lunedì 26 febbraio 2018

L'INCANTO DELLA NEVE: ORA COME ALLORA...


Lunedì, 26 febbraio 2018

Nevica. Abbiamo una neve annunciata dal meteo già da alcuni giorni. È stata, dunque, una neve attesa, ma l’incanto è rimasto quello che mi sorprendeva da bambina. Ed ecco un tuffo nel tempo passato, racchiuso nel libro, Le piogge e i ciliegi, che presto vedrà la luce… Spero.
“Le lunghe sere d'inverno si colmavano delle tue parole.
Racconti fantastici, aneddoti, ricordi di guerra, filastrocche in dialetto illuminavano il buio delle nostre notti.
(Il giornale radio, non ancora pausa breve di realtà da me ignorata).
Fuori la neve vorticava silenziosa, posandosi incantata e leggera sui davanzali delle finestre, sui vasi dei balconi stretti in strette strade che dimenticavano il cielo alto su alti terrazzi quasi a toccarsi tra loro”.
E quel sogno bianco attraversò la tenerezza della mia infanzia quando vidi turbinare quelle farfalle luminose e candide come piume d’angeli per la prima volta in via Maggiore angolo via De Rossi, dove era di casa la mia prima casa. Ma già a sei anni andai via in un paesino sui monti del Gargano… e anche lì la neve fu prodigio da guardare con occhi grandi e cuore in tumulto…
Anche “… in quel paesino, che si arrampicava fino al cielo, cadeva la neve. Tanta. A novembre quelle case da presepe, ed esposte a mille venti e all’incessante precipitare delle pietre lungo le scarpate, si vestivano di bianco e di silenzio.
                                             E del nostro stupore
Noi, appollaiati dietro i vetri al tepore di maglioni indossati l’uno sull’altro e dei bracieri accesi nelle diverse stanze… senza la tua voce il fuoco le scintille i tuoi racconti.
Magia di un silenzio come di bianca preghiera, di sposa all’altare, di bianche lucciole fluttuanti a mezz’aria senza più mani ad interrompere il loro lieve e incantato volo…
E quelle vie sembravano inerpicarsi davvero fino al cielo, nell’imbroglio della tormenta che lo rendeva più sfumato e vicino, e con piccole sporgenze sul lastricato dove noi, se costretti ad uscire per andare in chiesa sulla cima più alta di quel nido di case, piantellavamo i piedi per avere maggior forza nell’attraversarle incolumi senza scivolare sul ghiaccio…
E… meraviglia delle meraviglie! La bianca neve, da noi raccolta a piene mani e messa in grandi bicchieri fioriva di rosso per il vincotto che tu ci mandavi. Dolce delizia di acceso   corallo in quell’abbagliante splendore... e non era più neve.
                             Era nonno. Era nonna. Era carezza. Era amore. Lontananza.
                                             Breve ricordo… piccola nostalgia…   

Nell’aria trasognata
intrisa di silenzi
tra case di cristallo addormentate
bianche farfalle di neve
su vesti nere
in fila lungo la scia di campane
passere scure a punteggiare
una fiaba di magico candore
        (la mia infanzia)
(“La mia infanzia”, da il gelso e le rose)

(Oggi non più. La neve è inquinata. E il vincotto è diventato una rarità. Né le vecchine vestite di nero affollano le chiese, che rimangono silenziose e prive di preghiere. Estranee al mondo. Nonostante il rinnovamento della Chiesa con il Concilio Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII nel dicembre del '61, una rinata speranza).

E, più tardi, la neve morbida e bianca, che si posava sui rami spogli del gelso rosso senza più colore né nidi e bisbigli nelle sere del loro ultimo canto, si riprese la tua fiaba e ci restituì la tua voce, mentre s’addormentava sul tetto spiovente della tettoia degli attrezzi dei campi; sul grande camino al centro del cortile; sulla gabbietta intirizzita del nostro usignolo; sul bianco più bianco del nostro incanto.
Noi si restava al buio. Per guardare quella coltre soffice come di luna a regalarci il silenzio delle cose e degli uomini. I volti rischiarati dalla penombra rossastra dei carboni accesi nel braciere e gli occhi persi su quel sognante volo, su cui fiorivano le immagini evanescenti che le tue parole accendevano davanti ai nostri occhi.
(E il giornale radio ad interrompere l’incanto e la fantasia per darci scampoli di realtà).
                                            E anche oggi nevica...
Sì, nevica. I lucernari cominciano a coprirsi di fiocchipiume e il giardino si fa candido parco d’argenteo lucore...
Lara mi sorride, triste, in attesa di Zivago, il suo dottore poeta, e i girasoli del loro incontro sono ancora sepolti dalla neve...
Il Tema di Lara riempie le mie stanze...
(dove non so/ ma un giorno ti vedrò/ e fermerò/ il tempo su di noooi/ dove non so/ sarò vicino a teeee/… forse sarà domani o nooo/ forse lontano da qui o o o nooo…)
Allora la neve portava le tue fiabe su cavalli alati che entravano nella nostra casa e avevano un manto bianco e occhi di brace come ciocchi ardenti a riscaldarci...
La tua voce ferma, che ascoltavo trasognata, era il nostro pane quotidiano.
Mai spenta l'eco delle tue parole che, nel reiterato annuncio, dilatavano il tempo e lo stupore, il sogno e la magia
(‘ngèjrə e ‘ngèjrə ‘na vóltəc’era e c’era una volta…)”




martedì 20 febbraio 2018

LA TAVOLOZZA DEL POETA


LA TAVOLOZZA DEL POETA
Premio Internazionale di Poesia, Pittura e Fotografia
in memoria di Primo Leone




Signore, portami dove devo
andare:
accompagnami,
io mi chiamo Primo, Signore,
e Tu?

