mercoledì 31 ottobre 2018

31 ottobre: non la maschera, ma il volto


Col calar del sole e con il sopraggiungere delle ombre della sera, che cede le sue braccia vuote al buio della notte, ecco destarsi anche per le nostre strade la solitudine dei sogni, vinta dall’arrivo delle streghe di Halloween, festa dalle origini celtiche, diffusasi nel XX secolo dapprima negli Stati Uniti e, poi, in tutto il mondo. Non sto qui a raccontare la storia della Notte delle Streghe. È cosa arcinota ormai. Potrei parlare di volti e di maschere che in questa notte si aggirano nell’ombra e per le case al grido di “scherzetto o dolcetto?”. Ma non lo ha fatto abbondantemente e con somma maestria Pirandello? 
E, allora, di cosa potrei parlare, visto che le zucche mostruosamente sorridenti e dal loro interno illuminate a me sembrano maschere tragiche, che non portano allegria ma tristezza per tutto il bello che andiamo via via perdendo? 
Forse mi assale quell’attività fantasmatica che tanta paura mi incuteva da bambina. Al buio mille fantasmi mi assalivano e avevano un ghigno spaventoso a togliermi la pace e il sonno. Fatto sta che ancora oggi non amo la zucca sghignazzante né le teste di zucca. Amo i volti dell’uomo nella loro contraddittoria e cangiante umanità.
E mi piace riportare quanto scrissi dieci anni fa in un libro di mie “emozioni di rimando” alle foto di Marcello Carrozzo, Un non luogo tanti luoghi dentro l’uomo (SECOP edizioni, 2008), rielaborandolo e ricontestualizzandolo al giorno d’oggi.
… Tutto ciò che riguarda l’uomo mi affascina. M’incuriosisce. Mi spinge a pensare.
L’uomo: prodigio della natura o miracolo di Dio? L’uomo: realtà o mistero? 
Immobile - e fotografabile - nel frammento di un attimo. In continuo divenire - e imprendibile - nello spazio di una vita, nel fluire del tempo, nella sua dislocabilità in culture e luoghi diversi.
Uomo: spazio-tempo. Memoria e identità. Identità firmata/fermata nella memoria. Definita in uno spazio. Collocata in un tempo. 
Uomo: corpo. Il corpo: individuo e persona. Una unità in un tutto. 
Uomo: unità-totalità. E l’anima? È compresa nell’unità o nel tutto? 
L’anima è. Oltre l’uno e il molteplice. Oltre lo spazio e il tempo. Oltre la memoria. Oltre la storia. Oltre la filosofia e la scienza. 
L’identità dell’anima è infinita. L’infinito a comprendere i volti dell’uomo e il non-volto della sua anima. A dare le ali al suo pensiero. Ma il pensiero dell’uomo può comprendere l’infinito che lo comprende? 
Arroganza dell’uomo è interrogare l’infinito o è la sua anima a sentire il richiamo del cielo che è infinito? 
L’impossibile si fa, dunque, probabile e riveste forse lo sbrindellato abito della verità? Come le nuvole che sono e non sono. Si disfano e riappaiono, si ricompongono e di nuovo si dissolvono, mentre il cielo rimane sempre cielo. Imprendibile. Eppure è là, a portata di sguardo. A portata di pensiero. A portata di anima.
È come la goccia nell’oceano. Può una goccia comprendere l’oceano che la comprende? Sì, se pensiamo alla goccia fatta della stessa sostanza dell’oceano. Basta che rifletta su sé stessa per sapere dell’oceano intero. No, se nella sua unità di singola goccia vuole interrogare il mistero di quella infinita distesa azzurra e dei suoi fondali e delle meraviglie che questi nascondono alla vista degli umani che rimangono in superficie. Eppure quella goccia, che s’interroga sui fondali oceanici, ne è parte e partecipa a quel tutto senza, però, lasciarsene penetrare perché non è corallo che pure accarezza, non è murena o squalo o conchiglia che pure sfiora e da cui viene sfiorata. Non è. Né può diventarlo. Pure è essa stessa oceano.
L’uomo: oceano-goccia. Infinitesimo granello nell’infinito, ed infinito egli stesso.
Non ricordo più chi abbia detto che, oltre l’impossibile, l’im-probabile è verità.
L’uomo im-possibile e im-probabile verità?
L’uomo: menzogna-verità. La Maschera-il Volto.
L’uomo e i mille volti delle sue menzogne, delle sue verità. Della sua follia e della sua saggezza. Del suo dolore e della sua allegria. Della sua quotidianità e del suo sogno. Dei suoi progetti e delle sue sconfitte. Delle sue passioni e della sua indifferenza. Slancio vitale e abisso esistenziale. L’uomo nello spazio-tempo del suo nascere e morire. Vita-Morte. Eros e Tanatos. La Rappresentazione e la Realtà. 
L’essere e la sua immagine. L’essenza e il suo involucro. L’invisibile e la forma. Scommessa e sfida. Paura e coraggio. Rimpianto e nostalgia. Santi e demoni. 
Rifiuti. Rinunce. Affermazioni. Contraddizioni. L'uomo: ragione e creatività. Odio e Amore. Dolcezza e Violenza. Schiaffo e carezza.
L’uomo: la realtà e la sua rappresentazione artistica (quello che è e quello che crede di essere), che è concreta e vera (nel suo segno, la sua forma, i suoi colori e le sue dimensioni, le sue note e il suo canto), ma anche simbolica e apparente (il reale e l’ideale di sé). Il suo "Io" e il suo "Sé". Le sue parole e il suo silenzio. E l’incanto e il disincanto. E mistero e altrove a rendere irreale ciò che un attimo prima era ben definito e toccabile. Era. E c’era. Ora è e c’è. Ma è un’altra cosa o una infinità di cose a formare l’Essere-Uomo. "Uno nessuno e centomila"? Di più. Molto di più. 
Soprattutto se si vive egli stesso con creatività. Se viene vissuto dagli altri con creatività. L'uomo creatore di sé stesso nella illusione di uguagliare il suo Creatore.
"A sua immagine e somiglianza". Un altro imbroglio o una verità altra? 
L’uomo sintesi della sua realtà e della sua immaginazione  che lo avvicina al mistero e alla divinità. E il vuoto si fa pieno. Il buio si trasforma in luce. La forma si trasforma in movimento. Ciò che è e non è più e poi ritorna. E riprende ad essere. Esistenza ed essenza. Materia e spirito. Mani che lavorano, producono. Mani in preghiera.
Perché tutto questo è l’uomo. La sua indicibilità. La sua storia…
Come si fa ad accontentarsi di una maschera se dietro c’è un infinito meraviglioso e inquietante tutto da scoprire?

