mercoledì 19 agosto 2020

Dei tuoi versi che urlano al cielo


Al mio fraterno amico d'anima e poesia, Gjeke Marinaj.


I giorni, che si moltiplicano sul nodo scorsoio della paura, mi lasciano dentro un'ansia di coraggio da ritrovare e così ritrovo i tuoi versi e quel tuo grido di dolore, e la tua coraggiosa poesia

"CAVALLI"

del 19 agosto di trent'anni fa, che si fece eco senza fine su <Drita>, il Quotidiano Albanese di cronaca a carattere nazionale. 

A una prima lettura, ai più sembrò una semplice poesia in difesa degli animali e, in particolare, degli stupendi cavalli dallo sguardo fiero e dalla cavalcata elegante e maestosa, purtroppo in cattività.

In realtà, si trattò di una feroce satira politico- socio-culturale da parte tua sulle condizioni del tuo popolo. Fu un coraggioso atto di ribellione al regime comunista da parte di un audace (e forse incosciente) venticinquenne,  poeta e giornalista non ancora famoso.

A distanza di trent'anni la tua poesia, fratello mio, è ancora forte e viva e si fa ancora canto di ribellione e preghiera allo stesso tempo.

La stralcio da quella meravigliosa silloge di poesie, Schizzi d'immaginazione, edita dalla SECOP edizioni e te ne dedico le mie emozioni di rimando.


CAVALLI di Gjeke Marinaj

Per tutta la nostra vita siamo in viaggio,

Guardando sempre avanti,

Quel che c’è dietro di noi abbiamo paura di saperlo.

Tutti noi non abbiamo un nome,

Cavalli, ecco come ci chiamano.

 Senza piangere,

 Senza ridere,

 In silenzio,

 Ascoltiamo,

 Mangiamo quel che ci danno,

 Andiamo dove ci dicono,

 E nessuno di noi è una gran testa.

Chi era il cavallo di un re

Aveva un grado più alto;

Chi era il cavallo di una principessa

Era sellato d’oro;

Chi era il cavallo d’un contadino

Era sellato di paglia;

Chi gli disobbediva

Dormiva sempre all’addiaccio:

Ma con gli umani, sempre cavalli restiamo!


Stupendo inizio con un "Per" che indica già di per sé un avvio in movimento, riguardante il "viaggio" di tutta "la nostra vita" con la determinazione a raggiungere una meta. Ognuno dovrebbe averne una propria, prefiggersi uno scopo, una missione che dia senso a tutto il viaggio. Ma la realtà è diversa. È possibile stabilire la meta se non si ha paura del passato, che è un possibile "futuro capovolto": è dalla esperienza vissuta da noi e dai nostri antenati che occorre ripartire per continuare sul loro esempio oppure per ribellarsi alla tradizione e al silenzio e rinascere e realizzare un futuro migliore. Il timore di ricordare un passato difficile diventa ostacolo alla costruzione di un futuro diverso.

Ed ecco il disvelamento: i protagonisti di questi versi, che urlano al cielo una storia amara di soprusi, non hanno un nome: sono semplicemente cavalli. Animali eleganti, nobili e fieri nel loro andare, ma non in questo caso. I due anaforici quanto suggestivi versi che seguono, brevi come uno sperdimento, definiscono un vuoto, una deprivazione: "Senza"

Senza piangere

Senza ridere.

A questi cavalli non è concesso avere lacrime o risate. Ossimoro meraviglioso ad indicare la gioia e il dolore: i punti estremi di ogni sentimento, in cui si snoda la vita della mente e del cuore di ciascun essere umano. 

Al nulla che il "Senza" definisce segue l'inevitabile silenzio dell'asservimento. Piegata/piagata è la volontà di reagire. Il silenzio, in questo caso, non prelude al rumore del mondo o alla parola di ribellione o al canto della sfida e della vittoria. E neppure alla preghiera di gratitudine e di ringraziamento. Qui  anche il silenzio è assenza di qualcosa di vitale che indica movimento e pensiero, libertà di essere e di andare per perseguire la meta e realizzarsi. 

Qui c'è solo un chinare la testa al volere altrui, del più forte, di chi esercita il Potere con coercizione e violenza. E impedisce di pensare. È concesso solo di eseguire compiti con mezzi e ruoli diversi, ma estraniandosi da sé per assecondare il potente di turno, fosse un re o una principessa. 

