sabato 9 giugno 2018

“Io sono una pianta rampicante” di Giovanni Gastel - seconda parte


Versi liberi, dunque, eppure ricchi di figure retoriche per un senso innato del bello, che il poeta avverte in sé e trasferisce nelle parole a rendere, nonostante il continuo disincanto, un’atmosfera incantata per l’armonia interna che vi regna.
Da qui ti cerco nel tempo a ritroso/ e obliquo gli occhi tra le persiane./ ed è emozione e stupore ritrovarti/ come macchia di fiori/ chiusa ad arco/ adolescenza mia.
Tra il primo e il secondo verso ecco un enjembement a dare continuità non tanto allo sguardo che s’incanta nel ricordo dell’adolescenza, guardando fuori il paesaggio del cuore, quanto il ricordo stesso perché quello stupore e quella emozione si distendano ad afferrare quella “macchia di fiori” (similitudine che esplode di colori e di profumi) “chiusa ad arco” (verso tenerissimo della visione che incurva anche il cielo) a proteggere il magico splendore dell’adolescenza, età della spensieratezza e dei sogni a cui spesso l’autore ritorna come all’eden della sua vita con tutti i giorni intatti affacciati sul futuro ancora ricco di iridescenti speranze. Proust sempre in agguato. Ma è un idillio che non può durare. Le contraddizioni hanno subito la meglio e quella che sembrava un’età felice si veste di mille apprensioni e di presentimenti che tolgono smalto e fervore di vita ai giovanili anni.
Mi rivedo giovane e sofferente/ in una grande casa./ Fuori il giardino nero come un presentimento./ Non ero pronto allora/ ad apprezzare il tempo./ Pensavo alla morte/ come a un assassino./ Oggi so che tutto l’universo/ finirà con me.
È il rammemoramento dello stesso luogo del cuore, lo stesso giardino, ma il ricordo si è del tutto capovolto e tutto diventa cupo, buio, misterioso. Il corpo langue e la mente è soggiogata da tetri pensieri di morte, ritenuta assassina e responsabile di tante immense paure. Ma, per fortuna, si cresce e si diventa padroni del tempo e dello spazio, almeno per la frazione di un secondo appena perché, poi, tutto viene nuovamente rimesso in discussione.
C’è un’altra notte da vivere./ Oltrepassate le recinsioni/ ancora i demoni/ attaccheranno la mia mente./ Eppure non voglio vivere/ saggio e ragionevole./ La storia degli uomini è/ nell’angoscia della foresta. Con Gastel è come viaggiare eternamente sulle montagne russe, niente è scontato e sempre uguale, neppure lo stato d’animo di un attimo prima corrisponde alla certezza dell’attimo dopo. Tutto viene affermato e smentito, pur nella realtà del momento, pur nell’incubo che ne consegue. Il passare del tempo gli procura angoscia, ma anche il dover vivere ancora una notte gli pesa tanto quanto i demoni a visitarlo, oltre le barriere del buonsenso e dei freni inibitori per vivere con gli altri, in mezzo agli altri. Eppure, non vorrebbe mai una vita regolare, semplice, serena, sarebbe in antitesi con i tumulti del cuore e della mente. Ancora una smentita: “la storia degli uomini è/ nell’angoscia della foresta”. In linea di massima tutto ciò è vero e la metafora “foresta” ben si addice agli oscuri percorsi della vita umana di dantesca memoria. Ma Dante è Poeta che si perde nei meandri della “selva oscura” ed anche Gastel è un poeta: probabilmente è la loro sensibilità particolare a favorire alcuni percorsi di dispersione e di disperazione. Non afferma Henry David Thoreau che “la maggior parte degli uomini vive una vita di quieta disperazione”? Ecco, “quieta”, non tumultuosa. Rassegnata, non ribelle. In una solitudine meditativa cercata, non subita. In quest’ultimo caso, sarebbe stata mal sopportata, fonte di angoscia e di sofferenze. Per fortuna, la scrittura. Necessità di vita è scrivere con le prime ombre della sera per salvare un giorno “vuoto” che finisce, e per salvarsi da quel vuoto che è voragine e disperazione.
ad addolcire un altro giorno vuoto/ di cui non conserverei memoria/ se non per i neri segni che a sera/ inciderò su un foglio bianco.
Ed ogni parola, sia pure inconsciamente o intenzionalmente, è scelta con cura, calibrata nella sua profondità. “Incidere”, per esempio, è azione molto più “incisiva” più forte e determinata di vergare o scrivere. I “neri segni”, piuttosto che i segni neri, riguardano una locuzione che ha una diversa valenza semantica: è una sorta di anastrofe che rende più leggero il segno e lo connota come scrittura.
Io sono un disperso (…) che (…) affida se stesso/ alle parole che scrive.
Ed è un affidarsi totale, quasi un “naufragare” di leopardiana memoria.
Ma anche qui il contrasto sopravviene, come un’onda d’urto che serve a riaffermare con più vigore quanto detto prima.
Ma non essere difensore/ delle parole scritte,/ La vita non consente/ generalizzazioni.
