giovedì 30 agosto 2018

Intervista a modo mio al Festival letterario "Fiero del Libro"

Mi scusi, signor Festival, non le pare che il suo nome “Fiero del Libro” possa risultare un po’ strano, quasi un errore tipografico? Ha mai pensato che potesse creare confusione?

Sì, e ne sono Fiero!
Battuta a parte, si tratta di un gioco di parole.
Tra fiera e fiero cambia una sola lettera e si stravolge un intero significato.
Otto anni fa, i festival letterari erano ancora abbastanza circoscritti agli eventi più famosi sul territorio nazionale, mentre erano frequentissime le varie fiere di settore, comprese quelle dei libri venduti magari a peso sotto gazebo itineranti.
Cambiare una lettera a favore di una diversa dignità letteraria è stato immediato, semplice e geniale allo stesso tempo, non trova?
Con il termine “fiero” si sposta il campo semantico e il libro, da essere considerato solo come prodotto commerciale, diventa soggetto dal valore intrinseco: un bene culturale di cui sentirsi fieri.
Il libro si riappropria del suo spazio da protagonista e si pone all’attenzione come vessillo, bandiera, orgoglio. Volevo che i lettori si sentissero fieri di appartenere ad una categoria sociale importante, fatta di gente assetata di cultura e conoscenze, raggiungibili attraverso la lettura.
L’idea era quella di una sorta di libro o lettura pride. Festival dei lettori fieri di esserlo, appunto.
Il mio logo, infatti, ritrae una mano bronzea che stringe un libro con fierezza, racchiusa in un rombo, una sorta di scudo o di stemma dal valore, comunque, simbolico.  
Essere fieri di leggere libri è un messaggio importante. Che esprime una connotazione forte di un’identità che si afferma contrapponendosi alle mode.
Il rischio della retorica o una certa terminologia nostalgica, per molto tempo, ci hanno tenuti lontani da alcune parole, come se il solo pronunciarle ci potesse rendere vulnerabili, fragili, perseguibili di ingiurie e sfottò. Tra queste parole anche l’aggettivo “fiero”.
Eppure declinare la fierezza delle cose positive, che ci accadono o che ci rendono migliori, è importante. Fa bene al nostro mondo valoriale, per esempio, dichiarare la propria fierezza di essere onesti o leali, coraggiosi o solidali.
Sono fiero di questo nome! Come quando si porta il nome di una persona cara.  

Oggi, nelle interviste alla moda, si domanda spesso: “Qual è la sua mission?” Si è posto degli obiettivi, scopi, finalità. Cosa vorrebbe raggiungere?

Sì, certo, mi sono posto degli obiettivi: tutti tranne quelli economici.
Credo di rappresentare una piccola rivoluzione: sono un festival di letteratura (e non solo, a dir la verità, perché mi sono occupato anche di Arte, Cinema, Teatro, Musica, Cabaret, Danza, Fotografia), pensato per far pensare. In questi anni, infatti, ho proposto varie tematiche: ambiente, territorio, violenza, giustizia, appartenenza, bellezza.
Intanto, è importante sottolineare che sono nato, come lei sa, in una Casa editrice, la SECOP edizioni, e non sono, per questa ragione, né un’espressione politica né un vezzo mondano.
Sono il sogno di un editore.
Peppino Piacente mi ha immaginato come una porta, un varco, una finestra, un ponte da attraversare per raggiungere gli altri con i suoi libri.   
Lui e il suo staff di famiglia mi hanno voluto con l’obiettivo di far tornare, a sempre più vasto raggio, la voglia di leggere.
Di far ripensare ai libri come opportunità di crescita culturale, etica e spirituale, come possibilità di incontro e di confronto, come passaporto per la libertà.
I libri SECOP, del resto, nascono con il desiderio di parlare, di far parlare, di pensare e far riflettere, e per le stesse ragioni sono nato io.
Così, durante i tre giorni delle mie attività, si può riscoprire la bellezza di leggere e confrontarsi con la Poesia, con la Letteratura per l’Infanzia, la Narrativa, la Saggistica, il Fumetto, i libri d’Arte, attraverso momenti diversi: dai laboratori per bambini e adulti ai dibattiti, dai momenti di lettura condivisa e partecipata alle varie forme d’intrattenimento.
Ecco, la mia “mission” è essere la manifestazione di un dato di fatto incontrovertibile: i buoni libri possono nascere solo da buoni lettori.
Ogni mio ospite, infatti, è intervenuto prima di tutto come lettore e ha dialogato con altri lettori, in una forma di scambio, di reciprocità.
Nessuna passerella di volti noti, nessuna presentazione standard, nessun momento in contemporanea con un altro né l’utilizzo di piazze diverse, nessun autore “divo”, nessun clamore, fuori da ogni sensazionalismo.
Con semplicità, attraverso i libri e gli autori, italiani o stranieri, di Casa SECOP. E alcuni ospiti qualificati, intervenuti nei vari dibattiti proposti, collaborando con le risorse intellettuali e culturali presenti nel Paese: dalle scuole alle associazioni, dalle testate giornalistiche, alle radio locali.
Sono un momento di scambio di opinioni, pensieri e idee.
                             Sono un festival libero. Sono un festival libro.

Mi sembra di cogliere un certo compiacimento, è davvero sicuro di avere poi così tante differenze con gli altri festival?

Un certo compiacimento? Non si scordi che mi chiamo Fiero del Libro!
E sì, mi sento diverso.
Non ho mai voluto assomigliare a qualcuno o a qualcosa.
A casa mia non amiamo il copia incolla e non lo abbiamo mai fatto.
Siamo come siamo. Come possiamo e come sappiamo essere.
Per questo non sono uguale a nessun’altra manifestazione del genere.

Quindi, pensa di piacere alla gente? Che tipo di pubblico ha?

Sì, penso di piacere alle persone, non alla gente.
Mi scusi, dovrebbe sapere che la gente non esiste, esistono le persone, appunto!
Molte persone, perciò, mi seguono, stando alle attestazioni di stima che mi rivolgono da otto anni.
Non sono nato per le folle, amorfe e disattente; sono più tagliato su misura per un pubblico di fedelissimi, amici di lunga data, lettori che vengono volentieri a dialogare con me.
Mi frequentano, anche, scrittori, poeti, giornalisti, artisti, autori, ovviamente, e ora non dica che sono snob o che ho un pubblico di nicchia!
Lei, mi conosce bene, sa che mi piace andare incontro agli altri, per condividere l’amore per la lettura e la scrittura, senza pregiudizi, ostacoli, o attese di sorta.
Sa anche che mi rammarico ogni volta che scorgo qualche assenza o defezione, non certamente perché mi senta offeso di non essere stato sufficientemente osannato, ma perché mi dispiaccio di aver perso l’occasione di incontrare i sogni di qualcun altro.  
Dall’anno scorso ho scelto di abitare la piazza antistante al Teatro comunale, perché mi piace quella sua vocazione culturale racchiusa nella conchiglia, che formano gli edifici intorno, fatta per dare la possibilità di ascoltare e partecipare in maniera individuale e corale insieme.
Chi viene a trovarmi non assiste, partecipa. È parte integrante. Si dà appuntamento da me per esserci. Oserei dire, per testimoniare.

