venerdì 8 giugno 2018

Divagazione per focalizzare una serata speciale - prima parte


Serata magica ieri, per me e Peppino, al Broletto di Como per presentare i due libri di Giovanni Gastel all’interno della Mostra delle sue meravigliose fotografie “L’eterno istante”, curata nei minimi particolari e con particolare cura da Maria Cristina Brandini, grande amica del noto Artista.
Quella di ieri è stata la terza serata dedicata alle opere di Gastel: la favolosa inaugurazione del 26 maggio; il dibattito/confronto del nostro Autore con due suoi amici e colleghi di grande levatura nel campo della fotografia a livello mondiale del 4 giugno; e, appunto, la presentazione delle sue due opere letterarie di ieri 6 giugno. Il 17 prossimo la Mostra si concluderà, registrando un grande successo di pubblico, di interventi, e di presenza su numerosi canali televisivi e molte testate giornalistiche. Lascerà in tutti noi una lunga eco e il rimpianto delle cose belle che purtroppo, come tutte le imprese umane, hanno un inizio e una fine. Quando son grandi, però, lasciano fiorire germogli per nuovi Progetti e nuovi Sogni da realizzare. Nel tentativo di contagiare Bellezza e Cultura perché il mondo si innamori dell’Arte con Amore, sollecitando rinnovati impulsi alla Speranza…
Dunque, ieri. Dopo un viaggio a dir poco avventuroso e caotico, siamo alfin giunti a destinazione, ma ahimè quando tutto volgeva al termine, vanificando presenza e interventi della sottoscritta durante l’intera serata. Per fortuna, Giovanni Gastel non è stato lasciato da me a parlare dei suoi libri senza interlocutrice. Aveva al suo fianco la curatrice della raccolta di poesie “Io sono una pianta rampicante”. Ritengo che abbiano dialogato sul libro con grande “maestria” e “sapientia cordis”.
Per fortuna, essendo arrivata a pochi minuti dal commiato, mi è stata “concessa”, con grande generosità e affettuosità da parte dell’Autore e di Maria Cristina Brandini, la possibilità di concludere la serata. Onestamente, ritengo di aver girato per qualche minuto a vuoto intorno al romanzo giovanile “Duetto Profano”, di cui avrei dovuto parlare, dialogando brevemente con Giovanni Gastel, e dell’opera poetica, di cui avrei potuto/dovuto leggere e commentare qualche poesia. Stanca, assonnata, trafelata e sudatissima per la tensione e l’emozione, credo di aver farfugliato qualcosa (come la visione post della diretta mi ha confermato ad imperituro scorno), aggiustando via via il tiro per non rovinare la serata ai padroni di casa, così solerti e attenti a mettermi a mio agio. Insomma, ho concluso io la serata, racimolando anche degli applausi e delle congratulazioni e un tenero baciamano dal grande grande grande Artista, con invito a cena e divertite e divertenti conversazioni a due passi dal lago in un prestigioso ristorante, immerso nel verde e… nel suo raffinato menù.
Insomma, sono ancora ubriaca di parole, ma anche senza parole, ancora in totale intontimento per l’atmosfera calda e armoniosa che è venuta a crearsi tra i commensali e un paio di grandi calici di ottimi cocktail alcolici. Non posso essere dettagliata. Sono ancora sotto stress emotivo.
E, così, per farmi perdonare un po’ da tutti e soprattutto dal Nostro, ho pensato di riportare qui un’analisi critica non già del romanzo, di cui ho disquisito abbondantemente nei giorni seguenti alla sua pubblicazione, circa un mesetto fa, sempre sulle pagine del mio blog, ma della raccolta di poesie, un po’ per “par condicio” e un po’ perché è un libro che, nel suo insieme, mi ha catturato molto. È uno scrigno prezioso di poesie, di ritratti di famiglia, di spazi vuoti, di luoghi e date, perlopiù senza titoli e senza soluzione di continuità. Quasi un racconto poetico lungo, fatto di improvvise emozioni, percezioni della realtà ed echi di memorie lontane nel tempo e nello spazio, ma vive più che mai nell’anima del poeta, in un “infinito presente”, che, nel suo modo e tempo verbale, azzera ogni passato e ignora ogni futuro per attualizzare, in un unico istante, tutta una vita.
