Versi liberi, dunque, eppure
ricchi di figure retoriche per un senso innato del bello, che il poeta avverte
in sé e trasferisce nelle parole a rendere, nonostante il continuo disincanto,
un’atmosfera incantata per l’armonia interna che vi regna.
Da qui ti cerco nel tempo a ritroso/ e obliquo gli occhi tra le
persiane./ ed è emozione e stupore ritrovarti/ come macchia di fiori/ chiusa ad
arco/ adolescenza mia.
Tra il primo e il secondo
verso ecco un enjembement a dare
continuità non tanto allo sguardo che s’incanta nel ricordo dell’adolescenza,
guardando fuori il paesaggio del cuore, quanto il ricordo stesso perché quello
stupore e quella emozione si distendano ad afferrare quella “macchia di fiori”
(similitudine che esplode di colori e
di profumi) “chiusa ad arco” (verso tenerissimo della visione che incurva anche
il cielo) a proteggere il magico splendore dell’adolescenza, età della
spensieratezza e dei sogni a cui spesso l’autore ritorna come all’eden della
sua vita con tutti i giorni intatti affacciati sul futuro ancora ricco di
iridescenti speranze. Proust sempre in agguato. Ma è un idillio che non può
durare. Le contraddizioni hanno subito la meglio e quella che sembrava un’età
felice si veste di mille apprensioni e di presentimenti che tolgono smalto e
fervore di vita ai giovanili anni.
Mi rivedo giovane e sofferente/ in una grande casa./ Fuori il giardino
nero come un presentimento./ Non ero pronto allora/ ad apprezzare il tempo./
Pensavo alla morte/ come a un assassino./ Oggi so che tutto l’universo/ finirà
con me.
È il rammemoramento dello
stesso luogo del cuore, lo stesso giardino, ma il ricordo si è del tutto
capovolto e tutto diventa cupo, buio, misterioso. Il corpo langue e la mente è
soggiogata da tetri pensieri di morte, ritenuta assassina e responsabile di
tante immense paure. Ma, per fortuna, si cresce e si diventa padroni del tempo
e dello spazio, almeno per la frazione di un secondo appena perché, poi, tutto
viene nuovamente rimesso in discussione.
C’è un’altra notte da vivere./ Oltrepassate le recinsioni/ ancora i
demoni/ attaccheranno la mia mente./ Eppure non voglio vivere/ saggio e
ragionevole./ La storia degli uomini è/ nell’angoscia della foresta. Con Gastel è come viaggiare
eternamente sulle montagne russe, niente è scontato e sempre uguale, neppure lo
stato d’animo di un attimo prima corrisponde alla certezza dell’attimo dopo.
Tutto viene affermato e smentito, pur nella realtà del momento, pur nell’incubo
che ne consegue. Il passare del tempo gli procura angoscia, ma anche il dover
vivere ancora una notte gli pesa tanto quanto i demoni a visitarlo, oltre le
barriere del buonsenso e dei freni inibitori per vivere con gli altri, in mezzo
agli altri. Eppure, non vorrebbe mai una vita regolare, semplice, serena,
sarebbe in antitesi con i tumulti del cuore e della mente. Ancora una smentita:
“la storia degli uomini è/ nell’angoscia della foresta”. In linea di massima
tutto ciò è vero e la metafora “foresta” ben si addice agli oscuri percorsi
della vita umana di dantesca memoria. Ma Dante è Poeta che si perde nei meandri
della “selva oscura” ed anche Gastel è un poeta: probabilmente è la loro
sensibilità particolare a favorire alcuni percorsi di dispersione e di
disperazione. Non afferma Henry David Thoreau che “la maggior parte degli
uomini vive una vita di quieta disperazione”? Ecco, “quieta”, non tumultuosa.
