Avverto il bisogno di
affermare fortemente l’identità generosa della mia terra in un momento
difficile della nostra storia, in cui avverto come un capovolgimento di valori
tanto da farmi sentire “straniera nella mia patria”. Sono poesie che risalgono
ad alcuni anni fa e pubblicate nella raccolta “L'ora dell’ombra e della riva”
(SECOP Edizioni, 20015), ma a rileggerle oggi acquistano, almeno per me, altra
valenza, altro significato.
Distesi al sole
Tu non conosci
il Sud
le case di calce da cui
uscivamo al sole
come numeri dalla faccia di un dado
(Vittorio Bodini)
Sì, tu non conosci il Sud
una tristezza di rami senza radici,
gli ulivi divelti da queste zolle
per i tuoi giardini privi di sole
cuore pulsante della nostra terra.
Ignori la millenaria storia d’antica miseria
che ci volle briganti e assassini, schiavi
e rivoluzionari in una babele di leggi straniere.
Oltre i tramonti infuocati e l’allegria dei papaveri
nei campi di grano maturo del Tavoliere,
non conosci l’urlo del vento lupo di tramontana
né il dolore delle stoppie bruciate d’arsura
a segnare a lutto una terra amara, anima
di bifolchi e cafoni, “scarpa grossa cervello fino”,
sola eredità ai figli con “pezzo di carta nelle mani”
e un futuro d’emigranti che segnò di fame
i dispersi giorni degli
antichi padri.
Ti smemori beato nel nostro mare d’ametista
e non sai di tempeste colme di piogge, che mai
verranno sotto un cielo armato di stelle
con velieri dorati su fondali di corallo
(gabbiani senza difesa piegano ali prive di voli,
negli occhi un sogno disperato di cieli in libertà).
Tu non sai di “basilischi” distesi al sole
(così un giorno si raccontò di noi),
colmi d’accidia in una superficie d’inganni
e del logorio beffardo che ci tarla dentro
di progetti che “giocano a dadi con il cielo”
e tentano la sorte in contorte strade
di demoni e streghe, di
gnomi e monacelli,
maghi e fattucchiere con pozioni di sangue
e spilloni su tradimenti d’amori mai dimenticati.
Non sai di turchi all’assalto di vergini bambine
e di torri d’avvistamento su straziati litorali
di scogli taglienti più d’ogni dolore.
Sul frastuono di pagine insanguinate,
la tua pubblicità “Sud terra d’a-mare”
assorda pensieri assolati di solitudine
(noi nere formiche ad invidiare cicale
nostrane che tempi di vacche magre ignorano
e ci regalano concerti d’archi e violini).
Noi, eterni santi navigatori e poeti, lottiamo
ancora il padrone lontano in terre di nessuno
al conto salato di nuovi briganti di carta
in cattedrali di libri che temono l’oblio
nel deserto dell’indifferenza.
Nessuno ci regalò il sorriso degli dei,
cui è cara questa terra di sale e di parole.
Noi, “figli di un dio minore”, a sognare un segno
che ci riconosca gente di testa e di cuore
in ogni gesto d’amore, prezioso più dell’oro
(la nostra mai
negata identità).
Il mio no
È gioia di cielo il cancello
all’arco sospeso di grappoli blu
che rinnovano di glicini il
giorno.
Sui papaveri accesi
ai muri di bianca calcina e pietra
m’assale triste pensiero di paura
in quest’alba di miagolii d’amore
e un pigolio tenero di rondinini
in caldi nidi di piume sopra i
tetti
che rosseggiano tra pini e abeti
canto di vento e allegria di sole.
Chi guarderà l’alba dai miei
lucernari
quando d’assenza s’abbruneranno
occhi che amarono i miei occhi
persi di stelle di nuvole e di
sogni?
Ci sarà l’alba ancora a
chiacchierare
coi gatti acciambellati in vasi di
fiori
e ricami d’amorose mani tra le
zolle
odorose e molli del giardino?
TEMO
urla di terrore alle soglie degli
anni
assetati di potere e di morte
coi grandi della terra dimentichi
d’appartenere a questa “bella
d’erbe famiglia e d’animali” che
VIBRA
di silenziosa e luminescente vita
con la coccinella dalle sette
punte
e un presagio di fortuna e mille
stelle
a rendere docili i nostri giorni
di quiete.
IGNORA
mille voci che piangono Chernobyl
alla frontiera di terre siberiane
devastate di mai placato
dolore.
Alla polveriera di Fukushima
esplosa di orrore come allora
tra i giardini dai peschi in fiore
CHIEDO PERDONO E GRIDO
la mia rabbia ad un cielo
distratto dal dio di denari
ottuso al nostro cuore distrutto.
