mercoledì 30 marzo 2022

30 marzo 2022: "un vescovo vestito di bianco"... per ricordare un evento epocale che ha cambiato il volto della chiesa...

E oggi desidero solo ricordare un avvenimento che ha cambiato il volto della chiesa, il mio percorso di Fede...
‌("Un vescovo vestito di bianco"
‌Da far tremare le vene e i polsi...
‌Lui, Papa Francesco, il vescovo vestito di bianco?
‌E qui, nonostante io non sia assolutamente in grado di scrivere una pagina di storia con la obiettività, la concretezza  e il rigore della ricerca storica, sento la necessità, se non l'urgenza, di essere testimone di una ipotesi di memoria storica da prendere per mano per farci io e lei discreta compagnia.)
Per la prima volta nella storia della chiesa un Papa ha avuto il coraggio di denunciare tutti i mali de "La Casta meretrix" (attribuita ai Padri della Chiesa) di ieri e di oggi; mali per i quali ha chiesto anche pubblicamente perdono, attirandosi le ire in Vaticano e fuori dei prelati, teologi e laici, tra i più agguerriti e tradizionalisti. Una vera e propria denuncia di eresia e di "Atti sacrileghi" da parte di oltre cento teologi e storici della chiesa di tutto il mondo, animosi, moralisti, integralisti. E i laici non sono stati da meno. Ma nessuno scalfisce la volontà di Bergoglio di essere testimone della volontà di Dio Padre di salvare i Suoi figli sparsi in tutto il mondo contro una chiesa chiusa nella sua "turris eburnaa" che ancora oggi non include, non accoglie, non salva e redime.
‌Non a caso, nel terzo segreto di Fatima, si parla di una Chiesa che ferisce Cristo per eccesso di mondanità e di colpe materiali e spirituali, così dolorose per il Cuore Immacolato di Maria, la Sua tenerissima Madre, da sempre impegnata a combattere il Male nel mondo
(ecclesiastico e non).
Sì. La chiesa di ieri aveva altre connotazioni di autoritarismo, dogmatismo, serpeggiante ipocrisia farisaica tra il predicare e l'agire, da farsi perdonare.
‌‌(E, infatti, fin dagli anni
‌Sessanta del secolo scorso, io ragazzina romantica e ribelle, per anni imbrigliata nei ruoli di beniamina, aspirante, giovanissima in un'Azione Cattolica che non capivo perché a me del tutto estranea, scappai  a gambe levate da una Madre Chiesa (Una Santa Cattolica Apostolica Romana), che ci catechizzava settimanalmente, in maniera ingenua e ripetitiva ma con  formule e precetti indiscutibili, ad opera di quelle che noi chiamavamo "le signorine della parrocchia", consacrate a Gesù, e non vi feci più ritorno per via del suo autoritarismo ottuso, del suo dogmatismo in contrasto con il libero arbitrio che predicava, della sua serpeggiante ipocrisia tra il "predicare" e l'"agire".
‌Quanti dubbi allora, quante perplessità e quanti rifiuti nella incoscienza dei miei verdi anni. Ma quanto conforto oggi, accanto allo sgomento per ciò che è esploso improvvisamente come un fungo malefico ad intossicare il nostro pianeta, un virus che ha nome di corona come quella di spine a trafiggere il capo di Gesù agonizzante, perché quello stesso "vescovo vestito di bianco... tremulo e stanco" sta avendo da solo la forza di riportarmi alla sua Chiesa, addossandosi come Cristo tutti i peccati  della "Casta meretrix" e quelli del mondo intero.)
‌27 marzo 2020, ore 18,30 il Papa francescano ha voluto un incontro ecumenico in piazza San Pietro per pregare tutti, in tutte le latitudini e longitudini del mondo, contro il coronavirus. Piove a dirotto e il colonnato del Bernini non offre alcun riparo ai fedeli solo virtualmente assiepati. E il piccolo palco in mezzo alla piazza deserta offre al Vescovo di Roma debole riparo in quel vuoto allucinato da colmare di preghiere.
‌È lui a portarci in salvo in mezzo ai marosi della tempesta sollevatasi alle nostre spalle all'improvviso, esortandoci a "non aver paura", come Cristo ai suoi sgomenti discepoli sulla barca, in cui Gesù, a poppa ("la parte della barca che affonda per prima") e non a prua, dormiva sereno e fiducioso confidando nell'amore del Padre che non abbandona mai suo figlio.
‌Fatto storico epocale sotto gli occhi di tutti, credenti e non credenti, nell'abbraccio di tutte le chiese e di tutte le religioni, di tutti i popoli della Terra in un sol popolo fatto di umanità sgomenta e sofferente, solitaria e invisibile, ma presente col cuore, con l'anima. Un'anima universale desiderosa finalmente di sincera Solidarietà e di vera Pace.
‌Sotto un cielo catramato, basso e opprimente, che ha aperto tutte le sue cateratte di lacrime torrenziali sulla stupita Cupola di San Pietro,
Io, testimone, come miliardi di altri miei simili, attraverso la televisione, unico mezzo di comunicazione per un evento mondiale, in tempo di coronavirus, a commuovermi fino alle lacrime che si mescolano idealmente a quella pioggia battente che scroscia a secchiate sulla Capitale, nel vedere il vescovo vestito di bianco attraversare, invecchiato stanco claudicante affannato triste, quel diluvio che simbolicamente sta lavando i peccati della sua Chiesa  e dell'umanità intera. Lui, l'agnello sacrificale, determinato a vivere sino in fondo il suo sacrificio per pregare il Crocifisso salvifico (pare abbia salvato Roma dalla peste nel sedicesimo secolo) e la dolente Madre di Cristo, entrambi esposti sul sagrato della Basilica, nella Speranza di portarci in salvo, oltre ogni paura, ogni smarrimento, oltre ogni assenza di fede e di valori eterni, dimenticati. E il suo volto stanco e indifeso somiglia tanto a quello del Cristo sulla croce lignea in pianto irrefrenabile sulla Soglia di Pietro. Sul nostro pianeta "opaco del male" (Pascoli). E la benedizione "urbi et orbi", impartita per la prima volta nel rispetto della libertà di ogni persona, di tutti e di ciascuno, a rendere concreto il libero arbitrio di una scelta, di una volontà di essere e di riconoscersi nella propria fragilità e nel proprio coraggio.

Invecchiato, ma indomito, testardo e determinato, con tutta la croce di Cristo sulle sue stanche spalle, affronta lo scroscio impetuoso/impietoso, la solitudine spettrale di una Roma devastata e tormentata, il peso del "silenzio assordante" e  dei propri anni, della sofferenza mondiale di uomini "ammutoliti e smarriti, fragili e disorientati", e  degli imponenti paramenti sacri e dell'Ostensorio, che lo  fanno barcollare ma che rifrange miracolosamente i colori del dolore e della rinascita nell'azzurro di tutti i cieli e di tutti i mari.

Fatto storico di immensa portata storica, il cui significato ecumenico rimarrà per millenni nella storia di ciascun uomo e nella Storia dell'intera Umanità.
La memoria è testimonianza storica, oltre il tempo e lo spazio, oltre il ricordo personale che non "vince di mille secoli il silenzio", ma si fa racconto, confidenza, intimità, trasmissione di una emozione forte e intensa dai genitori ai figli e da questi ai nipoti.
E l'emozione, che ci assale nelle nostre case, registra ancora
un atto d'amore e di sacrificio,  riportandoci a Dio, atei e cristiani, agnostici e credenti, musulmani ed ebrei... all'unico Dio simile ad ogni altro Dio. Ci riporta alla  fede perduta e ritrovata in Lui oppure alla semplice fede nell'Uomo,  nella Natura, nella Terra Madre, nella Bellezza, nell'Arte, nella Musica. Ci riporta alla riscoperta del Vangelo e non solo, alla riscoperta di Cristo, Dio d'amore e Perdono, in ogni atto che sa di preghiera e di "cura" per il prossimo, vicino e mai lontano anche se respira ai confini del mondo.
E dopo tanto affannoso salire sul monte del dolore e del pianto, dei morti a migliaia incontrati nel suo calvario personale, ecco il momento della tregua, della sospensione, del fermarsi. Dello stare raccolto e in silenzio davanti al Santissimo. Francesco seduto e tutto racchiuso nel suo dialogo fiducioso col Padre.
La sua tregua è simile al nostro fermarci in casa di questi giorni di morte e di dolore, per ritrovarci nel dialogo fiducioso e affettuoso con la famiglia. Oggi non più tale. Un fermarci salutare per riscoprirci e ritrovarci nelle nostre fragilità e contraddizioni, nelle nostre paure e nei nostri inganni, nei  sensi di colpa contro i nostri simili, contro la Natura, contro la Bellezza, contro l'Amore, contro la Vecchiaia, la Disabilità, la Povertà. Contro contro contro... E non ce ne rendevamo conto. E non sapevamo di circondarci di nemici invisibili per giustificare il nostro egoismo, l'individualismo egocentrico ad oltranza, creandoci il deserto intorno. Una desertificazione del cuore protesa a distruggere invece di costruire.
Ignoravamo di perdere la nostra umanità in un mondo dimentico del passato. E senza la memoria storica è impossibile costruire un futuro migliore. La massa anonima, che più non ci somiglia, ha fretta di afferrare il futuro e soffoca tutto il presente.
Questo fermo obbligato è la tregua necessaria per ricominciare.  Per ridare valore a quanto necessario, essenziale, utile al nostro benessere psicofisico e spirituale. Per ritrovare le vie della terra verso nuovi orizzonti di incontri e le vie del Cielo per ritrovare Dio.
Per ri-nascere. E oggi soprattutto per ri-sorgere. Dopo tanta cenere e distruzione e lutto.
Durante la benedizione "urbi et orbi" le campane delle chiese di Roma si mescolano al suono delle sirene delle ambulanze. Musica di morte e di vita. E gli occhi di Francesco sono due pozze infinite di com-passione, di pietas, di contrizione, ma anche di tremula Speranza. Dopo tanto diluviare di lacrime.
Non a caso, Francesco è tornato il giorno dopo, in Santa Marta, a parlare di pianto.
"È tempo di passione e di lacrime" ha detto.
E le lacrime lavano tormenti e paure per prepararci all'incontro con l'altro tra ramoscelli d'ulivo e colombe di pace.
E nella tregua tutti ci siamo "ritrovati importanti e necessari" oltre l'indifferenza che uccide più di ogni altro Male, in quanto abbiamo bisogno gli uni degli altri perché,
... " nessuno si salva da solo".
(E nella profezia della salvezza la Vergine sorride perché sa che oltre la morte Suo Figlio è risorto per testimoniare nei secoli dei secoli la gloria del Padre...).
Che si creda o meno al terzo segreto di Fatima, che si creda o meno al mistero del nostro nascere, vivere e morire in un universo disorientato e distante, disperato nella disperante certezza che dopo tutto finisce nel nulla, il nulla che è più spaventoso del vuoto, in quanto il vuoto ci serve dopo ogni pienezza raggiunta per ricominciare..
Che si creda o meno in un Cielo sapiente e perfetto, regolato dalle leggi della Attrazione universale, identificabile con l'Amore, Lui è là ad attenderci nei secoli dei secoli.

