle voci in perfetta sintonia con i campi di ulivi che attraversavano e il loro senso di quiete che pacificava il giorno.

E la guerra era veramente lontana.

Tutto in casa di nonna Sabellina e nonno Antonuccio sapeva di quiete e di festa.

Dopo il mese di Maria, c’era il mese dedicato al Sacro Cuore di Gesù. E al profumo intenso delle rose la nonna sostituiva il rosso e il bianco dei gigli che facevano colore e anticipavano l’estate: il mare ‘si apriva’ il giorno dei Santi Pietro e Paolo. E i canti che, questa volta, riguardavano esclusivamente il Signore, si concludevano con la solita giaculatoria: Oh Gesù, d’amore acceso,/ non T’avessi mai offeso./ Oh mio caro, buon Gesù/ con la Tua santa Grazia/ non Ti voglio offendere più. (…)

E ogni volta, alla fine del mese, era una gran festa perché nonna Sabellina offriva a tutte le sue amiche e alle donne del vicinato le paste fatte in casa, con il rosolio di limone o di ciliegie e persino di gelsi rossi. E rimaneva in attesa dei complimenti che non tardavano ad incontrare il suo orgoglio appagato. Mentre, ad ogni inizio di stagione, nonno Antonuccio amava sorprendere le sue donne e il vicinato con ceste ricolme di primizie, a cui faceva seguito un’avemaria di ringraziamento per aver potuto ancora una volta assaporare i frutti della terra” (da La via delle vedove, Secop edizioni, Corato-Bari, 2013)

E per i prossimi giorni farò silenzio in quanto sono in partenza per il Salone del Libro di Torino dove presenteremo molti nuovi libri Secop, tra cui anche il mio Saggio-lettera Tenero il tuo lago d’erba tagliente, dedicato al grande e compianto Giovanni Gastel. 

A risentirci al mio ritorno. Grazie di esserci. Angela

 

 

 

lunedì 16 maggio 2022

Luned' 16 maggio 2022: mese delle ciliegie, mese mariano e i ricordi di un tempo lontano...

Maggio è il mese che amo di più. A fine maggio sono nata tanti anni fa e i ricordi di un tempo lontano si riaffacciano alla memoria anche attraverso i romanzi che ho scritto e in cui spesso ho parlato di me, in una sorta di autobiografia romanzata in cui il fulcro di ogni mia esperienza è stato sempre il “nodo d’amore” che dalla nascita ai nostri giorni è stato il protagonista assoluto dei miei romanzi, racconti, poesie: mio nonno Mincuccio.

Dai due volumi dell’ultimo romanzo a lui dedicato, Le piogge e i ciliegi (è in cantiere il III volume a chiudere la trilogia), riporto i seguenti ricordi:

“In primavera, poi, con lo splendore della natura che esplodeva d'erba, di pratoline e di fiori di campo, tu andavi a casa dei nostri tanti amici e li invitavi a venire con noi in campagna all'alba del giorno dopo. Molti venivano in bicicletta, altri salivano sul traino con noi. E il cielo era un ricamo d'alberi. L’alba spegneva le stelle e vinceva lentamente il buio, rischiarando i nostri occhi spalancati di stupore su quella natura rigogliosa e ricca di frutti. Le nostre labbra chiacchierine si confidavano, in bisbigli d'intesa, confidenze di amori appena nati. Nel campo dei ciliegi sciamavamo tra i rami e tu, appena di ritorno, vestivi a festa il nostro quartiere con ceste di rossi frutti che distribuivi in tutte le case. E le case si accendevano di colore e di allegria: adulti e bambini si riempivano le mani delle accese ciliege, raggruppate dai lunghi gambi e ricoperte dalle verdi foglie

(ciliegie di maggio ciliegie d’assaggio ciliegie di giugno ciliegie a pugno…)

Già da bambina avevo imparato quel rito festoso che salutava di gioia la nostra primavera...

( bbéddə accòmə a ‘na cəràsə…) (sei bella come una ciliegia…)

Lungo le strade le ragazzine, con quelle lampade accese ai lobi delle orecchie, cantavano la spensieratezza dei loro pochi anni, dilatando lo spazio angusto tra quelle case antiche, dove il cielo era un lungo rettangolo blu definito dai terrazzi anneriti di tempo e di impervie stagioni...

Questo è il tempo delle ciliege,/ le ciliege si vanno a cogliere,/ si vanno a cogliere ad una ad una,/

questo è il tempo del primo amor...// La cintura stretta stretta/ e la gonna larga larga,/ le scarpette a punta a punta:/ io ballerò con te.../ Io danzerò con te...// Questo è il tempo delle ciliege,/ le ciliege si vanno a cogliere,/ si vanno a cogliere col panierino,/ questo è il frutto del mio giardino...// La cintura stretta stretta/ e la gonna larga larga,/ le scarpette a punta a punta:/ io ballerò con te.../ io danzerò con te...

Divenuta ragazzina anch'io, adoravo quelle ciliegie: rosse, dolcissime, morbide, profumate

(cerasèlla cerasé/quànnə è tìmbə də cəràsə/ tu mə dai tre o quattə vàsə/ cərasèlla cərasé/ quànnə è tìmbə də limónə tu m’assàssə ‘nu scəcaffónə… Nunzio Gallo e Aurelio Fierro cantavano).

Le ciliegie erano per me quasi labbra baciate di donna innamorata e amata (“Labbra dal disìo baciate”, come avrei letto e scoperto più tardi).