So la Tua cortesia, Signore,
all’ora giusta portami alla
Via
e non permettermi distrazioni…
Te l’ho detto che mi chiamo Primo,
Signore?
e Tu? Almeno Tu.
È vero che Ti chiami… Amore?

                    Cris Chiapperini



E il Signore chiamò a Sé Primo Leone il 4/6/2008.
Dieci anni fa.
E lui si presentò dicendoGli: “Io mi chiamo Primo, Signore”, Primo Leone, e non Gli fece la domanda: “E Tu?”, fidandosi di quanto gli aveva appena suggerito Cris, ma preferì continuare con le sue note referenziali, sperando nella clemenza del Giudice Supremo nell’udire: “Sono un poeta, ma anche un pittore e mi diletto di fotografia e amo il cinema, la musica e tutto ciò che hai creato di bello. Sono un creativo, insomma. E non ho mai fatto calcoli matematici né mi sono ancorato al passato o proiettato nel futuro. Come tutti i creativi ho vissuto nell’eterno presente del qui e ora non sapendo razionalizzare la mia esistenza e programmare i miei giorni con senso pratico e discernimento. Folle come tutti i folli che Tu hai voluto perché si ubriacassero della Tua Bellezza e scoprissero che avevi disegnato il mondo mentre lo sognavi. E i poeti e i sognatori vivono sempre in bilico tra sogno e realtà, come Tu hai sperato. Mi sono anche laureato e ho svolto un lavoro di responsabilità, ma non sono riuscito mai a farmene una ragione di vita. Non potevo chiudermi nelle gabbie del dovere, del grigiore di giorni sempre uguali. Tu mi hai dato il desiderio di un volo più alto e hai messo tra le mie mani una tavolozza di colori infiniti che ho trasformato in immagini e in parole, mescolando il vero con l’onirico, il cielo con il mare, sulle cui onde ho imparato a navigare alla scoperta di orizzonti che avevano nuove strade e nuovi confini. E li ho dipinti e li ho cantati come si canta il Creato e la Tua gloria, Signore. Ora eccomi qui, pronto alla Tua chiamata. Ma ho perso la Via giusta. E sono sperduto e confuso e ho bisogno di Te per chiederTi almeno di ritornare ad indicarmela in nome del Tuo Nome. Mi hanno detto che ti chiami… Amore! Sono in buone mani.
Sono giunto dove ogni Bellezza si fa completo appagamento. E la giusta Via è un ricamo di Luce da fotografare, dipingere, scrivere perché rimanga il segno vivo del mio passaggio sulla Terra. Nella speranza che altri creativi come me facciano tesoro dei doni da Te ricevuti: due occhi bambini per ritornare ogni giorno al primo giorno di sé, alla prima aurora del mondo”.

Come compagna di vita di Primo per circa sessant’anni, ho raccolto il sussurro delle sue parole, riportando alla mente del cuore i teneri versi che il mio carissimo amico Cris Chiapperini, che ora sta sicuramente chiacchierando con Primo di poesia tra le stupite stelle, scrisse per lui quel 4 giugno di dieci anni fa.
E sono qui a chiarire il senso e il significato di questo premio di Poesia, Pittura e Fotografia che noi della SECOP edizioni, accogliendo il desiderio del nostro editore, Peppino Piacente, siamo lieti di promuovere per ricordare degnamente Primo Leone nel decimo anniversario del suo volo tra le stelle, perché il messaggio della sua Arte poliedrica e autentica non si perda nel buio della dimenticanza.
Primo Leone

giovedì 15 febbraio 2018

SULL'AMORE

Ieri, giorno di San Valentino e, dunque, della “festa degli innamorati” ha avuto più una impronta commerciale che sentimentale. Oggi, che i fiori sono quasi appassiti, i cioccolatini dimezzati, i doni preziosi o meno importanti riposti nel cassetto, mi piace riflettere sull’Amore come Palpito del Cuore, Luce dell’Anima in cui è riposta ogni Speranza…