Rassegnata, non ribelle. In una solitudine meditativa cercata, non subita. In quest’ultimo
caso, sarebbe stata mal sopportata, fonte di angoscia e di sofferenze. Per
fortuna, la scrittura. Necessità di vita è scrivere con le prime ombre della
sera per salvare un giorno “vuoto” che finisce, e per salvarsi da quel vuoto
che è voragine e disperazione.
… ad addolcire un altro giorno vuoto/ di cui non conserverei memoria/ se
non per i neri segni che a sera/ inciderò su un foglio bianco.
Ed ogni parola, sia pure
inconsciamente o intenzionalmente, è scelta con cura, calibrata nella sua
profondità. “Incidere”, per esempio, è azione molto più “incisiva” più forte e
determinata di vergare o scrivere. I “neri segni”, piuttosto che i segni neri,
riguardano una locuzione che ha una diversa valenza semantica: è una sorta di
anastrofe che rende più leggero il segno e lo connota come scrittura.
Io sono un disperso (…) che (…) affida se stesso/ alle parole che scrive.
Ed è un affidarsi totale,
quasi un “naufragare” di leopardiana memoria.
Ma anche qui il contrasto
sopravviene, come un’onda d’urto che serve a riaffermare con più vigore quanto
detto prima.
… Ma non essere difensore/ delle parole scritte,/ La vita non consente/
generalizzazioni.
In questo caso, è una
contraddizione in difesa della creatività della parola, della individualità di
chi scrive e della soggettività di quanto viene scritto. Non così per le parole
orali, che volano, non rimangono.
Anche perché le parole non hanno memoria/ non abbassano la voce/ non sono
prudenti/ restano con noi finché non c’è più tempo.
C’è una sorta di eternità
delle parole nelle voci che ci appartengono, che riconosciamo e teniamo per
noi. Ci sembra quasi di averle dimenticate. Poi, basta un richiamo, una frase,
una eco ed ecco ritornare prepotentemente a farci gioire o soffrire e la
nostalgia ci prende, come per ogni ritorno (nostos), che è gioia, ma anche
dolore (algos).
E, del resto, … All’origine tutto era parola.
E qui il richiamo biblico è
forte. E il richiamo al Verbo che era presso Dio ed era Dio. Altro topos decisamente
contraddittorio per Giovanni Gastel. Anche Dio è un eterno conflitto per lui.
Lo cerca, lo invoca, ma spesso rimane deluso. Dio non ha risposte. Se ne avesse
non sarebbe più Dio. Non ricordo più chi ha detto che “un Dio che ha bisogno di
dimostrazioni non e più Dio”. Il Verbo ha una parola sola. Una sola Verità.
Basta riconoscerla. Ma con presunzione gli uomini la cercano nella scienza, che
non possiede verità, ma parziali porzioni di conoscenza, suscettibili di essere
confutare e capovolte, nel tempo e nello spazio. La cercano nella propria
mente, ma non è la razionalità a dare risposte chiare e definitive. Nel cuore
che è un “guazzabuglio” di sentimenti e di risentimenti. Forse solo “oltre il
muro d’ombra”. Ma forse sarà troppo tardi per credere e per sperare. La fede,
unica ancora di salvezza? Forse. Se avessimo il coraggio di credere. È più
facile negare che ammettere. Dice lo stesso Gastel, in versi, in prosa, con gli
scatti delle sue foto che vibrano di bellezza ma non di verità. Perché ciò
accada, Giovanni Gastel cerca nelle sue modelle l’anima. E l’anima cerca nelle
parole. La cerca in sé stesso. Non si lascia influenzare dalle regole e dalle
mode. Scrive come in quel momento gli detta il sentimento. E risponde alla “signora
grassa”, che lo accusa di scrivere versi che non sono poesia, che non avrebbe
difficoltà a scrivere come i canoni dell’“ars poetica” richiederebbero, ma non
sarebbero più i suoi pensieri e le sue parole nella loro genuinità. Sarebbero qualcosa