E, poi, via via, fioroni e gelsi e nespole e prugne e fichidindia. Grosse ceste di uva matura e dolce da scaldare l'anima. “Spórtə” (panieri stretti e profondi di sottili sarmenti d’ulivo intrecciati), “spərtéddə” (panierini), “scəchəcchəmarùzzuə” (recipienti piccoli piccoli, per la gioia delle mie manine), di olive verdi e brune da fare in salamoia o con la calce oppure da far scoppiare nel tegamino o sotto la cenere e da mangiare col pane fra boccali del tuo ottimo vino e, per quegli anni, insolite risate.  C’erano più frutti che fiori allora nella nostra casa a colorare e a profumare i giorni.

Ma ora ho fatto un salto temporale dovuto alla memoria che non sempre segue il tempo nella sua cronologia storica. E non sempre riporta alla coscienza collegamenti di esperienze nel loro susseguirsi esistenziale. Irrompe così all’improvviso e accende l’occhio di bue su un volto, strimpella l’assolo di una voce, riempie una strada di ciliegie. Occorre allora ricucire il   prima e il dopo perché nulla sfugga alla fiaba e alla storia. Occorre tornare indietro e ripartire dal mio primo giorno di vita e dalla casa in cui ho incontrato per la prima volta le tue mani, la tua voce. Era una casa a più piani che si arrampicava fino al cielo in un incrocio di strade antiche: via Maggiore, angolo via De Rossi…

 

 Al bel tempo di maggio le/ serate si fanno lunghe; e l’odore del fieno/ che la strada, dal fondo, scalda

in pieno/ lume di luna, le allegre cantate/ dall’osterie lontane, e le risate/ dei giovani in amore, ad un/ sereno/ spazio aprono porte e petto… (Giorgio Caproni, stralcio della poesia “Maggio” da Tutte le poesie, Garzanti, 1983).

In quella casa ad angolo che desiderava il cielo nacqui io un bel po’ di anni fa. E subito mi accolsero le tue mani, le tue braccia. Forse già le tue parole.

                                         Babbo non mi vide nascere

Era partito in guerra ai primi di maggio in attesa che anch’io entrassi a far parte del vostro mondo per scoprire la casa e le tenerezze familiari in un tempo di pensieri bui più della notte, ma io in quel mondo di ali d’acciaio e di volti di paura forse mi rifiutavo di entrare e per questo tardai a nascere: di sera e solo alla fine di quel mese di rose di ciliegie piogge e lacrime.

Era de maggio e te cadeano nzino/ a schiocche a schiocche li ccerase rosse,/ fresca era ll'aria e tutto lu ciardino/ addurava de rose a ciente passe./ Era de maggio; io, no, nun me ne scordo,/ na canzona cantàvemo a doie voce;/ cchiù tiempo passa e cchiù me n'allicordo,/ fresca era ll'aria e la canzona doce./ E diceva: «Core, core!/ core mio, luntano vaie/ tu me lasse e io conto ll'ore,/ chi sa quanno turnarraie!»/ Rispunneva io: «Turnarraggio/ quanno tornano li rrose,/si stu sciore torna a maggio,/ pure a maggio io stonco ccà»./ si stu sciore torna a maggio,/ pure a maggio io stonco ccà». (...) (“Era de maggio”, stralcio della canzone cantata da Roberto Murolo).

                                                In ogni attimo della mia/nostra giornata Tu

Eri il pendolo dell'alba e le prime ombre del tramonto, il coltello per tagliare il pane e la bottiglia e l'imbuto per travasare il vino. Eri la capriola tra le tue braccia e il cavallo che ti portava via, le voci dei tuoi uomini confuse con i respiri dell’alba e il cauto risvegliarsi delle strade. Il richiamo al nuovo giorno e alla vita.

                                                               Eri i tuoi campi i tuoi ciliegi

Le nostre suppliche:/ “ci porti con te in campagna?”/ e la tua risposta:/ “quando matureranno le ciliegie”.

                                                             Eri la nostra attesa delle ciliegie

Eri le ore trascorse tra gli alberi, le stesse ore senza di te nella nostra casa che si riempiva ugualmente di te, di foglie nuove e solchi appena arati, di gemme attese dopo il lungo inverno, dell'ansia dei primi frutti perché il tempo delle ciliegie fosse una realtà (i tuoi racconti quando tornavi e ci mettevamo a tavola per mangiare e per ascoltarti).

Poi, ecco il mese mariano, questa volta preso dal romanzo La via delle vedove (Secop, 2013):

“Sua nonna, in occasione del ‘mese di maggio’, dedicato alla Vergine, allestiva un altarino nel salotto, con vasi di porcellana, dove metteva le rose del suo giardino e candelieri d’argento con le candele che accendeva non appena le vicine di casa arrivavano per recitare il rosario e le preghiere alla Madonnina con la veste bianca e il mantello celeste e una espressione celestiale sul volto minuto e affilato. Con tenero sorriso la Vergine ascoltava, prima del Salve Regina e della Litania di tutti i Santi, una lunga sequela di requie metèrna dona a jìss Domine… e réque e scatte in pace. Amen.