                                                          SULL' AMORE

Dell’amore non si dovrebbe parlare perché l’amore va sentito, assaporato, vissuto, sofferto. Eppure tutti parliamo d’amore quasi a colmare il vuoto che ci lascia questo sentimento inappagato perché è tanto grande da comprenderci tutti, ma tanto fragile da lasciarci sempre e comunque una ferita. Anche quando è reciproco. Condiviso. La inevitabile diversa intensità è fonte di dolore. La felicità, in amore, è l’attimo in cui i sensi sono accesi in entrambi e il cuore batte all’unisono…
Ma non è facile che ciò avvenga, occorre appunto “cogliere l'attimo”.
Ogni sentimento, intanto, nasce da un incontro: quello della madre col proprio bambino, che “sente” forse sin dal momento del concepimento; quello tra padre e figlio, appena il papà prende tra le braccia quel batuffolo di carne e di pianto; quello tra nonno e nipotino comincia con la prima carezza; quello di due destinati ad amarsi o a volersi bene o ad odiarsi, a diventare amanti, amici o nemici, comincia così quasi sempre per caso, ed è dovuto ad una folgorazione e non è mai un qualsiasi incontro.
Incontro: termine che sta ad indicare, nel suo intero, “trovare davanti a sé qualcuno”, “andare verso”, “unirsi”. Ma, se diviso in due (in-contro), significa: in= sono con te al centro di me nella mia pienezza, al centro del tuo interesse e al centro di ciò che mi circonda, ci sono; contro= già sono altro da te, e a te mi oppongo per salvaguardare la mia identità. Per non essere da te colonizzato. Prima naturale diffidenza verso l'altro. Perciò, ogni rapporto affettivo è conflittuale, fragile, provvisorio, altalenante. C'è sempre un incontro/scontro di personalità, di culture, generazioni, modi di vivere e di vedere le cose: modi di pensarle, pesarle, valutarle. Con l'istinto, con la testa, con il cuore. Quando un rapporto dura nel tempo, avviene perché ci si “consegna” all'altro o unilateralmente o reciprocamente, perché si impara a conoscere l'altro/a e a riconoscersi in quello che si è, si può dare o ricevere; a fidarsi, a capirsi, a stimarsi e ad affidarsi: ci si abbandona all'altro/a dopo aver conquistato la consapevolezza di ogni altro da sé, oppure per trasporto naturale o, semplicemente, per amore. Soltanto per amore.
Ecco, l'amore. Non è facile parlarne perché tra tutti gli “incontri” è quello più misterioso, complicato, complesso. Non credo, come alcuni studiosi sostengono, che sia pura chimica biologica o un fatto di ormoni o di feromoni; credo che alla base ci sia quella misteriosa attrazione che viene da lontano perché si vada lontano insieme. Perché fra migliaia di persone, che si incontrano nella vita, proprio lui, proprio lei? E magari nel luogo giusto e al momento giusto?
L'amore, dunque, è mistero. Come tutto ciò che è immenso rispetto alla nostra finitezza di piccoli uomini, venuti a far parte, senza sapere come e perché, di un arcano: ricamo di universi, anch'essi innamorati, che vanno a generarsi all'infinito. L'IMMENSO nell'IMMENSO!
Allora, l'AMORE è, almeno per me, quella meravigliosa fragilissima FORZA che si fortifica, centuplicando all'infinito la sua POTENZA, per tenere in vita il TUTTO. Parlo di quella energia incommensurabile che tiene insieme fortemente coeso, per l'attrazione dei corpi celesti, il Creato.
Immensamente grande, perciò, è l'AMORE per essere compreso e vissuto nella sua totalità da esseri immensamente piccoli, quali siamo noi uomini.
Mi piace, allora, confrontare quello che io penso e dico e scrivo dell’amore con ciò che hanno scritto poeti, scrittori, pensatori, filosofi, cantautori e, in genere, quegli uomini che noi siamo soliti definire “importanti”. Senza scomodare padre Dante e il suo “amor che a nullo amato amar perdona”, che non mi trova molto d'accordo perché non sempre l'oggetto d'amore corrisponde a chi lo ama, anzi spesso avviene il contrario (non si dice che “in amore vince chi fugge”? Sempre che qualcuno gli corra dietro, aggiungo io!), penso, per esempio, ad una grande filosofa, Luce Irigaray, che al riguardo così afferma: “La festa dell’amore può allora celebrarsi, festa che riunisce il mortale e il divino, il terrestre e il celeste, in un incontro dove dare e ricevere si scambiano nell’esultanza del presente. Ma il dare e il ricevere ha un suo collante misterioso quanto visibile, persino più forte dell’attrazione, ed è la PAROLA, che costruisce l’incontro- fra…; permette di parlare di…, ma soprattutto di parlare con… È questo il dono di sé all’altro/a senza rinunciare a sé”.
L'amore come “festa” reciproca, dunque, in una celebrazione che unisce il cielo alla terra, il divino all'umano, attraverso non solo i sensi, ma soprattutto la “parola”: scambio con l'altro di emozioni, sentimenti, anima. Ed è “esultanza” nel “presente”.
L'amore, infatti, non ha un prima e un dopo: l'amore è. Perché non può essere pensato né ricordato. È vissuto. Il pensiero e il ricordo sono il preludio e la conclusione, non l'attimo puro e vivo e vero dell'amore.
