martedì 26 giugno 2018

Giovanni Gastel e la sua personalità complessa di Uomo e di Artista - parte seconda

“Infine, la serie mistica ma non troppo degli Angeli caduti che da soli valgono l’intera Mostra: angeli androgeni o decisamente femminili, con ali bianche ancora in volo o nere come la notte. Angeli che precipitano a testa in giù e angeli precipitati con negli occhi la sorpresa, il disorientamento, la dispersione della propria identità in un luogo sconosciuto che fa paura perché nuovo e diverso. Angeli pentiti e angeli senza alcun rimorso o pentimento. Bisognerebbe descriverli uno ad uno. Ci vorrebbe un trattato. Ancora una volta le stratosferiche contraddizioni gasteliane: non angeli che volano, ma angeli che precipitano senza più la speranza di un perdono, di tornare nella azzurra luminosità del Cielo.
Un po’ mi fanno pensare a Giovanni Gastel bambino nel suo Eden dorato e lontano dal mondo degli uomini. La sua desatellizzazione dal nucleo familiare, protettivo e severo nelle sue regole culturali, nel solco di una tradizione etico-religiosa, e tutto in sé conchiuso, è un precipitare nell’abisso di un mondo altro dove il disordine e la violenza regnano sovrani (non si può non ricordare che l’adolescenza di Giovanni Gastel coincide con gli anni di piombo nel nostro Paese), lasciando il giovane rampollo di una storica casata lombarda in balia di uno sperdimento, che è angoscia, ferita e dolore. Con le uniche risorse che sente di possedere: le Immagini, le Parole. Le sue Ali di ricambio per tentare nuovi Voli. Un predestinato? Forse. Le ultime Ali sono bianche di Salvezza, sono saldamente legate alla fanciulla occhi di sfida sotto un cielo torbido che non promette nulla di buono. Ma le sfide servono a temprare lo spirito, a far superare la paura, a tentare nuovi percorsi, nuove possibilità di rinascita.
‘La creatività ci fa rinascere infinite volte’ (Erich Fromm).
È quanto sembra affermare, nel suo intervento conclusivo, l’Artista, parlando di sé e della sua vocazione all’Arte in tutte le sue molteplici desinenze. Vocazione nata proprio sulle acque del lago di Como, dove ha incontrato l’Eleganza della natura e lo ‘splendore delle architetture e dei giardini poggiati sull’acqua’, definendo una Perfezione che si realizza in una perenne Armonia. Rimasta per sempre negli occhi e nel cuore di quel ragazzino irrequieto, ma già tanto attento alla ‘magia del reale’. Lui è consapevole dell’‘immenso’ privilegio che gli è toccato in sorte, ma anche dell’‘immensa’ responsabilità di dover essere all’altezza della situazione, sfruttando al massimo i suoi ‘immensi’ talenti per andare oltre ogni possibilità umana. Esaltazione e perdizione insieme. Vinte col suo cuore colmo di tanti doni, tra cui il più grande: l’Amore, come dono di sé agli altri”.
E l’ironia, con cui ha imparato a tenere sotto controllo la malinconia, quasi una “saudade” (che i portoghesi o i brasiliani identificano con una sorta di nostalgico rimpianto) per quanto ci accade in un precipitare di giorni che ci danno come un presentimento di quanto non riusciremo più a vivere, ad assaporare nella lentezza di un futuro che ci sembrava eterno e tutto nostro. Ritengo che in Gastel abbiano l’una e l’altra perlopiù lo stesso valore. Non a caso, Maria Corti, scrivendo di Cavalcanti, definì l’ironia la “splendida virtù dei malinconici”. Con l’ironia e l’autoironia tutto diventa più lieve, sorridente, sopportabile. Persino la propria identità dimidiata. Già l’identità di per sé è un’arma a doppio taglio: dà la certezza della propria unicità, ma anche la responsabilità di sentire gli altri “diversi” da sé. L’identità, dunque, consacra e dissacra. L’ironia tende al compromesso di accettare, con ariostesca o anche manzoniana “bonomia”, sé stessi e gli altri in un processo di salvifica semplificazione della vita. Un banalmente “ridiamoci su”. È quanto si evince sia da alcune situazioni che i protagonisti vivono in “Duetto profano” sia da alcuni versi della raccolta di poesie sia dalle immagini di alcune fotografie, che non risentono mai delle ingiurie del tempo, e soprattutto da alcune situazioni dialogiche con i propri followers, verso i quali Giovanni Gastel è sempre prodigo di parole affettuose sorridenti e gratificanti, da vero gentiluomo qual è. Ma il tempo stringe e la malinconia sempre più spesso prende il sopravvento, malgrado tutte le buone intenzioni e i buoni propositi, soprattutto onirici.
Ora, però, mentre “si va facendo sempre più tardi” (Antonio Tabucchi), non è più l’Endimione dell’ultima foto, inserita nella raccolta, “in cui ha gli occhi chiusi per non vedere il mondo e rimanere eternamente giovane (il mito greco e i suoi simboli e i suoi eroi), ma un uomo che ha avuto migliaia di doni dal cielo ed è fiero delle sue radici per quanto di irripetibile e unico e grandioso gli hanno destinato e delle sue foglie rampicati che per istinto ora sanno le più percorribili vie dell’anima, senza più “gallerie oscure” (Machado), ma luminosi percorsi per afferrare astri di splendore e farsene dono. E fare dono a quanti ama e lo amano. E sono davvero tanti. Potrebbero pareggiare il numero delle stelle?
Oggi solo serenità./ la vita è una struttura fragilissima./ Ma a volte viverla è bellissimo”. 
Ed ecco una delle più profonde poesie di Giovanni Gastel sulla fierezza e incommensurabilità del suo amore paterno, a conferma di quanto detto sin qui:
ma se di questi
sentimenti
incisi nell’anima
potessi fare un canto
finale
quale poesia non
scritta
troverei nel profondo?
Che sia più densa del
tuo bacio figlio
che sia più amara
del tuo allontanarti per
la tua via
che sia più definitiva
del tuo osservare la
vecchiaia
scivolarmi addosso
ogni giorno
Quale voce uscirà da
questa mia solitudine
se non la poesia del
distacco?
La canterò anche per te
figlio
che mi guardi con un
sorriso paterno.
                            Castellaro 2018