E non importa se Francesco sia la vittima designata o il marinaio che ci conforta con la sua sola certezza di salvezza, esortandoci a "non aver paura", importa il suo abbraccio, commosso e universale, di "Consolazione" a spronarci alla Carità, alla Fede, alla Speranza... 


giovedì 24 marzo 2022

Giovedì 24 marzo 2022: alcuni buoni motivi per riscoprire la felicità...

Proviamo a riscoprire la felicità, proviamo a farlo in sordina in un momento così drammatico e devastante per tutti, ma proviamoci per non perdere l’abito della festa, la gioia di esserci, l’amore che ci salva o ci dovrebbe salvare: per esorcizzare la paura, per superare il dolore per farci coraggio. Il condizionale è d’obbligo ormai, ma guai se ci lasciassimo travolgere solo dall’indicativo, tempo della irrimediabile realtà. Personalmente ho le mie buone ragioni per essere felice. Ve elenco in ordine di importanza, più o meno: 1. Sono ancora viva (con tutti i risvolti positivi e negativi di questa condizione alle soglie degli ottant’anni). 2. Sono ancora in grado di godere di una giornata di sole, del brulichio delle stelle, di una risata e delle lacrime, di pensare, di scrivere e raccontare, di giungere al cuore degli altri. 3. Ho ancora una famiglia che si prende cura di me in una casa grande e confortevole con un giardino pieno di alberi e di fiori e gatti e gazze e uccellini e voli che mi fanno ancora sognare. 4. Ho Figli e Nipoti che mi colmano d’amore ricambiato. 5. Sono stata fortunata a nascere in un Paese libero, che ora mi permette di piangere per la guerra in atto senza la paura dei bombardamenti, della morte che piove dall’alto, della casa distrutta, dei bambini come uccelli di nido in caduta libera, del terrore delle madri e della inerme “corsa” dei vecchi verso una morte annunciata. Tutto questo mi lacera e mi salva dagli abissi della disperazione. 6. Ho un canto nuovo nell’anima: ieri ho vissuto ancora emozioni intense per la laurea di Anna Paola, nipote adorata, che condivide con me camera, letto, sonni e incanto. Lei e suo fratello Nicola mi stanno insegnando a riscoprire la felicità nelle loro conquiste di vita quotidiane. Sono i miei angeli custodi e le mie ali per continuare a volare. Una testimonianza di felicità raggiunta? Eccola:

Peppino Piacente

BE YOUR SUNSHINE

“Questa parte della mia vita si può chiamare Felicità!”

Sì, bimba mia, tu sei il sole che ogni giorno mi riscalda di fierezza, oggi, in particolare mi rende felice, non tanto per la meta raggiunta, sia pure così importante, ma soprattutto per il cammino che ti ho visto fare, con determinazione e grinta, colpo su colpo, tenendo sempre al guinzaglio la paura! Grazie, principessa, un papà felice!

Cosa si potrebbe obiettare a questa felicità? Si dovrebbe solo condividerla, tanto sarebbe legittima e forte e vera e palpitante, emozionante! E allora lasciamoci coinvolgere da questa ondata di felicità che, almeno per oggi, sovrasti paure e dolore e pensieri come lame nel cuore. Solo fili di Luce nel cuore, e di Speranza. Potrebbe darsi che sia contagiosa tanto da portare chi mi legge a sentire dentro una propria piccola felicità nascosta da portare alla superficie di questo giorno di sole e di vento, di freddo autunnale e di gemme in festa sugli alberi fioriti della propria anima perché sia gioia da vivere insieme, ciascuno con la consapevolezza di avere un germoglio da lasciare fiorire in questo eterno ritorno di primavera. Ed ecco cosa scopro su FB.  

Carmen Mari: Quando ti arriva questa esplosione di colori sostenuta dal caldo messaggio... non devi chiedere altro (ed è un fascio di fiori primaverili illuminati da tanto sole).

E ancora. Anna Mininno con i suoi versi che esplodono di primavera: 23 marzo - linee essenziali di Primavera - *La primavera/ non si smarrisce/ e torna/ - incurante/ di attacchi/ e recrudescenze/ di un tempo anomalo e crudele -// La primavera torna/ e si fa respiro/ si fa fiori e fronde/ e attesi limitari/ - dopo il ciocco/ del camino -.// La primavera torna/ e si fa vita/ di nuovi pigolanti nidi/ e rondini a mille/ zigzaganti/ nel cielo turchino/ così che/ la favola continui/ e sia bella/ da raccontare. (a.m. 23 marzo 2021 foto mia- primi papaveri-). E altro canto di bellezza e di incanto fiorisce nel cuore della condivisione.

E poi Elina MiticocchioAlleggerisco i pensieri e allento la presa, aspetto che un nuovo colore scriva il foglio. Ho terminato di leggere tutti i libri che avrei potuto leggere nella pausa positiva -dal tempo, ed ora la libertà di guardare l'azzurro mi dimora le radici. In fondo non siamo che alberi che sfidano le stagioni e ora è primavera. Forse il mio tempo è qui. e un po’ tutti vorremmo fermarci nel suo tempo che è anche il nostro tempo: noi alberi in cerca di radici per continuare a mettere foglie per una nuova primavera. La felicità è anche nel percorso fiorito dell’eterno mutamento, che sempre trasforma la vita e sempre ciclicamente ritorna per rinnovarla ancora… E “domani è un altro giorno… si può ricominciare…”. Angela e le altre con i tanti motivi di felicità da scoprire insieme…


martedì 22 marzo 2022

Martedì 22 marzo 2022: conclusione di "JACOPO E VITALIA, UNA STORI D'AMORE" di Angelica Grivèl Serra...

E così, dopo alcuni giorni di silenzio sull’ultima parte di “JACOPO E VITALIA, UNA STORIA D’AMORE” di Angelica Grivèl Serra, silenzio dovuto ad altre scritture altre urgenze improcrastinabili, ritorno a proporre la breve conclusione dell’amorevole/amorosa reciprocità tra un figlio (Jacopo) e una madre (Vitalia) per scoprire, ancora una volta, la duttilità della scrittura di Angelica.

“Vitalia siede, gli spalti accesi di volti e delle luci che sì, funzionano a meraviglia. Ma lei piomba di nuovo nella paura. Le persone sapranno davvero riconoscere il talento del figlio, la passione sincera che gli ravviva il cuore? E Jacopo riuscirà a difendere quella sua volontà impetuosa dalle insidie di un ambiente così, intriso di tranelli e briganti, stanco di nocche consunte su porte sbarrate? Quante volte gli avrà detto:

‘Ma non è che mi diventi come loro, tu che sei gentile?’.

E lui: ‘Tranquilla, ma’. Vedrai, vedrai. E capirai che non lo divento, come loro. Lo sai perché? Perché sono come te’.

L’Anfiteatro ormai straborda di umanità. E mentre l’acciottolio di parole si attutisce sino a spegnersi, Vitalia raccoglie i pensieri, li annoda altrove. Tende tutta la pienezza dello sguardo laggiù, sul palco, dove la promessa dello spettacolo prende atto. Jacopo è in scena. Vitalia strizza gli occhi, a istinto giunge le mani.

Poi sente ridere, ridere, ridere ancora.

E l’ansia dilegua.”

