E oggi tutti rivolgiamo un pensiero d’amore in più alle nostre MAMME, che ci abitano ogni giorno nel cuore, sia visibili sia invisibili. Non fa differenza. Sono sempre con noi. È un legame che, nel bene e nel male (non sempre una mamma è quell’angelo che ci vive dentro o accanto), va oltre ogni possibile discernimento. Mi piace cantarle tutte con le voci insolite di alcuni poeti e scrittori, famosi e non, nell’autenticità di un rapporto unico perché, a pensarci bene, non è mai realmente condivisibile.
Ci
siamo sbagliati a disperare di noi,/ siamo perfetti/ nel duetto per voce sola,/
mia itaca di tutte le vite/ deviate dall’equivoco (TU CHE MI ASCOLTI - Poesie alla madre di
Alberto Bevilacqua, conosciuto in crociera tanti anni fa e diventati amici per
oltre un decennio, in cui mi ha sempre affascinato con i suoi racconti un po’
folli, che rievocavano gli “strioni”, tipici personaggi assurdi dell’area
parmense, raccontati con la sua tipica “arlìa” (l’inventarsi la vita e il suo
gioco tra ironia e mistero). Intenso, immenso, doloroso e complice il rapporto
con sua madre, sua “itaca di tutte le vite”.
Vola
libera, mamma/ vola alto /
fallo anche per me / per non farmi dimenticare/ come splende l’azzurro/
anche quando precipita/ di nuvole/ il cielo. (Maria Letizia Del Zoppo) versi
che incantano d’azzurro, anche quando “precipita di nuvole/ il cielo”.
Tu
non sei più vicina a Dio/ di noi; siamo lontani tutti: ma tu hai stupende/
benedette le mani./ Nascono chiare in te dal manto,/ luminoso contorno:/ io
sono rugiada, il giorno,/ ma tu, tu sei la pianta. (“Le mani
della Madre” di Rainer Maria Rilke). Versi realistici e fortemente poetici
nella visione della presenza della madre non vissuta come una santa, ma cantata
per le sue “mani benedette”, un particolare molto significativo del suo corpo
quasi divinizzato (“Nascono chiare in te dal manto”) nella visione della
protezione, stabile radice della sua instabile mutevolezza (“io sono la
rugiada” che si scioglie sul far dell’alba fino a comprendere l’intero giorno
che è, comunque, transeunte rispetto
alla pianta, alle sue radici, alle sue foglie che parlano di nuovi domani.
Nel
vecchio valzer di Strauss/ noi abbiamo udito il tuo sommesso appello,/ da quel
momento ci sono estranei tutti i vivi/ e consolante il fugace combattimento
delle ore/ Noi, come te, salutiamo i tramonti/ ebbri della vicinanza della
fine./ Tutto quello di cui siamo ricchi nella sera migliore/ tu ce lo hai messo
nel cuore./ Inchinandoti ai sogni infantili senza stancarti./ Senza di te
soltanto la luna li guardava!/ Hai guidato i tuoi piccoli oltre/ i pensieri e
le azioni di una vita amara./ Dai primi anni ci era vicino chi soffriva,/
noioso il riso ed estraneo il tetto familiare…/ La nostra nave non salpò in un
buon momento/ e naviga secondo il capriccio di tutti i venti!/ Sempre più
pallida l’isola celeste - l’infanzia,/ noi siamo soli sul ponte./ Si vede che
tu, mamma, alle tue figlie/ hai lasciato in eredità la tristezza. (“A mamma”
di Marina Ivanovna Cvetaeva). Ed ecco una madre che, con i suoi atavici
comportamenti di paure e di isolamento da tutto e da tutti, ha lasciato alle
sue figlie solo una irreversibile eredità di “tristezza” e di “solitudine”,
senza una guida solida, sicura, con almeno un pizzico di vaga allegria (“noi
siamo soli sul ponte” di una nave che “non salpò in un buon momento/ e naviga
secondo il capriccio di tutti i venti!”). Quanto di più sbagliato una mamma
possa fare. Ma quali saranno stati i suoi condizionamenti quando era ancora
figlia e non ancora madre? C’è da chiederselo. Ma basterebbe ad assolverla? Ma
ecco che mi viene in aiuto una famosissima poesia di Khalil Gibran:
I
tuoi figli non sono figli tuoi/ sono i figli e le figlie della vita stessa./ Tu
li metti al mondo,/ ma non li
crei. /
Sono vicini a te /ma non sono
cosa tua./ Puoi dar loro tutto il tuo amore,/
ma non le tue idee. / Tu puoi
dare dimora al loro corpo,/ ma non alla loro anima,/ perché la loro anima
abita/ nella casa dell’avvenire/ dove a te non è dato di entrare/ neppure con il sogno. / Puoi cercare di somigliare a loro,/ ma non
volere che essi assomiglino a te/ perché la loro vita non ritorna/ indietro e
non di ferma a ieri./ Tu sei l’arco che lancia i figli verso/ il domani. (“I TUOI
FIGLI NON SONO FIGLI TUOI” di Khalil Gibran). E non ci sono commenti da fare.
Solo una serie di riflessioni. E non dimentichiamo la bellezza degli ultimi due
versi: “Tu sei l’arco che lancia i figli verso/ il domani”. E il primo verso
rimane in sospensione e si slarga a comprendere tutti gli orizzonti possibili
che ogni domani dischiude.
Con una dedica speciale a tutte le MAMME!
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