martedì 30 ottobre 2018

"Le piogge e i ciliegi": Relazione completa di Marco Ignazio de Santis (seconda parte)


Se si escludono l’alloggio in una caserma e la frequenza in una scuola elementare in un paesino del Gargano, tra i due estremi esistenziali dell’infanzia e dell’adolescenza, i principali luoghi della rievocazione di Angela De Leo, entrambi relativi a Bitonto, la città natia, sono da un lato la casa in Via Maggiore angolo Via De Rossi e dall’altro l’ampia abitazione con cortile e dipendenze varie in un palazzotto di Via Generale Montemar.
La prima casa si trovava nel centro storico di Bitonto, dove l’autrice ricorda una piazzetta con una fontana di ghisa dell’Acquedotto pugliese risalente al 1914, chiamata dialettalmente Va(m)masciòulë, voce che però non va riferita solo alla fontanella e allo slargo, ma soprattutto al rione antico e alla strada, detta ancora oggi Via Maggiore e anteriormente dai conquistatori spagnoli Rua Mayór. Va(m)masciòulë è appunto l’evoluzione dialettale del toponimo Via Maggiore.  
La seconda abitazione è narrativamente identificata come «la casa del gelso e delle rose» per la presenza di un maestoso gelso moro dai frutti rossi «profumati e asprigni» e di appariscenti rose rampicanti in continua fioritura, che hanno dato il titolo alla già citata raccolta di poesie Il gelso e le rose. Via Generale Montemar non è molto lontana dalla piazza in cui dal 1973 si affaccia la nuova basilica dei Santi Medici e soprattutto si erge l’Obelisco carolino, a perenne ricordo della battaglia di Bitonto del 1734, un episodio della guerra di successione polacca, in cui don José Carrillo de Albornoz, allora conte (poi duca) di Montemar, guidò alla vittoria l’esercito spagnolo contro quello imperiale austriaco comandato da Antonio Pignatelli, principe di Belmonte. In tal modo il vicereame austriaco tornò ad essere regno indipendente con Carlo di Borbone. Una pia leggenda vuole che il generale Montemar, per punire i bitontini che avevano prestato aiuto agli austriaci e non avevano fatto pronto atto di sottomissione con un’immediata ambasceria, intendeva saccheggiare Bitonto, ma ne fu miracolosamente dissuaso dalla provvidenziale apparizione della Vergine Immacolata a difesa della città.
Nel libro vi sono continui richiami alla cultura contadina, perché nonno Mincuccio con le sue continue affabulazioni, per divertire le bambine e il suo uditorio di piccoli e adulti, oltre che dalla propria esperienza di reduce della Grande Guerra, attingeva a piene mani dalle tradizioni popolari pugliesi e bitontine tutto un repertorio di giochi infantili, ninne-nanne, fiabe, proverbi, modi di dire, filastrocche, racconti di vita, facezie e stramberie. Così l’autrice riporta spesso lacerti del vernacolo di Bitonto sia nel dialetto arcaizzante, sia nel dialetto di tipo civile (v. p. 185 e 362).
Qualche esempio lessicale va fatto con termini particolarmente significativi. A Molfetta abbiamo la voce trusscêndë, riferito a “persone di bassa lega”. Ebbene, questa parola trova riscontro nel verbo trusscè, che a Trinitapoli significa “rubare”, e nel sostantivo trussciàndë, che a San Severo vale “venditore ambulante”, a San Ferdinando “imbroglione” e a Bitonto “infimo plebeo” e “zingaro”. In particolare, come ci spiega Angela De Leo, i trussciàndë si insediarono nella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento in alcuni sottani della città vecchia di Bitonto. Erano individui di origine zingaresca, violenti, scurrili e blasfemi, che «vivevano in clan, in promiscuità e di elemosina». Oltre a praticare l’accattonaggio, i truscianti racimolavano soldi a volte con un pianino ambulante più o meno scordato e più spesso predicendo ai creduloni di turno la sorte con i bigliettini scelti a caso da un pappagallino chiuso in una gabbietta e addestrato allo scopo. In quella variopinta “corte dei miracoli” il capo temuto e incontrastato era un individuo dal torace muscoloso e seminudo, ma senza gambe, obbligato a spostarsi su una bassa carretta con rotelline (pp. 111-113, 118 e 371). L’etimologia di trussciàndë va individuata nel francese trucher col valore di “mendicare fraudolentemente”, derivato da truche, che dal senso proprio di ‘giara’ si è evoluto furbescamente in quello gergale di “fagotto, refurtiva”. 