Ritiene di avere l’attenzione che vorrebbe da parte delle istituzioni e dei media?

Direi di sì, anche se a volte, con discontinuità e distrazione, ma è comprensibile perché non faccio numeri da capogiro.
E non propongo cose di cui già si è sentito parlare.
In questi otto anni, però, si è parlato tanto di me e, più che di attenzione, io parlerei d’affetto.
Mi vogliono bene.
Sono un po’ come la zia lontana, che vale la pena di andare a trovare, perché nel cassetto ha sempre un cioccolatino buono da regalarti.

Cosa potrei augurarle? Tanto successo?
Lei è la poetologa, dunque mi auguri di conservare intatta la meraviglia e di regalare sempre qualche fogliolina verde di Poesia!     

Sì, tanta Poesia, certo, ma anche sempre tanta determinazione, tanto coraggio, tanto entusiasmo per sé e da trasmettere a tutti coloro che amano leggere, informarsi, condividere, confrontarsi, cercare la profondità delle parole che nasce dalla essenza spirituale e materica delle cose… il coraggio di sognare…
In bocca al lupo!
                               

martedì 28 agosto 2018

"Abitare poeticamente il mondo"


ABITARE POETICAMENTE IL MONDO
Il “prendersi cura” contro la “cultura dell’offesa”
Mi piace proporre qualche riflessione sulla possibilità che ha la poesia ancora oggi di essere veicolo di salvezza in un mondo devastato dalla “cultura” della violenza, dell’offesa, della divisione, dell’odio e della disumana indifferenza nei riguardi di chi soffre, di chi è debole, solo, disperato, oppure ha bisogno di asilo perché scappa dall’orrore della guerra, dai morsi della fame, da una terra devastata e senza speranza. In questi giorni di totale confusione e notevoli discordanze nel nostro Paese, e non solo, mi chiedo allarmata e delusa se sia ancora possibile oggi vivere con poesia e di poesia. Prendo quotidianamente atto di essere completamente disancorata, con i miei ideali e le mie utopie, da questo mondo di pochezza e di pressappochismo, di arroganza e mancanza di senso storico, civico e sociale (in termini di unione corale tra gli uomini). Per evitare di ridurre il mio sgomento ai soliti pensieri romantici e poco realistici, ho cercato di farmene una ragione con la inevitabilità del fenomeno a causa di una cultura scientifica e tecnologica, che ha pian piano soppiantato, senza che ce ne accorgessimo, non solo nella scuola ma nella società tutta, quella cultura umanistica che  ci consentiva di essere ancora “umani”, a contatto con la letteratura, la filosofia, l’Arte in tutte le sue innumerevoli forme, e, perché no, a contatto con la natura, principale fonte di ispirazione per poeti, pittori, musicisti. La scienza e la tecnica, ma soprattutto l’elettronica, hanno finito per darci in pasto ad una fittizia realtà “virtuale”, che si è sempre più diffusa grazie ad internet e ai social. Senza volerli demonizzare, ma anche senza esaltarli oltre misura, li ritengo in buona parte responsabili della “non cultura” del nostro tempo, con tutte le accelerazioni linguistiche che essi comportano e sollecitano, e il conseguente depauperamento della ricchezza che ogni lingua e linguaggio porta in sé e con sé, e con tutte le velleità dell’apparire a discapito dell’Essere. Velocizzando ogni operazione, ogni contatto, ogni comunicazione e agevolando un solipsismo che sta diventando dominante e sempre più preoccupante, per non dire devastante. E con questo individualismo esasperato vanno sempre più aumentando le chiusure agli altri, gli egoismi, le divisioni. I social solo in apparenza aggregano, offrono possibilità di conoscenza, scambio, confronto. Basta andare su facebook o su twitter per averne conferma.
Come conciliare tutto questo con il mio sogno di “abitare poeticamente il mondo”?
“Abitare poeticamente la terra” è il titolo di un libro di poche pagine ma di pregnante e ricchissimo contenuto poetico-culturale del noto critico letterario Emerico Giachery che, nel donarmelo, parecchi anni fa, in un incontro nella sua Roma, mi disse che quel titolo, che a me sembrò subito bellissimo, gli era stato suggerito da una espressione attribuita al poeta  tedesco Friedrich Holderlin, ripresa successivamente dal filosofo Martin Heidegger, il quale puntualizzò che l’avverbio “poeticamente” stava a significare “essere alla presenza degli Dei ed essere toccati dalla vicinanza dell’essenza delle cose”. Che per me consiste nell’illuminare di tenerezza il quotidiano, anche con la scrittura: le innumerevoli voci nascoste, ma reali, i suoni, i profumi, la musica, il sogno della terra, dei fiori, dei prati, delle acque, le nuvole, le onde, il mare… gli altri miei simili, con i quali desidero comunicare con gli occhi ancora prima che con la voce, col gesto, con un mezzo tecnologico, freddo e distante.
È necessario, mi dico, ritornare ad ascoltare le voci della natura, come facevano gli uomini primitivi, quando la natura non era ancora “desacralizzata” (Carlo Sini).
Prendere, magari, a modello i bambini che, con naturalezza, abitano poeticamente la terra. Si stupiscono. Si meravigliano. Non programmano i loro giorni, ma li vivono solo giocando e nel gioco e con il gioco imparano a scoprire il mondo, giorno dopo giorno, conquista dopo conquista, abbandonandosi senza steccati e senza confini al fluire del tempo e della vita. I programmi che noi adulti siamo soliti fare, frazionando il tempo, segnano dei limiti e delle strade obbligate, che dobbiamo percorrere se vogliamo realizzare i progetti che ci prefiggiamo di raggiungere. Ma così sacrifichiamo libertà e creatività. Forse sarebbe meglio avere solo degli intenti da perseguire e da trasformare pian piano che viviamo, escogitando di volta in volta il “come”, nel rispetto della libertà e delle “modalità” di ciascuno, cercando magari di trovare continuamente “punti d’ incontro” per non sentirci mai soli nella realizzazione di quanto riteniamo utile per ciascuno, ma anche per il bene di tutti. Sarebbe bello formare delle cordate vere, concrete, reali per aiutarci a vicenda e sentirci solidali, forti, felici. Ci riapproprieremmo così della semplicità della vita. E, del resto, lo stesso Heidegger affermava: “Lasciamo essere all’ESSERE”. Abbandoniamoci all’esistenza e tutto potrebbe accadere ne tempo giusto e nel luogo giusto. Non vivono gli uccelli cantando e ricamando i cieli di voli senza l’ansia del cibo o di programmare il nido che a primavera riempiranno di pigolii e fremiti di ali? Ecco, anche gli uccelli come i bimbi vivono poeticamente il mondo. E così la natura tutta quando segue il corso delle stagioni, le albe e i tramonti, lo sfolgorante mormorio delle stelle.