È una poesia di una intensità straziane e dolcissima. Frutto probabilmente di attimi di sospensione dell’anima inebriata e ferita del poeta nel guardare il figlio, che a sua volta lo guarda con “sorriso paterno”, scatenando in Giovanni Gastel, uomo e padre, una ridda di sentimenti, taglienti come lame appuntite che, vinti dalla commozione, deviano in dubbi per lasciargli la possibilità di non rimanerne sopraffatto.
Non a caso, il primo verso comincia con un “ma”, particella avversativa che serve a contrastare i tanti pensieri che lo sommergono e a liberarsene piano piano. È come se stesse continuando un discorso che prima aveva solo nella mente e che ora, finalmente, trova un varco per farsi poesia. E subito evidenzia cosa gli preme sapere, ora che va facendo spazio tra i tumulti del cuore: e al “ma” si aggiunge la dubitativa “se” e, subito dopo, “di questi” (cioè, eccoli sono qui, li avverto prepotentemente, sono miei!) “sentimenti”: a capo, ad occupare tutto il verso seguente tanto sono grandi.
E, subito dopo, continuando a leggere, mi accorgo improvvisamente che tutte le parole-chiave di questa poesia (che non rispetta i canoni classici della poesia tradizionale, come l’andare a capo con senso finito del verso, senza usare articoli e preposizioni in sospensione): le locuzioni, i chiarimenti di sé a sé stesso, gli stilemi tanto cari al poeta e così connotanti la sua poesia hanno qui un intento d’amore ben preciso: ogni parola (che è necessaria perché è quella e non può essercene un’altra) va a capo e si distende nell’intero verso, occupa tutto lo spazio possibile.  Quasi a farsi colonna, statua, scultura, monumento. Una scala che porti sino al cielo.
Exegi monumentum” (Orazio). Non per la propria gloria, ma per glorificare il figlio, e con lui anche l’altro suo nato, ora assente alla sua vista, ma non al suo cuore di padre.
E ogni verso si conclude con uno slargamento ad eco della parola messa lì, non a concludere, ma a dilatare: incisi nell’anima… potessi fare un canto… finale… quale poesia non… scritta… troverei nel profondo?.
E, ancora: che sia la più densa del… tuo bacio figlio… che sia la più amara… del tuo allontanarti per… la tua via… che sia più definitiva… del tuo osservare la… vecchiaia… scivolarmi addosso… ogni giorno
E sembra di sentire il suono cadenzato delle parole che vanno a costruire quel monumento d’AMORE, quasi mattoni, quasi lastre a dare peso e consistenza e valore a quell’UNICO sentimento immenso e profondissimo, che i pensieri hanno definito, scendendo nelle viscere del suo “Io” più profondo, e che ha bisogno di calibrare ogni attimo, ogni sensazione, ogni emozione perché si faccia carne viva e non solo sentimento e commozione (il bacio, per esempio, non dato, ma certamente trattenuto quasi si fosse materializzato tra le parole).
L’allontanarsi per (e quel “per” lasciato per strada sembra già un viaggio verso l’ignoto, lo sconosciuto, l’insidia che il padre teme e contro cui non lo può mettere in guardia perché fuorvierebbe la “via” del figlio, quella che il ragazzo - non più “suo” - ha scelto per essere sé stesso e riconoscersi).
Gli occhi che osservano la… “vecchiaia” (e il pudore, per quanto il poeta non riesca ancora ad accettare di sé, gli propone un verbo che non lascia segni; non si ferma a incidere l’ingiuria di una ruga, ma “scivola”), “giorno dopo giorno”, lentamente, pesantemente e senza tregua (quasi fosse un martello pneumatico a scavare gallerie di tempo sulla roccia del viso).
Ancora una volta, la fugacità del tempo vince per un attimo tutti i sentimenti che palpitano dentro il poeta e si fanno poesia, per fantasmagarsi (mi si lasci passare il neologismo) nella paura che lo assale e lo attanaglia.
E con la paura (non detta) si ripropone la solitudine, esibita, per crearsi l’appiglio del dolore lancinante del distacco, il solo a dettargli la verità “in forma” di poesia.
È un attimo di smarrimento e di angoscia che si dissipa nella rinata tenerezza per quel figlio che andrà inevitabilmente lontano, accompagnato dal canto dolce del padre nella reciprocità di un amore senza confini che può risolversi, proprio perché tale, in un tenerissimo scambio di ruoli: il poeta, figlio di suo figlio, e suo figlio, padre di suo padre. L’Amore compie questi prodigi.
L’AMORE ha scritto a caratteri cubitali il sussurro stupendo di questa meravigliosa poesia, che accompagnerà il duplice viaggio (del padre e del figlio) lungo le impervie strade del mondo…
E, se per Borges “la poesia è l’imminenza di una rivelazione che non si produce”, per Giovanni Gastel è sempre rivelazione di sé a sé stesso e agli altri.
Grazie per questa straordinaria “Poesia-Verità”.

Ed ora concedetemi la libertà di concludere con alcuni miei versi con dedica a completamento di questo mio percorso critico-letterario

Ho incontrato un poeta

Ho incontrato un poeta
Era di carta e di parole
Era di solitudine e clamori
Silenzi coltivava
come fiori liberi di campo
lui che aveva serre di gladioli
e rose rare nel giardino del cuore
Ho conosciuto un poeta
con occhi grandi di malinconia
ad ogni sorriso alla noia strappato
strappato alla morte e al tempo
che verrà e avrà un giorno nuovo
di foglie e di radici
Avrà la luce di un volto inventato
e un sogno colmo di nostalgia
Avrà un tramonto per ogni canto
deluso e un’aurora di rimpianto
Ho conosciuto la sua anima
col volto in bianco e nero
e ciglia tenere di bambino
e labbra chiare di rosso spino
e azzurro incanto
(mi ha depositato tra le mani
un petalo di cielo…)

Angela De Leo

lunedì 25 giugno 2018

Giovanni Gastel e la sua personalità complessa di Uomo e di Artista - parte prima