Roberto Vecchioni scrive: … “non si può non star male d’amore: la sofferenza è insita nell’antinomia interna alla definizione, considerare cioè eterno un altissimo palpito transitorio (…) l’amore è l’atto creativo più grande che possiamo concederci; sta a noi fermarlo nel tempo almeno due volte: al culmine della sua presenza e alla ricostruzione del ricordo.
Hermann Hesse, poi, considerato uno dei maggiori scrittori tedeschi, poeta, pensatore junghiano, interessato soprattutto al misticismo orientale, sostiene: “Ogni fenomeno terrestre è un simbolo, e ogni simbolo è una porta aperta attraverso cui l’anima, se è pronta, può entrare nel cuore del mondo, dove il tu e l’io e il giorno e la notte sono una cosa sola… ; … l’amore non vuole avere; vuole solo amare”.
L’amore, pertanto, non è possesso, ma “coraggio di rischiare e di perdersi (…) tensione infinita all’autenticità, che solo nel profondo dell’anima è raggiungibile, per cui solo chi sa amare è felice. Lo stato d’amore equivale, infatti, in ogni sua forma, ad uno stato di grazia dello spirito e dei sensi: chi ama è più vivo, la sua vita ha più significato, il suo spirito è in fermento, i suoi sensi sono acuiti e gli trasmettono emozioni più forti”.
Erich Fromm ha fatto dell’arte di amare e, quindi, dell’imparare ad amare un imperativo categorico: “L’amore è indispensabile all’esistenza. Eppure, in molti casi, se ne ignora il vero significato. Per lo più l’amore viene scambiato con il bisogno di essere amati. In questo modo un atto creativo, dinamico e stimolante si trasforma in un tentativo egoistico di piacere. Ma il vero amore è un sentimento molto più profondo, che richiede sforzo e saggezza, umiltà e coraggio, ma, soprattutto, è qualcosa che si può imparare”.
Strana affermazione: si può imparare ad amare! Qui c'è qualcosa che non quadra. Se il sentimento d'amore è spontaneo e irriflesso, come può essere insegnato e appreso fino a farne un'arte? Si tratta, evidentemente, del “modo” di amare (il come), e non dell'essenza dell'amore.
Ed è giusto lavorare un diamante per ottenerne il massimo splendore.
Alda Merini è completamente impregnata d’amore. Straordinaria poetessa del dolore e dell’esperienza terribile negli ospedali psichiatrici, ci ha lasciato la testimonianza di come si possa sopravvivere ad ogni esperienza umana distruttrice attraverso la poesia e l'amore: “Chi ama è il genio dell’amore (…) “A volte Dio/ uccide gli amanti/ perché non vuole/ essere superato/ in amore” (…) “Io sono folle, folle,/ folle di amore per te./ Io gemo di tenerezza/ perché sono folle, folle,/ perché ti ho perduto./ Stamane il mattino era sì caldo/ che a me dettava questa confusione,/ ma io ero malata di tormento/ ero malata di tua perdizione”.
Oriana Fallaci, donna forte, intransigente, spietata prima con sé stessa e, poi, con gli altri, che ha fatto della sua laicità un vessillo di fede e di libertà, così scrive dell'amore, sua vita e perdizione: “Parlo del desiderio fisico che annebbia la vista e interrompe il respiro al solo guardare la creatura amata, del brivido che ti intirizzisce e ti scioglie al sole al solo sfiorarle una mano, una guancia, sicché tutto in lei diventa unico e insostituibile, perfino l'odore del suo fiato, il sudore della sua pelle, i suoi difetti che anziché difetti ti sembrano qualità deliziose: hai bisogno di lei come dell'aria, dell'acqua, del cibo, e in tale schiavitù muori di mille morti ma sempre per resuscitare, esserle schiavo di nuovo...”
 E potrei continuare all’infinito in quanto infiniti sono i modi di vivere e di parlare d’amore, ecco perché è difficile parlarne, ma lo spazio tiranno mi costringe a chiudere qui il mio stesso parlare/tacere d’amore, non senza, però, aver ricordato due versi molto profondi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura 1996: chi non conosce l’amore felice/ dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.// Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire”.
E, per concludere, che dire dell’amore universale praticato e cantato da Madre Teresa di Calcutta? Amore soprattutto per la vita, che diventa anche amore di sé, non come egoistico sentimento, ma come conquista di ben-essere interiore. Preludio ineludibile o auspicabile per poter amare gli altri: “Ama la vita così com’è/ Amala pienamente, senza pretese;/ amala quando ti amano o quando ti odiano,/ amala quando nessuno ti capisce,/ o quando tutti ti comprendono.// Amala quando tutti ti abbandonano,/ o quando ti esaltano come un re./ Amala quando ti rubano tutto,/ o quando te la regalano./ Amala quando ha senso/ o quando sembra non averne neppure un po’.// Amala nella piena felicità,/ o nella solitudine assoluta./ Amala quando sei forte,/ o quando sei debole./ Amala quando hai paura,/ o quando hai una montagna di coraggio./ Amala non soltanto per i grandi piaceri/ e le enormi soddisfazioni;/ amala anche per le piccolissime gioie.// Amala seppure non ti dia ciò che potrebbe,/ amala anche se non è come la vorresti./ Amala ogni volta che nasci/ ed ogni volta che stai per morire./Ma non amare mai senza amore.// Non vivere mai senza vita!”.
E anche questo, o questo soprattutto, è un colmarsi d'AMORE!