Lo so, adesso mi taccerete di retorica, di romanticismo, di utopia, di scarsissima aderenza alla realtà, perché quest’ultima ha le sue leggi, le sue priorità, la sua arcigna faccia quotidiana. I suoi problemi. La sua sofferenza insita nelle nostre fragilità e nella nostra stessa umanità. No. Non ho dimenticato tutto questo. Anzi! Mi preoccupa, mi spaventa, mi fa “tremare le vene e i polsi”. Ma non per questo devo rinunciare ai miei sogni. Alla mia utopia, che non è “ciò che non si può raggiungere, ma ciò che non si è avuto ancora il coraggio di affrontare e realizzare”. Alla mia Poesia. Che non è fatta solo di nuvole, ma di esperienze di vita, come ferite o esaltazioni quotidiane.
Il poetare di Holderlin veniva definito: “illuminazione, veggenza, stato di grazia”.
I poeti sono allora dei privilegiati per un dono assolutamente gratuito che li salva e li salverà sempre.
Nei “Quaderni di Malte” Rilke afferma che i versi sono esperienze che si vestono di stupore. E le esperienze diventano così l’atto più alto del vivere. Prima di scrivere un solo verso, egli afferma, bisogna aver visto molte città, aver conosciuto gli animali e le piante; sentito il volo degli uccelli e ascoltato il linguaggio dei fiori; ripensato ai sentieri percorsi e a quelli mai attraversati; ritornare all’infanzia, alle ferite inferte ai nostri genitori per le inevitabili ribellioni; trascorrere i mattini davanti al mare e sognare tutti gli oceani. Più o meno così. Ho citato sul filo della memoria. Non ho tempo per documentarmi. Questo tempo parcellizzato che distrugge il tempo, la libertà, la creatività. La nostra stessa umanità. Ma in un tempo così buio si fa urgente trovare un fiammifero, un lumicino, una lampada per dissipare le tenebre e fare ancora spazio alla Speranza.  Riscoprire l’’Armonia che non ammette vuoti e si sostanzia di pienezza e di unità. Riproporre la Poesia.
E la poesia per William Blake è “vedere il mondo in un granello di sabbia/ e il cielo in un fiore di campo/ e l’eternità in un attimo”.
Se la poesia, dunque, è tutto questo e molto molto altro ancora, allora è possibile abitare poeticamente il mondo. Oggi più che mai. Non possiamo andare al fondo del fondo. Inevitabilmente si torna a galla. Non ricordo più chi abbia detto che “l’ora più buia prelude alla luce” e non può essere altrimenti. I primi segnali di rinascita ci sono. L’amore per la lettura che lentamente rinasce. E la lettura è il volano della conoscenza mediata dai libri: ampia e suggestiva. Profonda. Umana. Perché ogni pagina può essere riletta, meditata, rielaborata. Assaporando lentamente ogni parola, rileggendola se necessario. E, poi, ci sono i giovani che stanno riscoprendo l’impegno senza dimenticare i sogni. Sono i nostri giovani che amano tornare sulle barricate, sporcarsi di fango e di sangue per salvare vite in pericolo, per accogliere chi non ha più nulla. Non esistono solo i ladri i violenti gli assassini che la cronaca quotidiana, i telegiornali, le “dirette” (con i nostri politicanti), sui social appunto, ci sbattono sul viso per fare audience. Ci sono anche i poeti, i nostri poeti rivoluzionari che cominciano a ribellarsi contro un mondo che vorrebbero diverso, migliore, più giusto, più corale e solidale, più vero. Ci sono. Esistono. Solo che non fanno notizia. Il bene è silenzioso come la foresta che cresce contro il rumore dell’albero che si schianta.
“Quando la gioia accade/ fatecelo sapere…”, ammoniva la grande poetessa serba Desanka Maximovic con il cuore pregno d’amore anche dopo i novant’anni. Ed io voglio concludere gridando che i miracoli accadono basta riconoscerli e gridarlo ai mille venti perché anche gli altri e gli altri e gli altri ancora ne abbiano contezza. E voglio cominciare dal miracolo dei giovani.
I giovani sono il nostro futuro, la nostra speranza. Guai se non sentissimo più germogliare nel nostro cuore questa tenera fogliolina, di cui prenderci cura perché continui a verdeggiare.
Non è solo importante partorire un figlio o un’idea. È fondamentale “prendersene cura” e continuare a farlo fino a quando non ci abbandonano le forze. Certo, ci vuole coraggio e determinazione, ma abbiamo ricevuto in dono mente, mani e cuore. E con questi meravigliosi doni, gli uomini di “buona volontà” sono sopravvissuti ad un mondo ostile e pieno d’insidie e di cattiveria, e di violenza e di guerra e di catastrofi naturali e non. E sono sempre rinati. Perché ogni volta hanno scoperto dentro di sé quella Luce che ha rischiarato le tenebre ed ha annunciato una nuova alba. Delitto sarebbe ignorarla. Come lo sarebbe ignorare la memoria storica che ci riporta al passato e ci fa scoprire che il mondo non è nato con noi. Per evitare errori (e sono innumerevoli) e per far tesoro di chi anche in passato è riuscito ad abitare poeticamente il mondo. E i luminosi esempi non mancano.
Mio nonno ce lo ha insegnato con i nostri giorni nutriti di fiabe, con le sue mani colme di fiori e di frutti, con il suo amore per noi, per gli altri, per la vita.
                                                                                                Angela De Leo

venerdì 24 agosto 2018

Quasi un romanzo



Quasi una Introduzione

Finché scrivete ciò che volete scrivere, questa è la sola cosa che conta; e se conta per un giorno o per l’eternità, nessuno può dirlo. (…) ma sacrificare un capello di quello che pensate della vostra testa, una sfumatura del suo colore, in ossequio (…) a qualche professore, col suo righello nella manica, è il tradimento più vile e spregevole…
(Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé)