Giovanni Gastel ha una personalità così complessa che sfugge ad ogni definizione perché è eternamente cangiante, contraddittoria, sorprendente. Ma sono forse proprio queste peculiarità a renderlo così affascinante e amabile, amato. E tutte le sue Opere servono a darci di lui una idea veritiera e sempre apparente perché l’Artista guizza continuamente tra l’essere e il non essere. Ossimoro di sé stesso sempre.
Così in “Duetto Profano” (SECOP Edizioni, Corato-Bari), “che dà voce a due voci (duetto) che dovrebbero andare in sintonia perché sono strettamente legate al canto “ad una voce” e, invece, divergono per “estraneità” tra i due mondi in cui vivono e agiscono i personaggi Sono due voci legate, ma divise. Forse dei protagonisti, forse delle storie narrate. Forse dello stesso pensiero dell’autore: un giovanissimo, geniale, diciassettenne che vuole cimentarsi con la scrittura, ma è ancora nella fase della ricerca di sé in un mondo che lo vuole incasellare nelle regole del bon ton sociale (e la foto di copertina in bianco e nero, ma con la metà più buia e misteriosa sfumata di rosso, ne è la straordinaria conferma). In una girandola di situazioni e di luoghi che ben si addicono alla dispersione/disperazione adolescenziale, e alla tela di ragno di vite solo all’apparenza tranquille e appagate, ma quanto distanti dall’ideale di sé nella verità del proprio “Io” più profondo e quasi sempre ferito e sconfitto.
Di qui l’eterno ritorno nietzschiano all’infanzia e ai luoghi del cuore: il giardino delle meraviglie, la grande villa silenziosa, la Milano della domenica e della messa.
Ed era ancora un bambino che guardava il mondo con occhi spalancati, senza fiabe certo, ma un mondo ancora da scoprire, da vivere. E, invece, la morte in agguato lo condizionerà per tutti gli anni a venire. Da quelle immagini in poi nulla sarà come prima. Neppure le parole. Neppure i silenzi che spesso urlano parole mute. Ma il romanzo non può restare senza parole. E il romanzo nel romanzo neppure. Il male di vivere corrode le menti più sensibili.
La quotidianità ha le sue leggi intransigenti sia che si viva in un mondo dorato sia che ci si arrabatti in un ambiente senza pretese e senza voli alti.
Anche Dio, nell’uno e nell’altro caso, è un costante appiglio più per renderlo reo di una sconfitta che àncora di ogni salvezza”.
Dualità profonda sempre in Giovanni Gastel anche di fronte a Dio che ricerca e rinnega in ogni suo pensiero, in ogni sua poesia, in ogni scatto ad eternare l’attimo.
Lo stesso avviene nella raccolta di poesie “Io sono una pianta rampicante” (Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo-Milano).
“Qui i versi sono liberi, eppure ricchi di figure retoriche per un senso innato del bello, che il poeta avverte in sé e trasferisce nelle parole a rendere, nonostante il continuo disincanto, un’atmosfera incantata per l’armonia interna che vi regna”. Soprattutto quando rammemora l’adolescenza e il suo splendore ancora intatto.
Ma è un idillio che non può durare. Le contraddizioni hanno subito la meglio e quella che sembrava un’età felice si veste di mille apprensioni e di presentimenti che tolgono smalto e fervore di vita ai giovanili anni, e tutto diventa cupo, buio, misterioso. Il corpo langue e la mente è soggiogata da tetri pensieri di morte, ritenuta assassina e responsabile di tante immense paure.
“Con Gastel è come viaggiare eternamente sulle montagne russe, niente è scontato e sempre uguale, neppure lo stato d’animo di un attimo prima corrisponde alla certezza dell’attimo dopo. Tutto viene affermato e smentito, pur nella realtà del momento, pur nell’incubo che ne consegue. Il passare del tempo gli procura angoscia, ma anche il dover vivere ancora una notte gli pesa tanto quanto i demoni a visitarlo, oltre le barriere del buonsenso e dei freni inibitori per vivere con gli altri, in mezzo agli altri”. Eppure, non vorrebbe mai una vita regolare, semplice, serena, sarebbe in antitesi con i tumulti del cuore e della mente: “la storia degli uomini è/ nell’angoscia della foresta”.
Per fortuna, la scrittura. Necessità di vita è scrivere con le prime ombre della sera per salvare un giorno “vuoto” che finisce, e per salvarsi da quel vuoto che è voragine e disperazione.
“… ad addolcire un altro giorno vuoto/ di cui non conserverei memoria/ se non per i neri segni che a sera/ inciderò su un foglio bianco.
Ed ogni parola, sia pure inconsciamente o intenzionalmente, è scelta con cura, calibrata nella sua profondità. “Incidere”, per esempio, è azione molto più “incisiva” più forte e determinata di vergare o scrivere. I “neri segni”, piuttosto che i segni neri, riguardano una locuzione che ha una diversa valenza semantica: è una sorta di anastrofe che rende più leggero il segno e lo connota come scrittura.
Io sono un disperso (…) che (…) affida se stesso/ alle parole che scrive.
Ed è un affidarsi totale, quasi un “naufragare” di leopardiana memoria.
C’è una sorta di eternità delle parole nelle voci che ci appartengono, che riconosciamo e teniamo per noi. Ci sembra quasi di averle dimenticate. Poi, basta un richiamo, una frase, una eco ed ecco ritornare prepotentemente a farci gioire o soffrire e la nostalgia ci prende, come per ogni ritorno (nòstos), che è gioia, ma anche dolore (àlgos).
E, del resto, … All’origine tutto era parola.