Nonna Sabellina non dimenticava mai nessuno. Partiva dal suffragio ai suoceri (per rispetto), poi ai suoi genitori (per amore); continuava con la preghiera al santo patrono (per devozione) e al santo del giorno (per ringraziamento); poi, ancora, al santo dell’ipotetico giorno della propria morte e della morte di suo marito e di tutti i presenti (per propiziazione). Si ricordava infine delle povere anime abbandonate e di quelle che nessuno ricordava nelle proprie preghiere… e a nulla erano valse e valevano le proteste quasi quotidiane di nonno Antonuccio che ripeteva che le anime abbandonate e quelle per cui nessuno pregava erano le stesse. Nonna Sabellina continuava imperterrita fino allo sfinimento, ricordandosi di tutti i defunti dell’intera umanità: passati, presenti e futuri. Per fortuna, zia Angelina interrompeva spesso e volentieri tutte quelle preghiere per argomentare a modo suo sui fatti del giorno e, ad ogni fine periodo, concludeva con ‘che la quale, basta’ e si sentiva tutta fiera della capacità convincente del suo eloquio, sicura di fare bella figura col suo italiano laddove tutte si esprimevano in dialetto, sapendo che persino a scuola la lingua dei ‘cozzali’ prima (il dialettaccio dei vecchi contadini) e quella de ‘ r artiìre’ poi (il dialetto ripulito perché usato dagli artigiani che avevano bottega in paese e non si mescolavano con  i lavoratori dei campi) erano ormai bandite perché bisognava a tutti i costi parlare in italiano… (continua)

 

 

giovedì 12 maggio 2022

Giovedì 12 maggio 2022: ... e il Teatro non aveva più voglia di svuotarsi ieri sera!

E stamattina racconto a modo mio la magia di una serata all’Abeliano di Bari, in cui si sono mescolati ad Arte le immagini di Uccio Papa, i testi poetici di Enzo Quarto, le musiche di Mirko Signorile e danze e luci e colori e cori dell’anima ed emozioni senza fine. I versi hanno subito creato un’atmosfera d’incanto con la recitazione da brivido di Vito Signorile, inconfondibile padrone di casa e della scena (il Teatro suo antico amore di sempre), resa ancora più suggestiva dalle musiche senza confini di spazio e di tempo di Mirko, talento puro della tastiera, che ha accompagnato con immensa esplosione di note, ora tenere e saltellanti come i giochi dei bambini, ora dolci e poderose, come il sogno di un incontro d’amore, ora cupe e battenti, come la solitudine, la disperazione, il dolore, ora terribili come il tonfo e il peccato, ora  zampillanti come squilli di tromba ad annunciare una resurrezione e vittoria della gioia bambina a rigenerare, ancora una volta, l’intera umanità.

Un accompagnamento, il suo, che ha percorso di brividi la scena nella condivisione della danza, con tutto il corpo, di due bravissimi ballerini (Cassadra Bianco e Moreno Guadalupi) delle Arti sceniche contemporanee, nelle immense declinazioni di libertà di espressione e di movimento, del sé corporeo e spirituale (sono vestiti di bianco), nei confini sconfinati spazio-temporali di un Teatro. La loro danza mi ha riportato alla memoria la psicologia del corpo, vissuto come veicolo comunicativo dei sentimenti umani scoperti nelle profondità misteriose della propria anima. E penso alla lezione della coreografa tedesca Pina Bausch, che fu l’anticipatrice in Europa della danza contemporanea, diffusasi anche negli Stati Uniti d’America, dopo la seconda guerra mondiale. Emozione pura.

E la musica ha accompagnato tutta la simbologia dei loro corpi e delle loro anime nell’attesa di incontrarsi; nella scoperta dell’amore in tutte le sue espressioni di purezza; nell’abbandono ai sensi con delicatezza e pudore, quasi arco di protezione, nido, rifugio, volo nella libertà di andare per poi ritornare. Ma ecco sulla scena, improvvisamente, una terza ballerina (la grande Elisa Barucchieri), vestita di nero, come meglio si addice a una giovane donna, volta a creare il contrasto e la disarmonia della tentazione, della caduta nel peccato e nella perdizione, fino allo spegnersi della passione con conseguente abbandono e solitudine, mentre si ritrovano e si riconoscono, con modalità diverse e sottile disincanto, i due giovanissimi innamorati. Conforto sia per la giovane donna tentatrice che per la ragazzina innamorata sono le parole poetiche, recitate da Vito, a cui si accostano alternativamente, a seconda dello stato d’animo in tumulto, e la musica (ascolto accorato e consolazione).

Ogni azione, ogni postura, ogni mimica anche facciale ha una sua precisa motivazione ed è portatrice di una sua intrinseca verità. gesti col capo, con le braccia, con le mani, con le gambe fino ai piedi rappresentano l’evasione dalla realtà, il possesso di una dimensione ‘altra’ per inseguire un sogno. Con loro la danza diventa una spinta emozionale interiore, chiamata a fare emergere inquietudine o serenità, contrazione o rilassamento, il rimosso dalla coscienza, l’inconscio. Fino a corrispondere al dolore universale che mi riporta al Teatro greco, al mito come espressione dell’inconscio; alla tragedia del profondo dolore esistenziale (e ci sarebbe spazio persino per Freud). È una sorta di danza della verità che riesce, per quel che mi riguarda, a provocare a mettere in discussione le certezze dello spettatore.

(Naturalmente è una mia interpretazione. Mi piacerebbe ascoltare quella dei protagonisti della scena o di qualche spettatore)

Anche la recitazione, sommessa e suadente, di Shennon Anderson  (con supporto nella traduzione inglese della bravissima Luisa Varesano) ha creato un ulteriore momento magico che ha galvanizzato e commosso il numeroso pubblico fino alla fine della prima parte dello Spettacolo. Applausi a scena aperta per tutti, e soprattutto per Enzo Quarto ideatore della magnifica serata.