Già l’incipit di questa ultima parte “Vitalia siede” è una dichiarazione di tregua ai tumulti del cuore che ben presto ricominciano a tambureggiare nel petto della mamma alla vista degli “spalti accesi” dai volti degli spettatori, ma anche dalle “luci” sapientemente posizionate da suo figlio a dare risalto alla visualizzazione di un pubblico pronto e in attesa di godersi lo spettacolo che sta per cominciare. La paura “piomba” sui pensieri di Vitalia (e il verbo fa sentire tutto il peso del piombo, riportandomi alla Bottega del Mistero, che forse neppure Angelica ha dimenticato, e all’innocenza dei piccoli che tra il chilo di piombo e il chilo di piume ravvisano la pesantezza nel piombo e la leggerezza delle piume, dimenticando che si tratta pur sempre del peso di un chilo…), riafferra la donna a causa del  timore che la gente non dia il giusto valore al talento di suo figlio, ignorando quanti sacrifici gli costa oggi l’opportunità di salire su quel palcoscenico con tutta la “cassetta degli attrezzi” della sua creatività e dell’esperienza acquisita in anni di studio e di gavetta. Ha paura di “tranelli e briganti” (una sineddoche bellissima per dire di quanti potrebbero approfittare della sua “gentilezza”, della sua bontà d’animo)

Angelica offre ai lettori uno spaccato di grandissimo coinvolgimento psicologico, entrando nel cuore della donna e nel suo tumultuoso fondersi con il groviglio dei suoi pensieri. Fino all’inizio dello spettacolo, dopo una superba metafora “l’acciottolio dei pensieri” e dopo che “la promessa dello spettacolo prende atto” (la promessa che si attualizza e si fa concreta, viva e vibrante sulla scena). Risente per un attimo le parole di suo figlio a rassicurarla: lui non mi lascerà snaturare dalla fama e dal successo, non diventerà come loro “perché sono come te”. È da lei che ha preso l’imprinting, che ha direzionato tutta la sua vita, passo dopo passo, conquista dopo conquista. E a lei lo restituisce regalandole una certezza. Una verità incontrovertibile. Quale dimostrazione migliore del reciproco amore?

Vitalia, intanto, “strizza gli occhi, a istinto giunge le mani” ed è preghiera!

“Poi sente ridere, ridere, ridere ancora”.

“E l’ansia si dilegua”.

Su due righi (anche lo spazio parla, come Paul Eluard c’insegna, e sigla la riconquistata serenità, per lo scrosciare delle risate, simili a lunghi applausi).

“C’è un tempo per ogni cosa… un tempo per piangere e un tempo per ridere…” (dal libro del Qoèlet - Qo 3,1 -11). A volte, però, pianto e riso si mescolano perché rivelano pienezza di sentimenti, la stessa vita. L’attimo perfetto, in sé conchiuso. A sigillare un amore eterno.

E Angelica Grivèl Serra è pienamente consapevole di ciò perché certa della sua scrittura, che nulla concede al pressapochismo, alla distrazione, all’inesattezza. Tutto s’incastona meravigliosamente nell’algoritmo tra forma e contenuto non per doveroso calcolo, ma per libertà di scelta, creatività, talentuoso sentire dell’anima… Angela

domenica 20 marzo 2022

Domenica 20 marzo 2022: LETTERA di Oriana Fallaci (seconda parte)...

Riprendo con la LETTERA di Oriana Fallaci dopo la morte di Pier Paolo Pasolini.

 (Di quella città straordinaria vedevi soltanto la miseria morale, da ex-colonia dicevi, da sottoproletariato, e una povertà che paragonavi alla povertà di Calcutta, Casablanca, Bombay. Un pomeriggio esclamasti: “Mi dispiace di non esser venuto qui prima, 20 o 30 anni fa, per restarci. Non mi era mai successo di innamorarmi così d’un Paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e restare per non ammazzarmi. Sì, l’Africa è come una droga che prendi per non ammazzarti. New York invece è una guerra che affronti per ammazzarti”. Eri giunto da Montréal con il treno. Eri sceso a una stazione sotterranea e non avevi trovato un facchino. Con le valigie che ti stroncavano le braccia avevi percorso un tunnel, e in fondo al tunnel c’era una luce accecante. La città t’aveva aggredito con la gloria di un’apparizione: Gerusalemme che appare agli occhi di un crociato, dicesti. I grattacieli invece li vedevi come le Dolomiti, e io ti ascoltavo in preda alla paura: eri solo poeta o anche pazzo? Non avevo mai pensato che New York potesse essere vista come Gerusalemme e i grattacieli come le Dolomiti. Ma in cima a quei grattacieli non volevi salire mai. Quante volte tentai di portarti all’ultimo piano dell’Empire State Building! Ti promettevo: “È come salire sulla vetta di un monte, il vento è pulito lassù”. Mi opponevi sempre una scusa: a te non interessava il vento pulito. Interessava la laidezza della Quarantaduesima Strada, con le sue luci rosse da inferno e i negozi che vendono pornografia. “Ieri, nella Quarantaduesima, ho visto un uomo che stava morendo. In mano aveva un pacchetto. L’ha fissato e poi l’ha scaraventato per terra con collera tale che il pacchetto s’è rotto. Dopo l’uomo s’è appoggiato al muro, è scivolato piano per terra ed è rimasto lì: a morire. Senza che nessuno si fermasse a guardarlo, aiutarlo. Neanch’io. Ma è male questo? È mancanza di pietà? Forse è una forma superiore di pietà. Capisci, lasciare gli altri morire”). Fu nel 1966 che Pasolini “scoprì” l’America, andando a New York e subito pensò di andare a trovare Oriana Fallaci, all’apice della sua fama, nel suo grattacielo nella 57^ strada. E Oriana continua con la sua lettera e i suoi ricordi: Diventammo subito amici, noi amici impossibili. Cioè io donna normale e tu uomo anormale, almeno secondo i canoni ipocriti della cosiddetta civiltà, io innamorata della vita e tu innamorato della morte. Io così dura e tu così dolce. V’era una dolcezza femminea in te, una gentilezza femminea. Anche la tua voce del resto aveva un che di femmineo, e ciò era strano perché i tuoi lineamenti erano i lineamenti di un uomo: secchi, feroci. Sì, esisteva una nascosta ferocia sui tuoi zigomi forti, sul tuo naso da pugile, sulle tue labbra sottili, una crudeltà clandestina. Ed essa si trasmetteva al tuo corpo piccolo e magro, alla tua andatura maschia, scattante, da belva che salta addosso e morde. Però quando parlavi o sorridevi o muovevi le mani diventavi gentile come una donna, soave come una donna. (E io mi sentivo quasi imbarazzata a provare quel misterioso trasporto per te. Pensavo: in fondo è lo stesso che sentirsi attratta da una donna. Come due donne, non un uomo e una donna, andavamo a comprare pantaloni per Ninetto (Davoli), giubbotti per Ninetto, e tu parlavi di lui quasi fosse stato tuo figlio: partorito dal tuo ventre, e non seminato dal tuo seme. Quasi tu fossi geloso della maternità che rimproveravi a tua madre, a noi donne. Per Ninetto, in un negozio del Village, ti invaghisti di una camicia che era la copia esatta delle camicie in uso a Sing Sing. Sul taschino sinistro era scritto: “Prigione di Stato. Galeotto numero 3678”. La provasti ripetendo: “Deliziosa, gli piacerà”. Poi uscimmo e per strada v’era un corteo a favore della guerra in Vietnam, ricordi? Tipi di mezza età alzavano cartelli su cui era scritto “Bombardate Hanoi”, e ci restasti male). Da una settimana ti affannavi a spiegarmi che il vero momento rivoluzionario non era in Cina né in Russia ma in America. (Vai a Mosca, vai a Praga, vai a Budapest e avverti che lì la rivoluzione è fallita: il socialismo ha messo al potere una classe di dirigenti e l’operaio non è padrone del proprio destino. Vai in Francia, in Italia, e ti accorgi che il comunista europeo è un uomo vuoto).Vieni in America e scopri la sinistra più bella che un marxista come me possa scoprire. I rivoluzionari di qui fanno venire in mente i primi cristiani, v’è in essi la stessa assolutezza di Cristo. Bellissima questa espressione di Pasolini che Oriana ricorda: “l’assolutezza di Cristo”, in Cristo ogni infinita verità! (“M’è venuta un’idea: trasferire in America il mio film su san Paolo”. Della cultura americana assolvevi quasi tutto, ma quanto soffristi la sera in cui due studentesse americane ti chiesero chi fosse il tuo poeta preferito, tu rispondesti naturalmente Rimbaud, e le due ignoravano chi fosse Rimbaud. Per questo lasciasti New York così insoddisfatto? Io direi di no. Direi che lasciasti New York deluso perché non c’eri morto, perché ti eri affacciato sulla voragine e non vi eri caduto. Le notti trascorse in cerca del suicidio t’avevano reso soltanto le guance più scarne, lo sguardo più febbricitante. Mi sento, dicesti, come un bambino cui è stata offerta una torta e poi gliel’hanno sottratta mentre stava per addentarla. Sì, avresti dovuto bere mille altre amarezze prima di trovare qualcuno che ti facesse il dono di ucciderti, regalarti una morte coerente dopo una vita coerente). Dicono che tu fossi capace d’essere allegro, chiassoso, e che per questo ti piacesse la compagnia della gioventù…