E qui il richiamo biblico è forte. E il richiamo al Verbo che era presso Dio ed era Dio. Il Verbo ha una parola sola. Una sola Verità. Basta riconoscerla. Ma con presunzione gli uomini la cercano nella scienza, che non possiede verità, ma parziali porzioni di conoscenza, suscettibili di essere confutare e capovolte, nel tempo e nello spazio. La cercano nella propria mente, ma non è la razionalità a dare risposte chiare e definitive. Nel cuore che è un “guazzabuglio” di sentimenti e di risentimenti. Forse solo “oltre il muro d’ombra”. Ma forse sarà troppo tardi per credere e per sperare. La fede, unica ancora di salvezza? Forse. Se avessimo il coraggio di credere. È più facile negare che ammettere. Dice lo stesso Gastel, in versi, in prosa, con gli scatti delle sue foto che vibrano di bellezza ma non di verità. Perché ciò accada, Giovanni Gastel cerca nelle sue modelle l’anima. E l’anima cerca nelle parole. La cerca in sé stesso. Non si lascia influenzare dalle regole e dalle mode. Scrive come in quel momento gli detta il sentimento. diversi. E ognuno può esprimersi come meglio crede purché ci sia emozione, ci sia Poesia.
Credo sia una conquista pluralistica nella complessità del mondo contemporaneo”. Anche la commistione di generi artistico-creativi fa parte di questa ricerca del nuovo nel rispetto della classicità e del sentimento profondo che la sostiene. L’unica ricerca che potrebbe pacificare il mondo interiore con quello esteriore, in una adesione reattiva alla società del post postmodernismo e del recupero dell’autenticità del linguaggio e della vita.
In Giovanni Gastel questo viene messo in atto in tutte le sue opere, fino a connotare una scrittura narrativa e di comunicazione sincera e immediata. “Risolvendosi persino nella accettazione delle proprie ombre per superare i condizionamenti di una cultura familiare, che ancora lo affascina e lo lega, con lacci d’amore, certo, ma anche con la fragilità che ne deriva. Si pensi ai mai spenti dialoghi con l’amata madre, con il rimpianto fratello, perso alla sua vista, ma non al suo cuore.
Bisognerebbe leggere ogni verso per comprendere l’eccezionale sensibilità etica, affettiva, emotiva ed estetica di Giovanni Gastel e per comprendere appieno la natura dei suoi tormenti.
‘Io sono una pianta rampicante’ è uno scrigno prezioso di ritratti di famiglia, di spazi vuoti (‘i margini di silenzio’ di Paul Eluard?), di luoghi e date, di poesie perlopiù senza titoli e senza soluzione di continuità. Quasi un racconto poetico lungo, fatto di improvvise emozioni, percezioni della realtà ed echi di memorie lontane nel tempo e nello spazio, ma vive più che mai nell’anima del poeta, in un “infinito presente”, che, nel suo modo e tempo verbale, azzera ogni passato e ignora ogni futuro per attualizzare, in un unico istante, tutta una vita.
Io sono una pianta rampicante’: titolo molto suggestivo, ma già di per sé ossimorico” (come del resto anche il titolo del romanzo e come gli stessi campi semantici di numerose sue fotografie. Vedi la serie degli ‘Angeli caduti’), connotativo della stessa personalità dell’Autore, coacervo di laceranti contraddizioni, di cui la sua Arte e il suo Genio si nutrono…
La cultura familiare, radice profonda e indistruttibile, e le rigide regole ad essa sottese sono, comunque, gabbie dorate, troppo strette per i suoi voli pindarici. Voli troppo alti, che avverte a suo danno: la solitudine dell’“albatros” (Baudelaire) o dei “numeri primi” (Paolo Giordano), ma anche a suo appagamento per   la genialità che gli concede di forare il cielo e sentirsi incontaminato e compiutamente sé stesso. E tutte le contraddizioni alla fine si ricompongono in Unità: Giovanni Gastel è tutto questo e non può essere diversamente. Tutte le sue opere visive e quelle letterarie firmano la sua genialità. La sua umanità”.
Oggi Giovanni Gastel è sempre dimidiato tra la libertà del volo nel suo mondo di sogno e il franare malinconico e disperato nell’abisso di una realtà che fa male e che vuole dimenticare per non avvertire le ferite e il disinganno. E le sue Foto e i suoi Scritti ne sono la inconfutabile conferma.
Anche nel “Catalogo” (curato nei minimi particolari e con infinito amore da Maria Cristina Brandini), che ha accompagnato tutta la Mostra delle sue fantastiche fotografie al Broletto di Como, la stessa immagine di copertina evidenzia tale dicotomia nella sua innegabile unità: il bianco luminoso delle ali in volo verso spazi sempre più alti e più ampi, e il nero abissale del tunnel ad avvolgerlo ad ogni contatto con la terra e con il mondo della realtà e della concretezza. E, al suo interno, il Teatro gasteliano.
“Le sue Immagini. Le sue Fantasie. I suoi Personaggi che si raccontano e lo raccontano. In ogni simbolo. In ogni verità. In ogni passaggio esistenziale e artistico a descrivere fortemente i suoi percorsi umani e professionali.
La prima foto non smentisce quanto detto sin qui. Ecco una donna-conchiglia di un bianco avoriato su sfondo nero, con una particolarità: il volto assorto ed enigmatico con lo sguardo lontano è diviso a metà dal vortice della conchiglia che crea trasparenze lunari nella metà che avvolge, lasciando in ombra l’altra metà. E persino il fiore rosso delle labbra chiuse risente della dimidiazione tra segreti di voci da riportare all’orecchio in un turbinio di onde senza fine, e segreti di voci da dimenticare nella penombra scura di ogni tormento (Gastel e la sua anima di pari passo con la sua Arte). Anche la seconda foto gioca la sua misteriosa essenza sul bianco e il nero, questa volta non più divisi, ma sapientemente annodati in volute che labirintano una donna-fiore e gambo esile su cui esplode un fiore (gardenia o camelia), attraversato da onde di luce, o una donna-cigno, pronta a spiccare il volo con le sue mani-piume in una posizione di slancio, frenata appena dalla sospensione di occhi titubanti e perplessi, in attesa di un vaticinio che la spinga ad osare…
(illusioni sotto le varie maschere che il Teatro rende vere. Dove la verità solo nella finzione o viceversa? Il dubbio rimane)”. 

