Serata magica ieri, per me e Peppino, al Broletto di
Como per presentare i due libri di Giovanni Gastel all’interno della Mostra
delle sue meravigliose fotografie “L’eterno istante”, curata nei minimi
particolari e con particolare cura da Maria Cristina Brandini, grande amica del
noto Artista.
Quella di ieri è stata la terza serata dedicata alle
opere di Gastel: la favolosa inaugurazione del 26 maggio; il
dibattito/confronto del nostro Autore con due suoi amici e colleghi di grande
levatura nel campo della fotografia a livello mondiale del 4 giugno; e,
appunto, la presentazione delle sue due opere letterarie di ieri 6 giugno. Il
17 prossimo la Mostra si concluderà, registrando un grande successo di
pubblico, di interventi, e di presenza su numerosi canali televisivi e molte
testate giornalistiche. Lascerà in tutti noi una lunga eco e il rimpianto delle
cose belle che purtroppo, come tutte le imprese umane, hanno un inizio e una
fine. Quando son grandi, però, lasciano fiorire germogli per nuovi Progetti e
nuovi Sogni da realizzare. Nel tentativo di contagiare Bellezza e Cultura
perché il mondo si innamori dell’Arte con Amore, sollecitando rinnovati impulsi
alla Speranza…
Dunque, ieri. Dopo un viaggio a dir poco avventuroso
e caotico, siamo alfin giunti a destinazione, ma ahimè quando tutto volgeva al
termine, vanificando presenza e interventi della sottoscritta durante l’intera
serata. Per fortuna, Giovanni Gastel non è stato lasciato da me a parlare dei
suoi libri senza interlocutrice. Aveva al suo fianco la curatrice della
raccolta di poesie “Io sono una pianta rampicante”. Ritengo che abbiano
dialogato sul libro con grande “maestria” e “sapientia cordis”.
Per fortuna, essendo arrivata a pochi minuti dal
commiato, mi è stata “concessa”, con grande generosità e affettuosità da parte
dell’Autore e di Maria Cristina Brandini, la possibilità di concludere la
serata. Onestamente, ritengo di aver girato per qualche minuto a vuoto intorno
al romanzo giovanile “Duetto Profano”, di cui avrei dovuto parlare, dialogando
brevemente con Giovanni Gastel, e dell’opera poetica, di cui avrei potuto/dovuto
leggere e commentare qualche poesia. Stanca, assonnata, trafelata e sudatissima
per la tensione e l’emozione, credo di aver farfugliato qualcosa (come la
visione post della diretta mi ha confermato ad imperituro scorno), aggiustando
via via il tiro per non rovinare la serata ai padroni di casa, così solerti e
attenti a mettermi a mio agio. Insomma, ho concluso io la serata, racimolando
anche degli applausi e delle congratulazioni e un tenero baciamano dal grande
grande grande Artista, con invito a cena e divertite e divertenti conversazioni
a due passi dal lago in un prestigioso ristorante, immerso nel verde e… nel suo
raffinato menù.
Insomma, sono ancora ubriaca di parole, ma anche senza
parole, ancora in totale intontimento per l’atmosfera calda e armoniosa che è
venuta a crearsi tra i commensali e un paio di grandi calici di ottimi cocktail
alcolici. Non posso essere dettagliata. Sono ancora sotto stress emotivo.
E, così, per farmi perdonare un po’ da tutti e
soprattutto dal Nostro, ho pensato di riportare qui un’analisi critica non già
del romanzo, di cui ho disquisito abbondantemente nei giorni seguenti alla sua
pubblicazione, circa un mesetto fa, sempre sulle pagine del mio blog, ma della
raccolta di poesie, un po’ per “par condicio” e un po’ perché è un libro che,
nel suo insieme, mi ha catturato molto. È uno scrigno prezioso di poesie, di
ritratti di famiglia, di spazi vuoti, di luoghi e date, perlopiù senza titoli e
senza soluzione di continuità. Quasi un racconto poetico lungo, fatto di
improvvise emozioni, percezioni della realtà ed echi di memorie lontane nel tempo
e nello spazio, ma vive più che mai nell’anima del poeta, in un “infinito
presente”, che, nel suo modo e tempo verbale, azzera ogni passato e ignora ogni
futuro per attualizzare, in un unico istante, tutta una vita.
