martedì 6 febbraio 2018

ATTRAVERSO LE REGIONI DELLO SPIRITO

Ancora una volta, è la riflessione sulla paradossale pochezza del mondo contemporaneo nella sua immensa complessità a spingermi a focalizzare esempi di scrittura e di scrittori e poeti, che ci ridanno il senso autentico dell'uomo e della sua umanità, restituendoci alla mai spenta speranza che qualcosa cambi in meglio. Ed è, per me, oggi, l'imperativo categorico che dovrebbe vederci tutti sulle barricate del rinnovamento della mente, del cuore, dello spirito. Di qui la mia scelta del libro “Attraverso le regioni dello spirito” di Antonio Scatamacchia, scrittore romano e nostro prossimo autore, per rinfocolare gli animi alla conoscenza e al rinnovamento.
Amo come te i sentieri ascensionali/ che portano a leggerezze oniriche/ e libertà senza limiti./ Dammi la purezza del miracolo/ e l’altra dimensione:/ scioglierò leggi imperiose/ che inchiodano ai confini,/ mi leverò/ a fluire con le cose amate/ lungo cieli popolati di evasioni” (“La tua anima azzurra” di Ada De Judicibus Lisena).
Mi piace cominciare, con i versi di questa splendida poetessa pugliese, le mie riflessioni sul poema di Antonio Scatamacchia perché ben corrispondono al contenuto di questi “cantici”, strutturati quasi geometricamente ma, nello stesso tempo, profondi e ricchi di sapidità socio-filosofica e storico-culturale, in cui la trascendenza è sempre presente come una religione (da religo: legare insieme), che unisce e tiene strette a sé le singole parti del Tutto. E sembra quasi che i versi sopra citati vengano ora pronunciati proprio dal nostro autore che, in questo suo lavoro, anela ugualmente alla “purezza del miracolo” in “sentieri ascensionali” dove si estende una “libertà senza limiti”.
Intanto, già il titolo del libro, in quell’iniziale preposizione “attraverso”, che indica, appunto, il passaggio “da una parte all’altra” (ma preso come avverbio può anche significare: trasversalmente), suggerisce un viaggio, un camminamento, un andare, che è poi, come vedremo, “il” viaggio: quell’andare speciale che ci fa eterni viandanti, oltre i passi, oltre le strade conosciute, oltre la nostra stessa fisicità. Certo, è un attraversare luoghi che subito si definiscono, in termini geografici, regioni. In questo caso, però, queste non sono più intese fisicamente ma metaforicamente e metafisicamente. Riguardano, cioè, lo spirito, l’anima, la parte di noi che trascende il corpo e va a popolare i cieli infiniti.
Almeno questo è quanto narra il poeta, in una sorta di “Commedia” dantesca che non riguarda più i gironi dell’inferno o il più spirabile “aere” della collina della anime purganti, ma gli universi molteplici e rigenerantisi (della fisica quantistica e della filosofia della conoscenza), in un atto continuo di Creazione, attraversati dalla luce folgorante del Cosmo (Silvana Folliero). E persino l’immagine di copertina ci propone una esplosione di infuocati universi attraversati da luminosi squarci di luci.
E, in questi universi, luminosi e trasparenti, le anime dell’intera umanità si incontrano per raccontarsi e raccontare la Vita col suo bene e il suo male, con le gioie e i dolori, con le vittorie e le sconfitte, con gli abissi e le vette, con la ragione e la follia. Con tanta disumanità e con tanta poesia. Con tutto l’umano e il divino che c’è nel cuore dell’uomo.
Senza punizioni eterne o eterne beatificazioni.
Senza più odi, rancori, arrivismi, violenze, rivendicazioni, presunzioni, ambizioni, divisioni; senza più sete di potere e di denaro; senza proiezioni nel futuro e nostalgie verso il passato. Tutto è in sé conchiuso perché nella visione e contemplazione di Dio c’è ogni possibile appagamento.
È, come afferma la compianta Silvana Folliero, nella sua illuminata e illuminante Prefazione, un “poema escatologico” che “ci indica una strada da percorrere, la grande strada dell’Essere”, dove è la storia dell’umanità che parla al poeta attraverso le voci dei nostri progenitori i quali hanno vissuto, grandi e piccoli uomini, l’umana esperienza della vita terrena in epoche diverse e in luoghi più o meno vicini o enormemente distanti tra loro, in una fantasmagorica simmetria e asimmetria diacronica e sincronica della realtà vissuta. Contribuendo, nell’Alfa e nell’Omega del Grande Architetto Divino, a dare inizio e fine ad ogni civiltà, ad ogni clamore del mondo.
Sic transit gloria mundi”.
Ed è tutto un pullulare di personaggi che le gesta e il tempo hanno reso famosi in ogni campo del pensiero e dell’azione: da quello scientifico a quello filosofico, da quello artistico a quello storico-sociale, civile, politico, culturale. Non escluso il soprannaturale. Anzi, il divino irrompe continuamente nel quotidiano quale ansia insita nel cuore dell’uomo, incoercibilmente, come sostiene persino Jean Jacques Rousseau nel suo “Emile”. Non a caso, la storia degli uomini si è sempre intrecciata e continua ad intrecciarsi con la storia di Dio, nella sua molteplicità, unità e unicità, nonostante la sua atemporalità. E ha attraversato e attraversa strade spesso imbevute di sangue e violenza più che lastricate d’amore e di pace.