In questo caso, è una contraddizione in difesa della creatività della parola, della individualità di chi scrive e della soggettività di quanto viene scritto. Non così per le parole orali, che volano, non rimangono.
Anche perché le parole non hanno memoria/ non abbassano la voce/ non sono prudenti/ restano con noi finché non c’è più tempo.
C’è una sorta di eternità delle parole nelle voci che ci appartengono, che riconosciamo e teniamo per noi. Ci sembra quasi di averle dimenticate. Poi, basta un richiamo, una frase, una eco ed ecco ritornare prepotentemente a farci gioire o soffrire e la nostalgia ci prende, come per ogni ritorno (nostos), che è gioia, ma anche dolore (algos).
E, del resto, … All’origine tutto era parola.
E qui il richiamo biblico è forte. E il richiamo al Verbo che era presso Dio ed era Dio. Altro topos decisamente contraddittorio per Giovanni Gastel. Anche Dio è un eterno conflitto per lui. Lo cerca, lo invoca, ma spesso rimane deluso. Dio non ha risposte. Se ne avesse non sarebbe più Dio. Non ricordo più chi ha detto che “un Dio che ha bisogno di dimostrazioni non e più Dio”. Il Verbo ha una parola sola. Una sola Verità. Basta riconoscerla. Ma con presunzione gli uomini la cercano nella scienza, che non possiede verità, ma parziali porzioni di conoscenza, suscettibili di essere confutare e capovolte, nel tempo e nello spazio. La cercano nella propria mente, ma non è la razionalità a dare risposte chiare e definitive. Nel cuore che è un “guazzabuglio” di sentimenti e di risentimenti. Forse solo “oltre il muro d’ombra”. Ma forse sarà troppo tardi per credere e per sperare. La fede, unica ancora di salvezza? Forse. Se avessimo il coraggio di credere. È più facile negare che ammettere. Dice lo stesso Gastel, in versi, in prosa, con gli scatti delle sue foto che vibrano di bellezza ma non di verità. Perché ciò accada, Giovanni Gastel cerca nelle sue modelle l’anima. E l’anima cerca nelle parole. La cerca in sé stesso. Non si lascia influenzare dalle regole e dalle mode. Scrive come in quel momento   gli detta il sentimento. E risponde alla “signora grassa”, che lo accusa di scrivere versi che non sono poesia, che non avrebbe difficoltà a scrivere come i canoni dell’“ars poetica” richiederebbero, ma non sarebbero più i suoi pensieri e le sue parole nella loro genuinità. Sarebbero qualcosa d’altro. Concordo. E, per spezzare più di una lancia in favore dei versi di Gastel, sono costretta a fare una breve digressione da “signora grassa” a “signora grassa”: già duecento anni fa Giacomo Leopardi, contravvenendo a tutte le regole della tradizione poetico-letteraria, inaugurò la “canzone libera”, senza più metrica, rima e lacci di vario genere. Poi, col Decadentismo, si ebbe “la più grande rivoluzione”, come sostiene George Steiner: la parola perse il contatto con la realtà e si fece pura astrazione, per tentare di dare una nuova veste alla scrittura e ritrovare il bandolo di una matassa psicologica sempre più confusa in un mondo, in cui Freud cercava di ricomporre l’“Io” frantumato dalle incertezze di un cielo che si sottraeva a numeri e calcoli. Poi, vennero i futuristi, le avanguardie, gli sperimentalisti a dare un fiero colpo alla grammatica e alla sintassi, eliminando i collegamenti logici per privilegiare il significante sul significato. In Francia si affermarono i simbolisti, in Italia i poeti ermetici. Fino alla rarefazione di ogni senso e significato. Dagli anni Novanta in poi, però, fortunatamente la parola sta rivendicando la sua adesione alla realtà, alle cose, alle esperienze realmente vissute. C’è anche una sorta di recupero della metrica e della rima, rivivificate in atmosfere e ritmi diversi. E ognuno può esprimersi come meglio crede purché ci emozione, ci sia Poesia.
Credo sia una conquista pluralistica nella complessità del mondo contemporaneo. Anche la commistione di generi artistico-creativi fa parte di questa ricerca del nuovo nel rispetto della classicità e del sentimento profondo che la sostiene. L’unica ricerca che potrebbe pacificare il mondo interiore con quello esteriore, in una adesione reattiva alla società del post postmodernismo e del recupero dell’autenticità del linguaggio e della vita.
In Giovanni Gastel questo viene messo in atto in tutte le sue opere, fino a connotare una scrittura narrativa e di comunicazione sincera e immediata. Risolvendosi persino nella   accettazione delle proprie ombre per superare i condizionamenti di una cultura familiare, che ancora lo affascina e lo lega, con lacci d’amore, certo, ma anche con la fragilità che ne deriva. Si pensi ai mai spenti dialoghi con l’amata madre, con il rimpianto fratello, perso alla sua vista, ma non al suo cuore.