possiamo ricordare di Pasolini La meglio gioventù oppure il libro di poesie in dialetto friulano del 1954 quando già con sua madre viveva a Roma, essendosi trasferito in seguito alle note vicende giudiziarie, di cui abbiamo parlato la scorsa voltagiocare a calcio, per esempio, con i ragazzi delle borgate. Ma io non ti ho mai visto così. La malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situazione umana che tu capissi veramente. Se una persona non era infelice, non ti interessava. Ricordo con quale affetto, un giorno, ti chinasti su me e mi stringesti un polso e mormorasti: “Anche tu, quanto a disperazione, non scherzi!”. Forse per questo che il destino ci fece incontrare di nuovo, anni dopo. (Fu a Rio de Janeiro, dov’eri venuto con Maria Callas: in vacanza. I giornali scrivevano che eravate amanti. Lo eravate? So che due volte, nella vita, hai provato ad amare una donna: restandone deluso. Ma non credo che una di queste due donne sia stata Maria. Eravate troppo diversi, troppo divisi esteticamente e psicologicamente e culturalmente. Allo stesso tempo però sembravate così uniti da una misteriosa complicità. Il mio sospetto è che tu l’avessi adottata come sorella, per farle dimenticare l’abbandono di Aristoteles Onassis. Non ti staccavi mai da lei, l’aiutavi perfino a vestirsi e a spogliarsi. Sulla spiaggia le ungevi le spalle perché il sole non gliele arrossasse. Ai ristoranti subivi ogni suo capriccio. Sempre indulgente, paziente, sereno come un infermiere di Lambaréné (città del Gabon dove Albert Schweitzer fondò il suo ospedale, ndr). Tante le donne profondamente amate da Pier Paolo con tutta la tenerezza possibile, la complicità. Ecco alcuni nomi celebri: Elsa Morante, Laura Betti, sua musa ispiratrice, la Callas appunto, Anna Magnani, che sentiva in tutta la sua forza drammatica, la sua romanità, e Oriana. Sì, c’era in te l’eroismo del missionario (che va a curare i lebbrosi, la bontà del santo che subisce il martirio con gioia). Una sera ne parlammo, sul mare di Copacabana, dentro un tramonto di rosa e d’oro. (Maria sonnecchiava sulla sabbia, fasciata in un costume da bagno nero, io ti raccontavo delle torture con cui i brasiliani seviziavano i prigionieri politici: il pau de arara, gli elettrochoc). Ma ascoltavi malvolentieri, quasi ti irritasse turbare con tali discorsi un tramonto di rosa e d’oro. Non mi rispondevi neanche. Solo quando ti accorgesti che ciò mi feriva, e io ti aggredii (dicendo che allora non eri sincero nelle tue proteste e nelle tue battaglie, eri solo un Narciso che fingeva di battersi contro l’ingiustizia per esaudire la sua vanità), come non ricordare, riferendoci alla “Lettera a mia madre”, che i suoi fremiti pulsanti di esaltazione vitale erano dovuti ai colori che davano forma e sostanza ed esaltazione alla sua vita nei rari momenti di vera gioia. Ora il tramonto dorato e di rosa dipinto era più importante di ogni altra parola, anche se pronunciata dalla sua carissima Oriana…ti mettesti a parlare di Gesù Cristo e di san Francesco. (Nessun prete mi ha mai parlato, come te, di Gesù Cristo e di san Francesco. Una volta mi hai parlato anche di sant’Agostino, del peccato e della salvezza come li vedeva sant’Agostino. È stato quando mi hai recitato a memoria il paragrafo in cui sant’Agostino racconta di sua madre che si ubriaca. Ho compreso, in quell’occasione, che cercavi il peccato per cercare la salvezza, certo che la salvezza può venire solo dal peccato, e tanto più profondo è il peccato tanto più liberatrice è la salvezza). Però ciò che mi dicesti su Gesù e su san Francesco, (mentre Maria sonnecchiava dinanzi al mare di Copacabana), mi è rimasto come una cicatrice. Perché era un inno all’amore cantato da un uomo che non crede alla vita. Non a caso l’ho usato nel libro che non hai voluto leggere. (L’ho messo in bocca al bambino quando interviene al processo contro la sua mamma: “Non è vero che non credi all’amore, mamma. Ci credi tanto da straziarti perché ne vedi così poco, e perché quello che vedi non è mai perfetto. Tu sei fatta d’amore). Ma è sufficiente credere all’amore se non si crede alla vita?”. Anche tu eri fatto d’amore. La tua virtù più spontanea era la generosità. Non sapevi mai dire no. Regalavi a piene mani a chiunque chiedesse: sia che si trattasse di soldi, sia che si trattasse di lavoro, sia che si trattasse di amicizia. Ad Alekos Panagulis, per esempio, regalasti la prefazione ai suoi due libri di poesie. E, verso per verso, con il testo greco accanto, volesti controllare perfino se fossero tradotte bene. Ci ritrovammo per questo, rammenti? Riprendemmo a vederci quando lui fu scarcerato e venne in esilio in Italia. Andavamo spesso a cena, tutti e tre. E mangiare con te era sempre una festa, perché a mangiare con te non ci si annoiava mai. E una sera, in quel ristorante che ti piaceva per le mozzarelle, venne anche Ninetto. Ti chiamava “babbo”. E tu lo trattavi proprio come un babbo tratta suo figlio, partorito dal suo ventre e non dal suo seme. … ecco il riferimento alla “paternità materna” locuzione da me coniata per rendere l’idea poeticamente e metaforicamente. Lasciarti dopocena, invece, era uno strazio. Perché sapevamo dove andavi, ogni volta. E, ogni volta, era come vederti correre a un appuntamento con la morte. Ogni volta io avrei voluto agguantarti per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti avevo detto a New York: “Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!”. Avrei voluto gridarti che non ne avevi il diritto perché la tua vita non apparteneva a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta. Apparteneva a tutti noi. E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu. E ti odiavo quando ti allontanavi su quella automobile con cui i tre teppisti t’avrebbero schiacciato il cuore. Ti maledicevo. L’8 maggio 1976, Oriana Fallaci fi chiamata a testimoniare per la prima volta nel processo contro Pino Pelosi e, mentre tutti, anche i magistrati si dissero certi che si trattasse di un solo assassino, Oriana affermò che fossero stati almeno in tre a massacrarlo, due in motocicletta, come aveva saputo da chi vide ed ebbe paura di parlare. Da quella deposizione tutti le voltarono le spalle, la presero per pazza visionaria, e da allora ebbe vita difficilissima, soprattutto in Italia. Si rifugiò in America, sua seconda patria. Poi, molti anni dopo, nel nuovo processo del 2006, tutti dovettero ricredersi, ma Oriana era profondamente malata, sola e delusa dal genere umano e soprattutto dalla giustizia e dalla magistratura nel nostro Paese…(Ma poi l’odio si spingeva in un’ammirazione pazza, ed esclamavo: “Che uomo coraggioso!”. Non parlo del tuo coraggio morale, ora, cioè di quello che ti faceva scrivere in cambio di contumelie, incomprensioni, offese, vendette. Parlo del tuo coraggio fisico. Bisogna avere un gran fegato per frequentare la melma che frequentavi tu, di notte. Il fegato dei cristiani che insultati e sbeffeggiati entrano nel Colosseo per farsi sbranare dai leoni). Ventiquattr’ore prima che ti sbranassero, venni a Roma con Panagulis. Ci venni decisa a vederti, risponderti a voce su ciò che mi avevi scritto. Era un venerdì. E Panagulis ti telefonò a casa ma, alla terza cifra, si inseriva una voce che scandiva: “Attenzione. A causa del sabotaggio avvenuto nei giorni scorsi alla centrale dell’Eur, il servizio dei numeri che incominciano con il 59 è temporaneamente sospeso”. L’indomani accadde lo stesso. Ci dispiacque perché credevamo di venire a cena con te, sabato sera, ma ci consolammo pensando che saremmo riusciti a vederti domenica mattina. Per domenica avevamo dato appuntamento a Giancarlo Pajetta e Miriam Mafai in piazza Navona: Mi sembra giusto ricordare che importante uomo politico, partigiano, scrittore giornalista, Giancarlo Pajetta, insieme a Miriam Mafai, sua compagna di vita, di fede politica e giornalista, per almeno trent’anni, fondò il quotidiano La Repubblica 

prendiamo un aperitivo e poi andiamo a mangiare. Così verso le dieci ti telefonammo di nuovo. Ma, di nuovo, si inserì quella voce che scandiva: attenzione, a causa del sabotaggio il numero non funziona. E a piazza Navona andammo senza di te. Era una bella giornata, una giornata piena di sole. (Seduti al bar Tre Scalini ci mettemmo a parlare di Franco (Francisco Franco, il dittatore spagnolo, ndr) che non muore mai, e io pensavo: mi sarebbe piaciuto sentir Pier Paolo parlare di Franco che non muore mai). Poi si avvicinò un ragazzo che vendeva l’Unità e disse a Pajetta: “Hanno ammazzato Pasolini”. Lo disse sorridendo, quasi annunciasse la sconfitta di una squadra di calcio. Pajetta non capì. O non volle capire? Alzò una fronte aggrottata, brontolò: “Chi? Hanno ammazzato chi?”. E il ragazzo: “Pasolini”. E io, assurdamente: “Pasolini chi?”. E il ragazzo: “Come chi? Come Pasolini chi? Pasolini Pier Paolo”. E Panagulis disse: “Non è vero”. E Miriam Mafai disse: “È uno scherzo”. Però allo stesso tempo si alzò e corse a telefonare per chiedere se fosse uno scherzo. Tornò quasi subito col viso pallido. “È vero. L’hanno ammazzato davvero”. In mezzo alla piazza un giullare con i pantaloni verdi suonava un piffero lungo. Suonando ballava alzando in modo grottesco le gambe fasciate dai pantaloni verdi, e la gente rideva. “L’hanno ammazzato a Ostia, stanotte”, aggiunse Miriam. Una descrizione intensissima, di un realismo che mette i brividi, lo sconcerto di tutti, lo sperdimento per una realtà che ferisce profondamente e non si vuole accettare, non si può accettare. Qualcuno rise più forte perché il giullare ora agitava il piffero e cantava una canzone assurda. Cantava: “L’amore è morto, virgola, l’amore è morto, punto! Così io ti piango, virgola, così io ti piango, punto!”. Non andammo a mangiare. Pajetta e la Mafai si allontanarono con la testa china, io e Panagulis ci mettemmo a camminare senza sapere dove. In una strada deserta c’era un bar deserto, con la televisione accesa. Entrammo seguiti da un giovanotto che chiedeva stravolto: “Ma è vero? È vero?”. E la padrona del bar chiese: “Vero cosa?”. E il giovanotto rispose: “Di Pasolini. Pasolini ammazzato”. E la padrona del bar gridò: “Pasolini Pier Paolo? Gesù! Gesummaria! Ammazzato! Gesù! Sarà una cosa politica!”. Poi sullo schermo della televisione apparve Giuseppe Vannucchi (conduttore del telegiornale Rai, dell’epoca) e dette la notizia ufficiale. Apparvero anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?” Oriana Fallaci

Roma, 16 novembre 1975

Proprio in questi giorni la LETTERA di Oriana Fallaci viene letta negli spazi romani che videro Pier Paolo Pasolini vivere e morire. Oggi sono spazi a lui dedicati: “Parchi Letterari”.