sabato 23 giugno 2018

Omaggio alla Bellezza - parte seconda

“… le masserie lucide di calce e di silenzi, essere il brusio/ delle finestre, il richiamo misterioso dei pozzi, se potessi/ essere la memoria di tutti i fili d’erba, essere io lo sguardo/ il suono, il confine del vento.” (Paolo Polvani, “Il confine del vento”).
Una bellezza da riempire gli occhi, la bocca e tutti i sensi per conficcarsi nello sguardo intenso del poeta in una panica trasfigurazione e personificazione: essere il brusio delle finestre, il richiamo misterioso dei pozzi, la memoria di tutti i fili d’erba, lo sguardo il suono, il confine del vento. Ed è tutta qui la Bellezza, in questi versi di una suggestione profonda e lieve, che risuona di arcane melodie lungo la lunga   meraviglia del Creato.
E Meraviglia del Creato sono le tele di Enzo Morelli con la delicatezza raffinata e lieve che le contraddistingue. La Murgia è un canto di luce e di colori. È il miracolo della natura che vince il silenzio delle pietre e l’ostilità di una terra siticosa e aspra, dove la ferula s’inghirlanda della madreperla rosata delle lumache e i papaveri ridono spavaldi nell’umiltà dell’erba appena fiorita. Gli ulivi sono giganti dai tronchi feriti e dai rami verdeggianti che promettono una Pace che tarda a venire e una Speranza che brilla a tratti nello sguardo stanco di perdute stagioni, dove una stretta di mano era patto di lealtà. Solo gli ulivi ne conservano il dignitoso ricordo, nell’abbraccio che non teme la violenza del mondo.
“… Apparteniamo all’inganno/ illusi nel rievocare/ (da) bellezze ancestrali/ indivisibili.// Eppure la bellezza/ è in agguato/ carica di stupore e meraviglia/ di grazia e serenità./ Fraterna…” (Enzo Quarto, “Se ci fosse la luce, sarebbe bellissimo”).
Ecco, “apparteniamo all’inganno” ormai. E il poeta la declina come una cosa certa, inconfutabile e amara, tanto da vanificare ogni “ancestrale bellezza” nella consapevolezza della sua illusione. Pure, la bellezza è là, pronta ad assalirci con la sua presenza incontrovertibile, “carica di stupore e meraviglia”, soprattutto quando la scopriamo in un nuovo stato di grazia e serenità che ci affratella. Abbiamo bisogno di riscoprire la sua Luce.
“… seguii a lungo il volo del fenicottero/ i pensieri si dispersero/ l’immenso mi confondeva/ la bellezza palpitava…”. (Anna Santoliquido, “Palpiti”).
È il momento della pura contemplazione, in cui si avverte come uno smarrimento, un ritrovarsi altrove, dove l’immenso è vertigine e volo perché la bellezza è palpito vivente, frammento d’estasi a renderci immortali. E riecheggia nell’aria “M’illumino d’immenso” di ungarettiano splendore.
“… solo svagato guardiano di stoppie,/ corro a chiudere l’acqua/ mentre forte s’avverte nell’aria/ un selvatico odore di timo e di lavanda.” (Alberto Tarantini, “I miei vecchi in giardino”).
Sono i versi conclusivi di una tenerissima poesia in cui il ricordo struggente dei propri “vecchi” si aggira tra le arse “stoppie” del giardino di casa, un tempo verdeggiante per le amorevoli cure della padrona, attenta a non perdere neppure l’esile filo d’erba. La bellezza è ancora là, accesa di lacrime nella memoria del figlio, “solo svagato guardiano”, che si adopera come può, mentre risente forte come allora “un selvatico odore di timo e di lavanda”.
“… Lo stendardo della/ mia vita/ sventola illuminato/ da un minuscolo/ raggio di sole/ come speranza di verità” (Monica Tommasicchio, “Vincere la paura”).
Svettanti di fierezza questi versi che puntualizzano la bellezza di ogni verità, sospesa al vessillo di giorni che si colmano di Luce e di Speranza.
“… Magari… di tanto in quando,/ potessi inzuppare solo l’indice dentro questo vortice/ ascoltare quel silenzio, commuovermi prima/ e tacere poi su tutto il resto.” (Carlotta Zanobini, “Poca Cosa è dire magari”).
Infine, ecco un ottativo liberatorio e generoso della poetessa verso sé stessa. Una esclamazione che fa del vortice della bellezza che l’assale un calamaio di colori e di emozioni, in cui intingere “indice” per “ascoltare quel silenzio” e commuoversi… perché la bellezza è anche e soprattutto emozione. Di più: commozione. Ci rende fragili e forti. Ci lascia senza parole…
Il Libro d’Arte si chiude qui e lascia anche me senza parole, anch’io vinta da tanta bellezza. Ci sono altre note critiche a corredarlo, ma lo scrigno si chiude a testimoniare nel tempo il Sogno della Bellezza “dipinta e parlata” (Mario Sicolo) a donarci ancora occhi di “stupore e meraviglia” (Enzo Quarto).
La serata, però, ha avuto ampi momenti di rara commozione per la presenza delle figlie di Michele Campione; per la Relazione attenta e affettuosa di Nicola Pice in ricordo del grande giornalista e poeta; la Presenza di Vito Signorile e la sua straordinaria lettura della poesia di Alessandra Campione; il Racconto molto suggestivo e dettagliato di Lucia Anelli sulle tele dei tre Pittori, anche attraverso una profonda lettura psicologica delle immagini; la Recita molto partecipe di alcune poesie dei vari Autori presenti da parte di alcuni Lettori in maniera emotivamente coinvolta e convincente; il Saluto orgoglioso di Cettina  Fazio Bonina, le Foto-ricordo, gli Abbracci…
Vorrei solo concludere con una riflessione: non siamo cercatori di Bellezza, come da qualche parte si continua a dire, perché, a mio parere, la bellezza è ovunque. Basta guardarsi intorno per venirne sommersi. Abitiamo in un Paese che è un Museo d’Arte a cielo aperto. Abbiamo e siamo la Bellezza declinata in tutti i modi: bellezza naturale, architettonica, pittorica, poetica, musicale, artistica nel senso più ampio e compiuto. Dobbiamo, perciò, recuperare solo gli occhi di stupore perché tanta bellezza ci penetri dentro e ci renda migliori, più vicini al Creato e a Dio.
Piango di dolore e di rabbia quando vedo bambini, ragazzi, giovani e adulti, con gli occhi affondati nelle immagini dei tablet, ignorare il mondo che li circonda: si perdono gli occhi degli altri, i sorrisi, le parole. Si perdono l’azzurro del mare, i petali di un fiore, il colore del vento quando sfiora l’erba dei prati, il mistero delle stelle nel silenzio del loro incanto. Si perdono la vita nel suo dinamismo, nel suo viaggio alla scoperta del mondo per incontrare gli altri e capire sé stessi.
Gli occhi. Sono gli occhi che vanno cercati come il più grande tesoro per ripercorrere la nostra storia quasi fossimo nati alla Luce e alla Bellezza nel nostro primo giorno di vita…
Non possiamo rassegnarci al buio dell’Anima, al silenzio del Cuore…