Bisognerebbe leggere ogni verso per comprendere l’eccezionale sensibilità etica, affettiva, emotiva ed estetica di Giovanni Gastel e per comprendere appieno la natura dei suoi tormenti e delle sue contraddizioni. Ci sono due poesie, per esempio, dolcemente incastonate nel mosaico degli affetti più profondi: la dolente lettera al fratello da poco volato fra le stelle, e il dialogo del tutto terreno col fantasma della propria adorata madre. Nella prima vibra un anelito di ricongiunzione tra due anime da Atropo divise. Anelito, che s’innalza dal cuore esacerbato del poeta per troppo amore e troppo dolore all’imprecisato luogo dell’aldilà, con una lettera viva e vera e palpitante che vibra nell’aria del tramonto, che “ai naviganti intenerisce il core”, mentre “sale al vento come una preghiera”, in una verticalità che lo conduce là dove “il cielo preme sul cuore” e lo sconfigge. Verso che rende fisico un dolore metafisico attraverso una metafora bellissima. E le domande rivelano ansie e dubbi di tutti gli uomini di fronte al mistero della morte. In Giovanni Gastel, però, c’è un’angoscia diversa, dovuta ad una presenza d’amore che colma ogni vuoto, per cui la realtà vissuta come divisione e distanza si rivela un inganno che, purtroppo rende fragile il poeta “aggrappato alla vita che finisce”. È in quell’ “aggrappato” la condizione di fragilità e di solitudine più intensa e vera. Con versi solo apparentemente semplici, ma quanto profondi e densi di significato (versi logofanici), in ogni accenno di cielo e di abisso a sfiorare l’anima…
Nell’altra poesia, dedicata alla madre, in un dialogo del tutto terreno, spazio e tempo si annullano nell’attualizzare il dolore, che ha ben poco di onirico nella proiezione di quanto è stato verso quello che ancora potrebbe essere. E tutto prende vita nel gioco amaro delle domande e delle risposte reciproche, in cui si condensano, in un solo atto di amore, la realistica attenzione materna a quel figliolo che ora, in sua assenza, si trascura, sollecitandolo, in maniera ferma e categorica, a tagliarsi i capelli e ad andare dal barbiere alla fine della strada, mentre lui attenua quella sua originaria affermazione “sono un solitario” con un ripensamento “ma non mi sento solo” per non darle ulteriori motivi di preoccupazioni. Tenerezza reciproca che non consola, però, il poeta, lasciandolo nel dubbio che nasce esclusivamente da una sensibilità simile a “chiave di violino”, come direbbe il buon Pirandello… anche qui versi di una purezza adamantina che rivelano la purezza del cuore. Ma anche, di contro, le regole prescrittive della casa:
Così mi hanno insegnato” risponde, ogni volta che deve giustificare i suoi comportamenti sociali, culturali, religiosi. Gabbie dorate, troppo strette per i suoi voli pindarici. Voli troppo alti, che avverte a suo danno: la solitudine dell’“albatros” (Baudelaire) o dei “numeri primi” (Paolo Giordano), ma anche a suo appagamento per   la genialità che gli concede di forare il cielo e sentirsi incontaminato e compiutamente sé stesso. E tutte le contraddizioni alla fine si ricompongono in Unità: Giovanni Gastel è tutto questo e non può essere diversamente. Tutte le sue opere visive e quelle letterarie firmano la sua genialità. La sua umanità.
Ora, infatti, mentre “si va facendo sempre più tardi” (Antonio Tabucchi), non è più l’Endimione dell’ultima foto, in cui ha gli occhi chiusi per non vedere il mondo e rimanere eternamente giovane (il mito greco e i suoi simboli e i suoi eroi), ma un uomo che ha avuto migliaia di doni dal cielo ed è fiero delle sue radici per quanto di irripetibile e unico e grandioso gli hanno destinato e delle sue foglie rampicati che per istinto ora sanno le più percorribili vie dell’anima, senza più “gallerie oscure” (Machado), ma luminosi percorsi per afferrare astri di splendore e farsene dono. E fare dono a quanti ama e lo amano. E sono davvero tanti. Potrebbero pareggiare il numero delle stelle?
Oggi solo serenità./ la vita è una struttura fragilissima./ Ma a volte viverla è bellissimo. 
                                                                                            Angela De Leo

Alcuni miei versi con dedica a completamento di questo mio percorso critico-letterario

Ho incontrato un poeta

Ho incontrato un poeta
Era di carta e di parole
Era di solitudine e clamori
Silenzi coltivava
come fiori liberi di campo
lui che aveva serre di gladioli
e rose rare nel giardino del cuore
Ho conosciuto un poeta
con occhi grandi di malinconia
ad ogni sorriso alla noia strappato
strappato alla morte e al tempo
che verrà e avrà un giorno nuovo
di foglie e di radici
Avrà la luce di un volto inventato
e un sogno colmo di nostalgia
Avrà un tramonto per ogni canto
deluso e un’aurora di rimpianto
Ho conosciuto la sua anima
col volto in bianco e nero
e ciglia tenere di bambino
e labbra chiare di rosso spino
e azzurro incanto
(mi ha depositato tra le mani
un petalo di cielo…)
                                 Angela


Nessun commento:

Posta un commento