 E io mi fermo qui. Il mio silenzio si apre alle vostre parole. Angela

sabato 19 marzo 2022

Sabato 19 marzo 2022: il Retino di stamattina in versione integrale...

Quasi aperitivo di parole. Questa volta, però, non è stato il Retino a cercarle. Ma, prima di tutto, penso alla festa di San Giuseppe, il padre putativo (dal tardo latino: putativus, cioè presunto, che è ritenuto tale pur non essendolo realmente - come ci suggerisce l’enciclopedia Treccani) di Gesù per riprendere a parlare (come ho detto e scritto la volta scorsa) della paternità materna di Pier Paolo Pasolini nei riguardi di Ninetto Davoli che appunto, come ci riferisce Oriana Fallaci, lo chiamava alla fiorentina “babbo”, ricevendo da Pasolini premure sicuramente materne di tenerezza e dolcezza, più che paterne di regole e di autorità…

Ecco, inevitabilmente ritorno a parlare di Pasolini, della sua vita e della sua morte. E naturalmente di “Supplica a mia madre”. Che riassume l’una e l’altra insieme.

Ma, per comprendere appieno la straziante poesia, occorre leggere almeno alcuni stralci più significativi della lunghissima Lettera che Oriana Fallaci scrisse dopo la sua morte.

 Ma qui, nel blog, ritengo sia più giusto lasciare per intero tutte le parole di Oriana Fallaci, Scrittrice, Giornalista, Inviata di guerra, Donna coraggiosa e forte oltre il pensabile, da me da sempre letta, amata, ammirata. Anche quando in tanti le voltarono le spalle per le sue “verità scomode”, di cui oggi registriamo con sgomento la “predittività”. Al Testo mi sono limitata ad aggiungere qualche mio doveroso commento, tanto è denso, intenso, devastato e devastante...

Ed ecco la LETTERA. Legenda: ho scritto in grassetto quanto da me letto stamattina, in carattere normale e fra parentesi quanto omesso, in rosa i miei commenti.

“Da qualche parte, Pier Paolo, mischiata a fogli e giornali e appunti, devo avere la lettera che mi scrivesti un mese fa. Quella lettera crudele, spietata, dove mi picchiavi con la stessa violenza con cui ti hanno ammazzato. Me la sono portata dietro per due o tre settimane, le ho fatto fare il giro di mezzo mondo fino a New York, poi l’ho messa non so dove e mi chiedo se un giorno la ritroverò. Spero di no. Vederla di nuovo mi farebbe male quanto me ne fece quando la lessi e rimasi intirizzita a fissar le parole, sperando di poterle dimenticare. Non le ho dimenticate, invece. Posso quasi ricostruirle a memoria. Più o meno, così: “Ho ricevuto il tuo ultimo libro. Ti odio per averlo scritto. Non sono andato oltre la seconda pagina. Non voglio leggerlo, mai. Non voglio sapere cosa v’è dentro la pancia di una donna. (naturalmente il libro incriminato è il meraviglioso Lettera a un bambino mai nato del 1975, di sole poche settimane prima della morte di Pasolini). Mi disgusta la maternità. Perdonami, ma quel disgusto io me lo porto dietro fin da bambino, quando avevo tre anni mi sembra, o forse erano sei, e udii mia madre sussurrare che…”.

Non ti risposi. Cosa si risponde a un uomo che piange la sua disperazione di trovarsi uomo, il suo dolore d’essere nato da un ventre di donna? Non era una lettera diretta a me, del resto, ma a te stesso, alla morte che rincorrevi da sempre per mettere fine alla rabbia d’essere venuto al mondo grazie a una pancia gonfia, due gambe divaricate, un cordone ombelicale che si snoda nel sangue. E come consolarti, placarti, di una simile ineluttabilità? (Le parole con cui consolarti erano nel libro che tu rifiutavi con ira, l’unico modo per placarti sarebbe stato prenderti fra le braccia: amarti come solo una donna sa amare un uomo. Ma tu non hai mai permesso a una donna di prenderti fra le braccia, amarti). Quel nostro ventre da cui sei uscito ti ha sempre riempito di orrore. Fuorché quello di tua madre, che veneravi come una Madonna messa incinta dallo Spirito Santo, dimenticando che anche tu eri stato legato a un cordone ombelicale che si snoda nel sangue… (noi donne ti incutevamo fisicamente un disgusto. Se ci accettavi, era per pietà. Se ci perdonavi, era per volontà). In ogni caso non dimenticavi mai la leggenda che dà a noi la colpa d’aver colto la mela, scoperto il peccato. Odiavi troppo il peccato, il sesso, che per te era peccato.

Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi, più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione. (Come certi frati che si flagellano, la cercavi proprio con il sesso che per te era peccato). Il sesso odioso dei ragazzi dal volto privo di intelligenza (tu che avevi il culto dell’intelligenza), dal corpo privo di grazia (tu che avevi il culto della grazia), dalla mente priva di bellezza (tu che avevi il culto della bellezza). In loro ti tuffavi, ti umiliavi, ti perdevi: tanto più voluttuosamente tanto più essi erano infami. Di loro ci cantavi con le tue belle poesie, i tuoi bei libri, i tuoi bei film. Da loro sognavi d’essere ucciso, prima o poi, per compiere il tuo suicidio. Sono cattiva a dirti questo? Sono crudele anch’io? Forse, ma sei stato tu a insegnarmi che bisogna essere sinceri a costo di sembrare cattivi, onesti a costo di risultare crudeli, e sempre coraggiosi dicendo ciò in cui si crede: anche se è scomodo, scandaloso, pericoloso. Tu scrivendo insultavi, ferivi fino a spaccare il cuore. E io non ti insulto dicendo che non è stato quel diciassettenne a ucciderti: sei stato tu a suicidarti servendoti di lui. (Io non ti ferisco dicendo che ho sempre saputo che invocavi la morte come altri invocano Dio, che agognavi il tuo assassinio come altri agognano il Paradiso. Eri così religioso, tu che ti presentavi come ateo. Avevi un tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi con la parola umanità). Solo finendo con la testa spaccata e il corpo straziato potevi spegnere la tua angoscia e appagare la tua sete di libertà. E non è vero che detestavi la violenza. Con il cervello la condannavi, ma con l’anima la invocavi: (quale unico mezzo per compiacere e castigare il demonio che bruciava in te). Non è vero che maledicevi il dolore. Ti serviva, invece, come un bisturi per estrarre l’angelo che era in te. Io me ne accorsi fin dal primo incontro, quando ci conoscemmo a New York: ormai, dieci anni fa. E quel fatto mi impressionò più del tuo genio esaltante, della tua cultura irritante, della tua fantasia scatenata. Scappavi ogni notte nei quartieri dove neanche i poliziotti osano entrare armati. (Non ti stancavi mai di sfidare la turpitudine, toccare l’orrendo, unirti ai relitti maschili dei drogati, degli invertiti, degli ubriaconi. Sia che tu ti recassi nella Bowery o a Harlem o al porto, eri sempre presente dove c’era il male e il pericolo. Arthur Rimbaud in confronto diventava un’educanda). Quante volte ho temuto di sentirmi dire che ti avevano trovato con la gola tagliata o una pallottola in cuore. Una sera te lo confessai. Eravamo dinanzi al Lincoln Center e cercavi un taxi per recarti in un posto che non volevi ammettere. Per l’impazienza apparivi inquieto, tremavi (proprio come lo ricordo io in quella sera di primo novembre). Mormorai: “Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo”. E tu mi fissasti con occhi lucidi e tristi (erano sempre tristi i tuoi occhi, anche quando ridevi), poi rispondesti ironico: “Sì?”. Ricordi, vero, quei giorni a New York? (Venivi nel mio appartamento, sedevi sul vecchio divano, chiedevi una Coca-Cola (non ti ho mai visto ubriaco e) mi raccontavi di amare New York perché era sporca, senz’anima.

Inevitabile riportare qui la straziante “Lettera a mia madre”, di cui ho fatto il dettagliato commento la volta scorsa. New York era sporca e senz’anima come i ragazzetti che lo dannavano:

Ho un’infinita fame (istinto predatorio)

D’amore, dell’amore di corpi senza anima.

 

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

Sei mia madre…

 

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

 

Sopravviviamo: ed è la confusione (la pass. genera sperdimento)

di una vita rinata fuori dalla ragione.

 

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile

A domani la seconda parte

giovedì 17 marzo 2022

Giovedì 17 marzo 2022: ancora su "JACOPO E VITALIA, UNA STORIA D'AMORE" di Angelica Grivèl Serra...