I paesi del Sud con la maggior parte dei contadini residenti in città, anziché in campagna, hanno usanze analoghe. Angela De Leo ci rammenta la consuetudine dei braccianti agricoli di Bitonto che a sera si raccoglievano mménzë a la Pórtë, cioè nella piazza attigua a Porta Baresana, pë sscì (o più arcaicamente sciójë) a prëmèttë, ossia a dare la parola ai padroni o ai loro incaricati per l’ingaggio lavorativo riguardante la mattinata seguente (p. 120). Similmente a Molfetta i braccianti si radunavano sòttë a la Pórtë, cioè nello slargo corrispondente all’antica porta meridionale verso Terlizzi della seconda cinta muraria, in cerca di lavoro, anch’essi dando promessa solenne, se la fortuna li assisteva per l’ingaggio, tanto che dei lavoratori giornalieri senza altra risorsa che quella delle braccia, una volta si diceva vè a la Pórtë ad acchjà (va alla Porta a cercar lavoro).  
Qualche altra simpatica particolarità linguistica vernacola l’autrice ce la offre con la stuzzicante gastronomia nostrana. Ci parla, ad esempio, di certe gustosissime pietanze di nonna Angelina e di mamma Melina, come rë sckaffùnë au furnë, che lei traduce correttamente come “pasta al forno”, ma che per gli incontentabili è costituita in prima battuta dagli schiaffoni o rigatoni, ultimamente sopraffatti, almeno nominalmente, dai pàccheri napoletani, senza dire di altri formati di pasta ugualmente validi con i succulenti ingredienti indispensabili per le papille gustative di chi ama la buona tavola. Oppure la narratrice ci tenta e ci strega con u baccalà arraganàtë, il “baccalà rosolato nel forno”, che propriamente vuol dire origanato, cioè sapidamente spruzzato di origano.
La molteplicità degli spunti esemplificati o accennati ci dà almeno un’idea parziale della ricchezza che pervade il romanzo autobiografico di Angela De Leo Le piogge e i ciliegi, il quale ha molte pagine di sicuro richiamo, specialmente dove la prosa è ravvivata a tratti da un diffuso alito di poesia, che raggiunge il suo culmine nel cuore del libro, al centro del volume con il settimo capitolo, intitolato La lettera, indirizzata a natale al nonno, da tempo ormai morto, dalla nipote Lina dopo aver subìto un terzo e assai complesso intervento a un femore, e l’ottavo capitolo, denominato Giochi e giocattoli, parole e bugie, “l’uomo del sacco” e la paura, che alle piccole menzogne, ai giganteschi timori e alle strane fobie infantili riserva pagine di grande finezza e penetrazione psicologica.    
In tal modo il lettore, attraverso il labirinto della memoria dell’autrice, inoltrandosi in una sorta di densa saga patriarcale, è condotto per mano in un viaggio intrigante nel paradiso perduto dell’adolescenza e soprattutto nel mondo mitico e fantastico dell’infanzia, con risonanze e suggestioni che non di rado si riconnettono al proprio vissuto.
Molfetta, Aula Magna del Seminario Vescovile, 24 ottobre 2018
Marco Ignazio de Santis
Grazie, Marco. La tua Relazione sta ricevendo ottimi commenti. Come non essertene grata?
Alla prossima, allora! A gennaio verranno pubblicate le fiabe di "papà" Mincuccio e, in primavera, il secondo volume, "I ciliegi", a completamento di questa mia tenerissima storia, vissuta alla sua ombra protettiva e salvifica sempre... Forse per un nuovo inizio...