Il poema ha inizio con il “settimo universo”. Da notare il numero sette che è il più alto numero primo, uno dei più importanti numeri misterici, ricco di sacralità e di giustizia: sette i giorni della Creazione (anche se Dio al settimo si riposò); sette le meraviglie del mondo; sette le Chiese principali; sette i nani della fiaba; sette gli anni delle vacche grasse e sette di quelle magre; sette i sigilli dell’Antico Testamento: … avendo aperto il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo (…) E vidi i sette angeli che stanno davanti a Dio (Apocalisse, VIII, 1); sette le stelle dell’Orsa… e si potrebbe continuare all’infinito.
Per Antonio Scatamacchia il numero sette è sicuramente simbolo della ricerca mistica. Della scoperta scientifica e della conoscenza terrena e spirituale. Esprime l’universalità e, perciò, la compiutezza: il cerchio, simbolo della perfezione.
Qui, dove si alternano foreste di luci e immensità di ombre (bellissimo verso che da solo vale tutto il poema), l’autore colloca le anime di coloro che sono vissuti “prima della evangelizzazione”.
E, quale chimico-poeta-filosofo, non poteva scegliere guida più pertinente e opportuna: Robert Boyle, illustre scienziato del ‘600, astronomo, chimico, filosofo e uomo di grande fede al punto da farsi chiamare Philaretus, ossia “amante della virtù”. Per Scatamacchia è come specchiarsi nel suo alter ego, nel suo modello. Quasi fosse una sua reincarnazione. E, del resto, come Virgilio per Dante, anche Boyle parla con le parole e con i pensieri, con il background culturale, del nostro autore.
Con tale guida, il protagonista attraversa il Cosmo dal settimo al quattordicesimo cielo, suddividendoli in cantici.
Nell’ultimo cantico, il viaggio si conclude con l’inizio della vita. Bellissima conclusione che è un riprendere il cammino. E tutto si ripropone, come è stato in tutti i millenni della nostra storia, senza soluzione di continuità.
Chi non ricorda il romanzo Tutti gli uomini sono mortali di Simone De Beauvoir? La scrittrice francese, moglie di Sartre e musa ispiratrice dell’Esistenzialismo ateo, scrive in prosa quanto Antonio Scatamacchia traduce in versi, con altro intento però: Simone De Beauvoir per dimostrare la mortalità degli uomini; il nostro autore per affermare l’esatto contrario. Anche l’essenza umana è divina. Certo, il destino degli essere umani su questa terra è segnato dalla precarietà e dalla morte. L’immortalità, però, ci viene restituita nei Cieli, dove tutto si ricompone nell’Uno parmenideo, che è poi l’unico Dio. Degli ebrei e dei cristiani, dei musulmani e dei buddisti… di ogni essere umano che cerca il Cielo.
Qui tutto si ricompone nella luce e nello splendore di ogni “trasparenza”. Tutto ha un suo tempo e un suo spazio, pur ritrovandosi in una compresenza che annulla tempo e spazio, in una continuità che è l’eterno presente: mescolanza di civiltà, di popoli, genti, imperi, culture, imprese. Uomini. In un ordine “disordinato”, quasi a volo d’angelo, zigzagando tra i cieli di abbagliante luce, alla ricerca della Essenza stessa della Verità.
E finalmente incontriamo l’uomo e incontriamo Dio. Nostra origine e nostro fine ultimo.
Antonio Scatamacchia ha compiuto un’opera di grande pregnanza storico-culturale e di profondo significato filosofico-spirituale. È partito dal poema dantesco per discostarsene notevolmente, pur conservandone lo spirito, qualche figura chiave come la guida, certe atmosfere rarefatte e luminose, proprie del paradiso, alcune situazioni dialogiche con vari personaggi famosi, che il protagonista incontra e con cui si confronta.
La struttura della narrazione, però, è ad “anello” (Ringkomposition), nel rispetto della ciclicità e della ricomposizione del Tutto, che non è solo un principio filosofico, ma anche e soprattutto metafisico. Che ci riporta all’iniziale riflessione.
Impresa non facile per il rischio di cadere nei numerosi tranelli linguistici, stilistici, poetici. Nonché filosofici. Rischio scongiurato da splendide metafore e da tenere similitudini (Come sulla terra allo stormire di foglie/ agitate dal vento di brezza/ diffrattono le verdi pagine…), che ricordano quelle dantesche, di inusitata morbidezza persino in alcuna terzine infernali (Quali colombe dal disio chiamate…); dalle allitterazioni e dalle anafore, che hanno restituito cantabilità e ritmo, ora lento ora vorticoso, a versi che procedono liberi da schemi metrici e da segni di punteggiatura, piuttosto rari.
E vorrei concludere con quanto dice ancora Silvana Folliero di questo autore, che ha avuto il coraggio di affermare dei valori oggi del tutto ignorati o mistificati: Scatamacchia, uomo di scienza e poeta, ci ha donato, con il presente lavoro letterario e filosofico, un soffio di ciò che è e che, ancora, la mente umana non può capire.
Di certo, superato il “muro d’ombra” della conoscenza e della comprensione, anche Silvana ora sa. Angela De Leo







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