E oggi riprendo con la scrittura di Angelica Grivèl Serra per nuovi spunti di riflessione sullo stesso testo “JACOPO E VITALIA, UNA STORIA D’AMORE”, perché un testo così va sviscerato a lungo, va centellinato, assaporato, metabolizzato.

Riparto dall’inizio: “Furtiva e vigile, Vitalia osserva dall’angolo” (ed ecco immediatamente l’accostamento fascinoso di due termini: uno antico - furtiva - che mi riporta alle atmosfere romantiche di “una furtiva lagrima” dall’Elisir d’amore del grande compositore dell’Ottocento Donizzetti, e l’altro, antico certamente, - vigile - che però perdura, attraversando i secoli fino a noi. “È una parola che viene da lontano”, sostiene il mio carissimo amico e mentore Vito Di Chio, “documentata nel sanscrito e con radici indoeuropee: vig è il fonema di partenza, da cui sgorga sia vigeovigor = aver vigore, essere pieno di vita che vigil, = “che è sveglio”, “che tiene sveglio”; vigilo, vigilare, essere attento, prendersi cura sollecita dell’altro”.

Le mie conoscenze sono meno profonde e antiche. Io parto dal latino vigere: aver vigore e, quindi, essere forti e pronti a vigilare, per dare sicurezza. Si avverte subito, come felicemente mi suggerisce Vito, “il prendersi cura dell’altro”, ma è una parola che “rinvia all’essere vigile nella notte interiore, che tocca la nostra esistenza e che ognuno di noi ogni tanto sperimenta con diverse modalità…” (Vito Di Chio).

Ed è quanto avviene appunto a Vitalia (mai nome fu più giusto: nomen omen): “furtiva e vigile”, nascosta e attenta.

E Angelica continua: “Manca poco più di un’ora all’inizio”, parlando dello spettacolo che Jacopo, il figlio di Vitalia, terrà sul palcoscenico, mentre lei, nel “retropalco” sente il respiro della vita che” si affaccenda “in un brulicare di voci esigenti, richiami affrettati e strascichii di molti passi, perlopiù assorti in un andirivieni che ormai, dopo la frenesia di quattro giorni di prova”, si vanno stemperando perché conoscono a memoria quel percorso. E ci sembra di essere lì e di ascoltare quelle voci “esigenti”, quei “richiami affrettati”, quei passi che si fanno eco di altri che sopraggiungono e che passano come onde che si rimescolano ad ogni “andirivieni” assorto.

Ci troviamo a Cagliari ed è l’ora del tramonto che per un attimo distoglie Vitalia dalla sua trepida “vigilia”, rendendola meno cogente, anzi ricordandole che la sua bellezza languida, che si riverbera nelle luci dell’Anfiteatro, diventa un segno di complice buon auspicio, quasi un “in bocca al lupo”, sussurrato a lei più che a suo figlio, che non ha il tempo di trepidare ormai, per dissipare ansia ribollente e “assilli di mille paure”. Ed ora siamo passati dal retropalco all’interno del cuore e della mente della donna e ne avvertiamo i conflitti interiori che solo una madre, sola, ed emotivamente coinvolta, vive nel silenzio di sé. Ed è proprio in questa pausa di silenzi che sopraggiunge alla sua vista l’oggetto di tanto trepidante vagare con lo sguardo: Jacopo, diventato adulto di sé stesso, ma ancora piccolo negli occhi e nel cuore di sua madre, che in quella voce sicura e ferma scorge finalmente l’adulto che è diventato, andando oltre la tenerissima immagine di lui dodicenne, che “l’adulto trasfigura” (e come non sottolineare questa perla psicologica, che solo in questa espressione trova la sua compiutezza, la sua ragione d’essere  straordinaria e letterariamente in fuga verso il futuro da altri non ancora lontanamente ipotizzato?), mentre silenziosamente “gemmava” (verbo sinestetico di rara bellezza che incanta più del tramonto), lungo il sentiero fiorito dei suoi ventitré anni e dell’età ormai adulta…

Ma anche oggi mi fermo qui perché quello che segue diventa uno spettacolo nello spettacolo, teatro nel teatro, come accadde al diciassettenne Giovanni Gastel che scrisse nel suo romanzo Duetto Profano (SECOP edizioni, Corato-Bari, 2017) un romanzo nel romanzo, dimostrando una maturità d’ingegno e di scrittura di gran lunga superiore a quella a quella dei tanti scrittori ricchi di anni e di esperienza letteraria. Riprenderemo a parlare di Angelica Grivèl Serra quanto prima ancora con questo testo superlativo. Alla prossima. Angela

domenica 13 marzo 2022

Domenica 13 marzo 2022: Giovanni Gastel, un anno dopo. Angelica Grivèl Serra e la sua scrittura...

Solo ieri ho scoperto Angelica Grivèl Serra come scrittrice. E ne sono rimasta affascinata. Qualche anno fa, il mio primo incontro con i suoi occhi di LUNA, immensi e con uno sguardo verso orizzonti lontani, in una foto in bianco-nero scattata dal GRANDE Giovanni Gastel e da lui postata sulla sua Pagina FB. Anche allora rimasi affascinata da quel visetto dolcissimo e quegli occhi da cerbiatta e gli orizzonti immaginati e in fuga oltre… Scrissi immediatamente un commento che piacque al suo Autore. Anche Angelica mi sorprese subito dopo per il suo ringraziamento pieno di garbo e di calore. Poi, più nulla. Ma quella ragazzina con occhi di luna e lo sguardo lontano mi rimase nel cuore. E circa un mesetto fa l’ho contattata per commemorare, insieme, oggi 13 marzo, Giovanni Gastel a un anno dal suo improvviso volo tra le stelle. Eravamo entrambe d’accordo, vinte entrambe da una grande emozione. Poi, però, per alcuni inevitabili impedimenti, abbiamo dovuto rimandare l’incontro via web a tempi da destinarsi. E, intanto, sono sopravvenute nuove cause di rinvio per una guerra improvvisa che sta portando nuovi macigni sul cuore, oltre alle sofferenze ancora in atto per il Covid 19, crudele e devastante di questi ultimi tre anni. Noi, però, abbiamo continuato a parlarci, conoscendoci sempre più e superando persino i limiti della riservatezza e della asimmetria della nostra età. È stato molto interessante questo fitto dialogo quasi quotidiano tra noi, anche per cercare nuove possibilità di incontro, magari “in presenza” piuttosto che online, per ricordare con grande affetto e sconfinata ammirazione l’immenso Giò, sempre presente nel cuore di quanti lo hanno conosciuto e amato. Ma proprio durante queste nostre chiacchierate lei mi ha parlato di un suo romanzo, facendo riferimento a Delia, nonna della protagonista, sorprendendomi sempre più. Insomma, ho saputo non solo da lei, schiva com’è di parlare di sé in termini autoreferenziali, ma anche da… Google. E mi si è dischiuso un mondo su questa fanciulla in fiore davvero geniale e talentuosa, oltre che bellissima. Mi sono documentata anche sulla sua pagina FB, ed ecco cosa ho trovato:

“28 febbraio 2022

Oggi, nuova trama. Sì, cerco la scrittura. Anche e viepiù adesso, in questo scuro tempo di dramma inquieto. Il mio grazie, stavolta, va a Jacopo Cullin, per il suo schiudere gemme di sé offrendole al mio sguardo. E a Focusardegna, naturalmente.

JACOPO E VITALIA, UNA STORIA D'AMORE

Furtiva e vigile, Vitalia osserva dall’angolo. Manca poco più di un’ora all’inizio e, al momento, la vita si affaccenda tutta sul retropalco, in un brulicare di voci esigenti, richiami affrettati e strascichii di molti passi, perlopiù assorti in un andirivieni che ormai, dopo la frenesia di quattro giorni di prove, si è fatto esperto del luogo.

Cagliari si schiude all’epilogo del giorno, con un tramonto settembrino che declina sul mare con solennità: l’Anfiteatro si accende di quella luce morente. Vitalia distoglie per un attimo l’attenzione dai preparativi per guardarlo, quel tramonto: lo vede benevolo, come se il lento congedo del sole fosse un segno di complicità, il sussurro di un in bocca al lupo per l’evento vicino all’accadere. Del resto, dopo l’erranza di teatro in teatro attraverso ogni spicchio dell’isola, questa è ormai l’ultima tappa dello spettacolo, la più importante. Fragilissima, per le attese che su di lei crepitano: per questo, stavolta, Vitalia non può proprio mancare. E si tormenta nel dissidio tra una certa trepidazione euforica e gli assilli di mille paure.

D’un tratto, ecco, la persona che davvero Vitalia cercava nelle sue peregrinazioni di sguardo: Jacopo, finalmente. Lei immagina si trovasse impegnato in una ennesima ispezione tra gli spalti. Era inequivocabilmente sua la voce ferma che ha sentito, dieci minuti fa, mentre lui emendava un intralcio relativo all’impianto d’illuminazione. Se Jacopo impone la serietà del suo fare, sporge del tutto l’adulto che già lo abita, scavalcando l’espansiva vitalità dei suoi soli ventitré anni. Lui svetta, ritto. Quand’ecco, il miracolo dell’istante: l’adulto trasfigura. E ora non le appaiono più astrali i tempi in cui suo figlio ragazzino, nel gemmare dei suoi dodici anni, si raffrontava ancora implume, vispo e minuto a tutti i coetanei precoci, accomunati da voci tozze e da un’adolescenza già compiuta. Ed è strano vederlo oggi, con quel piglio direttivo, quando a scuola era totalmente avverso alla solerzia e comprava la simpatia dei professori con le imitazioni dei loro tic. Jacopo, ora, ha una mano impegnata in decine di fogli sgualciti; l’altra, libera, a distribuire quelli che sembrano essere pugnetti rituali d’incoraggiamento sulle spalle di tutti, in un dissipare le tensioni che si fa efficace, perché in replica gli giungono istantanee frecce di sorrisi e scoppiettii di risa diffuse.

