domenica 20 marzo 2022

Domenica 20 marzo 2022: LETTERA di Oriana Fallaci (seconda parte)...

Riprendo con la LETTERA di Oriana Fallaci dopo la morte di Pier Paolo Pasolini.

 (Di quella città straordinaria vedevi soltanto la miseria morale, da ex-colonia dicevi, da sottoproletariato, e una povertà che paragonavi alla povertà di Calcutta, Casablanca, Bombay. Un pomeriggio esclamasti: “Mi dispiace di non esser venuto qui prima, 20 o 30 anni fa, per restarci. Non mi era mai successo di innamorarmi così d’un Paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e restare per non ammazzarmi. Sì, l’Africa è come una droga che prendi per non ammazzarti. New York invece è una guerra che affronti per ammazzarti”. Eri giunto da Montréal con il treno. Eri sceso a una stazione sotterranea e non avevi trovato un facchino. Con le valigie che ti stroncavano le braccia avevi percorso un tunnel, e in fondo al tunnel c’era una luce accecante. La città t’aveva aggredito con la gloria di un’apparizione: Gerusalemme che appare agli occhi di un crociato, dicesti. I grattacieli invece li vedevi come le Dolomiti, e io ti ascoltavo in preda alla paura: eri solo poeta o anche pazzo? Non avevo mai pensato che New York potesse essere vista come Gerusalemme e i grattacieli come le Dolomiti. Ma in cima a quei grattacieli non volevi salire mai. Quante volte tentai di portarti all’ultimo piano dell’Empire State Building! Ti promettevo: “È come salire sulla vetta di un monte, il vento è pulito lassù”. Mi opponevi sempre una scusa: a te non interessava il vento pulito. Interessava la laidezza della Quarantaduesima Strada, con le sue luci rosse da inferno e i negozi che vendono pornografia. “Ieri, nella Quarantaduesima, ho visto un uomo che stava morendo. In mano aveva un pacchetto. L’ha fissato e poi l’ha scaraventato per terra con collera tale che il pacchetto s’è rotto. Dopo l’uomo s’è appoggiato al muro, è scivolato piano per terra ed è rimasto lì: a morire. Senza che nessuno si fermasse a guardarlo, aiutarlo. Neanch’io. Ma è male questo? È mancanza di pietà? Forse è una forma superiore di pietà. Capisci, lasciare gli altri morire”). Fu nel 1966 che Pasolini “scoprì” l’America, andando a New York e subito pensò di andare a trovare Oriana Fallaci, all’apice della sua fama, nel suo grattacielo nella 57^ strada. E Oriana continua con la sua lettera e i suoi ricordi: Diventammo subito amici, noi amici impossibili. Cioè io donna normale e tu uomo anormale, almeno secondo i canoni ipocriti della cosiddetta civiltà, io innamorata della vita e tu innamorato della morte. Io così dura e tu così dolce. V’era una dolcezza femminea in te, una gentilezza femminea. Anche la tua voce del resto aveva un che di femmineo, e ciò era strano perché i tuoi lineamenti erano i lineamenti di un uomo: secchi, feroci. Sì, esisteva una nascosta ferocia sui tuoi zigomi forti, sul tuo naso da pugile, sulle tue labbra sottili, una crudeltà clandestina. Ed essa si trasmetteva al tuo corpo piccolo e magro, alla tua andatura maschia, scattante, da belva che salta addosso e morde. Però quando parlavi o sorridevi o muovevi le mani diventavi gentile come una donna, soave come una donna. (E io mi sentivo quasi imbarazzata a provare quel misterioso trasporto per te. Pensavo: in fondo è lo stesso che sentirsi attratta da una donna. Come due donne, non un uomo e una donna, andavamo a comprare pantaloni per Ninetto (Davoli), giubbotti per Ninetto, e tu parlavi di lui quasi fosse stato tuo figlio: partorito dal tuo ventre, e non seminato dal tuo seme. Quasi tu fossi geloso della maternità che rimproveravi a tua madre, a noi donne. Per Ninetto, in un negozio del Village, ti invaghisti di una camicia che era la copia esatta delle camicie in uso a Sing Sing. Sul taschino sinistro era scritto: “Prigione di Stato. Galeotto numero 3678”. La provasti ripetendo: “Deliziosa, gli piacerà”. Poi uscimmo e per strada v’era un corteo a favore della guerra in Vietnam, ricordi? Tipi di mezza età alzavano cartelli su cui era scritto “Bombardate Hanoi”, e ci restasti male). Da una settimana ti affannavi a spiegarmi che il vero momento rivoluzionario non era in Cina né in Russia ma in America. (Vai a Mosca, vai a Praga, vai a Budapest e avverti che lì la rivoluzione è fallita: il socialismo ha messo al potere una classe di dirigenti e l’operaio non è padrone del proprio destino. Vai in Francia, in Italia, e ti accorgi che il comunista europeo è un uomo vuoto).Vieni in America e scopri la sinistra più bella che un marxista come me possa scoprire. I rivoluzionari di qui fanno venire in mente i primi cristiani, v’è in essi la stessa assolutezza di Cristo. Bellissima questa espressione di Pasolini che Oriana ricorda: “l’assolutezza di Cristo”, in Cristo ogni infinita verità! (“M’è venuta un’idea: trasferire in America il mio film su san Paolo”. Della cultura americana assolvevi quasi tutto, ma quanto soffristi la sera in cui due studentesse americane ti chiesero chi fosse il tuo poeta preferito, tu rispondesti naturalmente Rimbaud, e le due ignoravano chi fosse Rimbaud. Per questo lasciasti New York così insoddisfatto? Io direi di no. Direi che lasciasti New York deluso perché non c’eri morto, perché ti eri affacciato sulla voragine e non vi eri caduto. Le notti trascorse in cerca del suicidio t’avevano reso soltanto le guance più scarne, lo sguardo più febbricitante. Mi sento, dicesti, come un bambino cui è stata offerta una torta e poi gliel’hanno sottratta mentre stava per addentarla. Sì, avresti dovuto bere mille altre amarezze prima di trovare qualcuno che ti facesse il dono di ucciderti, regalarti una morte coerente dopo una vita coerente). Dicono che tu fossi capace d’essere allegro, chiassoso, e che per questo ti piacesse la compagnia della gioventù…