Dopo aver letto gli articoli sulla “buona scrittura” di Umberto Eco e Beppe Severgnini e di molti altri giornalisti e scrittori, alcuni famosi, altri dell’ultima ora, cara scrittrice, ci tengo a rilevare con grande disappunto che qui hai trasgredito tutte le regole suggerite dai su citati autori perché ritieni (erroneamente) che non sempre sia bene seguire alla lettera quanto gli altri pensano sia giusto. Le regole sono fatte per essere applicate, ma tu sei del parere che vadano anche ignorate o prese “cum grano salis”, quando si tratta di salvaguardare la propria identità, la propria creatività, il personale modo di scrivere e di sentire. Altrimenti, dici, “saremmo tutti omologati in identici comportamenti dovuti a ferree norme, che neppure quelli che le dettano alla fine ritengono di poter o di dover rispettare ‘alla lettera’”.                                                                
“Saremmo”, sostieni, “dei cloni o dei duplicati e scriveremmo tutti allo stesso modo. In perfetto italiano da fare invidia all’Accademia della Crusca, ma senza una virgola di originalità”.
Io, del resto, in questo tuo quasi romanzo (ma sei sicura che puoi definirlo solo romanzo?), ho inciampato in tante imperdonabili trasgressioni, a cominciare dalle innumerevoli ripetizioni: molte pagine sono decisamente le stesse. Lo so, tu mi opporrai che, a ben leggere, non sono identiche. Anzi, mi dirai, “occorre leggerle di nuovo tutte fino in fondo per trovare realmente il bandolo della ingarbugliata matassa dei ricordi, che aggiungono, tolgono, ribadiscono, sostengono atmosfere emozioni riflessioni confronti vissuti…”.
Tutte scuse, la giustificazione non regge.
Nonostante ci sia qua e là qualcosa di diverso, di nuovo, di tolto, di aggiunto, come spesso capita nel riportare alla memoria vecchi ricordi, che di volta in volta modificano il nostro vissuto pregresso, la reiterazione rimane e non puoi pretendere che gli altri siano disposti ad accettarla, e magari a condividerla; non puoi infliggere al lettore la pena di leggere e rileggere sempre le stesse parole ed emozioni, che sono tue e basta. Rischi di essere tacciata non solo di masochismo ma anche di sadismo.
E il tutto può risultare decisamente respingente.
A tua discolpa, sono pronta ad ammettere che questo libro è un forziere di ricordi, e che i ricordi vivono di vita propria: emergono dal passato e rivivono nel presente come e quando capita, senza un filo logico o cronologico. Senza un profilo di assoluta verità perché “niente è come sembra eppure tutto è come a noi appare”.
Non ti si può dare torto ma, nello stesso tempo, penso che non sia giusto, leggendoti, essere costretti a fare lo slalom tra ciò che potrebbe “essere” e ciò che potrebbe “sembrare”…
Certo, le nostre percezioni individuali ci sembrano le più vere, e sono radicate più di qualsiasi verità universale. Il nostro punto di vista spesso è per noi la sola verità ma, ribadisco, non è possibile, quantomeno nell’ottica formale, giustificare pure le tante virgolette e le tante parentesi, i tanti periodi lunghissimi e i tanti sintagmi di una sola parola; tante forme dialettali e tante trasgressioni grammaticali; tanta prosa e tanta poesia; tante argomentazioni banali (e forse anche inutili) e tanti vaneggiamenti irrazionali (e forse anche visionari); tanti aggettivi superflui e tante ripetizioni evitabili. Tante espressioni prolisse e tante ridondanze ad effetto. Tante mandate a capo e tanti puntini di sospensione…
“Tanto di tutto tanto di niente le parole di tanta gente”, come un tempo cantava Gabriella Ferri. Altro tuo mito.
Sono trasgressioni intollerabili in una scrittura che deve far leva soprattutto sulla comunicazione di stati d’animo e di sentimenti nella maniera più chiara, essenziale e scorrevole possibile.
Lo so, qui non si corre il rischio di inoltrarsi in labirinti linguistici oscuri e criptici perché hai sempre ribadito che non ti piacciono gli sperimentalismi di vario genere o le strutture linguistiche estremamente innovative. Anche in questo caso, non ti posso dare torto perché ogni scrittore fa delle scelte formali e stilistiche individuali, ma vorrei ricordarti, “con amicizia”, che nessuno griderà “oh!” di fronte al miracolo di un nuovo capolavoro della letteratura italiana.
E non dirmi che tu non scrivi “per il Nobel o per il Premio Internazionale di Vattelapesca, frazione infinitesimale del comune di…” ma scrivi soprattutto per te stessa, tanto non ti crede nessuno…
E qui ritorna la tua arringa: “Sarà tutta un disastro la mia scrittura, ma è mia e soltanto mia. Come mia è la storia che vado a narrare, in cui racchiudo tante altre storie che faranno sorridere, pensare, indignare, commuovere… Come io amo e so scrivere. Come è nelle mie corde”.
Pura presa di posizione non sempre condivisibile perché si scrive anche per gli altri e, quindi, pura illusione. O irriverente provocazione?
Poi, ritengo giusto che tu faccia una puntualizzazione per agevolare gli eventuali lettori nella decodificazione/interpretazione di questo libro, che per alcuni potrebbe risultare “senza capo né coda”, dato che scrivi sull’onda dei ricordi e delle voci ascoltate e dei flussi di coscienza che da essi partono, per altri estremamente descrittivo e analitico, con infiniti rimandi che servono ad ingarbugliare ancora di più la matassa.
Dunque, la puntualizzazione: tutte le parentesi racchiudono parole, così come le hai recepite o ascoltate e, perciò, non hanno punteggiatura, maiuscole, grafie particolari (“Lourdes”, per esempio, si risolve in “lurds” e non deve scandalizzare o sorprendere l’ignaro lettore, meglio avvisarlo prima), ma anche i flussi di coscienza vivono fra le parentesi nel loro scorrere imprevedibile e imprendibile. Non tutti sono disposti a seguirti nei tuoi voli pindarici o nei tuoi capitomboli. Meglio prevenire, con una bella dichiarazione di intenti, che curare con un “errata corrige” a posteriori che non si usa più e non serve al “latte versato”.
Realisticamente, io ti consiglio di procedere con cautela e senza presunzione di sorta. Nutro, pertanto, la sola speranza che agli incauti lettori questa storia non venga così presto a noia da non provare la curiosità di leggere almeno fino alla seconda pagina.
Questo sarebbe molto grave. Per te. Che hai impiegato così tanto tempo a scrivere questa storia a modo tuo, mentre avresti potuto dedicarti a cose ben più proficue e divertenti. Anche se so benissimo (purtoppo!), e in questo tuo quasi romanzo lo hai ribadito fino alla nausea, che per te non c’è niente di più proficuo e divertente che scrivere.   
E, allora, data la “testa di zucca” (testardaggine e basta?) dell’autrice, sempre “con amicizia”, non mi resta altro da dire se non che, parafrasando un noto detto:
Lettore avvisato, mezzo salvato!


