Il primo mese dell’anno, gennaio,
oggi ci saluta con la promessa di tornare fra un anno. E a me prende il magone
della notte di Capodanno quando, tra luci, botti, brindisi, salutavamo il 2018
e speravamo di poterci fidare di lui, del suo buon cuore. In realtà, sono
continuate le stragi, sono ripresi odi e rancori, si vanno riproponendo i
teatrini della cattiva politica in Italia e all’estero. Il “villaggio globale”
non ci fa ben sperare in meglio. Il buio continua ad avvolgere questo “atomo
opaco del male”. E l’anima è, ancora una volta, come ferita, offesa, umiliata
da tanta miseria, tanta violenza, tanta arroganza e vanagloria. Ha bisogno di
respirare aria pulita. Magari di guardare il cielo stellato e fare un pieno di
luce. Mi annido ne “La casa fra le stelle” di Francesca Romana Petrucci e mi
sembra rinascere. La poesia, quando è bella e vera, ci salva sempre…
LA CASA FRA LE STELLE
Francesca Romana Petrucci è una splendida signora di età
indefinita, come capita a quelle creature privilegiate che gli antichi
definivano dee, con una straordinaria sensibilità poetica che àncora
immediatamente alle stelle, come leggiamo dal titolo della raccolta delle sue
poesie, già di per sé luminoso e suggestivo,
“La casa fra le stelle”, che ci conduce per mano oltre la
soglia del desiderio (de-sidera: intorno
alle stelle, appunto), del sogno e del mistero.
E l’immagine di copertina è una fiaba da vivere al calore
di una casa dipinta come da mani bambine perché così sono tutte le case che
animano occhi di stupore dell’infanzia di ogni tempo. Un archetipo che ignora
palazzi e grattacieli per farsi dimora piccina, quasi nascosta, non più in un
bosco d’alberi e di foglie, ma nei prati sconfinati di un cielo stellato, dove
ogni ansia di bimbo incontra il suo sicuro rifugio, la sua buona fata che
rischiara il buio della notte.
“La casa tace./ Dal cespuglio di nebbie non
traspaiono le stelle/ infreddolite zingare alla locanda del cielo”. Inizia così la
raccolta e già da questi primi tre versi è facile notare l’originale cifra
stilistica dell’autrice che traccia subito una metafora insolita e bellissima
per indicare le stelle, “infreddolite zingare”, e la volta celeste come una
“locanda”. Sapore di fiaba. Sapore di antico. Sapore di viaggio senza
destinazione e senza mappe per orientarsi, ma solo tripudio di stelle, neppure
queste fisse, ma girovaghe e in cerca di improbabile calore o forse di una
dimora in cui fermarsi e riposare. Un viaggio immerso nel tempo esistenziale,
dunque, che s’inerpica nel viaggio, ardimentoso e solitario, lungo il
firmamento che di per sé è immenso e misterioso e lontano. Un qui e ora. Un
lontano e “per sempre”. E, per Francesca, il viaggio nel mondo
del quotidiano e dell’“altrove” poetico ha inizio proprio come il cammino che
porta i viandanti e i girovaghi attraverso percorsi difficili e insidiosi per
giungere ad un “luogo/spazio/tempo” che non ha mai fine.
In un eterno andare che è eco e ricordo, ma anche “favola, sorriso senza approdo”.
Futuro sognato e ripescato tra progetti inevasi. Nel tempo e fuori dal tempo.
Nello spazio e fuori da questo. Fra le stelle, forse, luce dell’anima.
È un cammino,
infatti, tutto ascensionale: dalle terra al cielo, da “pietra
a colomba”, da “tenebra a stella”,
perché Francesca è assetata di luce, di nuovi orizzonti, d’amore. Di quel
sentimento che fa mettere le ali. Solo così può superare ogni ostacolo, persino
“lo spazio
macchiato di silenzio”
(singolare sinestesia, che ci avvolge e
ci disperde per un dilatarsi sfinito di quel luogo aperto senza nome, dovuto al
silenzio che lo macchia e lo sgrana e lo rende misterioso e minaccioso nello
stesso tempo) e giungere “dove
il cielo si china/ a baciare i colli e l’acqua/ per poter sorridere
e fiorire e amare/ e amare e sorridere e morire”. Spazio, dove tutto
si rigenera e si redime. Perché dopo ogni morte c’è pur sempre una
resurrezione. Miracolo d’amore. Della natura che si rinnova a primavera e
sempre. E non importa se ciò presuppone il tempo lungo dell’attesa che il
sentimento traduce in speranza. E la vita ricomincia.
Accade in quasi tutte le poesie di Francesca Romana
Petrucci che il tormento ceda il passo alla luce. Alla gioia in sé conchiusa
dell’amore condiviso: “A sigillare la
luce che io credevo perduta… e dal cuore come l’aurora sboccia la gemma della
vita… Come linfa e sorgente per correre nell’infinito…”
Versi conclusivi che contengono il prodigio della luce
dopo il buio, della radiosa felicità dopo l’abisso del dolore. Per questo sono
datati, ma sempre attuali come tutto ciò che parla dei sentimenti, dei valori,
delle passioni, della vita. Segnano un periodo decisivo per la poetessa e lo
dilatano, lo prolungano fino ai nostri giorni : il volo verso la libertà e la
riconquista di sé attraverso la scoperta e riscoperta di un sentimento grande,
puro, intenso. Dopo lunga e dolorosa sospensione di giorni d’ansia, di dubbi,
di taglienti ferite, quando erano lame persino i voli degli uccelli nel cielo.
“L’attesa metterà radici accanto al/
fuoco e se il cuore pullula di lacrime/ ti sarà compagno il mio sorriso”.
Dolcissima conclusione dell’ultima poesia che s’illumina
del fiorire abbagliante di un sorriso a cancellare lacrime e tumulti lacerati
del cuore.
La fascinosa raccolta è, tra l’altro, impreziosita dalla
traduzione, anch’essa poetica e molto suggestiva, nelle magiche sonorità (le
numerose sibilanti sembrano suono di violino), della lingua sarda campidanese
ad opera del bravissimo Sergio Medved, e dalle illustrazioni di Ombretta Leone,
sognanti e tenere, soffuse di tanta grazia e di un tocco di lievissima
malinconia…
Forse si può ancora sperare di
riscoprire nel mondo la bellezza, il sogno, la tenerezza del cuore.
A cominciare dalla luce misteriosa e
incantata delle lontane stelle…
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