“Io sono una pianta rampicante”: titolo molto
suggestivo, ma già di per sé ossimorico” (come del resto anche il titolo del
romanzo e come gli stessi campi semantici di numerose sue fotografie. Vedi la
serie degli “Angeli caduti”), connotativo della stessa personalità dell’Autore,
coacervo di laceranti contraddizioni, di cui la sua Arte e il suo Genio si
nutrono... si tratta di un ossimoro che vale la pena di scoprire: già in quell’“Io”
c’è tutto il desiderio di Giovanni Gastel di affermare sé stesso, la propria
innegabile esistenza in un mondo che poco gli appartiene (tutto ciò che non
appartiene al suo mondo e che sente “altro da sé”) e che è necessario conoscere
per farsi “riconoscere”. Ne è la conferma il “sono”. ‘Io sono: eccomi qui. Mi presento
perché ho bisogno di integrarmi in un mondo perlopiù sconosciuto nei suoi
meandri più riposti e, perciò, più infidi. Non è più tempo di rimandare, di
chiudere gli occhi su realtà che mi fanno paura perché non so come affrontare,
abituato come sono ad altre regole, ad altri vissuti’.
Ma subito dopo, ecco un articolo indeterminativo: “una”,
che affievolisce quella identità così fortemente rivendicata. E poi ancora: “una
pianta”. Una pianta come ce ne sono tante. Una creatura vivente che ha un suo
spazio, il suo habitat, e che attende, magari, cure e premure in cambio di
verde, ombra, lievità di foglie. Con una caratteristica connotante, però: ‘sono
una pianta rampicante. Ho bisogno di una via in verticale perché ho necessità
di sole, di cielo, di libertà. Ma il mio stelo è troppo sottile e fragile per
potercela fare da solo. Temo di piegarmi sotto gli uragani e le tempeste, sotto
il mio quotidiano vivere in una fuga continua dal terreno di pietre e rovi in
cui affondano le mie radici: intrico di foglie e di rami (vedi foto) che solo a
tratti lasciano filtrare il sole, il chiarore del giorno. Mi attraversano
macchie di buio a incutermi paura. E ho bisogno di luce. Sì, ho bisogno di
essere tutto quello che sono in un confronto continuo con la realtà che mi
circonda in una trama di fili visibili (terra e radici e pietre e foglie e rami)
e invisibili (agguati, paure, tremori) che altri non sanno’… Sono una pianta rampicante/ che ha cercato
la sua strada/ in un territorio sconosciuto./ Ma non mi sono smarrito./
Metafora dell’anima cercata/ l’istinto ha guidato i miei passi/ giorno dopo
giorno.
All’interno della raccolta sparisce l’“Io” del
titolo in copertina perché ora il poeta non deve affrontare il “territorio
sconosciuto”, perché mai vissuto in quanto mai abitato, davanti al quale la
copertina (soglia e varco dell’intera raccolta) lo pone, per seguire la “sua”
strada. Nonostante tutto, “non mi sono smarrito”. Verso bellissimo, quasi un
flusso di coscienza. Un parlare di sé a sé stesso, rivendicando con fierezza la
sua capacità di resistere, sorretto dall’istinto “che ha guidato i suoi passi”,
o dall’“anima cercata”, la parte più profonda e vera di sé, per elevarsi al
cielo. E la disposizione delle parole negli ultimi versi sottolinea la
meravigliosa ambiguità della nostra lingua: metafora è l’anima cercata, ma
anche l’istinto. Anima. Istinto. Ciò che eleva e porta verso la luce e ciò che
spinge l’uomo a comportarsi secondo natura. Nessuno glielo ha insegnato. E qui
siamo di fronte, come spesso accade in poesia, alla scrittura consapevole che
sembra descrivere la realtà e alla scrittura inconscia che racconta la
palpitante verità emozionale del momento.
Tutta la raccolta è uno scrigno prezioso di versi e
di foto di famiglia che racchiude in sé l’ossimorica vita e personalità del
poeta, sempre dimidiate, l’una e l’altra, tra narrazione descrittiva e “sentimento
intimo” della scrittura, sempre in sospensione tra l’essere e il non essere,
tra il qui e l’altrove, tra l’attimo fuggente e la lunga sequela di giorni di
apparente bonaccia.