Ed ecco che improvvisamente i versi scoprono i verbi all'imperfetto. Il presente cede l'azione a un passato senza tempo, al "c'era" delle fiabe, che a volte sanno essere crudeli e non assicurano il lieto fine se non dopo la fuga e l'allontanamento del protagonista con relativa sfida e combattimento contro l'antagonista, fino alla sua morte. 

Il primo (il re) consentiva al cavallo di avere un "grado più alto" nella sua schiavitù, e la  seconda (la principessa) di mostrare "una sella d'oro" e fingere una ricchezza che non possedeva. Ma c'era anche il cavallo del contadino che era "sellato di paglia" e, se disubbidiva, veniva mandato fuori a morire al freddo e al gelo.

E qui d'improvviso il tempo del verbo cambia nuovamente: il "c'era" diventa presente e attualizza la condizione di schiavitù dei cavalli. Ma, se nelle fiabe la fine del combattimento, che decretava la morte dell'antagonista e il ritorno dell'eroe a casa, permetteva a quest'ultimo di  concludere la fiaba con il lieto fine, questa poesia non è una fiaba e non può avere il lieto fine se l'ultimo verso si copre di amara e spietata rassegnazione: "Ma con gli umani sempre cavalli restiamo!".

E il punto esclamativo sancisce il "grido di dolore" del poeta di fronte ad una realtà che urla la disumana condizione di asservimento dei "cavalli", suoi compatrioti, al potere del Regime comunista nella sua amatissima Patria, l'Albania. 

Gli Albanesi, allora, rimasero increduli, ma in poche ore comprarono tutte le copie del giornale. 

Molti si affrettarono a scrivere quei versi su pezzettini di carta per diffonderli dappertutto, fino a farne un inno di protesta durante le numerose manifestazioni antigovernative, che di lì a poco si accesero come fuoco controvento per incendiare cuori e volontà. 

E tu, mio caro Gieke, diventasti in brevissimo tempo l'eroe dell'Autonomia e della Libertà Albanese. Ma anche il ragazzo costretto (e determinato) a fuggire di notte per evitare il rischio tangibile di essere impiccato come altri poeti dissenzienti prima di te. Non più l'eroe di una fiaba a lieto fine, ma l'esule di una storia vera in un nuovo percorso, difficile e tortuoso quanto solitario e disperato, tra straniere genti. Qualche volta, però, anche la storia offre ai suoi ardimentosi protagonisti un lieto fine. 

Tu, Gjeke Marinaj, ne sei oggi la dimostrazione più bella e vera e gloriosa. E tutto il mondo ti applaude come Poeta raffinato, Ideatore della teoria filantropica e filosofica del Protonismo che fa di te, meritatamente, l'Ambasciatore di Pace tra tutti i Popoli del nostro Pianeta.

Grazie, mio caro, per il dono di tutto questo che oggi è per me un nuovo inno al mai sopito coraggio della Parola.

                                                                    Angela De Leo

venerdì 7 agosto 2020

La nostra umanità alla deriva

 

Ho dovuto attraversare il silenzio di circa una settimana per ritrovare il senso delle parole e dare voce ad uno sgomento senza fine: il primo agosto una donna a Crema ha deciso di protestare contro un mondo che molto probabilmente non riusciva più ad accettare, dandosi fuoco in un parco appena fuori città. Circa venti passanti si sono fermati per assistere alla sua disperata protesta senza muovere un dito, anzi filmando col telefonino la “scena” quasi fosse un film e non una tragica realtà. Solo un signore è sceso dalla sua macchina per prestare soccorso alla donna, aiutato da un paio di ragazzi che sono accorsi con un estintore, invano. Non c’è stato modo di salvarla. Vano anche l’intervento del 118 che, chiamato d’urgenza dal pietoso soccorritore, non ha ritenuto opportuno neppure portarla in ospedale, avendone constatata la morte.

Ma la stessa sindaca di Crema è rimasta sconcertata e fortemente provata dalla terribile vicenda, non solo per l’indifferenza dei suoi concittadini, quanto e soprattutto per la loro assoluta mancanza di umanità.

