Ancora una
volta, è la riflessione sulla paradossale pochezza del mondo
contemporaneo nella sua immensa complessità a spingermi a
focalizzare esempi di scrittura e di scrittori e poeti, che ci
ridanno il senso autentico dell'uomo e della sua umanità,
restituendoci alla mai spenta speranza che qualcosa cambi in meglio.
Ed è, per me, oggi, l'imperativo categorico che dovrebbe vederci
tutti sulle barricate del rinnovamento della mente, del cuore, dello
spirito. Di qui la mia scelta del libro “Attraverso le regioni
dello spirito” di Antonio Scatamacchia, scrittore romano e nostro
prossimo autore, per rinfocolare gli animi alla conoscenza e al
rinnovamento.
“Amo
come te i sentieri ascensionali/ che portano a leggerezze oniriche/ e
libertà senza limiti./ Dammi la purezza del miracolo/ e l’altra
dimensione:/ scioglierò leggi imperiose/ che inchiodano ai confini,/
mi leverò/ a fluire con le cose amate/ lungo cieli popolati di
evasioni” (“La tua anima azzurra” di Ada De Judicibus
Lisena).
Mi piace
cominciare, con i versi di questa splendida poetessa pugliese, le mie
riflessioni sul poema di Antonio Scatamacchia perché ben
corrispondono al contenuto di questi “cantici”, strutturati quasi
geometricamente ma, nello stesso tempo, profondi e ricchi di sapidità
socio-filosofica e storico-culturale, in cui la trascendenza è
sempre presente come una religione (da religo: legare
insieme), che unisce e tiene strette a sé le singole parti del
Tutto. E sembra quasi che i versi sopra citati vengano ora
pronunciati proprio dal nostro autore che, in questo suo lavoro,
anela ugualmente alla “purezza del miracolo” in “sentieri
ascensionali” dove si estende una “libertà senza limiti”.
Intanto, già
il titolo del libro, in quell’iniziale preposizione “attraverso”,
che indica, appunto, il passaggio “da una parte all’altra” (ma
preso come avverbio può anche significare: trasversalmente),
suggerisce un viaggio, un camminamento, un andare, che è poi, come
vedremo, “il” viaggio: quell’andare speciale che ci fa eterni
viandanti, oltre i passi, oltre le strade conosciute, oltre la nostra
stessa fisicità. Certo, è un attraversare luoghi che subito si
definiscono, in termini geografici, regioni. In questo caso, però,
queste non sono più intese fisicamente ma metaforicamente e
metafisicamente. Riguardano, cioè, lo spirito, l’anima, la parte
di noi che trascende il corpo e va a popolare i cieli infiniti.
Almeno
questo è quanto narra il poeta, in una sorta di “Commedia”
dantesca che non riguarda più i gironi dell’inferno o il più
spirabile “aere” della collina della anime purganti, ma gli
universi molteplici e rigenerantisi (della fisica quantistica e della
filosofia della conoscenza), in un atto continuo di Creazione,
attraversati dalla luce folgorante del Cosmo (Silvana
Folliero). E persino l’immagine di copertina ci propone una
esplosione di infuocati universi attraversati da luminosi squarci di
luci.
E, in questi
universi, luminosi e trasparenti, le anime dell’intera umanità si
incontrano per raccontarsi e raccontare la Vita col suo bene e il suo
male, con le gioie e i dolori, con le vittorie e le sconfitte, con
gli abissi e le vette, con la ragione e la follia. Con tanta
disumanità e con tanta poesia. Con tutto l’umano e il divino che
c’è nel cuore dell’uomo.
Senza
punizioni eterne o eterne beatificazioni.
Senza più
odi, rancori, arrivismi, violenze, rivendicazioni, presunzioni,
ambizioni, divisioni; senza più sete di potere e di denaro; senza
proiezioni nel futuro e nostalgie verso il passato. Tutto è in sé
conchiuso perché nella visione e contemplazione di Dio c’è ogni
possibile appagamento.
È, come
afferma la compianta Silvana Folliero, nella sua illuminata e
illuminante Prefazione, un “poema escatologico” che “ci
indica una strada da percorrere, la grande strada dell’Essere”,
dove è la storia dell’umanità che parla al poeta attraverso le
voci dei nostri progenitori i quali hanno vissuto, grandi e piccoli
uomini, l’umana esperienza della vita terrena in epoche diverse e
in luoghi più o meno vicini o enormemente distanti tra loro, in una
fantasmagorica simmetria e asimmetria diacronica e sincronica della
realtà vissuta. Contribuendo, nell’Alfa e nell’Omega del Grande
Architetto Divino, a dare inizio e fine ad ogni civiltà, ad ogni
clamore del mondo.
“Sic
transit gloria mundi”.
Ed è tutto
un pullulare di personaggi che le gesta e il tempo hanno reso famosi
in ogni campo del pensiero e dell’azione: da quello scientifico a
quello filosofico, da quello artistico a quello storico-sociale,
civile, politico, culturale. Non escluso il soprannaturale. Anzi, il
divino irrompe continuamente nel quotidiano quale ansia insita nel
cuore dell’uomo, incoercibilmente, come sostiene persino Jean
Jacques Rousseau nel suo “Emile”. Non a caso, la storia
degli uomini si è sempre intrecciata e continua ad intrecciarsi con
la storia di Dio, nella sua molteplicità, unità e unicità,
nonostante la sua atemporalità. E ha attraversato e attraversa
strade spesso imbevute di sangue e violenza più che lastricate
d’amore e di pace.