martedì 13 febbraio 2018

SEMEL IN ANNO...

Dopo la parentesi sanremese e un pieno di canzoni (belle brutte così così) è sopraggiunto Carnevale a portarci un’allegria diversa (colorata bizzarra danzante vorticante di mille colori mille suoni mille emozioni). Mi piace festeggiarlo con alcune mie filastrocche, scritte nell’arco dei miei lunghi anni e mai pubblicate. Ora, nel mio blog, è diverso. Posso anch’io per un giorno sbizzarrirmi. Senza togliere alla mia bravissima sorella Anna Maria il primato di questo delizioso genere dedicato soprattutto ai bambini. Lei è padrona della rima e del ritmo. Io, come sempre, sono più “arzigogolata”. Ma spero, in questo caso, di essere altrettanto leggera e divertente… semel in anno con quel che segue…
FILASTROCCHE TONTE E TOCCHE
                           I
FILASTROCCA   DEI PAGLIACCI
Filastrocca del pagliaccio bianco:
rido rido e mai mi stanco.
Filastrocca del pagliaccio rosso:
mi diverto a più non posso.
Filastrocca del pagliaccio verde
Dalle ciglia una lacrima perde.
Filastrocca del pagliaccio giallo
 fa chicchirichì come un gallo.
Filastrocca del pagliaccio blu:
non sono io non sei tu.
Sono in tanti sono a colori.
Belli dentro allegri fuori.
E se ci aggiungi un pagliaccio vero
rideremo col mondo intero.
                    II
FILASTROCCA DELLA BELLA   COMPAGNIA
Amiamo stare in compagnia:
insieme scacciamo la malinconia.
Siamo tanti bambini vestiti a festa,
prendiamo i coriandoli dalla cesta.
Volano in alto con mille e più colori,
sembrano lucciole sembrano fiori.
Sembrano caramelle e meno male
che a Carnevale ogni scherzo vale.
Vale per me vale per te,
vale anche per la figlia del re.
Una volta all’anno per tutti vale
non tutti ridono. Ma è Carnevale!
                          III
 FILASTROCCA DEL BUONUMORE
Canto e ballo a tutte le ore,
sono proprio di buonumore.
Vado in giro per la via
con manciate di fantasia.
Ci sono maschere e pagliacci
vestiti bene ma anche di stracci.
C’è Arlecchino di tanti colori
che fa sberleffi grossi e sonori.
Pulcinella di bianco vestito
lo prende in giro indispettito:
sono innamorati di Colombina,
s’azzuffano così da sera a mattina.
Tutti gridano non è bello, non si fa:
 È Carnevale! Diamoci solo felicità!
Non ci sono proprio altri argomenti:
bisogna essere tutti contenti.
Viva Carnevale viva l’Amore.
Viva la festa e il buonumore!
                      IV
L’ALLEGRA FILASTROCCA
Oggi giochiamo ai travestimenti
Con altri vestiti siamo più contenti
Ci travestiamo con tante bandane
Poi indossiamo pantaloni e sottane
Mettiamo pure corsetti e mantelli
Siamo tutti fighi tutti belli
Siamo in tanti e di tanti colori
Siamo pirati principi dottori
Ci sono pure mio cugino e mio fratello
Timido è l’uno e l’altro un po’ monello
L’uno è vestito da vecchio pistolero
L’altro ha in testa un gran sombrero
Il loro amico è un grande toreador
E nell’arena saluta i tori con furor
Per amore poi della dama più bella
Ch’è vestita da contadinella
Portano nelle mani ceste di cuori
E fanno sbocciare miliardi d’amori
Venite bimbi che oggi si fa festa
Di giochi e risate ancora ci resta
Qualche panino e poi in quantità
Cioccolatini e smarties che bontà!
Ci sono cento mille e più canzoni
Musiche balli danze con variazioni
È allegro pure il vecchio Calimero
E si diverte con lui anche il sombrero
Il più allegro di tutti però è mio nonno
Se non mi porta a casa casco dal sonno.
                          V
FILASTROCCA DEL MARTEDI’ GRASSO
È Carnevale e io me la spasso:
mi piace molto questo fracasso.
Vado in giro vestito da Zorro:
faccio una piroetta e poi corro.
Vado a combattere con la mia spada
contro i briganti d’ogni contrada.
Mi viene incontro la Fata Turchina
tutta trafelata e stanca poverina
per Pinocchio ch’è andato al mare:
babbo Geppetto lui vuole trovare.
Bella è la fata con i capelli turchini
ed ora si mescola con noi bambini.
Corriamo di qua spingiamo di là
vogliamo fare tutti un gran varietà
perché Carnevale finisce qui
come ogni anno di martedì.