possiamo ricordare di Pasolini La meglio gioventù oppure il libro di poesie in dialetto friulano del 1954 quando già con sua madre viveva a Roma, essendosi trasferito in seguito alle note vicende giudiziarie, di cui abbiamo parlato la scorsa voltagiocare a calcio, per esempio, con i ragazzi delle borgate. Ma io non ti ho mai visto così. La malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situazione umana che tu capissi veramente. Se una persona non era infelice, non ti interessava. Ricordo con quale affetto, un giorno, ti chinasti su me e mi stringesti un polso e mormorasti: “Anche tu, quanto a disperazione, non scherzi!”. Forse per questo che il destino ci fece incontrare di nuovo, anni dopo. (Fu a Rio de Janeiro, dov’eri venuto con Maria Callas: in vacanza. I giornali scrivevano che eravate amanti. Lo eravate? So che due volte, nella vita, hai provato ad amare una donna: restandone deluso. Ma non credo che una di queste due donne sia stata Maria. Eravate troppo diversi, troppo divisi esteticamente e psicologicamente e culturalmente. Allo stesso tempo però sembravate così uniti da una misteriosa complicità. Il mio sospetto è che tu l’avessi adottata come sorella, per farle dimenticare l’abbandono di Aristoteles Onassis. Non ti staccavi mai da lei, l’aiutavi perfino a vestirsi e a spogliarsi. Sulla spiaggia le ungevi le spalle perché il sole non gliele arrossasse. Ai ristoranti subivi ogni suo capriccio. Sempre indulgente, paziente, sereno come un infermiere di Lambaréné (città del Gabon dove Albert Schweitzer fondò il suo ospedale, ndr). Tante le donne profondamente amate da Pier Paolo con tutta la tenerezza possibile, la complicità. Ecco alcuni nomi celebri: Elsa Morante, Laura Betti, sua musa ispiratrice, la Callas appunto, Anna Magnani, che sentiva in tutta la sua forza drammatica, la sua romanità, e Oriana. Sì, c’era in te l’eroismo del missionario (che va a curare i lebbrosi, la bontà del santo che subisce il martirio con gioia). Una sera ne parlammo, sul mare di Copacabana, dentro un tramonto di rosa e d’oro. (Maria sonnecchiava sulla sabbia, fasciata in un costume da bagno nero, io ti raccontavo delle torture con cui i brasiliani seviziavano i prigionieri politici: il pau de arara, gli elettrochoc). Ma ascoltavi malvolentieri, quasi ti irritasse turbare con tali discorsi un tramonto di rosa e d’oro. Non mi rispondevi neanche. Solo quando ti accorgesti che ciò mi feriva, e io ti aggredii (dicendo che allora non eri sincero nelle tue proteste e nelle tue battaglie, eri solo un Narciso che fingeva di battersi contro l’ingiustizia per esaudire la sua vanità), come non ricordare, riferendoci alla “Lettera a mia madre”, che i suoi fremiti pulsanti di esaltazione vitale erano dovuti ai colori che davano forma e sostanza ed esaltazione alla sua vita nei rari momenti di vera gioia. Ora il tramonto dorato e di rosa dipinto era più importante di ogni altra parola, anche se pronunciata dalla sua carissima Oriana…ti mettesti a parlare di Gesù Cristo e di san Francesco. (Nessun prete mi ha mai parlato, come te, di Gesù Cristo e di san Francesco. Una volta mi hai parlato anche di sant’Agostino, del peccato e della salvezza come li vedeva sant’Agostino. È stato quando mi hai recitato a memoria il paragrafo in cui sant’Agostino racconta di sua madre che si ubriaca. Ho compreso, in quell’occasione, che cercavi il peccato per cercare la salvezza, certo che la salvezza può venire solo dal peccato, e tanto più profondo è il peccato tanto più liberatrice è la salvezza). Però ciò che mi dicesti su Gesù e su san Francesco, (mentre Maria sonnecchiava dinanzi al mare di Copacabana), mi è rimasto come una cicatrice. Perché era un inno all’amore cantato da un uomo che non crede alla vita. Non a caso l’ho usato nel libro che non hai voluto leggere. (L’ho messo in bocca al bambino quando interviene al processo contro la sua mamma: “Non è vero che non credi all’amore, mamma. Ci credi tanto da straziarti perché ne vedi così poco, e perché quello che vedi non è mai perfetto. Tu sei fatta d’amore). Ma è sufficiente credere all’amore se non si crede alla vita?”