Quasi aperitivo di parole. Questa volta, però, non è stato
il Retino a cercarle. Ma, prima di tutto, penso alla festa di San Giuseppe, il
padre putativo (dal tardo latino: putativus, cioè presunto, che è ritenuto tale
pur non essendolo realmente - come ci suggerisce l’enciclopedia Treccani) di
Gesù per riprendere a parlare (come ho detto e scritto la volta scorsa) della “paternità
materna” di Pier Paolo Pasolini nei riguardi di Ninetto Davoli che
appunto, come ci riferisce Oriana Fallaci, lo chiamava alla fiorentina “babbo”,
ricevendo da Pasolini premure sicuramente materne di tenerezza e dolcezza, più
che paterne di regole e di autorità…
Ecco, inevitabilmente ritorno a parlare di Pasolini, della
sua vita e della sua morte. E naturalmente di “Supplica a mia madre”. Che
riassume l’una e l’altra insieme.
Ma, per comprendere appieno la straziante poesia, occorre
leggere almeno alcuni stralci più significativi della lunghissima Lettera che
Oriana Fallaci scrisse dopo la sua morte.
Ma qui, nel blog, ritengo sia più giusto lasciare per
intero tutte le parole di Oriana Fallaci, Scrittrice, Giornalista, Inviata di
guerra, Donna coraggiosa e forte oltre il pensabile, da me da sempre letta,
amata, ammirata. Anche quando in tanti le voltarono le spalle per le sue “verità
scomode”, di cui oggi registriamo con sgomento la “predittività”. Al Testo mi
sono limitata ad aggiungere qualche mio doveroso commento, tanto è denso,
intenso, devastato e devastante...
Ed ecco la LETTERA. Legenda: ho scritto in grassetto quanto da me letto stamattina, in carattere normale e fra parentesi quanto omesso, in
rosa i miei commenti.
“Da qualche parte, Pier Paolo, mischiata a fogli e
giornali e appunti, devo avere la lettera che mi scrivesti un mese fa. Quella
lettera crudele, spietata, dove mi picchiavi con la stessa violenza con cui ti
hanno ammazzato. Me la sono portata dietro per due o tre settimane, le ho fatto
fare il giro di mezzo mondo fino a New York, poi l’ho messa non so dove e mi
chiedo se un giorno la ritroverò. Spero di no. Vederla di nuovo mi farebbe male
quanto me ne fece quando la lessi e rimasi intirizzita a fissar le parole,
sperando di poterle dimenticare. Non le ho dimenticate, invece. Posso quasi
ricostruirle a memoria. Più o meno, così: “Ho ricevuto il tuo ultimo libro. Ti
odio per averlo scritto. Non sono andato oltre la seconda pagina. Non voglio
leggerlo, mai. Non voglio sapere cosa v’è dentro la pancia di una donna. (naturalmente
il libro incriminato è il meraviglioso Lettera a un bambino mai
nato del 1975, di sole poche settimane prima della morte di Pasolini).
Mi disgusta la maternità. Perdonami, ma quel disgusto io me lo porto dietro fin
da bambino, quando avevo tre anni mi sembra, o forse erano sei, e udii mia
madre sussurrare che…”.
Non ti risposi. Cosa si risponde a un uomo che piange la
sua disperazione di trovarsi uomo, il suo dolore d’essere nato da un ventre di
donna? Non era una lettera diretta a me, del resto, ma a te stesso, alla morte
che rincorrevi da sempre per mettere fine alla rabbia d’essere venuto al mondo
grazie a una pancia gonfia, due gambe divaricate, un cordone ombelicale che si
snoda nel sangue. E come consolarti, placarti, di una simile ineluttabilità? (Le
parole con cui consolarti erano nel libro che tu rifiutavi con ira, l’unico
modo per placarti sarebbe stato prenderti fra le braccia: amarti come solo una
donna sa amare un uomo. Ma tu non hai mai permesso a una donna di prenderti fra
le braccia, amarti). Quel nostro ventre da cui sei uscito ti ha sempre
riempito di orrore. Fuorché quello di tua madre, che veneravi come una Madonna
messa incinta dallo Spirito Santo, dimenticando che anche tu eri stato legato a
un cordone ombelicale che si snoda nel sangue… (noi donne ti
incutevamo fisicamente un disgusto. Se ci accettavi, era per pietà. Se ci perdonavi,
era per volontà). In ogni caso non dimenticavi mai la leggenda che dà a noi
la colpa d’aver colto la mela, scoperto il peccato. Odiavi troppo il peccato,
il sesso, che per te era peccato.