Angela De Leo

mercoledì 22 agosto 2018

scritturite e nipotite: due patologie rigeneranti


Il 23 luglio scorso scrissi del mio adorato nipote Nicola in quanto era il suo compleanno. Oggi ritorno a scrivere di lui perché in questi giorni sta dedicando il suo tempo alla mia scrittura col suo lavoro di grafico e di impaginatore e, siccome io vivo di scritturite e di nipotite (anche della figliolanza, naturalmente), ecco un ricordo di qualche anno fa che abbraccia l’una e l’altra patologia, acute entrambe. E lo riporto alla memoria con tenerezza infinita…
“Nonostante abbia seri problemi di salute, soprattutto nei riguardi del mio femore sinistro, meglio detto sinistrato e con sempre più sinistre diagnosi e prognosi per il prossimo futuro, vivo una sorta di rigenerante vita parallela con e per la mia scrittura, che mi porta a sfidare distanze, intemperie e disagi pur di assecondare la mia passione per la narrazione/comunicazione e naturalmente per i viaggi... Quando viaggio, mi getto il mondo intero alle spalle... Quando incontro gli altri, sto bene.  E così, ancora una volta, da venerdì a domenica sera, sono stata con gli altri di casa, grazie al mio editore e genero, Peppino Piacente, alla Fiera di Modena, in uno spazio riservato ai libri e alle loro presentazioni. Dove siamo stati invitati come Casa editrice e come autori. Bella esperienza anche qui, per me e mia figlia Raffaella, in veste di autrici di un romanzo per adulti, “La via delle vedove”, il mio, e di un libro illustrato (da Massimiliano   Di Lauro) per bambini e adulti, magari un po' bambini ma non troppo, “Un filo di lana rosso” di Raffaella Leone, sempre pubblicati dalla SECOP edizioni di Corato (Bari).
Tanti piccoli in festa nel laboratorio manipolativo-espressivo gestito da Raffaella. Tanti adulti distratti/interessati, annoiati/attenti, tra un andirivieni e l'altro nei corridoi del padiglione colmo di libri, ma non solo: sono i visitatori che fanno germogliare la mia speranza che mi ascoltino e che vengono in qualche modo catturati dai miei sorrisi invitanti e dalle mie parole forse un tantino convincenti… Dopo le due presentazioni, sabato sera partiamo per Rimini-Rivabella dove pernottiamo in un hotel proprio sul mare, per andare domenica mattina a visitare l'Italia in miniatura e trovarci, anche, con un po' di chilometri già fatti per il rientro. In realtà, qualche percorso nel programma è saltato per via dei capricci della mia gamba di legno. Ma non ha grande importanza tutto questo perché è solo un preambolo. Importante è, invece, la bellissima sensazione di essere amata e protetta, oltre ogni possibile attesa e desiderio, dai miei cari. E, in particolare, da Nicola, mio adorato, attento, meraviglioso nipote (e chi lo conosce sa che non esagero).
Ebbene, durante l'ultimo pernottamento, si è reso necessario far dormire con me Nicola perché il terzo letto nella camera d'albergo era un divano che non conteneva 1,90 cm. di altezza. Nicola e Anna Paola, vinti dalla stanchezza, si sono addormentati subito. Io, vinta dalla stanchezza, non ho chiuso occhio, come è mia consuetudine quando sono stanca. Verso le h. 3, decido di alzarmi piano perché sento urgente il bisogno di… fare la pipì? No! Di andare a fissare su carta, con una lucina di un aggeggio che permette di leggere anche di notte, le emozioni della giornata appena trascorsa. Poi torno a letto, facendo attenzione a non fare rumore. Nicola dorme tranquillo, ma non so come mi “sente” e con delicatezza mi copre le spalle con il lenzuolo e il copriletto. Gli dico grazie, ma non mi risponde. Segno che dorme. Al buio mi si riempiono gli occhi di lacrime e una sensazione di leggerezza simile ad un volo di gabbiano mi porta sul mare addormentato, ma colmo ancora di luci; un mare che in silenzio sogna oltre il balcone della nostra camera. Avverto solo un lieve sciabordio…
E nel mio volo c'è Nicola col suo senso protettivo e di amorevole apprensione che accompagna i miei giorni e vince persino il vuoto inconsapevole delle sue notti e del suo sonno necessario.
Tenerezza infinita... L’alba è un ricamo dorato sul mare. I ragazzi dormono. Hanno il respiro lieve dei sogni. C’è un senso di dolce solitudine all’orizzonte, dove la distesa di liquida madreperla bacia il cielo.
Sento il mio incanto farsi pensiero/conforto per il cuore…
                                          Non sarò mai sola.