È subentrato, nella seconda parte, il Concerto anche come presa di coscienza del cambiamento. La trasformazione socio-culturale nel corso degli anni ed ecco nuovi strumenti musicali, che l’età contemporanea ci ha regalato. La commozione è immensa: giovani musicisti del Drama Percussion Ensemble ci hanno regalato uno Stravinskij inedito con la sua musica dodecafonica. Percuotono l’aria col sorriso della gioia e la tristezza del pianto, con la magia della primavera che si schiude alla vita… Scrosciano nuovi applausi su Giuseppe Bollettieri (vibrafono), Nicola Montemurro (vibrafono), Federico Apollaro (marimba), Andrea Tamborrino (marimba bassa), che hanno eseguito magistralmente, in maniera evocativa e molto suggestiva, “LE SACRE DU PRINTEMPS” (prima parte) con adattamento dell’eccellente Maestro Giovanni Tamborrino.

E il Teatro non aveva più voglia di svuotarsi ieri sera…

 

 

  

martedì 10 maggio 2022

Martedì 10 maggio 2022: FIGLI DELLA LUCE di E. Quarto - U. Papa - M. Signorile...

Ci siamo incontrati/ oltre l’immensità dei Fuochi/ nella semplicità della Luce crescente/ Come un raggio di sole/   Splendente   / Entra solo per i tuoi Occhi/ (…) Una miscela d’Amore/ sulla pelle il tuo Candore/ E la Gioia che sprigiona/ I passi di una Danza/ La bellezza della Rosa/ limpida sorgente d’Acqua pura/ La freschezza vitale della Seta/ Profumata brillante Misticanza (stralci di una poesia senza titolo di Antonio Bigliardi)

Questi versi così solari mi rimandano immediatamente al libro che ho tra le mani FIGLI DELLA LUCE di Enzo Quarto, Uccio Papa, Mirko Signorile (SECOP edizioni, Corato-Bari, 2022). Libro che è una perfetta “misticanza” (mescolanza) di parole, immagini, musica. Un capolavoro di armoniosa fusione tra questi elementi fortemente catturanti nell’incontro di rara creatività tra un giornalista RAI (amante di poesia, di musica e del divino che è in noi), un giornalista tele-cineoperatore in Rai di lunga militanza e un pianista, compositore, “improvvisatore” (come ama definirsi con un pizzico di gigioneria ed empatica autoironia). Tre anime, in cui tutto si fa pelle, luce, suono, danza, respiro, mistero…

“Mescolanza” non è soltanto antico miscuglio d’erbe commestibili, ma misteriosa, misterica, mistica armonia del Creato. La copertina, infatti, è un cielo rosa che fa vibrare sogni e segni che volano lontano, mentre un mare calmo li trattiene con qualcosa di oscuro alla deriva, dentro e fuori di noi. E ci regala un’immagine che si prolunga nel bianco/nero che ci appartiene e si fa ansia del buio e lievità spumeggiante della luce che vince ogni timore. E forse si fa anche inganno nella “multimedialità” che ormai ci appartiene. Altro tipo di “misticanza”, in cui la parola da sola si “vetrifica” e perde senso e significanza se non si mescola all’immagine e alla musica per riscoprirsi vera nella sua “nudità” ed “essenzialità” (Enzo Quarto), passando attraverso i sensi che percepiscono, colgono, selezionano e restituiscono con la vista, l’udito, il tatto, l’odorato, il gusto. Il primo senso, dunque, è la vista. Lo sguardo è fondamentale perché è la capacità di vedere” (che è molto più del semplice guardare) e di “rispondere”, come opportunamente sostiene anche Uccio Papa, quando afferma che fondamentale è il rapporto fra fotografia e percezione visiva. La luce svela una presenza, il suo accarezzare le cose ne determina la profondità che la macchina fotografica cattura ma che solo il nostro occhio può elaborare... creativamente

“Vedere”, allora, significa penetrare nel significato e nel senso di una cosa, al di là del prendere coscienza della sua esistenza: è “vederla oltre”. È questo il senso della creatività umana: essere in una miriade di sensi e di significati altri. Guardare una cosa, una persona, un paesaggio, o la stessa parola, come se fosse la prima volta. Con stupore. Di qui l’importanza di “essere perplessi” perché niente appaia ai nostri occhi vecchio, scontato, immutabile (come ci suggerisce Erich Fromm).

“Vedere”, dunque, significa comprendere la “realtà completa” di una cosa, di una persona, di una situazione. E ciò significa paradossalmente andare ben oltre quello che si vede con gli occhi. Significa “sentire”, “intuire” “capire”, talmente profondamente da penetrare nell’inconscio per riportare il significato nascosto della realtà alla coscienza ed esprimerla e comunicarla “ri-creata”.

È quanto accade in questa opera a più mani e un solo cuore, dove occorre “prestare attenzione”, per “concentrarsi” (entrare nel centro delle cose con) insieme agli altri, insieme al Tutto che ci circonda e che comporta una più ampia e profonda consapevolezza di sé, una maggiore consapevolezza dell’altro da sé, di tutti gli altri. Perché io sono te senza perdere me stesso, anzi rafforzandomi nel mio io attraverso l’intensa certezza di me, pur nella incertezza di me come essere immutabile. Abbandonare questa certezza significa avere il coraggio del dubbio (sempre Fromm). La certezza è la morte della nostra mente. Coraggio e fede sono alla base del pensiero creativo e, quindi, alla base della vita stessa. Ma la creatività è una sfida, non una conquista. E in questo libro si celebra tutto questo. Ne fanno fede le poesie di Enzo Quarto, le immagini di Uccio Papa, le musiche evocative e dolcissime di Mirko Signorile: un amalgama di opere profondamente creative come sfida di tre Artisti per ampliare la propria esperienza umana e quella degli altri, a partire dai lettori e dagli ascoltatori, da quanti ne attraverseranno ogni pagina tra gli abissi e le stelle. E s’immergeranno nella LUCE dei suoni, dei colori, delle parole. E da questi emergeranno e s’innalzeranno quasi fossero preghiera e nostalgia di tempi lontani forse migliori. William Golding, infatti, ci ricorda che La prima cosa a cui ci abituarono gli antichi fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza.