. Anche tu eri fatto d’amore. La tua virtù più spontanea era la generosità. Non sapevi mai dire no. Regalavi a piene mani a chiunque chiedesse: sia che si trattasse di soldi, sia che si trattasse di lavoro, sia che si trattasse di amicizia. Ad Alekos Panagulis, per esempio, regalasti la prefazione ai suoi due libri di poesie. E, verso per verso, con il testo greco accanto, volesti controllare perfino se fossero tradotte bene. Ci ritrovammo per questo, rammenti? Riprendemmo a vederci quando lui fu scarcerato e venne in esilio in Italia. Andavamo spesso a cena, tutti e tre. E mangiare con te era sempre una festa, perché a mangiare con te non ci si annoiava mai. E una sera, in quel ristorante che ti piaceva per le mozzarelle, venne anche Ninetto. Ti chiamava “babbo”. E tu lo trattavi proprio come un babbo tratta suo figlio, partorito dal suo ventre e non dal suo seme. … ecco il riferimento alla “paternità materna” locuzione da me coniata per rendere l’idea poeticamente e metaforicamente. Lasciarti dopocena, invece, era uno strazio. Perché sapevamo dove andavi, ogni volta. E, ogni volta, era come vederti correre a un appuntamento con la morte. Ogni volta io avrei voluto agguantarti per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti avevo detto a New York: “Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!”. Avrei voluto gridarti che non ne avevi il diritto perché la tua vita non apparteneva a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta. Apparteneva a tutti noi. E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu. E ti odiavo quando ti allontanavi su quella automobile con cui i tre teppisti t’avrebbero schiacciato il cuore. Ti maledicevo. L’8 maggio 1976, Oriana Fallaci fi chiamata a testimoniare per la prima volta nel processo contro Pino Pelosi e, mentre tutti, anche i magistrati si dissero certi che si trattasse di un solo assassino, Oriana affermò che fossero stati almeno in tre a massacrarlo, due in motocicletta, come aveva saputo da chi vide ed ebbe paura di parlare. Da quella deposizione tutti le voltarono le spalle, la presero per pazza visionaria, e da allora ebbe vita difficilissima, soprattutto in Italia. Si rifugiò in America, sua seconda patria. Poi, molti anni dopo, nel nuovo processo del 2006, tutti dovettero ricredersi, ma Oriana era profondamente malata, sola e delusa dal genere umano e soprattutto dalla giustizia e dalla magistratura nel nostro Paese…(Ma poi l’odio si spingeva in un’ammirazione pazza, ed esclamavo: “Che uomo coraggioso!”. Non parlo del tuo coraggio morale, ora, cioè di quello che ti faceva scrivere in cambio di contumelie, incomprensioni, offese, vendette. Parlo del tuo coraggio fisico. Bisogna avere un gran fegato per frequentare la melma che frequentavi tu, di notte. Il fegato dei cristiani che insultati e sbeffeggiati entrano nel Colosseo per farsi sbranare dai leoni). Ventiquattr’ore prima che ti sbranassero, venni a Roma con Panagulis. Ci venni decisa a vederti, risponderti a voce su ciò che mi avevi scritto. Era un venerdì. E Panagulis ti telefonò a casa ma, alla terza cifra, si inseriva una voce che scandiva: “Attenzione. A causa del sabotaggio avvenuto nei giorni scorsi alla centrale dell’Eur, il servizio dei numeri che incominciano con il 59 è temporaneamente sospeso”. L’indomani accadde lo stesso. Ci dispiacque perché credevamo di venire a cena con te, sabato sera, ma ci consolammo pensando che saremmo riusciti a vederti domenica mattina. Per domenica avevamo dato appuntamento a Giancarlo Pajetta e Miriam Mafai in piazza Navona: Mi sembra giusto ricordare che importante uomo politico, partigiano, scrittore giornalista, Giancarlo Pajetta, insieme a Miriam Mafai, sua compagna di vita, di fede politica e giornalista, per almeno trent’anni, fondò il quotidiano La Repubblica 