lunedì 29 ottobre 2018

"Le piogge e i ciliegi": Relazione completa di Marco I. de Santis


“LE PIOGGE E I CILIEGI. LA STORIA DI UN UOMO STRAORDINARIO”,
                           UN ROMANZO DI ANGELA DE LEO
Nella popolosa repubblica delle lettere Angela De Leo, poetessa, narratrice e saggista, non è una piacevole scoperta dell’ultimo giorno, ma è una scrittrice di lungo corso, perché ha alle spalle un fittissimo curriculum nutrito da oltre quindici sillogi di poesie pubblicate in italiano o tradotte in serbo, un libro di racconti, un romanzo, una monografia di critica letteraria e una montagna di recensioni, saggi e prefazioni a libri italiani e stranieri. A questa produzione di tutto rispetto si affianca nel 2018 Le piogge e i ciliegi, dato alle stampe dalle edizioni Secop di Corato.
Le piogge e i ciliegi di Angela De Leo, come recita il sottotitolo, è La storia di un uomo straordinario, quella del nonno materno dell’autrice, al secolo Domenico Noviello, un proprietario terriero generoso, estroso e timorato di Dio, dai dipendenti, dai conoscenti, dai parenti e dagli amici chiamato patrùnë Minguccë, padron Mincuccio. Non è la prima volta che la figura dell’avo appare nelle opere letterarie di Angela De Leo. La ritroviamo, infatti, già nel prosimetro Ancora un fiore, risalente al 1982; nella raccolta di poesie Il gelso e le rose, apparsa nel 2004, e poi nella silloge di racconti e fiabe Trattenendo il respiro, pubblicata nel 2012, precisamente nei racconti “L’incontro”, “La Settimana Santa” e Io gambero.
Nel cammino narrativo di Angela De Leo il primo romanzo è rappresentato da La via delle vedove, venuto alla luce alla fine del 2013 e ambientato in parte in Terra di Bari, ma in particolar modo nel Salento del primo Novecento, dunque nel profondo Sud. A distanza di cinque anni Le piogge e i ciliegi vengono a costituire per l’autrice il secondo romanzo, anzi un «quasi romanzo», come si legge nelle pagine introduttive. Perché «quasi romanzo»? Perché si tratta di un romanzo atipico, un romanzo di formazione sui generis, un romanzo-fiume in prima persona, un centone di retrospezioni, immagini, riflessioni e ricordi autobiografici, la cui matassa storica, che va dalla seconda guerra mondiale inoltrata al cosiddetto “boom economico” italiano, non viene dipanata in maniera lineare, ma districata a volte andando all’indietro e a volte muovendo in avanti, per poi tornare ancora sui suoi passi, aggrovigliata com’è da nodi esistenziali, rimozioni, censure e garbugli psicologici con volute sfasature cronologiche, imputabili alla chimica delle emozioni e della memoria.
In questo andirivieni memoriale affidato a un montaggio rapsodico, costellato di flash-backs e flash-forwards, domina il dialogo a distanza col nonno materno, collocato in «un Altrove» ultraterreno, dialogo che in realtà è piuttosto monologo interiore, autoracconto, narrazione mescidata con citazioni di vari autori, autocitazioni di opere proprie, ricordanze, inserti epistolari, versi di canzoni di varie epoche, strofette infantili, intermezzi, contrappunti poetici e, qua e là, parsimoniose e talora ironiche chiamate in causa dei lettori (pp. 82, 86, 89, 124, ecc.).
I caratteri usati nel testo sono il tondo, il neretto e il corsivo. Il tondo naturalmente copre la maggior parte dei passi narrativi; il neretto è impiegato per i titoli dei capitoli e per le enunciazioni di un certo rilievo; il corsivo, infine, è usato soprattutto per le citazioni, per le frasi e i termini in dialetto, sparsi a profusione, e per i periodi incidentali e parentetici. Tra parentesi si trovano commenti, spiegazioni, moti emozionali, chiose, le traduzioni delle espressioni dialettali e digressioni sia in lingua sia in vernacolo. In tal modo si cerca di rendere anche la varietà e la compresenza di diversi piani linguistici nel pensiero e nel tessuto narrativo.