Stupendo ricordo delle civiltà primitive che ha, a mio parere, la duplice valenza di connotare la lunga alba della vita di ciascun essere umano, che vive da bambino una tale pienezza di giorni, di scoperte, di giochi, di conquiste da fare proprio il mondo tanto da incarnare la stessa speranza, in contrasto con la realtà amara e dolente dei nostri giorni, in cui questa sembra essere svanita del tutto. In realtà né la luce né il buio sono la condizione perenne della nostra esistenza, ma il “chiaroscuro”: Se non ci fossero/   ombre   / non ci sarebbe/   luce.   / Solo nel buio/ c’è assenza./ Il chiaroscuro/ è l’esistenza. È questo il commento pensoso di Enzo ad una immagine cielo/mare tra bagliori luminescenti in un chiaroscuro che è metafora della vita, tra scogli cupi affioranti dall’acqua. Quest’ultima, poi, improvvisamente si fa spuma di mare che attraversa il nero di ogni possibile buio del cuore e dal contrasto ecco la luce. Una sorta di “compensazione” (Adler) che fa pensare a qualche limite o complesso che non si riesce a superare. Si potrebbe pensare a Giacomo Leopardi o a Ludwig von Beethoven e a tanti altri artisti e non. A una umanità fragile e forte “nel suo divenire”.

Daniel Goleman parla di “intelligenza emotiva” che ci può rendere “felici”, ma anche “disperati” se non riusciamo a superare il nostro complesso più forte dall’Umanesimo-Rinascimento fino ai nostri giorni: sentirci padroni del nostro pianeta e dell’universo intero. E oggi più che mai assistiamo allo   scempio indiscriminato dell’inquinamento dell’acqua, dell’aria, della luce, del suono. Si è perso persino il fulgore delle stelle, spento dal bagliore artificiale delle metropoli illuminate a giorno. Il disumano si è sostituito all’umano (come già in Nietzsche). L’artificiale al naturale. La robotica all’uomo. Eppure la natura tutta, sotto l’immenso cielo che la comprende e la governa, è, nelle sue feroci contraddizioni di bene e di male, un inno alla vita, come nei FIGLI DELLA LUCE scopriamo percorrendo ogni pagina, ogni immagine, ogni verso, ogni canto che diventa un unico poema di contrasti e riproposizioni:      È luce/ la bellezza del creato./     Senzaluce/ Non avremmo tempo,/ l’evolversi delle cose,/ la cadenza degli accadimenti./     Senza luce/ non avremmo spazio,/ la conoscenza dei nostri movimenti,/ l’animazione/  di altre anime/    danzanti./     Senza luce/ non avremmo sentore/   della vita eterna.

E, a ben guardare, a ben sentire, tutto tende a elevarsi verso l’alto (vedi gli alberi e le piante, le montagne e le nuvole, la fiamma e la piuma, persino l’esile filo d’erba e il fiore, ma tutto tende anche a inabissarsi nelle viscere della terra, nella profondità dei mari e degli oceani, dove, nonostante il buio degli abissi più profondi, si trovano altri tesori nascosti che attendono solo il coraggio dell’uomo per venire alla luce, il suo rispetto per essere salvaguardati e custoditi. Così come la nostra mente, il nostro cuore, la nostra stessa anima: vette e abissi in un altalenarsi di giorni per rinascere e morire. Tutto l’umano possibile contro ogni disumano possibile. Il monito conclusivo? Che l’umano prevalga sempre per restituire l’uomo all’uomo in tutte le sue contraddizioni certo, ma anche in tutta la grandezza della sua creatività, che lo rigenera “infinite volte” come Creatura nell’immenso mistero del Creato e del suo Creatore. Ma per rigenerarci occorre riscoprire il nostro cuore bambino: Non riusciremo a cambiarci/   senza tornare/  a far fiorire i bambini/  con le mani innocenti/     e fragili/  come i morenti.

E tutto si ricompone tra la vita e la morte, in una sorta di “immersione” ed “emersione” come con straordinaria “sapientia cordis” afferma nella Postfazione la docente universitaria Antonia Chiara Scardicchio, che scrive ancora: È un libro che si esperisce, non soltanto si legge: chi lo attraversa viene convocato dentro una preghiera.

 Un libro, dunque, un’opera d’Arte, che serve a scoprire le nostre luci ed ombre su cui confrontarci   per essere liberi di fare scelte valoriali in un momento così difficile e contraddittorio per tutto il genere umano, in funzione soprattutto di quelli che attraverseranno le nostre strade facendosi protagonisti del cambiamento positivo e propositivo per le interplanetarie generazioni future. E, del resto, La poesia e l’arte, nella figura del dono, non invocano soltanto la loro origine, ma anche la loro destinazione (Jean Starobinski). E, oggi più che mai, in un mondo fatto di diffidenza, rifiuto, violenza, odio, questo libro è un dono prezioso perché si fa contagio di emozioni nel poema che lo compone, insieme ad ogni altra forma di Arte e di realtà aumentata, frutto della creatività umana, nella suo inarrestabile trasformarsi e nella sua inevitabile e, per molti versi necessaria, multimedialità dei nostri giorni. Opera d’Arte, dunque, che è canto alla vita, tra realtà umana e sacralità divina. Il divino che si fa umano e “s’incarna nella parola” (Paul Valery). Enzo Quarto ne dà alta testimonianza. Come pure respiriamo lo stesso respiro divino che avvertiamo in tutto il Creato, nelle immagini così suggestive e illuminanti di Uccio Papa e nelle musiche struggenti, antiche e nuove, di Mirko Signorile. E in tutta l’opera scopriamo una sola voce. Una voce che racchiude in sé Bellezza, Armonia, Compiutezza, Appagamento perché è Sogno, Passione, Memoria, Amore. E una nuova umanità bambina si affaccia tra le pagine e ha occhi di innocenza, in un ritrovarsi, che cancella ogni solitudine e dilata orizzonti senza più confini. Neppure nel nostro cuore. Attimo di emozione che diventa promessa di eternità.

lunedì 9 maggio 2022

Lunedì 9 maggio 2022: e ancora poesie dedicate alla MAMMA!