Angela De Leo

venerdì 22 giugno 2018

Omaggio alla Bellezza - parte prima

Omaggio alla Bellezza

Il 20 giugno, nello sfarzoso e suggestivo Colonnato della Città Metropolitana di Bari, che si affaccia sul mare, si è tenuta l’Inaugurazione della Mostra “OMAGGIO ALLA BELLEZZA”, dedicata a “… un cercatore e cantore della bellezza, Michele Campione…” con Opere pittoriche di Luigi Basile, Cataldo Mastrorilli, Enzo Morelli.
La catturante Mostra è stata progettata e fortemente voluta dall’infaticabile Enzo Morelli che l’ha affidata, per l’organizzazione e la realizzazione, alla sempre entusiasta e accogliente Cettina Fazio Bonina, Presidente dell’Associazione Porta d’Oriente, ottenendo il Patrocinio di vari Enti ed Istituti.
È stata corredata, inoltre, da un Libro d’Arte avente lo stesso titolo OMAGGIO ALLA BELLEZZA (SECOP Edizioni, Corato-Bari).
Per chi ha avuto, durante la festosa serata, la fortuna di sfogliarlo è stato senza dubbio un piacere per gli occhi e per il cuore, in totale adesione con la Mostra e i temi raccontati dalle preziose tele. Tra le sue pagine, infatti, alle Opere dei tre grandi Artisti fanno corona le poesie di quindici Poeti pugliesi che hanno perlopiù cantato la Bellezza della nostra Terra.
Il Libro, intanto, ha una copertina fascinosa perché vivacizzata dai colori della creatività immaginifica, che fanno da sfondo al titolo, scritto quest’ultimo in forma più sobria e chiara, con grafia molto elegante, su un quadrato scuro illuminato dal bianco della scrittura. All’interno, subito i nomi dei Pittori e dei Poeti. Poi, i felici interventi introduttivi di Lucia Anelli, per la Pittura, e di Mario Sicolo, per la Poesia. Nomi che in Puglia sono molto noti, per cui non hanno bisogno di presentazioni.
La migliore presentazione si fa spazio nelle loro imperdibili parole.
“Un dolce vento passeggia tra le fronde e sinuoso s’inerpica tra le pieghe del tempo, emblema di un appassionato connubio tra Natura e Uomo, sospiri vagheggiati e onirici viaggi verso mete lambite dal cielo. Tutto conforma un’idea di bellezza assoluta, del corpo, dell’arma, del creato…”.
Come non lasciarsi catturare dalla bellezza di questo incipit sulla passeggiata attenta, colta e curiosa tra i dipinti dei nostri tre Artisti?   
“Immaginate un abbraccio intenso - diremmo quasi un ‘amplesso’, secondo rigoroso etimo latino - fra lirici colori e versi cromatici, tele suadenti e onirici componimenti, paesaggi lontananti e arcane parole, ed avrete ‘l’idea’ che state sfogliando in questo momento…”.
E quest’altro incantato inizio, in cui fanno già capolino suggestive figure retoriche
a connotare la penna di chi ha vergato queste sottili parole come lame di luce a scavare nei versi dei tanti Poeti?
Poi, ecco sfolgorare di cilestrino sorriso la soglia della passeggiata tra le tele e i colori e le forme di una pittura che ha modalità antiche e respiri contemporanei, immersi come sono tutti in una particolare luminosità che riveste di splendore il sogno e la poesia.
Così ci appaiono le (ma)donne di Luigi Basile: abbaglianti. Sensuali e tenere, peccaminose e innocenti, angelicate e fortemente radicate alla terra tra spighe dorate e celestiali grappoli di cielo in caduta libera. Sono bellissime Primavere alla Botticelli, in una rivisitazione tutta contemporanea per le vesti, i volti, la estemporaneità di alcune situazioni raccontate, le pose tra reminiscenze classiche e umori moderni…
E, tra un dipinto e l’altro, ecco le poesie che cantano e incantano, che dicono e celano, che ricordano o volano verso un futuro ancora possibile. Visionarie o realistiche, essenziali o fluviali, hanno tutte un mistero da svelare e una verità da tacere… i luoghi del cuore e i ricordi antichi… I silenzi che non temono le domande, ma tacciono le risposte pulsanti d’anima… I sogni cercati come pepite d’oro a trasformare la Bellezza in ragione di vita… La purezza adamantina di ogni forma d’Arte… L’incanto degli occhi bambini a rendere magica ogni cosa…
“… un cucchiaio di paesaggio dopo i pasti principali/ la morte seduta sul comò in camera da letto/ riconoscere lei dalla camminata lui dalla voce/ la viacrucis che ripassa a memoria misteri & misteri/ il quaderno di facce dialettali per i giorni feriali/ il bello del paese è tutto questo e altro ancora.” (Lino Angiuli, “Il bello del paese è”).
Oppure
“Seppellire i frammenti/ entro il muro della restrizione o legarli/ come avviene per l’arcobaleno/ dopo la tempesta?/ Come se la morte/ ci dipingesse ognuno/ volto di risposte frammentarie/ o di domande confluite/ nel parallelismo/ dei silenzi. (Carlo Alberto Augeri, “Una meditazione poetica”).
E ancora
“… La magia di un abbraccio imprevisto/ Un tratto ardito sulla tela/ Un cielo arrossato di nuvole/ Il volo sospeso di un gabbiano/ mani sapienti che lavorano argilla/ Il tronco inquieto di un ulivo/ Un mare solcato di luce/ Un fiore tremulo nel vento/ Il sole ad ogni alba/ Una spugna trasportata dalle onde/ Quale la meta del mio cercare?...” (Alessandra Campione, “Cercatore di sogni”).
Già, quale la meta, se il viaggio è il prodigio dell’andare che fa fiorire sogni ad ogni incontro di sole, ad ogni inquietudine che l’ulivo suggerisce e suggella, ad ogni cielo che si fa specchio di mare e ad ogni mare che ha un’onda leggera controvento? Non è il viaggio più importante dell’arrivo? È tutta qui la Bellezza, nel ricamo dei giorni che andiamo a dipanare lungo il cammino con occhi sempre nuovi e ardenti…
Inoltre
“Un cristallo di neve, una piuma d’uccello/ la geometrica purezza d’un diamante/ stringono il senso d’un altrove…” (Sergio D’Amaro, “Un cristallo di neve, una piuma d’uccello”).
Infine
“S’intrecciano corolle e pensieri/ su ardenti spini che hanno ali leggere/ a sfioccare in volo l’argentea lanuggine/ che ebbe un tempo le mie mani bambine/ a racchiudere a nido l’immenso tesoro…” (Angela De Leo, “Murgia magica”).
E il pensiero corre a quell’“occhio di Gesù” che rincorrevamo da bambini col cuore in tumulto per l’immenso tesoro che racchiudevamo nelle mani quasi fosse bellezza assoluta e arcano incanto…
Poi sono le tele di Cataldo Mastrorilli a riportaci indietro nel tempo in un tripudio di rossi infuocati come le fiamme nei camini e i panni stesi ai balconi delle imminenti sere, in cui non accadeva nulla se non il raccontarsi la fatica e il dolore, o i lupi di tramontana negli arrossati tramonti, urlanti al cielo l’asprezza della vita. E finestre sospese tra innocenza di bianche lenzuola e incendi di avvenute perdizioni affacciate all’alba dei galli a svegliare il nuovo giorno, tra un giallo di limoni montaliani e una fioritura di volti antichi al sopraggiungere di una scontata quotidianità...
E le poesie si riprendono il loro spazio per cantare:
“… il viaggio potevamo continuare/ agli arcobaleni in gemme di sogni/ andare ch’era sempre preludio/ per una terra che vive di bellezza/ il risveglio nell’aprile del mio sud/ e quel tanto che ci resta da amare…” (Zaccaria Gallo, “Questo Fragile Bene”).
Il viaggio ci precede e ci segue in questo nostro vagabondare in cerca di bellezza, che germoglia, con tutti i nostri sogni, ancor di più in ogni attesa meravigliosa primavera. E i “sandali di crepuscolo” che affondano “nell’erba”, già rilevati dall’occhio acuto e romantico di Mario Sicolo, sono già di per sé Poesia…
“Dentro una sera/ senza tempo/ i lumi bassi/ i tiepidi approdi/ un vergine respiro/ che scruta luna e abissi./ E quieto mare/ infine e quieta sera/ di serena luce e lieve canto…” (Valentino Losito, “Sera senza tempo”).
Quanta dolcezza e bellezza in questa sera “senza tempo”, in cui “i lumi bassi” definiscono una penombra che è “quiete” e respiro, sollievo dalle fatiche del pieno giorno e preghiera di ringraziamento del giorno concluso in un “profondo battito” della terra, “rivelando alfine l’essenza del suo io a sé stesso” (Mario Sicolo).
“… È morto invece come/ fosse stato uno degli uccelli/ che così tanto amava:/ dopo giorni di tenue pigolio,/ con la debole mano accoccolata nella mia./ So che agognava di spiccare il volo!” (Marta Mizzi, “La bellezza del ricordo”).
Anche la morte può rivelare una nascosta e suggestiva bellezza se è l’amore di una figlia a raccontarcela “accoccolata” nel nido sicuro e tenero della propria mano.
“… alla bellezza preme/ raccogliere/ le carezze degli sguardi dei puri,/ adunando occhi/ smarriti di drammatico stupore./ Semplice la tela e d’amore.” (Marino Pagano, “Dove respira la bellezza”).
Mi “preme” sottolineare la forza e la potenza esecutiva di questo stilema (“preme”), che è a fine verso per dilatarsi libero verso quello successivo in una sorprendente espansione di senso dolcissimo che si compie nelle “carezze degli sguardi puri”. La bellezza è innocenza e tenerezza. È stupore e smarrimento. È ricamo d’amore sulla tela dei giorni. 