domenica 19 agosto 2018

Agosto e le feste patronali


Agosto è stato sempre anche il mese delle feste patronali (“rə féstə də mìnzəagùstə”) con grandi luminarie, grandi festeggiamenti, la banda, l’Orchestra, la musica, l’uomo dei palloncini e il gelataio, le giostre. I fuochi d’artificio a mezzanotte. Un brulicare di gente lungo il Corso per un viavai con direzione ordinata e precisa in andata e ritorno. Gli abiti della festa.
Non so se ancora oggi accade tutto questo. Da anni non partecipo più alle feste di paese. Un tempo erano la mia passione. Ma è passato ormai davvero troppo tempo.
Un tempo…
“Sono stati gli anni delle tradizioni paesane da me vissute sempre con gioiosa attesa: processioni, luminarie, fuochi d’artificio, l’orchestra in piazza e l’opera lirica, meravigliosa musica che Dio sogna di far ascoltare agli uomini mentre dirige l’Orchestra di Angeli Arcangeli Cherubini; musica ora completamente dimenticata, come lo stesso Cielo.
C’è qualche possibile causa di tanta dimenticanza? Non lo so. Mi assale uno scoramento indicibile per la mancanza di tanta bellezza ai nostri giorni!
Anche la gente del nostro paese, in quegli anni, amava l’opera lirica, dal più povero e ignorante al più ricco e colto. Amava la musica operistica e accorreva in massa ad ascoltarla durante le feste patronali d’estate. Oppure durante le ricorrenti feste domenicali con i vari santi in processione.
Ogni festa culminava con l’esecuzione di una o più “opere” di Verdi, Rossini, Bellini, Donizetti, eseguite da valenti musicisti sul palco dell’“Orchestra” o della “Cassa armonica”, posto al centro delle due piazze principali, come da tradizione.
(Pare che attualmente ci sia un recupero della musica lirica da parte di alcuni giovani che, avendo voci adeguate, per rinverdire i fasti del tempo che fu, stanno recuperando questo straodinario genere musicale, che affonda le sue radici nel '600, quando proprio in Italia si sviluppò il melodramma con Monteverdi. Grande è la mia esultanza!).
La festa, poi, si concludeva “chə rə fóchərə e rə battajùlə” (con i fuochi d’artificio) allo scoccare della mezzanotte. Altro incanto di occhi spalancati in tanti OOOHHH!!! sul cielo che si accendeva di fiori colorati, ch’esplodevano nel frammento di un attimo appena, prolungato ben oltre la mezzanotte. Con l’avviso iniziale: un solo colpo forte che esplodeva nell’aria; poi le fioriture policrome di luce più in alto e più in basso; infine, “rə calcàssə e rə trónəre” (gli ultimi colpi sempre più forti e stordenti), con un’unica luce bianca a forare le stelle.
La ditta Cortese era rinomata in tutto il circondario.
Durante quelle feste domenicali, io ancora bambina/ragazzina, ero sempre pronta a combinarne una delle mie. Amavo quel mondo folkloristico, vociante e fantasmagorico. Impazzivo per la banda che mi metteva allegria. Mi piacevano i venditori ambulanti che seguivano la processione. Mi innamoravo dei palloncini colorati e mi piaceva anche una palla di pezza a spicchi di vari colori, "u parauàllə ", legata ad un cordone di elastico piatto e marroncino che ci permetteva di giocare lanciando la palla lontano e riprenderla immediatamente: un gioco simpatico e divertente nella sua estrema semplicità. Quanti ce ne hai comprati, papà? 
Ma incontenibile era soprattutto la mia voglia di combinare disastri pur di trasgredire le regole del "buon vivere".
                                Quante volte mi hai dovuto salvare?
Una volta, con le mie amiche più spericolate, mi divertii a pungere delicatamente con uno spillo i palloncini che si afflosciavano rapidamente e inspiegabilmente fino a che non ne feci scoppiare un paio simultaneamente e venni rincorsa dal venditore tra mille bestemmie e improperi lungo buona parte del Corso, dove provvidenzialmente apparisti tu ed io potetti rifugiarmi tra le tue braccia, proprio mentre l’energumeno stava per raggiungermi. Tu lo rabbonisti, pagandogli tutti i palloncini scoppiati e quelli piangenti e afflosciati.
Un’altra volta, decisi di salire sul carretto dei gelati per vedere da vicino il lungo cono di legno che raffigurava il “moretto”, un delizioso gelato ricoperto di sottile crosta di cioccolato che si diffuse negli ultimi anni Cinquanta. Mal me ne incolse, il carrettino al mio peso (sia pure di farfalla!) si ribaltò e parecchi moretti schizzarono in aria con il furore rabbioso del gelataio che mi stava per afferrare quando per la paura rovinai anch’io in mezzo ai coni spappolati.
Mi raggiunse la sua voce come una scudisciata:
“Crìstə te paghéutə!” (“Dio ti ha punita al posto mio!”).
Ancora una volta trovai rifugio tra le tue braccia aperte e il tuo volto chiuso ad ogni comprensione. Ti avevo lasciato troppo a lungo in pena per la mia sorte.
Poi, un anno, misi da parte tutti i risparmi di trecentosessantacinquegiorni, lira su lira, per poter comprare, con le mie amiche, quanti più moretti ci fosse possibile, “alle feste di ferragosto”. Durante, lo “struscio” (la passeggiata lungo il Corso cittadino in andata e ritorno), ad ogni fine andata correvamo a comprare il grosso cono per gustarlo durante il passeggio di ritorno. Ma, anche quando le mie amiche smisero di mangiare moretti, io, da impenitente sbruffoncella, continuai per un bel po’ per dimostrare a tutte “quanto mi piacessero i gelati fino a scoppiare”. E, infatti, dopo la bravata, rischiai di scoppiare veramente: mi misi a letto con febbre alta, vomito e diarrea e, per parecchi giorni, non osai guardarti in faccia per non vedere il tuo sguardo severo e addolorato sullo straccio del mio viso umiliato e penitente".
(Ma ancora oggi, che da peso-farfalla mi ritrovo peso-balena, e tutti i medici che mi hanno visitata nell’arco di questi ultimi decenni, dalla famigerata caduta in poi, non mi dicono altro che dovrei dimagrire per non pesare sulle mie fragili ossa e su due gambe mortificate e sconfitte da interventi chirurgici sempre malriusciti, non ho smesso di mangiare gelati e mi giustifico dicendo che sono per me ormai le poche “compensazioni consolatorie”…
Quando si dice che dall’esperienza non si impara se non c’è la volontà di far tesoro degli errori commessi!!?!). 
E, con il mio peso-farfalla e le mie scorribande in cerca di guai e di avventure, si sono perse anche, ai nostri “oscuri” giorni, le opere liriche, la musica classica e la beatitudine che ne derivava per cedere il posto a deliranti ragazzi che ascoltano musica rock o reggae o metal sotto palchi illuminati a giorno da fari e faretti multicolori e roteanti con cantanti e complessi che urlano, si dimenano, si rotolano…
Ed io mi accorgo di essere irrimediabilmente invecchiata perché mi capita di pensare, come ai vecchi tempi dicevano quelli che ritenevo vecchissimi, “ai miei tempi”, ma non lo dico per non sentirmi davvero “fuori tempo, fuori luogo,… fuori!
(tra virgolette riporto altri stralci de Le piogge e i ciliegi, SECOP edizioni. Sempre di prossima pubblicazione).