VOGLIO SALVARE DEL MIO SUD
la culla la casa il filo di luna
sospeso
ai camini del tempo
e lo stupore di noi bimbi a
cercare
arance e fichi secchi nella calza
della befana
e tutti i frutti di sole e di
miele raccolti
da una madre amara e generosa
la mia terra
(che d’erba e di mare un tempo profumo
aveva)
Cantano
le pietre della Murgia
(a Enzo
Morelli
e alle sue tele murgiane)
Al graffio che urla
l’immensa fatica del silenzio
nel buio lacerato del giorno finito
esplode
di luce un principio di foglie
che fa certo il tempo del rinnovato
splendore catturato nei prati
Non s’arrende lo sguardo alla tristezza
degli ulivi dai rami contorti e trafelati
al traguardo ignorato
negato
alla lenta lumaca con abiti d'albero
e una casa che sfida il biancolatte del cielo
Tempo di solitudine
mitigato dal rosa antico del pesco
fiorito tra occhi socchiusi sul volto
proteso alla magia di un sogno
Tempo di solitudine a circoscrivere
passi dilatati in verticale scala di stagioni
quando il tempo era degli uomini
- servi e cavalieri
-
alla corte di Federico che interrogava
le stelle
e offriva preghiere pagane alla potenza
del Sole suo
unico signore
E falchi e poiane inchiostravano il verde
e lo
ferivano
Pietra su pietra la Murgia canta
tenera allodola l’alba di trine e d’argento
Canta col sorriso fragoroso dei papaveri
la fragilità innocente e nuda del convolvolo
Chiara veste di bimba nata alla vita
in una terra madre stranita di nebbie
e fatata di bianche orchidee selvatiche
Si accende di rosso il cielo
L’anima trema d’incanto
In questo angolo di paradiso che smuore
e si disvela
luminoso
nell'accendersi di un'emozione
che mi somiglia
(sono ancora foglia e
rugiada...)
Canto
per la mia terra
Se la forza di gravità, la verticale,
è
la memoria
della terra che chiama
a sé le cose per ricordarle,
l’ansia è la mia memoria…
(Valerio Magrelli)
Ha ancora un urlo d’alberi
questa terra
che s’inerpica d’azzurro
e conosce tutte le rive
del nostro pianto.
Macchia mediterranea
intrichi di selve interrotte
dal ricamo festoso
delle ginestre in fiore
che cantano al cielo
l’inno gialloverde
di questa terra umida
in lotta contro rovi d’arsura.
Bianche vele ridono
tra labbra di onde
che giocano a nascondino
lontano dalla riva assolata
con scogli aguzzi
in gorghi di spuma
e sabbia dorata.
Questa terra di rimorsi
di frenesia di pizzica e cicale.
Terra con dita d’argento
tra rami feriti che artigliano
un cielo sorpreso e sgomento
Muoiono secolari ulivi
come la nostra umanità alla deriva.
Uomini-dei ingannano il sole
con pronta mannaia di sangue
arrossando con rossastre macchie
d’insano assassinio
la rossa terra del nostro Salento
pronti a recidere chiome di spavento
(strangolate ammanettate umiliate)
delle maestose millenarie
nostre sculture di dolore e fatica
concesse dal nostro Cielo
(promessa di pace ragione di vita).
Terra che getta un cordone
di brulle colline
ad imbrigliare il bianco di calce
delle case a cono
dimora di fate e folletti
misteri di segni e simboli
e liturgie pagane
dove il verde delle Murge
sussurra di funghi e pietre
e ferule e lumache
in gara con l’azzurro tra i rami.
Rossastra ruggine
di monti a nido dipinge
il Gargano che s’affaccia sul mare
sfidando superbo le nuvole
a specchiarsi in golfi
e laghi costieri.
E di grano che al vento danza
e canta come cicala impazzita di sole
si cinge generosa la piana dauna
che ai suoi piedi si perde
trafitta da lame d’arsenico
che seminò morte e raccolse ferite.
Lunga come la sua lunga storia
è la mia terra di principi e briganti
di acque e sale e vento di naviganti.
Alla grotta della poesia
mi bagnai un giorno
inseguita dalle mie lunghe
trecce e seppi della mia sorte
segnata d’archi di pianto
e da stelle di mare e serti di parole
a raccontare della mia gente storie
che fumano dai camini ridono urlano
e con versi di tenerezza cantano
lo splendore di questa terra
dai miei tetti di sole.
Angela De
Leo
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