d’altro. Concordo. E, per spezzare più di una lancia in favore dei versi di
Gastel, sono costretta a fare una breve digressione da “signora grassa” a “signora
grassa”: già duecento anni fa Giacomo Leopardi, contravvenendo a tutte le
regole della tradizione poetico-letteraria, inaugurò la “canzone libera”, senza
più metrica, rima e lacci di vario genere. Poi, col Decadentismo, si ebbe “la
più grande rivoluzione”, come sostiene George Steiner: la parola perse il
contatto con la realtà e si fece pura astrazione, per tentare di dare una nuova
veste alla scrittura e ritrovare il bandolo di una matassa psicologica sempre
più confusa in un mondo, in cui Freud cercava di ricomporre l’“Io” frantumato
dalle incertezze di un cielo che si sottraeva a numeri e calcoli. Poi, vennero
i futuristi, le avanguardie, gli sperimentalisti a dare un fiero colpo alla
grammatica e alla sintassi, eliminando i collegamenti logici per privilegiare
il significante sul significato. In Francia si affermarono i simbolisti, in
Italia i poeti ermetici. Fino alla rarefazione di ogni senso e significato. Dagli
anni Novanta in poi, però, fortunatamente la parola sta rivendicando la sua
adesione alla realtà, alle cose, alle esperienze realmente vissute. C’è anche
una sorta di recupero della metrica e della rima, rivivificate in atmosfere e
ritmi diversi. E ognuno può esprimersi come meglio crede purché ci emozione, ci
sia Poesia.
Credo sia una conquista
pluralistica nella complessità del mondo contemporaneo. Anche la commistione di
generi artistico-creativi fa parte di questa ricerca del nuovo nel rispetto
della classicità e del sentimento profondo che la sostiene. L’unica ricerca che
potrebbe pacificare il mondo interiore con quello esteriore, in una adesione
reattiva alla società del post postmodernismo e del recupero dell’autenticità
del linguaggio e della vita.
In Giovanni Gastel questo
viene messo in atto in tutte le sue opere, fino a connotare una scrittura
narrativa e di comunicazione sincera e immediata. Risolvendosi persino
nella accettazione delle proprie ombre per superare
i condizionamenti di una cultura familiare, che ancora lo affascina e lo lega,
con lacci d’amore, certo, ma anche con la fragilità che ne deriva. Si pensi ai
mai spenti dialoghi con l’amata madre, con il rimpianto fratello, perso alla
sua vista, ma non al suo cuore.
Bisognerebbe leggere ogni
verso per comprendere l’eccezionale sensibilità etica, affettiva, emotiva ed
estetica di Giovanni Gastel e per comprendere appieno la natura dei suoi
tormenti e delle sue contraddizioni. Ci sono due poesie, per esempio,
dolcemente incastonate nel mosaico degli affetti più profondi: la dolente
lettera al fratello da poco volato fra le stelle, e il dialogo del tutto
terreno col fantasma della propria adorata madre. Nella prima vibra un anelito
di ricongiunzione tra due anime da Atropo divise. Anelito, che s’innalza dal
cuore esacerbato del poeta per troppo amore e troppo dolore all’imprecisato
luogo dell’aldilà, con una lettera viva e vera e palpitante che vibra nell’aria
del tramonto, che “ai naviganti intenerisce il core”, mentre “sale al vento come
una preghiera”, in una verticalità che lo conduce là dove “il cielo preme sul
cuore” e lo sconfigge. Verso che rende fisico un dolore metafisico attraverso
una metafora bellissima. E le domande rivelano ansie e dubbi di tutti gli
uomini di fronte al mistero della morte. In Giovanni Gastel, però, c’è un’angoscia
diversa, dovuta ad una presenza d’amore che colma ogni vuoto, per cui la realtà
vissuta come divisione e distanza si rivela un inganno che, purtroppo rende