venerdì 17 agosto 2018

Ricordi d'agosto


Anche agosto sta per cedere il testimone a settembre tra giornate in pieno sole e temporali e piogge che preannunciano in gran fretta l’autunno. Nei giorni scorsi le strade si sono allagate e il cielo si è acceso di lampi ed ha protestato con brontolii furibondi, lanciando dappertutto fulmini e saette. Persino i miei lucernari hanno tremato di paura. Ma oggi è tornato il sole “a risplendere sulle sciagure umane”… Genova… il Molise… la nostra pena...
Per questo voglio rifugiarmi nell’agosto della mia infanzia e adolescenza. Per respirare aria di serenità, di tenerezza, di fiabe e racconti… di ascolto.
“Ad agosto, quel nostro meraviglioso cortile si popolava di mandorle da sgusciare, di gelsi da raccogliere, di fichi e fichidindia (“rə fèchə e rə fəchədinjə”) da mangiare. Io ero molto ghiotta di quella frutta agostana. Tu ti alzavi all’alba per andare al giardino dall’altra parte del paese e, attrezzato con “la galéttə” (un secchio particolare che tutti i contadini possedevano) e altri arnesi, come “u lambarìddə” (una sorta di asta forse di alluminio con all’apice due specie di piccole campane o imbuti di dimensioni diverse per raccogliere quei “sanguinari” frutti senza pungerti), riempivi quel grande contenitore e tornavi con i fichidindia, che subito lavavi con acqua corrente in cui immergevi la scopa di saggina per liberarli dalle spine. Poi, cominciavi il rito della spogliazione del frutto dalla buccia con il coltello e le mani pronte a far cadere la polpa granulosa e dolce nella coppa di creta smaltata che io ti porgevo, felice di esserti utile e di quel frutto “proibito” che tra poco avrei gustato in tutto il suo profumo e sapore. Ogni volta ne facevo una scorpacciata
(n’avéta mangià sémbə pìcchə pə nàn candà marì cə tìnə fùchə jndə au gabənéttə… rə avétə acchəmbagnà sémbə chə rə féchə pə nàn candà la sandə allégrèzzə jndə au gabənéttə… nàn zìamèjə a mangià inzìmə l’óvə o a véjvə u vénə ca pòuə avìta chiàngə jndə au gabənéttə e pə nàn passà u stèssə uèjə avéta véjvə tàndə àcquə…)
(dovete sempre mangiarne pochi per non avere problemi per andare al bagno… dovete sempre accompagnarli con i fichi per evitare dopo i problemi di andare al bagno… non dovete mai mangiare insieme l’uva o bere il vino per non avere problemi quando andate al bagno e, per lo stesso motivo, dopo dovete bere molta acqua…)
Fino a che non ebbi i problemi che tu paventavi. Ed era una domenica in cui c’era la processione di santa Lucia. Quando passò la statua davanti alla nostra saracinesca, io versai tutte le mie più amare lacrime, pregando la santa di lasciar perdere gli occhi per una volta tanto e di rivogere il suo sguardo taumaturgico ad un’altra parte del mio corpo che in quel momento aveva più bisogno del suo miracolo”.
 (…)             
“(Non ho memoria di marciapiedi in via Maggiore angolo via De Rossi, manco da tanti anni ormai, e credo non ce ne fossero, ma quelli che c’erano nel quartiere antico erano necessariamente strettissimi in quelle vie strette, dove i terrazzi sembrano baciarsi, come rette parallele che s’incontrano soltanto all’infinito. Per questo mi colpì subito quel marciapiede ampio che si slargava molto di più proprio davanti al nostro palazzo).
Quel marciapiede d’estate si riempiva di mandorle da fare asciugare al sole e a turno anche noi bambine, quando non eravamo in vacanza con i nostri genitori, ma erano loro a venire in vacanza da noi, durante il mese di agosto, avevamo il compito di andare ad “ararlo” con i nostri piedi calzati da sandali che spesso si riempivano di piccoli gusci smossi e pungenti, facendoci gridare di dolore. Io, però, mi offrivo sempre volontaria, non per masochismo, ma perché mi volevo rendere utile e farti piacere, e anche perché era poi bello vedere quei solchi dorati, simili ad un quadro di Van Gogh, colmarsi di sole a distesa sui panni a trama fitta che tu e Arcangelo o Filippo, con le prime ombre della sera, prendevate per i quattro capi e portavate a mo’ di grosso fardello sotto la səppènnə. E il giorno dopo il rito si ripeteva.
Ma, appena si spegneva quel sorriso di sole sui fittizi campi arati, noi ne prendevamo il posto per giocare. E alle nostre amiche si univano anche i figli più grandi di Maria e i nostri procugini, figli di Franceschina e Pasquale e nipoti di tuo fratello Michelino, che erano venuti ad abitare nell’altra ala del palazzo. Eravamo davvero tanti e sciamavamo fuori dal cortile sull’ampio marciapiede per far riposare testa occhi e orecchie tuoi e della nonna, sommersi quotidianamente dallo tsunami dei nostri giochi e schiamazzi. Io ero la più imbranata in tutti quei giochi di astuzia e velocità.
Ero la prima a farsi scoprire, la prima a farsi acchiappare, la prima a cadere dal dorso di improvvisati cavalli. In pratica ero sempre perdente. (…)
Al contrario di me, tapina e maldestra e mortificata, Lizia vinceva sempre. E non soltanto per quell’anno in più. Era veloce, scattante, accorta. In quei giochi somigliava più a un maschiaccio che all’assennata e composta ragazza dall’impegno scolastico sistematico e quotidiano. Ed è inutile ribadirlo che tutti gli altri miei fratelli e sorelle erano decisamente come lei.
Io, invece, sapevo solo saltare con la corda e ancheggiare con l’hulahoop.
E, così, ogni volta, sempre e per sempre ringraziavo il buon Dio o la sorte perché era nata donna e non dovevo necessariamente mostrare muscoli, destrezza e coraggio. Solo leggerezza, delicatezza, armonia.
Ma dopo ogni sconfitta di quei giochi perlopiù al maschile, lasciavo il marciapiede incriminato e mi rifugiavo nel cortile per poter fantasticare senza altri intoppi. Poi, quando erano tutti stanchi, anche gli altri mi raggiungevano e allora cominciava il nostro momento del raccontare…
Io e Lizia riproponevamo le tue fiabe ed era il momento della magia delle parole. Potenza delle parole e potenza della fantasia. Io mi prendevo la mia piccola rivincita.
Scoperta meravigliosa e insostituibile la narrazione: le parole erano iridescenti bolle di sapone che volavano e fluttuavano nell’aria con mille capriole, più divertenti e affascinanti di mille giochi. La mia testa tra le nuvole ritrovava finalmente il suo habitat naturale. La sua dimensione. Il suo appagamento. La sua felicità. E dimenticava ogni limite. Ogni vuoto. Ogni disarmonia. Ogni mortificante realtà.