Come in una terra sconosciuta/
mi muovo circospetto/ in questa anima nuova/ figlia delle tempeste della vita./
Ma tu amore/ abbraccio inatteso/ hai saputo raggiungermi qui/ nel vuoto della
mia non appartenenza./ Guarderemoinsieme/ scendere la notte sul mare nero/oltre
gli ultimi scogli.
Di qui l’angoscia di vivere continuamente tra questi
due estremi: il dinamico vitalismo di tempi frenetici e di viaggi in tutti i
Paesi del mondo per un lavoro scelto e amato profondamente, quello di fotografo
dal respiro internazionale ad altissimo livello, e il tempo lento del prendere
fiato, del lasciarsi andare ad assaporare la tranquillità degli ambienti che
conosce, che gli sono familiari, che lo fanno sentire finalmente al sicuro.
… La guerra è
sospesa/ in questa calma domenica./ Assente oggi la malinconia/ aderisco a
questo momento/ come un naufrago/ a uno scoglio inatteso./ Splendi cielo sulle
nostre teste felici.
Ma è una tregua che dura poco. Bisogna nuovamente
andare… Londra, Parigi, New York, Shanghai, Filicudi, Como, Milano, Cernobbio,
Mosca, Gardone, Castellaro, Zanzibar, Istanbul, Il Cairo, Filicudi…
Il libro di Giovanni Gastel, pertanto, si snoda lungo
queste tappe di un viaggio senza fine, in versi liberi che non hanno soluzione
di continuità, non hanno titoli che etichettano e sintetizzano; non costrizioni
metriche o metaforiche. È quasi una “narrazione in versi” come opportunamente
sottolinea la curatrice della silloge, la brava scrittrice e poetessa, nonché
critico letterario, Barbara Radice nella sua illuminata Introduzione:
composizioni che “fluiscono libere. Seguono e inseguono onde di emozioni,
sentimenti, memorie, nostalgie, osservazioni, disperazioni, rassegnazioni. Ogni
poesia è un’onda e un riflusso. Le onde arrivano una dopo l’altra, si
rincorrono, e rifrangono, mentre memorie, nostalgie, annotazioni si
moltiplicano. Rientrano, ritornano, rimbalzano e ricadono”.
Benissimo. Le onde sono metafora delle narrazioni
poetiche di Giovanni Gastel. Tutto scorre e tutto sembra avvilupparsi in un
continuo ritorno di momenti che si ripropongono, si accavallano, si allontanano
in un riflusso che va a scontrarsi con altre percezioni, sensazioni,
riflessioni, emozioni. I campi semantici sono davvero tanti e altrettante sono
le chiavi di lettura interpretative, in uno slargarsi e restringersi continuo
di annotazioni e di sguardi lunghi, oltre gli orizzonti del suo campo visivo e
della sua anima. L’école du regard, sorta
in Francia tra gli anni Cinquanta-Sessanta dello scorso secolo, fa
costantemente capolino nei versi del poeta.
Ma alle onde (che producono il rumore del mare e
della sua risacca con folate di venti contrari a sollevarle e a direzionarle,
ma con le sotterranee correnti dei fondali marini a produrle inizialmente) a me
piace aggiungere le conchiglie (che sono la voce che si frammenta in tante voci
altre) da portare al nostro orecchio.
Il canto del mare in corsa col tumulto dei battiti
del cuore.
E poi c’era
il rumore delle onde/ quel ritmo costante/ come il battito del cuore.
Le voci. Quelle dei dialoghi e dei soliloqui, quelle
delle domande e delle risposte, ricevute o mancate. Quelle del passato e del
presente. Quelle che l’Autore porta continuamente al suo sensibilissimo “orecchio
acerbo”, che sente la primordialità della natura e della vita, e quello più raffinato
che si nutre di memoria e ricordi, di assenze sempre presenti, di riflessioni e
nostalgie. Con malinconia. Con ironia. Con disincanto. In una continua
dimidiazione dell’Io sempre presente e sempre assente in un luogo e nel suo
altrove. (fine prima parte).
Angela De Leo
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