A cosa è dovuto il titolo Le piogge e i ciliegi? Le piogge si riferiscono al piacere condiviso da nonno e nipotina nel contemplare l’avvicendarsi di lampi e scrosci d’acqua durante i temporali e nel godere il profumo della terra bagnata. I ciliegi alludono all’abbondanza di cultivar cerasifere nei poderi del nonno, il quale vide nascere la nipotina in maggio assieme alle ciliegie, che amava donare ai famigliari, ai parenti e al vicinato. Proprio per questo, riferendosi al nonno, l’autrice scrive: «Eri la pioggia e la nostra comune gioia nel vederla cadere» (p. 186). E ancora: «Eri tutte le piogge possibili. Immaginabili. Desiderabili. Piogge e ciliegie, la nostra realtà di incantata attesa in anni lontani […] Tu eri odore di terra e di erba. Profumo di pioggia» (p. 192). E alcune pagine prima mormora: «Eri i tuoi campi i tuoi ciliegi» (p. 122).
Come si vede, la figura del nonno, associata alla natura e al mondo contadino, è fortemente mitizzata e sublimata, anche perché la bambina chiamata prima Angelina e più tardi Lina ha vissuto molto di più con il nonno e con la nonna, addirittura fino alla prima giovinezza (v. p. 387), e molto meno con la mamma e meno ancora col padre, un brigadiere e poi maresciallo capo dei carabinieri sballottato in sedi diverse per ragioni di servizio. Non a caso il nonno viene chiamato col massimo affetto papà e il padre, invece, toscanamente babbo.  
Nonno Mincuccio era davvero unico per l’autrice, era la persona più capace di comprensione, protezione e tenerezza nei confronti della diletta nipotina, mancina contrastata a casa e a scuola a causa dei pregiudizi del tempo, «bimba ribelle e ciarliera» (p. 53), che solo lui riusciva dolcemente a domare e rettamente a guidare. In fondo, la capacità di sognare, poetare e raccontare, che le è propria, la nostra autrice la deve in massima parte all’avo materno, che definisce «cercatore di sogni e lampionaio di stelle» (p. 165). E poco oltre: «il nonno delle fiabe» (p. 199). E ancora: «il mio adorato nonno della pioggia e delle fiabe» (p. 315). In un passo successivo, poi, la grande capacità affabulatoria del patriarca è così descritta: «E c’erano ancora le tue parole: storie fantastiche e racconti di guerra, barzellette e filastrocche, i tanti nonsense in dialetto. Ti sedevi in mezzo a noi, felici di ascoltarti, e raccontavi, raccontavi, raccontavi…» (p. 369).
Tutti gli altri personaggi, a cominciare da nonna Angelina, di cui l’autrice porta il nome, fino alla mamma tanto ammirata per l’eleganza, al padre più temuto che amato, alle sorelline Lizia e Anna Maria, al fratellino Pino e alla folla di parenti, vicini, lavoratori, amiche e insegnanti, più o meno sinteticamente o icasticamente delineati, non sono altro che satelliti che ruotano intorno al pianeta-nonno. Da lui la narratrice ha mutuato l’abilità inventiva e di riflesso la capacità di scrittura, che definisce in questi termini: «Penso che la scrittura sia un dono divino: fissa nel tempo lacrime e sorrisi. È simile a una foto. Questa, però, eterna volti e corpi, l’involucro di noi. La scrittura perpetua l’anima. Doppia immortalità. Dono meraviglioso sempre» (p. 89).
Il dono della creatività verbale può paragonarsi all’aura luminosa che sembra circondare l’autrice, come lei stessa rivela al nonno (e quindi a tutti i lettori) nel suo dialogo a distanza: «Oltre il tuo amore incondizionato, l’unica luce che forse mi contiene e da me si espande è quella meravigliosa della parola poetica. Mi piace crederlo» (p. 238). E il lettore incantato, in forza della magia che promana dal flusso verbale, è spinto a crederlo insieme alla scrittrice.