Ma quel marciapiede era prezioso anche perché proteggeva i nostri segreti d’amore quando con le amiche ci attardavamo ad attraversare la sera con le passeggiate strategiche per sfuggire al vostro orecchio attento e non farvi ascoltare i nostri progetti di fuga e libertà. Che avevano come orizzonte lontano l’angolo dove il marciapiede finiva. Non sapevamo andare oltre.
Nonna partecipava con calore alla vita degli altri se gli altri gliela portavano in casa. Sapeva di semine e di raccolti perché tu gliene parlavi, ma ignorava le lotte dei contadini e i soprusi dei padroni
(bisogna seminare d’inverno per avere i fiori a primavera e i frutti d’estate come bisogna educare i bambini per vederli crescere sani quando sono ragazzi… e forti quando diventano uomini…
si deve insegnare ai bambini da quando sono piccoli a saper parlare con i fiori, con gli alberi e agli animali perché crescano sani e sereni… niente si realizza senza amore… devono imparare dalla terra dalle piante e dalle povere bestie…)
Così le facevi conoscere meglio il tuo lavoro e educavi noi piccole ad amare la natura, ad innamorarci della bellezza della vita e della bontà che bisognava coltivare nell’animo sin da tenera età.
Insegnamento prezioso che ancora oggi ci accompagna.
I tuoi insegnamenti attraversavano favole, storie, aneddoti, racconti che, come le parabole di Gesù, ci portavano la “lieta novella” e parlavano anche di tutto un mondo brulicante di esseri viventi, da cui prendere esempio.
(…)
“Il cortile, ciclicamente, diventava il luogo meraviglioso in cui ci attardavamo, all’ombra del gelso rosso, presso la grande tavolata colma di mandorle fresche da sgusciare; e, mentre tu, guidando le nostre mani a fare in fretta, ci incatenavi con i tuoi racconti, lei andava a prendere frutta, paste e rosolio da offrire a tutti quelli che venivano ad aiutarci ed era subito festa.
A fine agosto e per i primi di settembre si “faceva la salsa”. Passavano i carretti con i pomodori rossi e lunghi che la nonna sceglieva e comprava. E dal giorno dopo il cortile era tutto un fermento di voci, di passi, di grosse ceste dei rossi ortaggi travasati nei “cantarìddə” (i grandi contenitori di creta smaltata) pieni d’acqua per poterli lavare accuratamente e versare, stillanti rubini, nelle capienti pentole che gorgogliavano nel camino acceso   in attesa che venissero sbollentati. Subito dopo venivano adagiati su grandi teli bianchi che coprivano altri recipienti, in cui il primo liquido rosso colava fino a che altre mani “cu chəppénə” (col mestolo) non versavano quei frutti ormai domati in una ingegnosa macchinetta di stagno, con una sorta di largo imbuto e una manovella che azionava un marchingegno ruotante all’interno per “passarli” un paio di volte, mentre diventavano succo polposo che, simile a un rigagnolo infuocato, scendeva nella tinozza di zinco attraverso una specie di paletta agganciata sotto, e “u spùgghjə” (la buccia con i semi) fuoriusciva da un tubo simile al nostro intestino crasso con la stessa forma tubolare del suo prodotto. Di tanto in tanto, il succo colato sotto il panno veniva raccolto e versato sugli altri pomodori diventati troppo asciutti per riportarli alla primitiva succulenza.
Ciascuno di noi aveva il suo compito. Tu eri destinato al fuoco e alla caldaia; la nonna lavava i pomodori; io e Lizia ci alternavamo col mestolo e con la manovella. Fino a sera, con brevi intervalli, la salsa veniva versata nelle bottiglie che Maria aveva accuratamente lavato e fatto scolare bene bene e che tu tappavi con turaccioli di sughero ben annodati dalla nonna con lo spago in una sorta di rito, dove noi avevamo il compito di inserire la foglia di basilico prima e mettere il dito sullo spago poi, per agevolare l’artistico legamento perché le bottiglie, messe a bollire nella pentola, non scoppiassero, come qualche volta accadeva con un botto che ci preannunciava il disastro, seguito da qualche imprecazione di disappunto. Il giorno dopo, all’alba, tu e la nonna provvedevate a tirarle fuori dal pentolone ancora caldo e a coprirle “chə la mandə” (la coperta di lana o il mollettone felpato) per farle raffreddare piano piano e per conservarle, poi, dentro l’altro caminetto che avevamo nella cucina di casa. Qui si completava l’operazione davvero faticosa, ma altrettanto gioiosa per via dei tuoi racconti, le tue battute, l’atmosfera di allegra operosità che si affievoliva fino alla sera, vinta dalla stanchezza e dal sonno con la ripresa, il giorno dopo, di altro lavoro intenso per lavare recipienti, caldaie, canestri, panni e l’intera pavimentazione di cemento del cortile. Poi, quella salsa, quando era stata ben conservata, altrimenti (ma accadeva raramente) faceva sopra alla canna, appena sotto il tappo, “la palùscənə” (la muffa nera) e bisognava buttarla, veniva cucinata per ore a fuoco lento con pezzi di carne di vari animali: pecora, maiale, vitello per fare il ragù “du vəccìrə” (del macellaio).
Quel ragù dal profumo ineguagliabile era un’arte che forse si è persa nel tempo.
Da noi è Peppino, il marito di Raffaella, che, da ottimo cuoco qual è, di tanto in tanto, ce lo ripropone. E per me è sempre un tuffo nel passato. 
Con gli anni, si perse anche il rito di far bollire la salsa imbottigliata perché anche la nonna aveva imparato a risparmiare fatica (e a prevenire il danno delle bottiglie rotte), con l’acido salicilico (un grammo per ogni litro di salsa) per evitare il suo deteriorarsi. Anche se non tutti erano d’accordo sull’innocuità del prodotto.
Tu, intanto, in quegli stessi giorni, provvedevi a portare dal giardino i pomodori rotondi con il gambo per fare “rə ‘nzèrtə” (una vera e propria scultura di profumatissimi pomodorini, che tutti noi, con abilità e pazienza, provvedevamo ad appendere allo spago a mo’ di corone che venivano lasciate pendere da grossi chiodi messi nel muro o sotto i vari archi della casa come tante “lanterne rosse” nostrane).  
E il cortile s’inghirlandava di rossa, artistica, ridente allegria!”   
(da Le piogge e i ciliegi di prossima pubblicazione)