martedì 6 febbraio 2018

ATTRAVERSO LE REGIONI DELLO SPIRITO

Ancora una volta, è la riflessione sulla paradossale pochezza del mondo contemporaneo nella sua immensa complessità a spingermi a focalizzare esempi di scrittura e di scrittori e poeti, che ci ridanno il senso autentico dell'uomo e della sua umanità, restituendoci alla mai spenta speranza che qualcosa cambi in meglio. Ed è, per me, oggi, l'imperativo categorico che dovrebbe vederci tutti sulle barricate del rinnovamento della mente, del cuore, dello spirito. Di qui la mia scelta del libro “Attraverso le regioni dello spirito” di Antonio Scatamacchia, scrittore romano e nostro prossimo autore, per rinfocolare gli animi alla conoscenza e al rinnovamento.
Amo come te i sentieri ascensionali/ che portano a leggerezze oniriche/ e libertà senza limiti./ Dammi la purezza del miracolo/ e l’altra dimensione:/ scioglierò leggi imperiose/ che inchiodano ai confini,/ mi leverò/ a fluire con le cose amate/ lungo cieli popolati di evasioni” (“La tua anima azzurra” di Ada De Judicibus Lisena).
Mi piace cominciare, con i versi di questa splendida poetessa pugliese, le mie riflessioni sul poema di Antonio Scatamacchia perché ben corrispondono al contenuto di questi “cantici”, strutturati quasi geometricamente ma, nello stesso tempo, profondi e ricchi di sapidità socio-filosofica e storico-culturale, in cui la trascendenza è sempre presente come una religione (da religo: legare insieme), che unisce e tiene strette a sé le singole parti del Tutto. E sembra quasi che i versi sopra citati vengano ora pronunciati proprio dal nostro autore che, in questo suo lavoro, anela ugualmente alla “purezza del miracolo” in “sentieri ascensionali” dove si estende una “libertà senza limiti”.
Intanto, già il titolo del libro, in quell’iniziale preposizione “attraverso”, che indica, appunto, il passaggio “da una parte all’altra” (ma preso come avverbio può anche significare: trasversalmente), suggerisce un viaggio, un camminamento, un andare, che è poi, come vedremo, “il” viaggio: quell’andare speciale che ci fa eterni viandanti, oltre i passi, oltre le strade conosciute, oltre la nostra stessa fisicità. Certo, è un attraversare luoghi che subito si definiscono, in termini geografici, regioni. In questo caso, però, queste non sono più intese fisicamente ma metaforicamente e metafisicamente. Riguardano, cioè, lo spirito, l’anima, la parte di noi che trascende il corpo e va a popolare i cieli infiniti.
Almeno questo è quanto narra il poeta, in una sorta di “Commedia” dantesca che non riguarda più i gironi dell’inferno o il più spirabile “aere” della collina della anime purganti, ma gli universi molteplici e rigenerantisi (della fisica quantistica e della filosofia della conoscenza), in un atto continuo di Creazione, attraversati dalla luce folgorante del Cosmo (Silvana Folliero). E persino l’immagine di copertina ci propone una esplosione di infuocati universi attraversati da luminosi squarci di luci.
E, in questi universi, luminosi e trasparenti, le anime dell’intera umanità si incontrano per raccontarsi e raccontare la Vita col suo bene e il suo male, con le gioie e i dolori, con le vittorie e le sconfitte, con gli abissi e le vette, con la ragione e la follia. Con tanta disumanità e con tanta poesia. Con tutto l’umano e il divino che c’è nel cuore dell’uomo.
Senza punizioni eterne o eterne beatificazioni.
Senza più odi, rancori, arrivismi, violenze, rivendicazioni, presunzioni, ambizioni, divisioni; senza più sete di potere e di denaro; senza proiezioni nel futuro e nostalgie verso il passato. Tutto è in sé conchiuso perché nella visione e contemplazione di Dio c’è ogni possibile appagamento.
È, come afferma la compianta Silvana Folliero, nella sua illuminata e illuminante Prefazione, un “poema escatologico” che “ci indica una strada da percorrere, la grande strada dell’Essere”, dove è la storia dell’umanità che parla al poeta attraverso le voci dei nostri progenitori i quali hanno vissuto, grandi e piccoli uomini, l’umana esperienza della vita terrena in epoche diverse e in luoghi più o meno vicini o enormemente distanti tra loro, in una fantasmagorica simmetria e asimmetria diacronica e sincronica della realtà vissuta. Contribuendo, nell’Alfa e nell’Omega del Grande Architetto Divino, a dare inizio e fine ad ogni civiltà, ad ogni clamore del mondo.
Sic transit gloria mundi”.
Ed è tutto un pullulare di personaggi che le gesta e il tempo hanno reso famosi in ogni campo del pensiero e dell’azione: da quello scientifico a quello filosofico, da quello artistico a quello storico-sociale, civile, politico, culturale. Non escluso il soprannaturale. Anzi, il divino irrompe continuamente nel quotidiano quale ansia insita nel cuore dell’uomo, incoercibilmente, come sostiene persino Jean Jacques Rousseau nel suo “Emile”. Non a caso, la storia degli uomini si è sempre intrecciata e continua ad intrecciarsi con la storia di Dio, nella sua molteplicità, unità e unicità, nonostante la sua atemporalità. E ha attraversato e attraversa strade spesso imbevute di sangue e violenza più che lastricate d’amore e di pace.