mercoledì 20 giugno 2018

L’eterno istante. La Mostra. Il catalogo.

Domenica 17 giugno si è conclusa felicemente la Mostra fotografica L’Eterno Istante del grande Artista Giovanni Gastel al Broletto di Como. A cura di Maria Cristina Brandini, coadiuvata, in questa titanica impresa, dal Presidente della Commissione Cultura Comune di Como, Franco Brenna, dall’intera Amministrazione Comunale e dall’infaticabile staff di Gastel.
Oltre i calici levati per il grande Successo della Mostra, restano, a testimoniare le serate culturali che l’hanno insolitamente ma opportunamente corredata, le Fotografie, il romanzo giovanile Duetto Profano (SECOP Edizioni, Corato-Bari), la raccolta di poesie Io sono una pianta rampicante (SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo-Milano) e il Catalogo: L’Eterno Istante. La Mostra. Giovanni Gastel.
In pratica, la mirabile sintesi di tutte le passioni creative e artistiche del Nostro: le Immagini, le Parole in prosa e in poesia, la Bellezza e l’Armonia nelle loro più ampie e svariate forme.
Di Duetto Profano e di Io sono una pianta rampicante ho parlato ampiamente e con dovizia di particolari contenutistici e formali, mi piace ora raccontare il Catalogo che ha fatto da corona e da sfondo a tutta la Mostra.
Sul bianco luminoso della copertina ecco definirsi, in un riquadro stilizzato che visualizzo come un sipario da palcoscenico, un corpo di donna, sinuoso ed elegante nell’abbagliante splendore del prezioso pizzo del corpino, e cascata spumeggiante in un franare di neve a riversarsi sul nero tubino che l’avvolge, quasi coda ondeggiante di sirena a trascinare negli abissi dei fondali marini gli incauti naviganti che si attardano ad ascoltare, incantati e perduti, il loro canto. Ma qui contrastano anche le grandi ali delle braccia a spiccare il volo, e il volto inebriato verso tanta luce e tanto cielo. Niente di più raffinato, elegante, armonioso. Comprese le scritte in rosso del titolo della Mostra e dell’Artista.
Soglia del mondo incantato, tra il reale e l’onirico, che questo scrigno di rara bellezza racchiude. Notevoli, anche, gli scritti che fanno da Proscenio alla Mostra. Tutti di una eleganza stilistica e profondità contenutistica straordinarie, rivelano l’entusiasmo e la gioia di realizzare un sogno a lungo vagheggiato: portare Gastel e le sue Passioni Artistiche nella “sua amatissima Como”, città che lo ha visto bambino incantarsi sul lungolago o giocare, spensierato e attento, nell’immenso parco di Villa Erba, residenza di parte della famiglia materna, discendente dei Visconti di Modrone. Gli interessanti interventi rivelano l’amore avvolgente di questi Prefatori per l’amico fraterno Giovanni, e per il suo indiscutibile genio. Dal sindaco di Como, Mario Landriscina, al Presidente Commissione Culturale Comune di Como, Franco Brenna, dall’appassionata e infaticabile curatrice, Cristina Brandini, al fidato gallerista, Valerio Tazzetti, fino alla meravigliosa poesia dello stesso Artista che è il nucleo fondante della sua Personalità e della sua Arte: un angelo di marmo nel Duomo di Milano colpisce la fervida fantasia di un ragazzino “arrogante” e visionario che sente la voce dell’essere alato preconizzare il suo destino di albatro che sperimenterà l’ebbrezza del volo altissimo, ma anche la solitudine che quel forare il cielo e andare oltre comporterà. Precognizione avveratasi in pieno. Oggi Giovanni Gastel è sempre dimidiato tra la libertà del volo nel suo mondo di sogno e il franare malinconico e disperato nell’abisso di una realtà che fa male e che vuole dimenticare per non avvertire le ferite e il disinganno. E le sue Foto e i suoi Scritti ne sono la inconfutabile conferma. Anche l’immagine di copertina evidenzia tale dicotomia: il bianco luminoso delle ali in volo verso spazi sempre più alti e più ampi, e il nero abissale del tunnel ad avvolgerlo ad ogni contatto con la terra e con il mondo della realtà e della concretezza.
Poi, il suo Teatro. Le sue Immagini. Le sue Fantasie. I suoi Personaggi che si raccontano e lo raccontano. In ogni simbolo. In ogni verità. In ogni passaggio esistenziale e artistico a descrivere fortemente i suoi percorsi umani e professionali.
La prima foto non smentisce quanto detto sin qui.
Ecco una donna-conchiglia di un bianco avoriato su sfondo nero, con una particolarità: il volto assorto ed enigmatico con lo sguardo lontano è diviso a metà dal vortice della conchiglia che crea trasparenze lunari nella metà che avvolge, lasciando in ombra l’altra metà. E persino il fiore rosso delle labbra chiuse risente della dimidiazione tra segreti di voci da riportare all’orecchio in un turbinio di onde senza fine, e segreti di voci da dimenticare nella penombra scura di ogni tormento (Gastel e la sua anima di pari passo con la sua Arte).
Anche la seconda foto gioca la sua misteriosa essenza sul bianco e il nero, questa volta non più divisi, ma sapientemente annodati in volute che labirintano una donna-fiore e gambo esile su cui esplode un fiore (gardenia o camelia), attraversato da onde di luce, o una donna-cigno, pronta a spiccare il volo con le sue mani-piume in una posizione di slancio, frenata appena dalla sospensione di occhi titubanti e perplessi, in attesa di un vaticinio che la spinga ad osare…
La terza è ancora magia di ali in una danza che cupola l’esile corpo di donna e la sua fiamma a bruciare palpiti in un luogo definito di morbida attesa, che poco spazio lascia, però, al vuoto su cui si curva ad arco e all’orizzonte del sogno…
Xandra è un’offerta di sé dolente e sincera: “eccomi, sono qui nella mia nudità pudica e mai esibita… prendimi… ho ancora sogni di dolcezza tra riccioli di miele… ascoltami…”.