domenica 28 ottobre 2018

"Poesie per mia madre, Elda Zupo" di Mariella Bettarini


                         “A MO’ DI (MINIMA) INTRODUZIONE
Queste poche, scarne, spero non indegne poesie (poesie? Piuttosto lacerti di esistenza, di memoria, di doloroso amore, di indicibilità, quasi) per tentare di colmare - con la parola - un vuoto,  il  vuoto  che  la  morte  di  mia  madre  Elda  ha lasciato in me”.
Credo sia opportuno partire da questa difficoltà iniziale di Mariella Bettarini di parlare a sua madre dopo il “vuoto” che lei, con la sua morte, sia pure attesa con rassegnata abnegazione e vigile tenerezza, le ha lasciato. Un vuoto che, a stento ora, tenta di colmare con alcune dolenti, sussurrate, rabberciate, ma profondamente belle poesie. Talmente belle da commuovermi e da lasciarmi senza respiro. Riportandomi alla stessa esperienza, da me vissuta (nel 2001) con altrettanto dolore, come sempre accade quando la Perdita di nostra madre diventa la nostra Perdita. E non sappiamo più chi siamo, avvertendo per la prima volta la condizione di “orfana”, la cui radice deriva dal latino “orbus”, ossia “privo”, ed io completerei: “privo di sé”. E chi è privo di sé dimentica il proprio nome, la propria identità, il tempo e il luogo in cui si trova. Dolorosa sensazione quanto la Perdita stessa della persona a noi più cara, perché è perdita della parte essenziale di noi. Sentiamo ancora il suo sangue scorrere nelle nostre arterie e vene, il suo cibo amoroso che ancora ci alimenta, la sua stessa vita che ci attraversa.
“che m’è rimasto? di te
che m’è rimasto? e che è rimasto senza te? ricordo (vago) - pensiero
latente (un cogente - volatile pensiero) -
ostinato dir niente - uno scrivere niente
(affaticato) - un niente fare
di quel che - tu presente - facevo - fabulavo -
dicevo - ero