“Io sono una pianta rampicante”: titolo molto suggestivo, ma già di per sé ossimorico” (come del resto anche il titolo del romanzo e come gli stessi campi semantici di numerose sue fotografie. Vedi la serie degli “Angeli caduti”), connotativo della stessa personalità dell’Autore, coacervo di laceranti contraddizioni, di cui la sua Arte e il suo Genio si nutrono... si tratta di un ossimoro che vale la pena di scoprire: già in quell’“Io” c’è tutto il desiderio di Giovanni Gastel di affermare sé stesso, la propria innegabile esistenza in un mondo che poco gli appartiene (tutto ciò che non appartiene al suo mondo e che sente “altro da sé”) e che è necessario conoscere per farsi “riconoscere”. Ne è la conferma il “sono”. ‘Io sono: eccomi qui. Mi presento perché ho bisogno di integrarmi in un mondo perlopiù sconosciuto nei suoi meandri più riposti e, perciò, più infidi. Non è più tempo di rimandare, di chiudere gli occhi su realtà che mi fanno paura perché non so come affrontare, abituato come sono ad altre regole, ad altri vissuti’.
Ma subito dopo, ecco un articolo indeterminativo: “una”, che affievolisce quella identità così fortemente rivendicata. E poi ancora: “una pianta”. Una pianta come ce ne sono tante. Una creatura vivente che ha un suo spazio, il suo habitat, e che attende, magari, cure e premure in cambio di verde, ombra, lievità di foglie. Con una caratteristica connotante, però: ‘sono una pianta rampicante. Ho bisogno di una via in verticale perché ho necessità di sole, di cielo, di libertà. Ma il mio stelo è troppo sottile e fragile per potercela fare da solo. Temo di piegarmi sotto gli uragani e le tempeste, sotto il mio quotidiano vivere in una fuga continua dal terreno di pietre e rovi in cui affondano le mie radici: intrico di foglie e di rami (vedi foto) che solo a tratti lasciano filtrare il sole, il chiarore del giorno. Mi attraversano macchie di buio a incutermi paura. E ho bisogno di luce. Sì, ho bisogno di essere tutto quello che sono in un confronto continuo con la realtà che mi circonda in una trama di fili visibili (terra e radici e pietre e foglie e rami) e invisibili (agguati, paure, tremori) che altri non sanno’… Sono una pianta rampicante/ che ha cercato la sua strada/ in un territorio sconosciuto./ Ma non mi sono smarrito./ Metafora dell’anima cercata/ l’istinto ha guidato i miei passi/ giorno dopo giorno.
All’interno della raccolta sparisce l’“Io” del titolo in copertina perché ora il poeta non deve affrontare il “territorio sconosciuto”, perché mai vissuto in quanto mai abitato, davanti al quale la copertina (soglia e varco dell’intera raccolta) lo pone, per seguire la “sua” strada. Nonostante tutto, “non mi sono smarrito”. Verso bellissimo, quasi un flusso di coscienza. Un parlare di sé a sé stesso, rivendicando con fierezza la sua capacità di resistere, sorretto dall’istinto “che ha guidato i suoi passi”, o dall’“anima cercata”, la parte più profonda e vera di sé, per elevarsi al cielo. E la disposizione delle parole negli ultimi versi sottolinea la meravigliosa ambiguità della nostra lingua: metafora è l’anima cercata, ma anche l’istinto. Anima. Istinto. Ciò che eleva e porta verso la luce e ciò che spinge l’uomo a comportarsi secondo natura. Nessuno glielo ha insegnato. E qui siamo di fronte, come spesso accade in poesia, alla scrittura consapevole che sembra descrivere la realtà e alla scrittura inconscia che racconta la palpitante verità emozionale del momento.
Tutta la raccolta è uno scrigno prezioso di versi e di foto di famiglia che racchiude in sé l’ossimorica vita e personalità del poeta, sempre dimidiate, l’una e l’altra, tra narrazione descrittiva e “sentimento intimo” della scrittura, sempre in sospensione tra l’essere e il non essere, tra il qui e l’altrove, tra l’attimo fuggente e la lunga sequela di giorni di apparente bonaccia.