Uno su venti l’assurda statistica che la mente, dopo giorni di muto rifiuto di pensare, per una sopravvivenza istintiva alla penetrazione profonda e dolorosa di questa sconcertante verità, registra e ne avverte la fiamma ustionante nelle viscere e si ribella. È una realtà talmente inaccettabile da urlare ora al cielo lo sdegno e la paura: sdegno per la nostra società alla deriva, dominata ormai da un linguaggio che non appartiene agli uomini, ma alla tecnologia digitale che ci ha resi sempre più schiavi della comunicazione virtuale a discapito di quella reale; paura perché, attraverso la dipendenza patologica da smartphone e tablet con l’iperconnessione continua, sempre più si sta producendo tra gli adolescenti, ma anche tra adulti e anziani, un progressivo “isolamento sociale” e “distacco dalla realtà”.  Con conseguenze davvero pericolose per la nostra stessa salute fisica e mentale.

Macchine tra le macchine, dunque.

E l’acutezza della mente non disgiunta dalla sensibilità del cuore? Appiattite se non del tutto azzerate, come tanti comportamenti ormai evidenziano e dimostrano. E non sembra più il caso di liquidare il fenomeno con qualche vignetta o battuta per evitare di sottolinearne gli aspetti negativi tout-court. Per via dei suoi innegabili aspetti positivi, di cui bisogna tener necessariamente conto ai nostri giorni.

Diventa, comunque, sempre più urgente qualche amara o drammatica riflessione: come salvarci dallo scempio della nostra anima cristallizzata in una sorta di glaciazione di anelito spirituale nella totale desertificazione del cuore?

L’episodio terribile di Crema non è isolato né riguarda una sola città. Basta osservare la realtà che ci circonda o leggere, guardare, ascoltare gli avvenimenti della cronaca quotidiana per inorridire di fronte ai tanti casi di bullismo e ciberbullismo, che gli adolescenti praticano con violenza inaudita, utilizzando anche dei video di scene raccapriccianti che vengono fatte circolare poi sulle chat e sui social network, in un crescendo di delirio di onnipotenza e di presunta immortalità, nonché di manipolazione delle coscienze delle vittime fino a indurle, come spesso è accaduto, persino al suicidio.

Cosa scatta nella mente di questi ragazzi? Cosa è venuto a mancare nelle prime fasi della loro vita? Indubbiamente l’amore e la cura dei genitori, mentre si è aggiunto l’esempio di una società distratta, indifferente, egoista, “liquida” (Z. Bauman) e senza più “puntelli” valoriali. Un bambino atteso, amato e allevato con cura non potrà mai diventare un ragazzo violento o un uomo senza scrupoli. Certo, non dobbiamo sottovalutare le influenze sociali e il cattivo esempio che ne deriva. Ma niente, a mio parere, è più forte dell’amore, quello autentico che non lascia spazio alla mistificazione e alla penetrazione nelle personalità più fragili di comportamenti alienanti e fuorvianti.

La donna di Crema è stata identificata. Per la polizia, che sta facendo indagini sulla sua dolorosa vicenda, ha un nome e un’età. Ma per tutti noi è rimasta senza volto e senza storia. Molto giovane, anche se non più giovanissima, ha reso visibili, col suo gesto disperato, sicuramente un dolore nascosto, ma forse anche una mancanza, un’assenza, una delusione, un tradimento, una difficolta economica divorante, una solitudine subìta e non accettata, di cui non sapremo mai.

La sua coscienza obnubilata da un peso troppo grande sul cuore per impedire persino alla sua anima di volare oltre ogni possibile miseria umana? Non lo sapremo mai.

Ma è la nostra coscienza che dovrebbe risvegliarsi e ribellarsi fortemente alla narcosi   della realtà virtuale e farsi lucida e attenta custode della nostra umanità. Quella autentica, reale, legata ai valori di sempre, per rinascere infinite volte e magari   permettere nuovi tenerissimi voli alle anime deboli o spezzate e distrutte. Abbiamo tutti bisogno di tenerezza, che lo si voglia ammettere o meno. “Nessuno si salva da solo” (M. Mazzantini). Frase riproposta da Papa Francesco nelle sue straordinarie omelie in Santa Marta.

 Se uno su venti sente ancora il senso della sacralità della vita, c’è ancora speranza che il rigagnolo si faccia fiume, mare, oceano. Non può essere troppo tardi.

Sono le gocce, una ad una, a formare le distese delle azzurre acque e a sollecitare il nostro stupore, che ci permette di ritrovare il miracolo del sentiero fiorito della nostra spiritualità tra il bianco spumeggiare improvviso delle onde e farsi nuova sorgente di Innocenza e di Vita. Preghiera.