Amavi troppo la purezza, la castità che per te era
salvezza. E meno purezza trovavi, più ti vendicavi cercando la sporcizia, la
sofferenza, la volgarità: come una punizione. (Come certi frati che si
flagellano, la cercavi proprio con il sesso che per te era peccato). Il
sesso odioso dei ragazzi dal volto privo di intelligenza (tu che avevi il culto
dell’intelligenza), dal corpo privo di grazia (tu che avevi il culto della
grazia), dalla mente priva di bellezza (tu che avevi il culto della bellezza).
In loro ti tuffavi, ti umiliavi, ti perdevi: tanto più voluttuosamente tanto
più essi erano infami. Di loro ci cantavi con le tue belle poesie, i tuoi bei
libri, i tuoi bei film. Da loro sognavi d’essere ucciso, prima o poi, per
compiere il tuo suicidio. Sono cattiva a dirti questo? Sono crudele anch’io?
Forse, ma sei stato tu a insegnarmi che bisogna essere sinceri a costo di
sembrare cattivi, onesti a costo di risultare crudeli, e sempre coraggiosi
dicendo ciò in cui si crede: anche se è scomodo, scandaloso, pericoloso. Tu
scrivendo insultavi, ferivi fino a spaccare il cuore. E io non ti insulto
dicendo che non è stato quel diciassettenne a ucciderti: sei stato tu a
suicidarti servendoti di lui. (Io non ti ferisco dicendo che ho sempre
saputo che invocavi la morte come altri invocano Dio, che agognavi il tuo
assassinio come altri agognano il Paradiso. Eri così religioso, tu che ti
presentavi come ateo. Avevi un tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi
con la parola umanità). Solo finendo con la testa spaccata e il corpo
straziato potevi spegnere la tua angoscia e appagare la tua sete di libertà. E
non è vero che detestavi la violenza. Con il cervello la condannavi, ma con
l’anima la invocavi: (quale unico mezzo per compiacere e castigare il
demonio che bruciava in te). Non è vero che maledicevi il dolore. Ti
serviva, invece, come un bisturi per estrarre l’angelo che era in te. Io me ne
accorsi fin dal primo incontro, quando ci conoscemmo a New York: ormai, dieci
anni fa. E quel fatto mi impressionò più del tuo genio esaltante, della tua
cultura irritante, della tua fantasia scatenata. Scappavi ogni notte nei
quartieri dove neanche i poliziotti osano entrare armati. (Non ti
stancavi mai di sfidare la turpitudine, toccare l’orrendo, unirti ai relitti
maschili dei drogati, degli invertiti, degli ubriaconi. Sia che tu ti recassi
nella Bowery o a Harlem o al porto, eri sempre presente dove c’era il male e il
pericolo. Arthur Rimbaud in confronto diventava un’educanda). Quante
volte ho temuto di sentirmi dire che ti avevano trovato con la gola tagliata o
una pallottola in cuore. Una sera te lo confessai. Eravamo dinanzi al Lincoln
Center e cercavi un taxi per recarti in un posto che non volevi ammettere. Per
l’impazienza apparivi inquieto, tremavi (proprio come lo ricordo io in quella
sera di primo novembre). Mormorai: “Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo”. E
tu mi fissasti con occhi lucidi e tristi (erano sempre tristi i tuoi occhi,
anche quando ridevi), poi rispondesti ironico: “Sì?”. Ricordi, vero, quei
giorni a New York? (Venivi nel mio appartamento, sedevi sul vecchio divano,
chiedevi una Coca-Cola (non ti ho mai visto ubriaco e) mi raccontavi di
amare New York perché era sporca, senz’anima.
Inevitabile riportare qui la straziante “Lettera a mia
madre”, di cui ho fatto il dettagliato commento la volta scorsa. New York era
sporca e senz’anima come i ragazzetti che lo dannavano:
Ho un’infinita fame (istinto
predatorio)
D’amore, dell’amore di corpi senza
anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
Sei mia madre…
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora
è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione (la
pass. genera sperdimento)
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile
A domani la seconda parte
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