Lynn, invece, di rosso vestita come un tulipano capovolto, conosce le strategie vincenti di una seduzione sicura e maliziosa, che si slarga in un sorriso invitante, tra una virgola di ricciolo tentatore e una schiena nuda che s’illumina di intenzioni…
Poi, Monica Bellucci e Susie Bick e Naomi Campbell così sicure e fiere della loro bellezza, e Charlbi Kriek ancora con le ali bianche, arruffate e leggere su un abito da sposa con strascico annodato in tante volute (i condizionamenti familiari mai del tutto vinti?), che fa da contraltare alle gabbie grigie, alludenti ad una libertà condizionata che rischia di perdersi dietro sbarre paventate, ma reali: il destino forse di donna promessa dipinto sul volto bellissimo e pensieroso perché sa che si è lasciata imprigionare già dai tanti monili che strangolano il suo collo di cigno e vincono la fragilità delle sue braccia… riuscirà mai più a volare?
E poi altri volti di donne bellissime, cupe, spavalde, pensose, sicure, volitive, arroganti, folli sotto veli arruffati come i pensieri, ora cupi, ora più distesi e svettanti, ma mai chiari e luminosi a dare una svolta certa nella vita (vedi: Shalom Harlow).
Incantevole la foto di Xandra alla Scala.
Tra i rossi drappeggi in verticale del sipario ancora chiuso ecco l’ansia dipinta sul volto di lei intento a “spiare” il pubblico se numeroso o meno e tra le mani tiene stretto il suo tesoro, la sceneggiatura, di quanto andrà a vivere e a far vivere su quel palcoscenico che corona i suoi sogni. Racchiusa come un gioiello in vesti scure con lame dorate a illuminarla e trafiggerla (illusioni sotto le varie maschere che il Teatro rende vere. Dove la verità solo nella finzione o viceversa? Il dubbio rimane).
E ancora la serie dei bianco-neri a rendere magiche le donne di ieri e di oggi nei lampi di luce che le sottraggono ai grigi di un’esistenza senza nome. Tra giochi di ombre e classicità greco-orientali, rimane il mito, il sogno, il ricordo del grande Gatsby, le piume di struzzo della donna-uccello (Michael Kors?), imprigionata da sottili fasce nere (stile petticoat dell’800) e con ali di carta senza volo. Dialoga con un cinerino a rispondere al suo silenzio con una eco di voce che solo il volatile sa e riconosce.
Infine, la seria mistica ma non troppo degli Angeli caduti che da soli valgono l’intera Mostra: angeli androgeni o decisamente femminili, con ali bianche ancora in volo o nere come la notte. Angeli che precipitano a testa in giù e angeli precipitati con negli occhi la sorpresa, il disorientamento, la dispersione della propria identità in un luogo sconosciuto che fa paura perché nuovo e diverso. Angeli pentiti e angeli senza alcun rimorso o pentimento. Bisognerebbe descriverli uno ad uno. Ci vorrebbe un trattato.
Ancora una volta le stratosferiche contraddizioni gasteliane: non angeli che volano, ma angeli che precipitano senza più la speranza di un perdono, di tornare nella azzurra luminosità del Cielo.
Un po’ mi fanno pensare a Giovanni Gastel bambino nel suo Eden dorato e lontano dal mondo degli uomini. La sua desatellizzazione dal nucleo familiare, protettivo e severo nelle sue regole culturali, nel solco di una tradizione etico-religiosa, e tutto in sé conchiuso, è un precipitare nell’abisso di un mondo altro dove il disordine e la violenza regnano sovrani, lasciando il giovane rampollo di una storica casata lombarda in balia di uno sperdimento, che è angoscia, ferita e dolore. Con le uniche risorse: le Immagini, le Parole. Le sue Ali di ricambio per tentare nuovi Voli. Un predestinato? Forse. Le ultime Ali sono bianche di Salvezza, sono saldamente legate alla fanciulla occhi di sfida sotto un cielo torbido che non promette nulla di buono. Ma le sfide servono a temprare lo spirito, a far superare la paura, a tentare nuovi percorsi, nuove possibilità di rinascita.
“La creatività ci fa rinascere infinite volte” (Erich Fromm).
È quanto sembra affermare nel suo intervento conclusivo l’Artista, parlando di sé e della sua vocazione all’Arte in tutte le sue molteplici desinenze. Vocazione nata proprio sulle acque del lago di Como, dove ha incontrato l’Eleganza della natura e lo “splendore delle architetture e dei giardini poggiati sull’acqua”, definendo una Perfezione che si realizza in una perenne Armonia. Rimasta per sempre negli occhi e nel cuore di quel ragazzino irrequieto, ma già tanto attento alla “‘magia’ del reale”. Lui è consapevole dell’“immenso” privilegio che gli è toccato in sorte, ma anche dell’  “immensa” responsabilità di dover essere all’altezza della situazione, sfruttando al massimo i suoi “immensi” talenti per andare oltre ogni possibilità umana.
Esaltazione e perdizione insieme. Vinte col suo cuore colmo di tanti doni, tra cui il più grande: l’Amore, come dono di sé agli altri.
Anche Maria Cristina Brandini è tutta quanta in questo Catalogo, curato con passione, intelligenza, raffinatezza, per rendere omaggio a Giovanni Gastel, con la sua Personalità dimidiata, le sue Opere e le sue Passioni.
Il ringraziamento ammirato e affettuoso del grande Artista le giunge da queste stesse pagine ed è il più appagante degli apprezzamenti, avendo egli stesso ritrovato nella Mostra L’Eterno Istante al Broletto di Como tutti i valori etici ed estetici del suo meraviglioso lago, scoperti con gli occhi bambini e portati nel cuore sempre e dappertutto.
E questo splendido Catalogo rimarrà a testimoniarlo nel tempo e nello spazio di questo eterno presente che è la nostra vita.
                                                                                                Angela De Leo