Oggi desidero continuare con le tante poesie dedicate alla MAMMA che ieri sono fiorite sulle pagine FB come fiocchi di neve, gocce di pioggia, cristalli di rugiada, piume di vento, fiori di questa primavera bizzarra che stenta a fiorire ma si avverte nell’aria come un’attesa colma di nostalgia.

E comincio con una splendida poesia di Angela Strippoli, che sa descrivere la realtà con parole d’incanto e metafore ardite e fiere, proprio come la sua mamma. Che fa “resuscitare anche i morti e li porta a ballare di nascosto alla luna”. Mamma perfetta nella sua imperfezione…

Sei incomparabile tu/ Senza misura/ Senza freni/ Imbattibile nella pedalata/ Nella tua veste pose radici il prato di maggio/ Sulla tua bocca ridono ancora mille papaveri rossi/ C'è incanto nel tuo ridere/ Tutto il fragore del mare nella tua bocca/ Dimmi/ Chi non ha bevuto del tuo bel riso?/ Chi non ha mangiato le rose della tua città immensa?/ Tu tra le vigne senza pudore/ con le rane in amore/ Hai mille e più vite, tu/ che risusciti anche i morti e fai loro da mangiare e li porti a ballare di nascosto alla luna/ Mamma/ perfettamente imperfetta/ come ogni perla di mare/   M A M M A   / Di questo bel suono cantato in tutte le lingue/ ogni figlio si riempie la bocca a schiocco di bacio/ Mam - ma/ Mamma per sempre

Poi, ecco “MADRE” di Michele Carniel, che mi assale con versi brevi, a metà strada tra parole quotidiane e parole prese in prestito dalla vita di Cristo: “ventre di Preghiera” (la Vergine Maria?), “evangelista d’amore”, che ha sapore di viaggio per le strade del mondo a diffondere “la lieta novella”. Ma anche la stessa creazione (“negli spazi che mi hai creato”) non ha niente di terreno perché ha in sé il mistero della trascendenza nella semplicità di essere “uomo d’amore” grazie a lei, sua “MADRE”…

Ventre di preghiera/ collana di carezze/ nettare d'esistenza/ insegnante di respiri./ La mia vita t'accompagnerà/ negli spazi che mi hai creato/ per essere un semplice uomo,/ evangelista d'amore.

Senza titolo è la poesia di Valeria Rossini, docente universitaria e tenera mia allieva nei tempi dell’adolescenza. Nei suoi versi “bizzarri” per la mamma ci sono tutte le mamme, salvo poi ha sentirle vibrare nel cuore, LEI, la sola, che è “grido che ci strappa alla libertà/ e ci consegna alla nostalgia”. Ed è, alla fine, quella di Valeria, a più riprese una confessione dell’anima: ora chiara come   “Madre assente/ sulle nuvole/ in volo per un giorno/ o per sempre” oppure “Madre che è solo un ricordo/ un pretesto di vita/ come polline alla collina…”; ora velata, quasi nascosta in un plurale che solo apparentemente ci accomuna, ma che in realtà ci spinge lontano perché ora siamo persino di troppo: “Un grido che ci strappa alla libertà/ e ci consegna alla nostalgia”. Punto. Senza più parole. Solo tanta commozione.

Madre di carezze/ e sospetti/ tenerezze/ e dispetti./ Madre assente/ sulle nuvole/ in volo per un giorno/ o per sempre./ Madre nel tuo letto/ a fare giri di fiabe e coperte/ Quasi mai nel suo letto perché il respiro sia forte/ e gli occhi sbarrati/ su orologi e finestre/ ad aspettare/ rintanare/ … rincuorar(si)./ Madre che è solo un ricordo/ un pretesto di vita/ come polline sulle colline/  o schiuma di mare tra le dune./ Quanta confusione nelle madri…/ Un grido che ci strappa alla libertà/ e ci consegna alla nostalgia.

Ma su FB molte pagine ieri hanno riportato una bella prosa poetica di un non meglio conosciuto F. B. Giacomini, ma senza fare riferimento all’autore, che a dire il vero ha parlato della “mamma” in modo insolito e originale. A lui va il merito! Quindi, occorre citarlo o quantomeno mettere il suo testo tra virgolette, come ora faccio io. Altrimenti commettiamo plagio…

“- Come si coniuga il verbo “Madre”?/ - Non è un verbo?/ - Ne siete proprio sicuri?/ - Amare, fare, dare, ascoltare,/ confortare, gioire, piangere, abbracciare,/ baciare, accarezzare, sentire, curare,/ sostenere, proteggere, insegnare, accompagnare,/ ricordare, studiare, leggere, pulire,/ cucinare, nutrire, vegliare, urlare,/ sussurrare, cantare, sorridere, correre,/ saltare, educare, comprendere, perdonare,/ subire,/ angosciarsi, sollevare, soffrire,/    tacere, parlare…   / - Avete ragione “madre” non è un verbo solo,/ ma tutti i verbi di una vita”. Bella davvero!