Il poema ha
inizio con il “settimo universo”. Da notare il numero sette che è
il più alto numero primo, uno dei più importanti numeri misterici,
ricco di sacralità e di giustizia: sette i giorni della Creazione
(anche se Dio al settimo si riposò); sette le meraviglie del mondo;
sette le Chiese principali; sette i nani della fiaba; sette gli anni
delle vacche grasse e sette di quelle magre; sette i sigilli
dell’Antico Testamento: … avendo aperto il settimo sigillo, si
fece silenzio nel cielo (…) E vidi i sette angeli che stanno
davanti a Dio (Apocalisse, VIII, 1); sette le stelle dell’Orsa…
e si potrebbe continuare all’infinito.
Per Antonio
Scatamacchia il numero sette è sicuramente simbolo della ricerca
mistica. Della scoperta scientifica e della conoscenza terrena e
spirituale. Esprime l’universalità e, perciò, la compiutezza: il
cerchio, simbolo della perfezione.
Qui, dove
si alternano foreste di luci e immensità di ombre (bellissimo
verso che da solo vale tutto il poema), l’autore colloca le anime
di coloro che sono vissuti “prima della evangelizzazione”.
E, quale
chimico-poeta-filosofo, non poteva scegliere guida più pertinente e
opportuna: Robert Boyle, illustre scienziato del ‘600, astronomo,
chimico, filosofo e uomo di grande fede al punto da farsi chiamare
Philaretus, ossia “amante della virtù”. Per Scatamacchia
è come specchiarsi nel suo alter ego, nel suo modello. Quasi
fosse una sua reincarnazione. E, del resto, come Virgilio per Dante,
anche Boyle parla con le parole e con i pensieri, con il background
culturale, del nostro autore.
Con tale
guida, il protagonista attraversa il Cosmo dal settimo al
quattordicesimo cielo, suddividendoli in cantici.
Nell’ultimo
cantico, il viaggio si conclude con l’inizio della vita.
Bellissima conclusione che è un riprendere il cammino. E tutto si
ripropone, come è stato in tutti i millenni della nostra storia,
senza soluzione di continuità.
Chi non
ricorda il romanzo Tutti gli uomini sono mortali di Simone De
Beauvoir? La scrittrice francese, moglie di Sartre e musa
ispiratrice dell’Esistenzialismo ateo, scrive in prosa quanto
Antonio Scatamacchia traduce in versi, con altro intento però:
Simone De Beauvoir per dimostrare la mortalità degli uomini; il
nostro autore per affermare l’esatto contrario. Anche l’essenza
umana è divina. Certo, il destino degli essere umani su questa terra
è segnato dalla precarietà e dalla morte. L’immortalità, però,
ci viene restituita nei Cieli, dove tutto si ricompone nell’Uno
parmenideo, che è poi l’unico Dio. Degli ebrei e dei cristiani,
dei musulmani e dei buddisti… di ogni essere umano che cerca il
Cielo.
Qui tutto si
ricompone nella luce e nello splendore di ogni “trasparenza”.
Tutto ha un suo tempo e un suo spazio, pur ritrovandosi in una
compresenza che annulla tempo e spazio, in una continuità che è
l’eterno presente: mescolanza di civiltà, di popoli, genti,
imperi, culture, imprese. Uomini. In un ordine “disordinato”,
quasi a volo d’angelo, zigzagando tra i cieli di abbagliante luce,
alla ricerca della Essenza stessa della Verità.
E finalmente
incontriamo l’uomo e incontriamo Dio. Nostra origine e nostro fine
ultimo.
Antonio
Scatamacchia ha compiuto un’opera di grande pregnanza
storico-culturale e di profondo significato filosofico-spirituale. È
partito dal poema dantesco per discostarsene notevolmente, pur
conservandone lo spirito, qualche figura chiave come la guida, certe
atmosfere rarefatte e luminose, proprie del paradiso, alcune
situazioni dialogiche con vari personaggi famosi, che il protagonista
incontra e con cui si confronta.
La struttura
della narrazione, però, è ad “anello” (Ringkomposition),
nel rispetto della ciclicità e della ricomposizione del Tutto, che
non è solo un principio filosofico, ma anche e soprattutto
metafisico. Che ci riporta all’iniziale riflessione.
Impresa non
facile per il rischio di cadere nei numerosi tranelli linguistici,
stilistici, poetici. Nonché filosofici. Rischio scongiurato da
splendide metafore e da tenere similitudini (Come sulla terra allo
stormire di foglie/ agitate dal vento di brezza/ diffrattono le verdi
pagine…), che ricordano quelle dantesche, di inusitata
morbidezza persino in alcuna terzine infernali (Quali colombe dal
disio chiamate…); dalle allitterazioni e dalle anafore, che
hanno restituito cantabilità e ritmo, ora lento ora vorticoso, a
versi che procedono liberi da schemi metrici e da segni di
punteggiatura, piuttosto rari.
E vorrei
concludere con quanto dice ancora Silvana Folliero di questo autore,
che ha avuto il coraggio di affermare dei valori oggi del tutto
ignorati o mistificati: Scatamacchia, uomo di scienza e poeta, ci
ha donato, con il presente lavoro letterario e filosofico, un soffio
di ciò che è e che, ancora, la mente umana non può capire.
Di certo,
superato il “muro d’ombra” della conoscenza e della
comprensione, anche Silvana ora sa.
Angela De Leo
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