prendiamo un aperitivo e poi andiamo a mangiare. Così verso le dieci ti telefonammo di nuovo. Ma, di nuovo, si inserì quella voce che scandiva: attenzione, a causa del sabotaggio il numero non funziona. E a piazza Navona andammo senza di te. Era una bella giornata, una giornata piena di sole. (Seduti al bar Tre Scalini ci mettemmo a parlare di Franco (Francisco Franco, il dittatore spagnolo, ndr) che non muore mai, e io pensavo: mi sarebbe piaciuto sentir Pier Paolo parlare di Franco che non muore mai). Poi si avvicinò un ragazzo che vendeva l’Unità e disse a Pajetta: “Hanno ammazzato Pasolini”. Lo disse sorridendo, quasi annunciasse la sconfitta di una squadra di calcio. Pajetta non capì. O non volle capire? Alzò una fronte aggrottata, brontolò: “Chi? Hanno ammazzato chi?”. E il ragazzo: “Pasolini”. E io, assurdamente: “Pasolini chi?”. E il ragazzo: “Come chi? Come Pasolini chi? Pasolini Pier Paolo”. E Panagulis disse: “Non è vero”. E Miriam Mafai disse: “È uno scherzo”. Però allo stesso tempo si alzò e corse a telefonare per chiedere se fosse uno scherzo. Tornò quasi subito col viso pallido. “È vero. L’hanno ammazzato davvero”. In mezzo alla piazza un giullare con i pantaloni verdi suonava un piffero lungo. Suonando ballava alzando in modo grottesco le gambe fasciate dai pantaloni verdi, e la gente rideva. “L’hanno ammazzato a Ostia, stanotte”, aggiunse Miriam. Una descrizione intensissima, di un realismo che mette i brividi, lo sconcerto di tutti, lo sperdimento per una realtà che ferisce profondamente e non si vuole accettare, non si può accettare. Qualcuno rise più forte perché il giullare ora agitava il piffero e cantava una canzone assurda. Cantava: “L’amore è morto, virgola, l’amore è morto, punto! Così io ti piango, virgola, così io ti piango, punto!”. Non andammo a mangiare. Pajetta e la Mafai si allontanarono con la testa china, io e Panagulis ci mettemmo a camminare senza sapere dove. In una strada deserta c’era un bar deserto, con la televisione accesa. Entrammo seguiti da un giovanotto che chiedeva stravolto: “Ma è vero? È vero?”. E la padrona del bar chiese: “Vero cosa?”. E il giovanotto rispose: “Di Pasolini. Pasolini ammazzato”. E la padrona del bar gridò: “Pasolini Pier Paolo? Gesù! Gesummaria! Ammazzato! Gesù! Sarà una cosa politica!”. Poi sullo schermo della televisione apparve Giuseppe Vannucchi (conduttore del telegiornale Rai, dell’epoca) e dette la notizia ufficiale. Apparvero anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?” Oriana Fallaci

Roma, 16 novembre 1975

Proprio in questi giorni la LETTERA di Oriana Fallaci viene letta negli spazi romani che videro Pier Paolo Pasolini vivere e morire. Oggi sono spazi a lui dedicati: “Parchi Letterari”.

 E io mi fermo qui. Il mio silenzio si apre alle vostre parole. Angela

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