Agosto è stato sempre anche il mese delle
feste patronali (“rə féstə də mìnzəagùstə”) con grandi
luminarie, grandi festeggiamenti, la banda, l’Orchestra, la musica, l’uomo dei
palloncini e il gelataio, le giostre. I fuochi d’artificio a mezzanotte. Un brulicare
di gente lungo il Corso per un viavai con direzione ordinata e precisa in andata
e ritorno. Gli abiti della festa.
Non so se ancora oggi
accade tutto questo. Da anni non partecipo più alle feste di paese. Un tempo
erano la mia passione. Ma è passato ormai davvero troppo tempo.
Un tempo…
“Sono stati gli anni delle tradizioni paesane
da me vissute sempre con gioiosa attesa: processioni, luminarie, fuochi
d’artificio, l’orchestra in piazza e l’opera lirica, meravigliosa musica che
Dio sogna di far ascoltare agli uomini mentre dirige l’Orchestra di Angeli
Arcangeli Cherubini; musica ora completamente dimenticata, come lo stesso
Cielo.
C’è qualche possibile causa di tanta
dimenticanza? Non lo so. Mi assale uno scoramento indicibile per la mancanza di
tanta bellezza ai nostri giorni!
Anche la gente del nostro paese, in quegli
anni, amava l’opera lirica, dal più povero e ignorante al più ricco e colto.
Amava la musica operistica e accorreva in massa ad ascoltarla durante le feste
patronali d’estate. Oppure durante le ricorrenti feste domenicali con i vari
santi in processione.
Ogni festa culminava con l’esecuzione di una o
più “opere” di Verdi, Rossini, Bellini, Donizetti, eseguite da valenti
musicisti sul palco dell’“Orchestra” o della “Cassa armonica”, posto al centro
delle due piazze principali, come da tradizione.
(Pare che attualmente
ci sia un recupero della musica lirica da parte di alcuni giovani che, avendo
voci adeguate, per rinverdire i fasti del tempo che fu, stanno recuperando
questo straodinario genere musicale, che affonda le sue radici nel '600, quando
proprio in Italia si sviluppò il melodramma con Monteverdi. Grande è la mia
esultanza!).
La festa, poi, si concludeva “chə rə fóchərə e rə battajùlə” (con i fuochi
d’artificio) allo scoccare della mezzanotte. Altro incanto di occhi spalancati
in tanti OOOHHH!!! sul cielo che si accendeva di fiori colorati, ch’esplodevano
nel frammento di un attimo appena, prolungato ben oltre la mezzanotte. Con
l’avviso iniziale: un solo colpo forte che esplodeva nell’aria; poi le
fioriture policrome di luce più in alto e più in basso; infine, “rə calcàssə e rə trónəre” (gli ultimi colpi
sempre più forti e stordenti), con un’unica luce bianca a forare le stelle.
La ditta Cortese era rinomata in tutto il
circondario.
Durante quelle feste domenicali, io ancora
bambina/ragazzina, ero sempre pronta a combinarne una delle mie. Amavo quel mondo folkloristico, vociante e fantasmagorico. Impazzivo per la banda che mi metteva allegria. Mi piacevano i venditori ambulanti che seguivano la processione. Mi innamoravo dei palloncini colorati e mi piaceva anche una palla di pezza a spicchi di vari colori, "u parauàllə ", legata ad un cordone di elastico piatto e marroncino che ci permetteva di giocare lanciando la palla lontano e riprenderla immediatamente: un gioco simpatico e divertente nella sua estrema semplicità. Quanti ce ne hai
comprati, papà?
Ma incontenibile era soprattutto la mia voglia di combinare disastri pur di trasgredire le regole del "buon vivere".
Quante volte mi hai dovuto salvare?
Una volta, con le mie amiche più spericolate, mi divertii a pungere
delicatamente con uno spillo i palloncini che si afflosciavano rapidamente e
inspiegabilmente fino a che non ne feci scoppiare un paio simultaneamente e
venni rincorsa dal venditore tra mille bestemmie e improperi lungo buona parte
del Corso, dove provvidenzialmente apparisti tu ed io potetti rifugiarmi tra le
tue braccia, proprio mentre l’energumeno stava per raggiungermi. Tu lo
rabbonisti, pagandogli tutti i palloncini scoppiati e quelli piangenti e
afflosciati.
Un’altra volta, decisi di salire sul carretto dei gelati per vedere da
vicino il lungo cono di legno che raffigurava il “moretto”, un delizioso gelato
ricoperto di sottile crosta di cioccolato che si diffuse negli ultimi anni
Cinquanta. Mal me ne incolse, il carrettino al mio peso (sia pure di farfalla!)
si ribaltò e parecchi moretti schizzarono in aria con il furore rabbioso del
gelataio che mi stava per afferrare quando per la paura rovinai anch’io in
mezzo ai coni spappolati.
Mi raggiunse la sua voce come una scudisciata:
“Crìstə te paghéutə!” (“Dio ti ha punita al posto mio!”).
Ancora una volta trovai rifugio tra le tue braccia aperte e il tuo volto
chiuso ad ogni comprensione. Ti avevo lasciato troppo a lungo in pena per la
mia sorte.
Poi, un anno, misi da parte tutti i risparmi di
trecentosessantacinquegiorni, lira su lira, per poter comprare, con le mie
amiche, quanti più moretti ci fosse possibile, “alle feste di ferragosto”.
Durante, lo “struscio” (la passeggiata lungo il Corso cittadino in andata e
ritorno), ad ogni fine andata correvamo a comprare il grosso cono per gustarlo
durante il passeggio di ritorno. Ma, anche quando le mie amiche smisero di
mangiare moretti, io, da impenitente sbruffoncella, continuai per un bel po’
per dimostrare a tutte “quanto mi piacessero i gelati fino a scoppiare”. E,
infatti, dopo la bravata, rischiai di scoppiare veramente: mi misi a letto con
febbre alta, vomito e diarrea e, per parecchi giorni, non osai guardarti in
faccia per non vedere il tuo sguardo severo e addolorato sullo straccio del mio
viso umiliato e penitente".
(Ma ancora oggi, che da peso-farfalla mi
ritrovo peso-balena, e tutti i medici che mi hanno visitata nell’arco di questi
ultimi decenni, dalla famigerata caduta in poi, non mi dicono altro che dovrei
dimagrire per non pesare sulle mie fragili ossa e su due gambe mortificate e
sconfitte da interventi chirurgici sempre malriusciti, non ho smesso di
mangiare gelati e mi giustifico dicendo che sono per me ormai le poche
“compensazioni consolatorie”…
Quando si dice che dall’esperienza non si
impara se non c’è la volontà di far tesoro degli errori commessi!!?!).
E, con il mio peso-farfalla e le mie
scorribande in cerca di guai e di avventure, si sono perse anche, ai nostri “oscuri”
giorni, le opere liriche, la musica classica e la beatitudine che ne derivava
per cedere il posto a deliranti ragazzi che ascoltano musica rock o reggae o metal
sotto palchi illuminati a giorno da fari e faretti multicolori e roteanti con
cantanti e complessi che urlano, si dimenano, si rotolano…
Ed io mi accorgo di essere irrimediabilmente
invecchiata perché mi capita di pensare, come ai vecchi tempi dicevano quelli
che ritenevo vecchissimi, “ai miei tempi”, ma non lo dico per non sentirmi
davvero “fuori tempo, fuori luogo,… fuori!
(tra virgolette riporto altri stralci de Le
piogge e i ciliegi, SECOP edizioni. Sempre di prossima pubblicazione).
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