Però è allo sguardo di Vitalia che lui spudoratamente ambisce, mentre la raggiunge con le sue falcate misurate. ‘Ma’, vai a sederti, dai, che sta arrivando gente’.

La mamma annuisce, riesce a offrirgli solo l’obolo di un sorriso timido, compromesso dalla spina dell’apprensione. Del resto, i figli sono un cappio al cuore. Te lo cannibalizzano. Gli occhi bruni, identici a quelli del figlio, cercano di arrampicarsi ad altezza di quelli di questa sua creatura: di certo, quando lui era bambino non c’era bisogno di mettersi in punta di piedi per baciarlo sulle palpebre. Comunque, Vitalia non riesce ancora a farsi contagiare dall’umore brioso di quel figlio risoluto che ama la macchina da presa davanti e dietro, adora calcare la polvere del teatro, ha molta voglia di far ridere le persone anche per i suoi stessi difetti e ha soprattutto tanta, tanta fantasia. Lei deve rassegnarsi all’irredimibile passione che negli anni lo ha portato ad andarsene tutte le estati in quei villaggi vacanze a intrattenere turiste sciantose con i valzer di fine serata per pagarsi i seminari di recitazione. E deve pure accettare il fatto che adesso lui voglia andare a Roma: le ha detto che la sua Sardegna gli ha già dato tanto, ma che ora sente il bisogno di una professionalità vera, ulteriore. ‘Devo fare studi ancora più seri, capisci, ma’?’

Jacopo scorge la punta dell’ansia nell’immobilità di sua madre, e le porge l’esortazione del suo sorriso vistoso e l’impaccio di una delle braccia troppo lunghe attorno alle spalle di lei. Il contatto gli conferma l’esilità di quella mamma minuscola eppure tetragono macigno. E mentre scioglie la stretta, lì, dietro le quinte, realizza che sua madre, con quel suo votarsi a lui, abbia reso la sua vita bella.

‘Allora vado, eh’.

Lo dice piano, Vitalia, mentre s’incammina in direzione degli spalti. Davanti a lei, l’Anfiteatro evolve in vivace bazar gremito di vita. E mentre il vortice crescente di persone lo popola sempre più, in un modo che la scaglia nello stupore, Vitalia si pente un po’ di aver insolentito Jacopo, in certe sere lontane di particolare sconforto, insistendo con la storia dell’università. Quando voleva che lui studiasse ingegneria, o magari architettura…le sarebbe andato bene anche se lui avesse scelto l’ISEF: almeno professore di ginnastica, dai. E poi tenersi il teatro come hobby. Ma lui, niente:

‘Il teatro è la mia università, ma’’.

Vitalia siede, gli spalti accesi di volti e delle luci che sì, funzionano a meraviglia. Ma lei piomba di nuovo nella paura. Le persone sapranno davvero riconoscere il talento del figlio, la passione sincera che gli ravviva il cuore? E Jacopo riuscirà a difendere quella sua volontà impetuosa dalle insidie di un ambiente così, intriso di tranelli e briganti, stanco di nocche consunte su porte sbarrate? Quante volte gli avrà detto:

‘Ma non è che mi diventi come loro, tu che sei gentile?’.

E lui: ‘Tranquilla, ma’. Vedrai, vedrai. E capirai che non lo divento, come loro. Lo sai perché? Perché sono come te’.

L’Anfiteatro ormai straborda di umanità. E mentre l’acciottolio di parole si attutisce sino a spegnersi, Vitalia raccoglie i pensieri, li annoda altrove. Tende tutta la pienezza dello sguardo laggiù, sul palco, dove la promessa dello spettacolo prende atto. Jacopo è in scena. Vitalia strizza gli occhi, a istinto giunge le mani.

Poi sente ridere, ridere, ridere ancora.

E l’ansia dilegua.”

Come non rimarcare, qualora ce ne fosse bisogno, la felice scrittura di questa ventitreenne fermamente decisa a innovare la letteratura italiana con un continuo ritorno alla tradizione classica della nostra lingua per un innato senso del bello e della musicalità, che le urge dentro come organo di chiesa lungo le navate che s’innalzano al cielo e, nello stesso tempo, decisa a guadagnare spazi non ancora visitati, sentieri di fioriture di parole non ancora percorsi. E gli esempi sono tanti in una sola pagina di una intensità sconvolgente: “Cagliari si schiude all’epilogo del giorno, con un tramonto settembrino che declina sul mare con solennità: l’Anfiteatro si accende di quella luce morente”; e ancora: “Fragilissima, per le attese che su di lei crepitano” (e le sinestesie sono sorprendenti, audaci, nuove nel contenuto e nella forma, sottolineano, almeno qui, il tamburellare quasi di “antichi legni” nel cuore di tutte “le attese”. E che dire de “l’obolo di un sorriso timido, compromesso dalla spina dell’apprensione”? Metafore davvero insolite che rendono secco, preciso, vero il significato, soprattutto psicologico oltre che filosofico, di quell’obolo di evangelica memoria. E la figura di Vitalia si erge in tutta la sua significanza di madre d’amore soggetto/oggetto dell’amore di suo figlio Iacopo. Un rapporto legato a doppia mandata dalla trepidazione della madre per la buona riuscita dello spettacolo del figlio, esso stesso metafora della vita del suo ragazzo ormai cresciuto alle sue braccia, ma ancora bambino annidato nel suo cuore. Forza dirompente e silenziosa dell’amore in una reciprocità che fa male prima di farsi successo, gloria, campane a festa nello scampanio argentino delle risate… E zio Giò, l’immenso zio Giò, dall’alto sorride compiaciuto alla sua “nipotina del cuore”. Ed io con lui. Da applauso scosciante la scrittura di Angelica Grivèl Serra. Ne riparleremo ancora e ancora A presto. Angela

domenica 6 marzo 2022

Domenica 6 marzo 2022: alcune puntualizzazioni sul RETINO di sabato 5 marzo...

Ieri la pioggia. Poi la neve. Oggi il sole con tanto vento siberiano. Ma io, in questo vortice di gelo, riprendo a parlare della poesia che mi scalda sempre il cuore e, in particolare, della Poesia di Pier Paolo Pasolini. Ripropongo, naturalmente, la sua bellissima e coinvolgente “Supplica a mia madre” con qualche dettaglio in più che ieri ho saltato e che ritengo, magari a torto, interessante condividere. Ecco nuovamente il testo con commento, a modo mio, delle parole e addirittura sillabe (digrammi) scritte in grassetto. Forse un motivo c’è. Proviamo a scoprirlo insieme…

È difficile dire con parole di figlio
Ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.


Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima di ogni altro amore.


Per questo devo dirti ciò che è orrendo conoscere: (un onomatopeico scivolare nel fango)
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. ( “ nella disperazione.)

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser soloHo un’infinita fame (enorme istinto predatorio, fatto di forte sensualità)
D’amore, dell’amore di corpi senza anima. (amore carnale diverso da quello sacro per la madre)

Perché l’anima è in te, sei tu (identificazione totale madre-anima), ma tu
Sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: (complesso edipico irrisolto)

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso (poliptoto che rafforza il senso di essere dominato)
alto, irrimediabile, di un impegno immenso. (dall’amore materno, mentre “imperativo categorico” 
è distaccarsene, ma è “un impegno immenso”)


Era l’unico modo per sentire la vita,
(il colore è fondamentale per dare “forma” alla vita, per 
“sentirla”, connotarla e farla vibrare)
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. (ma giunto a 40 anni non può più procrastinare)

Sopravviviamo: ed è la confusione (la passione fuori dalla ragione genera sperdimento)
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. (reiterata preghiera: “implorante invocazione”)
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile (speranza di rinascere con lei, solo con lei in una futura primavera del cuore e dell’anima…)


Commento più dettagliato:

Scritta dal poeta il 24 aprile 1962 (e pubblicata nel ’64 in Poesia in forma di rosa), ci offre, in maniera forte e drammatica, proprio in questi distici perlopiù rimati o assonanzati, ellittici e anaforici, la confessione di Pasolini a sua madre sull’origine psicologica, e direi quasi psicotica, della sua omosessualità e della sua passione esasperata per i minorenni, che tanta parte ebbero nelle vicissitudini giudiziarie e di povertà materiale, con perdita della cattedra e conseguente trasferimento suo e di sua madre a Roma dal 1948-1950 in poi.
Sono notizie che si sanno o che si possono reperire oggi più che mai. Tutti ne stanno parlando in questi giorni e, del resto, anch’io ho voluto osare, dopo la meravigliosa lectio magistralis sulla poesia di Pasolini da parte del grande Franco Buffoni, e dopo gli straordinari interventi di Mario Sicolo e Francesco Gallo, coordinati da Raffaella Leone in Restiamo SECOP in diretta venerdì sera.
Quello che però ho raccontato ieri mattina e vado a raccontare oggi sul blog sono le parole sottolineate dal Retino: il diverso significato, per esempio, del pronome “ciò”, ripetuto ben tre volte nei primi tre distici.
Nei tre “ciò” è possibile ravvisare una prima contraddizione della personalità così complessa e tormentata del nostro poeta: il primo “ciò” sostituisce una parola impronunciabile perché è segreta come il peccato; il secondo è una rivelazione tenerissima di purezza; il terzo, ripropone il cupo cielo della colpa, di cui egli stesso ha orrore e vergogna.
Altra devastante contraddizione: “la solitudine” a cui era condannata la vita di chi veniva considerato un “diverso” (soprattutto negli anni 40-50-60 dello scorso secolo e prima della rivoluzione sessantottina, l’omosessualità era stigmatizzata come perversione, malattia e quant’altro…). Di qui l’urgenza, avvertita dal nostro autore, di debellare la sua solitudine perché aveva troppo bisogno di amore per poter rimanere solo. Altrove, però, mi sembra di poter afferrare una nuova contraddizione (direi, una contraddizione nella contraddizione) perché più volte parla del suo bisogno di essere solo e di amare addirittura la sua solitudine: “Io avevo voglia di stare da solo perché soltanto solo, sperduto, muto, a piedi, riesco a riconoscere le cose”.
In realtà, in lui c’era una lotta continua tra ragione e fortissima pulsione sessuale verso corpi abbrutiti dal vizio e senz’anima, perché l’anima risiedeva esclusivamente in sua madre, che, sola, di lui conosceva la parte più nobile e incontaminata e segreta. L’essenza della sua purezza. Ma proprio per questo lei lo aveva reso schiavo del suo amore e lui era lucidamente consapevole del suo complesso edipico mai superato; complesso, di cui tanto si disquisiva in quegli anni rifacendosi alle teorie freudiane, che si andavano diffondendo sempre più nei primi decenni del secolo scorso.
Pasolini, dunque, sentiva su di sé il senso immenso di inadeguatezza e di fragilità che avvertiva nell’immensa consapevolezza di sentirsi vivo e innamorato della vita esclusivamente grazie a lei, a sua madre.

Da puntualizzare i versi che affermano:
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.


Persino il colore è fondamentale per dare forma alla vita perché è fatto di codici e di simboli. Pensiamo alle bandiere e alla simbologia dei loro colori che tanta parte hanno nel definire la connotazione di una nazione, di un partito politico, di una squadra di calcio e la loro storia. Il colore è molto importante anche nella simbologia della chiesa: il viola, per esempio, indica il dolore e la penitenza nel periodo pre-pasquale. Il colore influenza stati d’animo, la moda, i nostri comportamenti, l’immaginario individuale o collettivo, è persino fonte di pregiudizi. I colori sono mutevoli cambiano durante la giornata, ma anche nella vita, nelle varie culture… ma senza la luce non possiamo vederli: il mondo scompare nel profondo buio di una notte illune e senza stelle. Bellissima la simbologia o metafora che ne possiamo ricavare…
Ma, tornando a Pasolini e ai suoi distici, occorre ricordare che, giunto a 40 anni, la ragione lo obbligava a staccarsi da sua madre, senza però che gli desse la forza e il coraggio per farlo. Per cui, ancora una volta, la supplica di non morire mai perché sarà sempre lei a regalargli, con la sua insostituibile presenza, la possibilità di una futura redenzione, la speranza di riscoprire una possibile primavera dell’anima, una sempre agognata purezza del cuore.
Pier Paolo Pasolini, come sappiamo, è morto a Roma il 2 novembre 1975.
Ciò che non potete sapere è che io ero proprio a Roma, quel giorno, con mio marito per l’Anno Santo e lo incontrammo alla stazione Termini. Era da solo nella sua macchina e, a causa del traffico, procedeva e procedevamo a passo d’uomo. A lungo, quindi, potemmo affiancarlo con il taxi che ci stava accompagnando in albergo. Ci sentimmo dei privilegiati. Pasolini era là a meno di un metro da noi. Se Primo si fosse affacciato dal finestrino, avrebbe potuto toccarlo. Forse avrebbe osato sfiorarlo per almeno un saluto, ma il suo sguardo era strano, febbricitante, famelico. Uno sguardo che non ho mai dimenticato: uno sguardo corsaro, come i suoi scritti feroci, audaci, ribelli.

(Gli Scritti Corsari, come ben sapete, è una raccolta di articoli suoi e di altri autori, pubblicata, dal ’73 al ’75. Il tema centrale è legato alla società italiana di quegli anni, con tutti i suoi mali e le sue angosce. Pasolini, forte e fragile per la sua diversità, analizzò con lucido realismo il perbenismo borghese, ipocrita e stagnante, di una società che andava cambiando nei comportamenti esteriori, ma che rimaneva radicata nelle sue idee culturali e civili, attraverso anche il conformismo della società consumistica, grazie anche al precario “boom economico” di quegli anni. Sue furono le coraggiose prese di posizione sull’aborto e sul divorzio. Con un’audacia fuori dal comune per quegli anni ancora in sospensione tra passato e futuro.)

Uno sguardo d’assalto, dunque, cupo e lampeggiante insieme, di chi cercava disperatamente una preda. Pensammo subito a quali prede fosse rivolto quello sguardo così cupo e disperato. E ci sentimmo improvvisamente oppressi da uno strano senso di colpa e quasi complici… Poi, ad un bivio, ci dividemmo: noi verso la salvezza, lui verso la perdizione. Commentammo io e Primo con amarezza. E il mattino dopo la notizia. Rimanemmo sconvolti… Il mio volto sentì la carezza delle lacrime… o forse era anche la pioggia che ad un tatto cominciò a scrosciare mentre alla mente mi tornavano di lui i versi offertimi da Francesca Pice in un suo meraviglioso commento ad un mio articolo, di circa un anno fa, sulla necessità di un lavacro di pioggia e di lacrime per ritrovare la propria innocenza, sulla forza rigenerante della pioggia e della poesia. Eccola: “Ora sento, in me, un sapore di pioggia caduta,/ ogni vivacità della vita ha uno sfondo di pianto:/ Solo una forza confusa mi dice che un nuovo tempo/ comincia per tutti e ci obbliga ad essere nuovi". P.P. Pasolini (ai redattori di Officina).

E sabato 19 marzo, giorno di San Giuseppe e festa del papà, io continuerò a parlare di lui, della sua morte, ma anche della sua “materna paternità” nei riguardi di Ninetto Davoli, che lo chiamava “babbo”, ricevendo da Pasolini premure sicuramente materne di tenerezza e dolcezza, più che paterne regole di autorità…
Ne riparleremo. Alla prossima… ciao.


Ps: le puntualizzazioni riportate qui sono dovute alla gratitudine immensa che provo per quanti hanno avuto la bontà di seguirmi ieri, sabato 5 marzo, e per quelli che commentano con generosità di giudizio le mie parole, spesso anche ingarbugliate e ripetitive, ma sempre dettate dalla mente, dal cuore, dal mio sacro amore per le parole, la scrittura, la poesia…

GRAZIE anche a chi, con pazienza e dedizione, legge questo BLOG, che sempre più diventa “nostro”.

giovedì 3 marzo 2022

3 marzo 2022: Donne: parità - alterità. Un argomento di cui non si parla mai abbastanza...

Donne: parità - alterità

 “Conosceva la lingua in un modo che mi sarebbe stato sempre interdetto. La danzava con l’anima. Per lui la lingua era un manto indossabile.

Per mamma, la lingua era tenerezza, un tocco protettivo, un mezzo per raccontarmi le sue favole, per tenermi stretta alla sua vita.

E insieme, seppero condurmi ad una lingua che stava al di là delle parole segnate”.

                                                                                        (Ruth Sidransky)

Essendo tutti noi scrittori e scrittrici, poeti e poetesse, giornalisti e giornaliste, alle prese dunque sempre con la lingua scritta e con la parola scritta, ho pensato di partire, per affermare la parità e l’alterità uomo-donna, dalle parole “mute” di Ruth Sidransky, nato nel Bronx, New York, da due genitori sordi, dai quali ha imparato il linguaggio dei segni e per i quali ha “tradotto” in segni i suoni di tutto il mondo.

La citazione è tratta da In Silence, riportata da Hannah Merker nel suo libro In ascolto, Casa Editrice Corbaccio s.r.l., Milano 2000 (trad. di Paolo Lagorio)

Perché proprio le parole senza suono? Perché sono convinta che facciano più rumore…

Ho tagliato i miei lunghi capelli

Sto

lungo fischi di treni

di tutte le stazioni attraversate

-         via crucis del dolore

o viaggio verso la libertà

dei sogni liberati da catene? -

Sto

in stazioni ascoltate e perdute

o fermate con briciole di pane

per non ritrovare più la via

del ritorno?

Ho tagliato i miei lunghi capelli

di quasi cinquanta rami fioriti

come spighe di sole

dimentiche di un solo comandamento

“fa’ che i tuoi capelli siano sempre più lunghi…”

Taglio il passato

Taglio con il passato

In questa lunga vita amara da ricordare

Difficile da dimenticare per gli azzurri vissuti

e i rosa inanellati come sogni di albe lontane

come un caffè amaro bevuto alla stazione

Taglio pensieri e ferite

Taglio il dolore

La mia pelle di pesca antica è gioiosa

rivincita sopra le rughe del cuore

attende il sole della ri-nascita

che questo nuovo giorno di me di te

miracolosamente inonda

Epifania di me sola con me

E mi riconosco

Sono nella femminilità che m’appartiene

e nel maschile che mi contiene

Sto

oltre il silenzio  

che a volte ancora mi tiene compagnia

So di essere uguale e a te diversa

universo che in due dividi il mio cielo

e lo rinnovi in confini smarginati

sempre più definiti in un ascolto

di noi che ci attraversa...

                                 Angela De Leo