Ed ecco una poesia la cui autrice ha già al suo attivo alcune sillogi di poesie. Questa, molto bella, dedicata alla madre è tratta appunto da RB D'Amore e di altre storie (Bertoni Editore2022). Si tratta della cara e bravissima Rita Bonetti.

Avrei potuto essere neve/ di sonnolento candore imperfetta/ Avrei potuto esser mare/sussulto sospinto/ dagli abbracci degli amanti/ Oppure cielo di pioggia/ che commuove il giorno/ O ancora vento di marzo/ che da foglie e petali germina/ nel gemito brutale della linfa/ E senza mescolare mai/ il nostro sangue/ di stupore e di silenzi/ custodirti

E mi piace citare un altro carissimo amico, Gino Locaputo, con “Arrivederci mamma nell’infinito”:

Mamma, nel soffio del vento c’è la tua poesia./ Nelle nuvole che passano il tuo volto./ Nei nostri sogni/ le tue ninnenanne:/ Ora tu parli con l’Immenso/ e racconti la tuaFiaba/ che noi non dimenticheremo mai./ Arrivederci, mamma, nell’Infinito. (dalla raccolta Nei tuoi occhi le parole diventano pietra, SECOP edizioni)

Né posso fare a meno di ricordare il carissimo Mattia Cattaneo, ideatore “dal multiforme ingegno” di CIRCOLARE POESIA, anche se ieri si è giustamente e teneramente defilato:

in questo gomitolo/ impazzito di giorni/ stretti come in una campana/ scrivo in corsivo/ di una carezza sconsolata/ piego le ossa/ e torno a sentirti/ dal paese dei crinali scuri/ umbratile/ l'inizio di ciò che ho già perso/ fisso/ lo sguardo distratto/ chicchi d'uva secca/ sfiorano il piatto di un cielo rossastro. E, come lame, mi feriscono i suoi versi intrisi di perdita che sanguina ancora, e in silenzio e tutto per lui il mio forte abbraccio.

E scopro “MADRE” (8 Marzo 2022) di Giulia Basile altra mia carissima amica, che non ha bisogno di presentazioni tanto è brava e meritamente famosa:

Mi son cucita addosso il tuo amore,/ e non per ripararmi/ dal freddo dell’inverno o dal caldo del sole,/ ma per proteggere la Vita che mi hai dato/ e la sua essenza,/ per tenere al caldo ogni tua carezza/ ogni sguardo/ ogni bacio/ogni tenerezza./ Dietro ogni gesto e ogni tua parola/ la certezza di chi sa/ che mettere al mondo un figlio/è una cosa meravigliosa./Sono certa che anche nell’aldilà/ - dove le mamme vanno a svernare -/Tu di notte non dormi/ ed entri nel mio cuore/ per ricordarmi ancora/ che è bello AMARE.

Ma c’è anche la poesia di Ciro Tremolaterra, “Una poesia per la mamma”, che mi commuove perché accomuna il dolente desiderio di quanti abbiamo dovuto fare i conti con la perdita più grave, che ci rende più fragili e, forse, più forti, ma mai più quelli di prima

Siediti qui/ anche se non ci sei./ Parlami/ anche se non ti sento./Al sole si sta bene./Leggi con me/ oppure alzati/ per osservare i fiori./ Come siamo stati/ tante volte/ prima di andare via, prima di lasciarci,/ siediti un momento.

E la totalizzante e rammemorante poesia di Giovanni Sepe “A mia mamma”, che conferma il valore di questo straordinario poeta sempre in bilico tra realismo quotidiano e voli visionari della sua anima inquieta, che anela amore:

Non avrei altro intorno,/ se non fosse necessario/ ripararti il cuore,/ che pareti e miserie.// Faccio il gioco del ditale/ disertando questo spazio gelido./ E mi ritrovo a inseguire la memoria/ e il ritmo del pedale/ di una vecchia Singer,/ dipanare cotone e speranza,/ ticchettando melodia.// Mentre m’incuriosiva vedere/ quale prodigio celavano/ quelle mani farfalla/ che volavano in casa/ su ogni cosa acerba,/ trovandoci  miele.// Ora che i vestiti non si rammendano/ e le tue mani tremano/ come farfalle impaurite

Mi piace, infine, concludere con una prosa poetica della grande giornalista Valentina Valentozza Nuzzaci, che cattura sempre la nostra attenzione e il nostro plauso per l’empatia che ogni suo articolo sprigiona, per la forte carica di umanità che vi traspare, per il metterci sempre tanto cuore e tanta passione in quello che scrive:

Non avrei potuto avere mamma migliore.

Moderna, naturalmente elegante, solare, innamorata della vita e della gente, intelligente, generosa, empatica. Mi manchi in modo indescrivibile.

Ho imparato a fare a meno di te con enorme fatica. Ho dovuto, ma all'inizio credevo di non farcela. È stata dura.

Mi hai insegnato il valore delle persone, non delle cose. A saper riconoscere la bontà nei cuori della gente. A dare importanza alle cose importanti. Che sono poche alla fine, pochissime.

Ti devo molto, moltissimo.

Sappi che sei dentro di me e che per Andrea tuo tu resterai per sempre la sua adorata nonna Pia. Non ti ha dimenticata, anzi. Perché pia lo eri veramente

E anche qui non ci sono parole, solo la vicinanza del cuore. Molte altre poesie avrei voluto riportare, ma i miei figli, con amorosa premura, ogni volta mi sollecitano a sintetizzare i miei “pensieri fiume” perché nessuno più ha tempo, voglia e pazienza di leggere. “Obbedisco”, dico tra me e me ogni volta, ma ogni volta oltrepasso il confine. Purtroppo, non demordo: scrivere, oltre al nostro reciproco amore, è la mia vita… A domani!

domenica 8 maggio 2022

Domenica 8 maggio 2022: omaggio poetico alla MAMMA!

