venerdì 17 agosto 2018

Ricordi d'agosto


Anche agosto sta per cedere il testimone a settembre tra giornate in pieno sole e temporali e piogge che preannunciano in gran fretta l’autunno. Nei giorni scorsi le strade si sono allagate e il cielo si è acceso di lampi ed ha protestato con brontolii furibondi, lanciando dappertutto fulmini e saette. Persino i miei lucernari hanno tremato di paura. Ma oggi è tornato il sole “a risplendere sulle sciagure umane”… Genova… il Molise… la nostra pena...
Per questo voglio rifugiarmi nell’agosto della mia infanzia e adolescenza. Per respirare aria di serenità, di tenerezza, di fiabe e racconti… di ascolto.
“Ad agosto, quel nostro meraviglioso cortile si popolava di mandorle da sgusciare, di gelsi da raccogliere, di fichi e fichidindia (“rə fèchə e rə fəchədinjə”) da mangiare. Io ero molto ghiotta di quella frutta agostana. Tu ti alzavi all’alba per andare al giardino dall’altra parte del paese e, attrezzato con “la galéttə” (un secchio particolare che tutti i contadini possedevano) e altri arnesi, come “u lambarìddə” (una sorta di asta forse di alluminio con all’apice due specie di piccole campane o imbuti di dimensioni diverse per raccogliere quei “sanguinari” frutti senza pungerti), riempivi quel grande contenitore e tornavi con i fichidindia, che subito lavavi con acqua corrente in cui immergevi la scopa di saggina per liberarli dalle spine. Poi, cominciavi il rito della spogliazione del frutto dalla buccia con il coltello e le mani pronte a far cadere la polpa granulosa e dolce nella coppa di creta smaltata che io ti porgevo, felice di esserti utile e di quel frutto “proibito” che tra poco avrei gustato in tutto il suo profumo e sapore. Ogni volta ne facevo una scorpacciata
(n’avéta mangià sémbə pìcchə pə nàn candà marì cə tìnə fùchə jndə au gabənéttə… rə avétə acchəmbagnà sémbə chə rə féchə pə nàn candà la sandə allégrèzzə jndə au gabənéttə… nàn zìamèjə a mangià inzìmə l’óvə o a véjvə u vénə ca pòuə avìta chiàngə jndə au gabənéttə e pə nàn passà u stèssə uèjə avéta véjvə tàndə àcquə…)
(dovete sempre mangiarne pochi per non avere problemi per andare al bagno… dovete sempre accompagnarli con i fichi per evitare dopo i problemi di andare al bagno… non dovete mai mangiare insieme l’uva o bere il vino per non avere problemi quando andate al bagno e, per lo stesso motivo, dopo dovete bere molta acqua…)
Fino a che non ebbi i problemi che tu paventavi. Ed era una domenica in cui c’era la processione di santa Lucia. Quando passò la statua davanti alla nostra saracinesca, io versai tutte le mie più amare lacrime, pregando la santa di lasciar perdere gli occhi per una volta tanto e di rivogere il suo sguardo taumaturgico ad un’altra parte del mio corpo che in quel momento aveva più bisogno del suo miracolo”.
 (…)             
“(Non ho memoria di marciapiedi in via Maggiore angolo via De Rossi, manco da tanti anni ormai, e credo non ce ne fossero, ma quelli che c’erano nel quartiere antico erano necessariamente strettissimi in quelle vie strette, dove i terrazzi sembrano baciarsi, come rette parallele che s’incontrano soltanto all’infinito. Per questo mi colpì subito quel marciapiede ampio che si slargava molto di più proprio davanti al nostro palazzo).
Quel marciapiede d’estate si riempiva di mandorle da fare asciugare al sole e a turno anche noi bambine, quando non eravamo in vacanza con i nostri genitori, ma erano loro a venire in vacanza da noi, durante il mese di agosto, avevamo il compito di andare ad “ararlo” con i nostri piedi calzati da sandali che spesso si riempivano di piccoli gusci smossi e pungenti, facendoci gridare di dolore. Io, però, mi offrivo sempre volontaria, non per masochismo, ma perché mi volevo rendere utile e farti piacere, e anche perché era poi bello vedere quei solchi dorati, simili ad un quadro di Van Gogh, colmarsi di sole a distesa sui panni a trama fitta che tu e Arcangelo o Filippo, con le prime ombre della sera, prendevate per i quattro capi e portavate a mo’ di grosso fardello sotto la səppènnə. E il giorno dopo il rito si ripeteva.