Come in una terra sconosciuta/ mi muovo circospetto/ in questa anima nuova/ figlia delle tempeste della vita./ Ma tu amore/ abbraccio inatteso/ hai saputo raggiungermi qui/ nel vuoto della mia non appartenenza./ Guarderemoinsieme/ scendere la notte sul mare nero/oltre gli ultimi scogli.
Di qui l’angoscia di vivere continuamente tra questi due estremi: il dinamico vitalismo di tempi frenetici e di viaggi in tutti i Paesi del mondo per un lavoro scelto e amato profondamente, quello di fotografo dal respiro internazionale ad altissimo livello, e il tempo lento del prendere fiato, del lasciarsi andare ad assaporare la tranquillità degli ambienti che conosce, che gli sono familiari, che lo fanno sentire finalmente al sicuro.
La guerra è sospesa/ in questa calma domenica./ Assente oggi la malinconia/ aderisco a questo momento/ come un naufrago/ a uno scoglio inatteso./ Splendi cielo sulle nostre teste felici.
Ma è una tregua che dura poco. Bisogna nuovamente andare… Londra, Parigi, New York, Shanghai, Filicudi, Como, Milano, Cernobbio, Mosca, Gardone, Castellaro, Zanzibar, Istanbul, Il Cairo, Filicudi…
Il libro di Giovanni Gastel, pertanto, si snoda lungo queste tappe di un viaggio senza fine, in versi liberi che non hanno soluzione di continuità, non hanno titoli che etichettano e sintetizzano; non costrizioni metriche o metaforiche. È quasi una “narrazione in versi” come opportunamente sottolinea la curatrice della silloge, la brava scrittrice e poetessa, nonché critico letterario, Barbara Radice nella sua illuminata Introduzione: composizioni che “fluiscono libere. Seguono e inseguono onde di emozioni, sentimenti, memorie, nostalgie, osservazioni, disperazioni, rassegnazioni. Ogni poesia è un’onda e un riflusso. Le onde arrivano una dopo l’altra, si rincorrono, e rifrangono, mentre memorie, nostalgie, annotazioni si moltiplicano. Rientrano, ritornano, rimbalzano e ricadono”.
Benissimo. Le onde sono metafora delle narrazioni poetiche di Giovanni Gastel. Tutto scorre e tutto sembra avvilupparsi in un continuo ritorno di momenti che si ripropongono, si accavallano, si allontanano in un riflusso che va a scontrarsi con altre percezioni, sensazioni, riflessioni, emozioni. I campi semantici sono davvero tanti e altrettante sono le chiavi di lettura interpretative, in uno slargarsi e restringersi continuo di annotazioni e di sguardi lunghi, oltre gli orizzonti del suo campo visivo e della sua anima. L’école du regard, sorta in Francia tra gli anni Cinquanta-Sessanta dello scorso secolo, fa costantemente capolino nei versi del poeta.
Ma alle onde (che producono il rumore del mare e della sua risacca con folate di venti contrari a sollevarle e a direzionarle, ma con le sotterranee correnti dei fondali marini a produrle inizialmente) a me piace aggiungere le conchiglie (che sono la voce che si frammenta in tante voci altre) da portare al nostro orecchio.
Il canto del mare in corsa col tumulto dei battiti del cuore.
E poi c’era il rumore delle onde/ quel ritmo costante/ come il battito del cuore.
Le voci. Quelle dei dialoghi e dei soliloqui, quelle delle domande e delle risposte, ricevute o mancate. Quelle del passato e del presente. Quelle che l’Autore porta continuamente al suo sensibilissimo “orecchio acerbo”, che sente la primordialità della natura e della vita, e quello più raffinato che si nutre di memoria e ricordi, di assenze sempre presenti, di riflessioni e nostalgie. Con malinconia. Con ironia. Con disincanto. In una continua dimidiazione dell’Io sempre presente e sempre assente in un luogo e nel suo altrove. (fine prima parte).
Angela De Leo

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