fragile il poeta “aggrappato alla vita che finisce”. È in quell’ “aggrappato” la
condizione di fragilità e di solitudine più intensa e vera. Con versi solo
apparentemente semplici, ma quanto profondi e densi di significato (versi
logofanici), in ogni accenno di cielo e di abisso a sfiorare l’anima…
Nell’altra poesia, dedicata
alla madre, in un dialogo del tutto terreno, spazio e tempo si annullano nell’attualizzare
il dolore, che ha ben poco di onirico nella proiezione di quanto è stato verso
quello che ancora potrebbe essere. E tutto prende vita nel gioco amaro delle
domande e delle risposte reciproche, in cui si condensano, in un solo atto di
amore, la realistica attenzione materna a quel figliolo che ora, in sua assenza,
si trascura, sollecitandolo, in maniera ferma e categorica, a tagliarsi i
capelli e ad andare dal barbiere alla fine della strada, mentre lui attenua
quella sua originaria affermazione “sono un solitario” con un ripensamento “ma
non mi sento solo” per non darle ulteriori motivi di preoccupazioni. Tenerezza reciproca
che non consola, però, il poeta, lasciandolo nel dubbio che nasce
esclusivamente da una sensibilità simile a “chiave di violino”, come direbbe il
buon Pirandello… anche qui versi di una purezza adamantina che rivelano la
purezza del cuore. Ma anche, di contro, le regole prescrittive della casa:
“Così mi hanno insegnato” risponde, ogni volta che deve giustificare
i suoi comportamenti sociali, culturali, religiosi. Gabbie dorate, troppo strette
per i suoi voli pindarici. Voli troppo alti, che avverte a suo danno: la
solitudine dell’“albatros” (Baudelaire) o dei “numeri primi” (Paolo Giordano),
ma anche a suo appagamento per la genialità che gli concede di forare il
cielo e sentirsi incontaminato e compiutamente sé stesso. E tutte le
contraddizioni alla fine si ricompongono in Unità: Giovanni Gastel è tutto
questo e non può essere diversamente. Tutte le sue opere visive e quelle
letterarie firmano la sua genialità. La sua umanità.
Ora, infatti, mentre “si va
facendo sempre più tardi” (Antonio Tabucchi), non è più l’Endimione dell’ultima
foto, in cui ha gli occhi chiusi per non vedere il mondo e rimanere eternamente
giovane (il mito greco e i suoi simboli e i suoi eroi), ma un uomo che ha avuto
migliaia di doni dal cielo ed è fiero delle sue radici per quanto di
irripetibile e unico e grandioso gli hanno destinato e delle sue foglie
rampicati che per istinto ora sanno le più percorribili vie dell’anima, senza
più “gallerie oscure” (Machado), ma luminosi percorsi per afferrare astri di
splendore e farsene dono. E fare dono a quanti ama e lo amano. E sono davvero
tanti. Potrebbero pareggiare il numero delle stelle?
Oggi solo serenità./ la vita è una struttura fragilissima./ Ma a volte
viverla è bellissimo.
Angela De Leo
Alcuni miei versi con dedica a completamento di
questo mio percorso critico-letterario
Ho incontrato un poeta
Ho incontrato un poeta
Era di carta e di parole
Era di solitudine e clamori
Silenzi coltivava
come fiori liberi di campo
lui che aveva serre di gladioli
e rose rare nel giardino del cuore
Ho conosciuto un poeta
con occhi grandi di malinconia
ad ogni sorriso alla noia strappato
strappato alla morte e al tempo
che verrà e avrà un giorno nuovo
di foglie e di radici
Avrà la luce di un volto inventato
e un sogno colmo di nostalgia
Avrà un tramonto per ogni canto
deluso e un’aurora di rimpianto
Ho conosciuto la sua anima
col volto in bianco e nero
e ciglia tenere di bambino
e labbra chiare di rosso spino
e azzurro incanto
(mi ha depositato tra le mani
un petalo di cielo…)
Angela
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