evi fa ero: 
ora non so - non più - non già: mistero
e non mistero - diroccato pensiero - maniero andato -
faticante sentiero 
e poi tanto silenzio verace - menzognero”
In questi versi, che sembrano singhiozzare e frammentarsi tra le lacrime, ecco l’identità perduta con i verbi all’imperfetto di un passato in sospensione, non finito del tutto perché sempre presente, ma già raccontato come una fiaba triste, nel cui bosco oscuro si sono perse le tracce dello stare insieme e del riconoscersi e ritrovarsi nella quotidianità dei gesti, delle parole, delle faccende domestiche condivise.
E in ogni verso viene fuori la poesia di Mariella Bettarini che, nonostante la perdita di sé, e la difficoltà di articolar parole, non dimentica la sua anima poetica, che affiora superba nelle parole classiche e nuove che la compongono, quasi un richiamo antico mai dimenticato, nella necessità di confermarsi nel proprio tempo e con uno stile del tutto personale.
Ma ecco un’altra poesia a darci l’idea della perdita/non perdita di sua
madre nella sua quotidiana presenza accanto a lei…

“e passano giornate (come passano) - e passano di qua - e                
uguali passano - e lente e svelte come folli fulmini
e tu passi e non passi - non passi mai - non passi più - 
non hai più passi per passare di qua
e tuttavia sapessi come stai - come permani - come non pass
come non finisci mai d’essere - di passare”.
Meravigliosa poesia, in cui Mariella usa il verbo “passare”, in riferimento al tempo che “fugge” in gran fretta, e che tenta di portarsi via la madre con i suoi passi che vanno e che restano, e lo converte (quel verbo, appunto) nel sostantivo ‘passi’ di lei che non passano mai. Perché “non finisci mai d’essere - di passare”: di esistere e di passare con i tuoi passi.
E ci sembra di vederla la signora Elda passeggiare per la stanza, presente più che mai agli occhi di sua figlia e al suo cuore. 
E magicamente, plasticamente presente anche ai nostri occhi.
Elda Zupo, una donna straordinaria nella sua semplicità vocazionale ad amare incondizionatamente, a cui Mariella Bettarini, in seguito alla sua morte, dedica, a fatica, questo canzoniere di grande tenerezza.
“'ricordi quando ridevàmo?' (m’immedésimo) - 
'e quando io piangevo (zitta) per te - per i tuoi/ nostri dolori?' (mi ricordo) - 'e quando
facevi tardi con me a quel minimo
         scrittoio - per aiutarmi (io ragazza di scuola)
         a ripassare - a studiare?' -

'e quando e quando… - e quanto son vissuta con te - 
tu con me - materna madre
così naturale come acqua di fonte -

                                       di grande bontà
 come fonte'

questo sentire oggi desueto mi pare - 
questo potere darsi e                
                   dare - questo amare
fluente come mare - e tu n’eri maestra
e non volerlo
proprio senza saperlo -
                                    e non volerlo
proprio per non sapere".
E ancora:
proprio per non sapere
“son qua - son senza suono e voglio raccontarti? ri-partire?
 narrarti? - matta che sono! basterà se riesco (ma riesco?)
 a ri-accennarti - abbozzare la tua effigie - ri- abbracciarti -
ri-trovare minuzzoli di vita - ritentarti (non certo riuscire a darti
la parte pur millesima di quanto hai dato a me)
         nient’altro madre