Ma, appena si spegneva quel sorriso di sole sui fittizi campi arati, noi ne prendevamo il posto per giocare. E alle nostre amiche si univano anche i figli più grandi di Maria e i nostri procugini, figli di Franceschina e Pasquale e nipoti di tuo fratello Michelino, che erano venuti ad abitare nell’altra ala del palazzo. Eravamo davvero tanti e sciamavamo fuori dal cortile sull’ampio marciapiede per far riposare testa occhi e orecchie tuoi e della nonna, sommersi quotidianamente dallo tsunami dei nostri giochi e schiamazzi. Io ero la più imbranata in tutti quei giochi di astuzia e velocità.
Ero la prima a farsi scoprire, la prima a farsi acchiappare, la prima a cadere dal dorso di improvvisati cavalli. In pratica ero sempre perdente. (…)
Al contrario di me, tapina e maldestra e mortificata, Lizia vinceva sempre. E non soltanto per quell’anno in più. Era veloce, scattante, accorta. In quei giochi somigliava più a un maschiaccio che all’assennata e composta ragazza dall’impegno scolastico sistematico e quotidiano. Ed è inutile ribadirlo che tutti gli altri miei fratelli e sorelle erano decisamente come lei.
Io, invece, sapevo solo saltare con la corda e ancheggiare con l’hulahoop.
E, così, ogni volta, sempre e per sempre ringraziavo il buon Dio o la sorte perché era nata donna e non dovevo necessariamente mostrare muscoli, destrezza e coraggio. Solo leggerezza, delicatezza, armonia.
Ma dopo ogni sconfitta di quei giochi perlopiù al maschile, lasciavo il marciapiede incriminato e mi rifugiavo nel cortile per poter fantasticare senza altri intoppi. Poi, quando erano tutti stanchi, anche gli altri mi raggiungevano e allora cominciava il nostro momento del raccontare…
Io e Lizia riproponevamo le tue fiabe ed era il momento della magia delle parole. Potenza delle parole e potenza della fantasia. Io mi prendevo la mia piccola rivincita.
Scoperta meravigliosa e insostituibile la narrazione: le parole erano iridescenti bolle di sapone che volavano e fluttuavano nell’aria con mille capriole, più divertenti e affascinanti di mille giochi. La mia testa tra le nuvole ritrovava finalmente il suo habitat naturale. La sua dimensione. Il suo appagamento. La sua felicità. E dimenticava ogni limite. Ogni vuoto. Ogni disarmonia. Ogni mortificante realtà.
Ma quel marciapiede era prezioso anche perché proteggeva i nostri segreti d’amore quando con le amiche ci attardavamo ad attraversare la sera con le passeggiate strategiche per sfuggire al vostro orecchio attento e non farvi ascoltare i nostri progetti di fuga e libertà. Che avevano come orizzonte lontano l’angolo dove il marciapiede finiva. Non sapevamo andare oltre.
Nonna partecipava con calore alla vita degli altri se gli altri gliela portavano in casa. Sapeva di semine e di raccolti perché tu gliene parlavi, ma ignorava le lotte dei contadini e i soprusi dei padroni
(bisogna seminare d’inverno per avere i fiori a primavera e i frutti d’estate come bisogna educare i bambini per vederli crescere sani quando sono ragazzi… e forti quando diventano uomini…
si deve insegnare ai bambini da quando sono piccoli a saper parlare con i fiori, con gli alberi e agli animali perché crescano sani e sereni… niente si realizza senza amore… devono imparare dalla terra dalle piante e dalle povere bestie…)
Così le facevi conoscere meglio il tuo lavoro e educavi noi piccole ad amare la natura, ad innamorarci della bellezza della vita e della bontà che bisognava coltivare nell’animo sin da tenera età.
Insegnamento prezioso che ancora oggi ci accompagna.
I tuoi insegnamenti attraversavano favole, storie, aneddoti, racconti che, come le parabole di Gesù, ci portavano la “lieta novella” e parlavano anche di tutto un mondo brulicante di esseri viventi, da cui prendere esempio.
(…)
“Il cortile, ciclicamente, diventava il luogo meraviglioso in cui ci attardavamo, all’ombra del gelso rosso, presso la grande tavolata colma di mandorle fresche da sgusciare; e, mentre tu, guidando le nostre mani a fare in fretta, ci incatenavi con i tuoi racconti, lei andava a prendere frutta, paste e rosolio da offrire a tutti quelli che venivano ad aiutarci ed era subito festa.