Il poema ha inizio con il “settimo universo”. Da notare il numero sette che è il più alto numero primo, uno dei più importanti numeri misterici, ricco di sacralità e di giustizia: sette i giorni della Creazione (anche se Dio al settimo si riposò); sette le meraviglie del mondo; sette le Chiese principali; sette i nani della fiaba; sette gli anni delle vacche grasse e sette di quelle magre; sette i sigilli dell’Antico Testamento: … avendo aperto il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo (…) E vidi i sette angeli che stanno davanti a Dio (Apocalisse, VIII, 1); sette le stelle dell’Orsa… e si potrebbe continuare all’infinito.
Per Antonio Scatamacchia il numero sette è sicuramente simbolo della ricerca mistica. Della scoperta scientifica e della conoscenza terrena e spirituale. Esprime l’universalità e, perciò, la compiutezza: il cerchio, simbolo della perfezione.
Qui, dove si alternano foreste di luci e immensità di ombre (bellissimo verso che da solo vale tutto il poema), l’autore colloca le anime di coloro che sono vissuti “prima della evangelizzazione”.
E, quale chimico-poeta-filosofo, non poteva scegliere guida più pertinente e opportuna: Robert Boyle, illustre scienziato del ‘600, astronomo, chimico, filosofo e uomo di grande fede al punto da farsi chiamare Philaretus, ossia “amante della virtù”. Per Scatamacchia è come specchiarsi nel suo alter ego, nel suo modello. Quasi fosse una sua reincarnazione. E, del resto, come Virgilio per Dante, anche Boyle parla con le parole e con i pensieri, con il background culturale, del nostro autore.
Con tale guida, il protagonista attraversa il Cosmo dal settimo al quattordicesimo cielo, suddividendoli in cantici.
Nell’ultimo cantico, il viaggio si conclude con l’inizio della vita. Bellissima conclusione che è un riprendere il cammino. E tutto si ripropone, come è stato in tutti i millenni della nostra storia, senza soluzione di continuità.
Chi non ricorda il romanzo Tutti gli uomini sono mortali di Simone De Beauvoir? La scrittrice francese, moglie di Sartre e musa ispiratrice dell’Esistenzialismo ateo, scrive in prosa quanto Antonio Scatamacchia traduce in versi, con altro intento però: Simone De Beauvoir per dimostrare la mortalità degli uomini; il nostro autore per affermare l’esatto contrario. Anche l’essenza umana è divina. Certo, il destino degli essere umani su questa terra è segnato dalla precarietà e dalla morte. L’immortalità, però, ci viene restituita nei Cieli, dove tutto si ricompone nell’Uno parmenideo, che è poi l’unico Dio. Degli ebrei e dei cristiani, dei musulmani e dei buddisti… di ogni essere umano che cerca il Cielo.
Qui tutto si ricompone nella luce e nello splendore di ogni “trasparenza”. Tutto ha un suo tempo e un suo spazio, pur ritrovandosi in una compresenza che annulla tempo e spazio, in una continuità che è l’eterno presente: mescolanza di civiltà, di popoli, genti, imperi, culture, imprese. Uomini. In un ordine “disordinato”, quasi a volo d’angelo, zigzagando tra i cieli di abbagliante luce, alla ricerca della Essenza stessa della Verità.
E finalmente incontriamo l’uomo e incontriamo Dio. Nostra origine e nostro fine ultimo.
Antonio Scatamacchia ha compiuto un’opera di grande pregnanza storico-culturale e di profondo significato filosofico-spirituale. È partito dal poema dantesco per discostarsene notevolmente, pur conservandone lo spirito, qualche figura chiave come la guida, certe atmosfere rarefatte e luminose, proprie del paradiso, alcune situazioni dialogiche con vari personaggi famosi, che il protagonista incontra e con cui si confronta.
La struttura della narrazione, però, è ad “anello” (Ringkomposition), nel rispetto della ciclicità e della ricomposizione del Tutto, che non è solo un principio filosofico, ma anche e soprattutto metafisico. Che ci riporta all’iniziale riflessione.
Impresa non facile per il rischio di cadere nei numerosi tranelli linguistici, stilistici, poetici. Nonché filosofici. Rischio scongiurato da splendide metafore e da tenere similitudini (Come sulla terra allo stormire di foglie/ agitate dal vento di brezza/ diffrattono le verdi pagine…), che ricordano quelle dantesche, di inusitata morbidezza persino in alcuna terzine infernali (Quali colombe dal disio chiamate…); dalle allitterazioni e dalle anafore, che hanno restituito cantabilità e ritmo, ora lento ora vorticoso, a versi che procedono liberi da schemi metrici e da segni di punteggiatura, piuttosto rari.
E vorrei concludere con quanto dice ancora Silvana Folliero di questo autore, che ha avuto il coraggio di affermare dei valori oggi del tutto ignorati o mistificati: Scatamacchia, uomo di scienza e poeta, ci ha donato, con il presente lavoro letterario e filosofico, un soffio di ciò che è e che, ancora, la mente umana non può capire.
Di certo, superato il “muro d’ombra” della conoscenza e della comprensione, anche Silvana ora sa. Angela De Leo