 E oggi tutti rivolgiamo un pensiero d’amore in più alle nostre MAMME, che ci abitano ogni giorno nel cuore, sia visibili sia invisibili. Non fa differenza. Sono sempre con noi. È un legame che, nel bene e nel male (non sempre una mamma è quell’angelo che ci vive dentro o accanto), va oltre ogni possibile discernimento. Mi piace cantarle tutte con le voci insolite di alcuni poeti e scrittori, famosi e non, nell’autenticità di un rapporto unico perché, a pensarci bene, non è mai realmente condivisibile. 

Ci siamo sbagliati a disperare di noi,/ siamo perfetti/ nel duetto per voce sola,/ mia itaca di tutte le vite/ deviate dall’equivoco (TU CHE MI ASCOLTI - Poesie alla madre di Alberto Bevilacqua, conosciuto in crociera tanti anni fa e diventati amici per oltre un decennio, in cui mi ha sempre affascinato con i suoi racconti un po’ folli, che rievocavano gli “strioni”, tipici personaggi assurdi dell’area parmense, raccontati con la sua tipica “arlìa” (l’inventarsi la vita e il suo gioco tra ironia e mistero). Intenso, immenso, doloroso e complice il rapporto con sua madre, sua “itaca di tutte le vite”.

Vola libera, mamma/   vola alto   /  fallo anche per me / per non farmi dimenticare/ come splende l’azzurro/ anche quando precipita/   di nuvole/     il cielo. (Maria Letizia Del Zoppo) versi che incantano d’azzurro, anche quando “precipita di nuvole/ il cielo”.

Tu non sei più vicina a Dio/ di noi; siamo lontani tutti: ma tu hai stupende/ benedette le mani./ Nascono chiare in te dal manto,/ luminoso contorno:/ io sono rugiada, il giorno,/ ma tu, tu sei la pianta. (“Le mani della Madre” di Rainer Maria Rilke). Versi realistici e fortemente poetici nella visione della presenza della madre non vissuta come una santa, ma cantata per le sue “mani benedette”, un particolare molto significativo del suo corpo quasi divinizzato (“Nascono chiare in te dal manto”) nella visione della protezione, stabile radice della sua instabile mutevolezza (“io sono la rugiada” che si scioglie sul far dell’alba fino a comprendere l’intero giorno che è, comunque,  transeunte rispetto alla pianta, alle sue radici, alle sue foglie che parlano di nuovi domani.  

Nel vecchio valzer di Strauss/ noi abbiamo udito il tuo sommesso appello,/ da quel momento ci sono estranei tutti i vivi/ e consolante il fugace combattimento delle ore/ Noi, come te, salutiamo i tramonti/ ebbri della vicinanza della fine./ Tutto quello di cui siamo ricchi nella sera migliore/ tu ce lo hai messo nel cuore./ Inchinandoti ai sogni infantili senza stancarti./ Senza di te soltanto la luna li guardava!/ Hai guidato i tuoi piccoli oltre/ i pensieri e le azioni di una vita amara./ Dai primi anni ci era vicino chi soffriva,/ noioso il riso ed estraneo il tetto familiare…/ La nostra nave non salpò in un buon momento/ e naviga secondo il capriccio di tutti i venti!/ Sempre più pallida l’isola celeste - l’infanzia,/ noi siamo soli sul ponte./ Si vede che tu, mamma, alle tue figlie/ hai lasciato in eredità la tristezza. (“A mamma” di Marina Ivanovna Cvetaeva). Ed ecco una madre che, con i suoi atavici comportamenti di paure e di isolamento da tutto e da tutti, ha lasciato alle sue figlie solo una irreversibile eredità di “tristezza” e di “solitudine”, senza una guida solida, sicura, con almeno un pizzico di vaga allegria (“noi siamo soli sul ponte” di una nave che “non salpò in un buon momento/ e naviga secondo il capriccio di tutti i venti!”). Quanto di più sbagliato una mamma possa fare. Ma quali saranno stati i suoi condizionamenti quando era ancora figlia e non ancora madre? C’è da chiederselo. Ma basterebbe ad assolverla? Ma ecco che mi viene in aiuto una famosissima poesia di Khalil Gibran:

I tuoi figli non sono figli tuoi/ sono i figli e le figlie della vita stessa./ Tu li metti al mondo,/   ma non li crei.   /  Sono vicini a te  /ma non sono cosa tua./ Puoi dar loro tutto il tuo amore,/  ma non le tue idee.  / Tu puoi dare dimora al loro corpo,/ ma non alla loro anima,/ perché la loro anima abita/ nella casa dell’avvenire/ dove a te non è dato di entrare/  neppure con il sogno.  / Puoi cercare di somigliare a loro,/ ma non volere che essi assomiglino a te/ perché la loro vita non ritorna/ indietro e non di ferma a ieri./ Tu sei l’arco che lancia i figli verso/ il domani. (“I TUOI FIGLI NON SONO FIGLI TUOI” di Khalil Gibran). E non ci sono commenti da fare. Solo una serie di riflessioni. E non dimentichiamo la bellezza degli ultimi due versi: “Tu sei l’arco che lancia i figli verso/ il domani”. E il primo verso rimane in sospensione e si slarga a comprendere tutti gli orizzonti possibili che ogni domani dischiude.

Con una dedica speciale a tutte le MAMME!