A fine agosto e per i primi di settembre si “faceva la salsa”. Passavano i carretti con i pomodori rossi e lunghi che la nonna sceglieva e comprava. E dal giorno dopo il cortile era tutto un fermento di voci, di passi, di grosse ceste dei rossi ortaggi travasati nei “cantarìddə” (i grandi contenitori di creta smaltata) pieni d’acqua per poterli lavare accuratamente e versare, stillanti rubini, nelle capienti pentole che gorgogliavano nel camino acceso   in attesa che venissero sbollentati. Subito dopo venivano adagiati su grandi teli bianchi che coprivano altri recipienti, in cui il primo liquido rosso colava fino a che altre mani “cu chəppénə” (col mestolo) non versavano quei frutti ormai domati in una ingegnosa macchinetta di stagno, con una sorta di largo imbuto e una manovella che azionava un marchingegno ruotante all’interno per “passarli” un paio di volte, mentre diventavano succo polposo che, simile a un rigagnolo infuocato, scendeva nella tinozza di zinco attraverso una specie di paletta agganciata sotto, e “u spùgghjə” (la buccia con i semi) fuoriusciva da un tubo simile al nostro intestino crasso con la stessa forma tubolare del suo prodotto. Di tanto in tanto, il succo colato sotto il panno veniva raccolto e versato sugli altri pomodori diventati troppo asciutti per riportarli alla primitiva succulenza.
Ciascuno di noi aveva il suo compito. Tu eri destinato al fuoco e alla caldaia; la nonna lavava i pomodori; io e Lizia ci alternavamo col mestolo e con la manovella. Fino a sera, con brevi intervalli, la salsa veniva versata nelle bottiglie che Maria aveva accuratamente lavato e fatto scolare bene bene e che tu tappavi con turaccioli di sughero ben annodati dalla nonna con lo spago in una sorta di rito, dove noi avevamo il compito di inserire la foglia di basilico prima e mettere il dito sullo spago poi, per agevolare l’artistico legamento perché le bottiglie, messe a bollire nella pentola, non scoppiassero, come qualche volta accadeva con un botto che ci preannunciava il disastro, seguito da qualche imprecazione di disappunto. Il giorno dopo, all’alba, tu e la nonna provvedevate a tirarle fuori dal pentolone ancora caldo e a coprirle “chə la mandə” (la coperta di lana o il mollettone felpato) per farle raffreddare piano piano e per conservarle, poi, dentro l’altro caminetto che avevamo nella cucina di casa. Qui si completava l’operazione davvero faticosa, ma altrettanto gioiosa per via dei tuoi racconti, le tue battute, l’atmosfera di allegra operosità che si affievoliva fino alla sera, vinta dalla stanchezza e dal sonno con la ripresa, il giorno dopo, di altro lavoro intenso per lavare recipienti, caldaie, canestri, panni e l’intera pavimentazione di cemento del cortile. Poi, quella salsa, quando era stata ben conservata, altrimenti (ma accadeva raramente) faceva sopra alla canna, appena sotto il tappo, “la palùscənə” (la muffa nera) e bisognava buttarla, veniva cucinata per ore a fuoco lento con pezzi di carne di vari animali: pecora, maiale, vitello per fare il ragù “du vəccìrə” (del macellaio).
Quel ragù dal profumo ineguagliabile era un’arte che forse si è persa nel tempo.
Da noi è Peppino, il marito di Raffaella, che, da ottimo cuoco qual è, di tanto in tanto, ce lo ripropone. E per me è sempre un tuffo nel passato. 
Con gli anni, si perse anche il rito di far bollire la salsa imbottigliata perché anche la nonna aveva imparato a risparmiare fatica (e a prevenire il danno delle bottiglie rotte), con l’acido salicilico (un grammo per ogni litro di salsa) per evitare il suo deteriorarsi. Anche se non tutti erano d’accordo sull’innocuità del prodotto.
Tu, intanto, in quegli stessi giorni, provvedevi a portare dal giardino i pomodori rotondi con il gambo per fare “rə ‘nzèrtə” (una vera e propria scultura di profumatissimi pomodorini, che tutti noi, con abilità e pazienza, provvedevamo ad appendere allo spago a mo’ di corone che venivano lasciate pendere da grossi chiodi messi nel muro o sotto i vari archi della casa come tante “lanterne rosse” nostrane).  
E il cortile s’inghirlandava di rossa, artistica, ridente allegria!”   
(da Le piogge e i ciliegi di prossima pubblicazione)

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