giovedì 1 febbraio 2018

La casa fra le stelle

Il primo mese dell’anno, gennaio, oggi ci saluta con la promessa di tornare fra un anno. E a me prende il magone della notte di Capodanno quando, tra luci, botti, brindisi, salutavamo il 2018 e speravamo di poterci fidare di lui, del suo buon cuore. In realtà, sono continuate le stragi, sono ripresi odi e rancori, si vanno riproponendo i teatrini della cattiva politica in Italia e all’estero. Il “villaggio globale” non ci fa ben sperare in meglio. Il buio continua ad avvolgere questo “atomo opaco del male”. E l’anima è, ancora una volta, come ferita, offesa, umiliata da tanta miseria, tanta violenza, tanta arroganza e vanagloria. Ha bisogno di respirare aria pulita. Magari di guardare il cielo stellato e fare un pieno di luce. Mi annido ne “La casa fra le stelle” di Francesca Romana Petrucci e mi sembra rinascere. La poesia, quando è bella e vera, ci salva sempre…
                                                 LA CASA FRA LE STELLE
Francesca Romana Petrucci è una splendida signora di età indefinita, come capita a quelle creature privilegiate che gli antichi definivano dee, con una straordinaria sensibilità poetica che àncora immediatamente alle stelle, come leggiamo dal titolo della raccolta delle sue poesie, già di per sé luminoso e suggestivo, “La casa fra le stelle, che ci conduce per mano oltre la soglia del desiderio (de-sidera: intorno alle stelle, appunto), del sogno e del mistero.
E l’immagine di copertina è una fiaba da vivere al calore di una casa dipinta come da mani bambine perché così sono tutte le case che animano occhi di stupore dell’infanzia di ogni tempo. Un archetipo che ignora palazzi e grattacieli per farsi dimora piccina, quasi nascosta, non più in un bosco d’alberi e di foglie, ma nei prati sconfinati di un cielo stellato, dove ogni ansia di bimbo incontra il suo sicuro rifugio, la sua buona fata che rischiara il buio della notte.
La casa tace./ Dal cespuglio di nebbie non traspaiono le stelle/ infreddolite zingare alla locanda del cielo”. Inizia così la raccolta e già da questi primi tre versi è facile notare l’originale cifra stilistica dell’autrice che traccia subito una metafora insolita e bellissima per indicare le stelle, “infreddolite zingare”, e la volta celeste come una “locanda”. Sapore di fiaba. Sapore di antico. Sapore di viaggio senza destinazione e senza mappe per orientarsi, ma solo tripudio di stelle, neppure queste fisse, ma girovaghe e in cerca di improbabile calore o forse di una dimora in cui fermarsi e riposare. Un viaggio immerso nel tempo esistenziale, dunque, che s’inerpica nel viaggio, ardimentoso e solitario, lungo il firmamento che di per sé è immenso e misterioso e lontano. Un qui e ora. Un lontano e “per sempre”. E, per Francesca, il viaggio nel mondo del quotidiano e dell’“altrove” poetico ha inizio proprio come il cammino che porta i viandanti e i girovaghi attraverso percorsi difficili e insidiosi per giungere ad un “luogo/spazio/tempo” che non ha mai fine.
In un eterno andare che è eco e ricordo, ma anche “favola, sorriso senza approdo”. Futuro sognato e ripescato tra progetti inevasi. Nel tempo e fuori dal tempo. Nello spazio e fuori da questo. Fra le stelle, forse, luce dell’anima.
     È un cammino, infatti, tutto ascensionale: dalle terra al cielo, da “pietra a colomba, da “tenebra a stella”, perché Francesca è assetata di luce, di nuovi orizzonti, d’amore. Di quel sentimento che fa mettere le ali. Solo così può superare ogni ostacolo, persino “lo spazio macchiato di silenzio(singolare sinestesia, che ci avvolge e ci disperde per un dilatarsi sfinito di quel luogo aperto senza nome, dovuto al silenzio che lo macchia e lo sgrana e lo rende misterioso e minaccioso nello stesso tempo) e giungere “dove il cielo si china/ a baciare i colli e l’acqua/ per poter sorridere e fiorire e amare/ e amare e sorridere e morire. Spazio, dove  tutto si rigenera e si redime. Perché dopo ogni morte c’è pur sempre una resurrezione. Miracolo d’amore. Della natura che si rinnova a primavera e sempre. E non importa se ciò presuppone il tempo lungo dell’attesa che il sentimento traduce in speranza. E la vita ricomincia.
Accade in quasi tutte le poesie di Francesca Romana Petrucci che il tormento ceda il passo alla luce. Alla gioia in sé conchiusa dell’amore condiviso: “A sigillare la luce che io credevo perduta… e dal cuore come l’aurora sboccia la gemma della vita… Come linfa e sorgente per correre nell’infinito…
Versi conclusivi che contengono il prodigio della luce dopo il buio, della radiosa felicità dopo l’abisso del dolore. Per questo sono datati, ma sempre attuali come tutto ciò che parla dei sentimenti, dei valori, delle passioni, della vita. Segnano un periodo decisivo per la poetessa e lo dilatano, lo prolungano fino ai nostri giorni : il volo verso la libertà e la riconquista di sé attraverso la scoperta e riscoperta di un sentimento grande, puro, intenso. Dopo lunga e dolorosa sospensione di giorni d’ansia, di dubbi, di taglienti ferite, quando erano lame persino i voli degli uccelli nel cielo.
“L’attesa metterà radici accanto al/ fuoco e se il cuore pullula di lacrime/ ti sarà compagno il mio sorriso”.
Dolcissima conclusione dell’ultima poesia che s’illumina del fiorire abbagliante di un sorriso a cancellare lacrime e tumulti lacerati del cuore.
La fascinosa raccolta è, tra l’altro, impreziosita dalla traduzione, anch’essa poetica e molto suggestiva, nelle magiche sonorità (le numerose sibilanti sembrano suono di violino), della lingua sarda campidanese ad opera del bravissimo Sergio Medved, e dalle illustrazioni di Ombretta Leone, sognanti e tenere, soffuse di tanta grazia e di un tocco di lievissima malinconia…
Forse si può ancora sperare di riscoprire nel mondo la bellezza, il sogno, la tenerezza del cuore.
A cominciare dalla luce misteriosa e incantata delle lontane stelle…