                                                                 e riposarmi in te
         e dunque ri-posarti - ché sei nel tuo

lungo riposo -                                    e io son stanca -


         nel tuo bianco silenzio -
                                                                       sei
e io tento di lavorare di parole e tu sei ancòra il sole
ed io ti vengo dietro”.
E Mariella visualizza molto bene la fatica di doverle scrivere, ora che non c’è più e il vuoto è troppo vuoto da colmare con le parole che stenta a mettere sul foglio bianco, con i trattini che frantumano i pensieri, già frantumati dentro, e che non danno scampo neppure nei versi. Sono lì. A significare l’inciampo, il punto fermo, il silenzio, la lenta e faticosa ripresa, con un’Arte poetica che non si fa imbrigliare e che vortica, quasi all’insaputa dell’autrice, perché fa parte della sua carne e del suo sangue. 
È la stessa sua anima. 
Mariella, troppo provata dal dolore, non si accorge della sua incoercibile poesia che, come sua madre, e sua seconda madre, non l’abbandona: la prima l’ha generate alla vita, la seconda all’Arte della parola che è Verbum ed “è” all’origine dei tempi e “sarà” fino alla fine.
 “credi: se scrivo non so più che scrivo - se parlo
non so più come farlo - lo faccio (vedo)
 goffamente - come per replicare le parole
                                            per re-plicarmi - 
ma impallidiscono nel sole…”.
Una percezione di sé sbagliata, come si può notare, pur non potendo fare a meno di constatare che continua a vivere e a scrivere, nonostante tutto:
“eppure vado avanti -
e mangio - e vivo - e dormo -
e invecchio - e non guardo allo specchio
(quasi più) la mia faccia…”.
In realtà, Mariella sente che scrivere di sua madre e a sua madre è come scrivere a sé stessa e di sé stessa, perché ora mamma Elda e lei sono una cosa sola. Lei è sopravvissuta al dolore perché sua madre non l’ha mai perduta veramente, in quanto è lì, annidata nel suo cuore:
"m’immedésimo in te - ti porto (e porterò)
sempre con me - ma non facendo alcuna fatica - perché
                             se io sono (in) te - tu

non sei morta - e se tu resti in me…”.
E così:
“con te ragiono senza te - e ancòra
delle tue belle stelle m’incoròno”.
E ancora:
“vedi - madre - che se scrivo di te scrivo di me (e viceversa) -”.
E poi:
“son qua - son senza suono e voglio raccontarti? ri-partire?
narrarti? - matta che sono! basterà se riesco (ma riesco?)
a ri-accennarti - abbozzare la tua effigie - ri- abbracciarti –
ri-trovare minuzzoli di vita - ritentarti (non certo riuscire a darti
la parte pur millesima di quanto hai dato a me)

            nient’altro - madre -

e riposarmi in te     e dunque ri-posarti - 
ché sei nel tuo
lungo riposo - 
                                                            e io son stanca -

nel tuo bianco silenzio - 
ed io tento di lavorare di parole e tu sei ancòra il sole
ed io ti vengo dietro”.
Infine, assodata questa presenza/immedesimazione, ecco affiorare, nella seconda sezione della silloge, i ricordi: “ricordo che raccontavi - raccontavi: di Maria (tua madre - da me mai conosciuta) che…”. 
Oppure:
 “e raccontava - raccontava che il nonno
(suo padre calabrese - Francesco detto “Ciccio”)
da ragazzo scappò con un cugino coetaneo 
dal paese natale (Strongoli: Magna Grecia) per vedere il mare…”
E potrei continuare ancora e ancora a raccontare anch’io, attraverso le poesie di Mariella Bettarini, il suo immenso amore per questa “madre/matrice” di ogni dono che lei avverte in sé e da lei si propaga ai tanti suoi lettori ed estimatori.
Ma rischio di scrivere un trattato, come l’autrice merita indubbiamente. Mi preme, invece, come Mariella desidera, concludere con la biografia di quella straordinaria donna, Elda Zupo, dalla superba voce, offesa nel suo talento più grande.
Una ferita da cui è emersa in tutto il suo splendore di Madre. Onnipresente ed eterna.
            
          "BREVE BIOGRAFIA DI ELDA ZUPO (scritta da Mariella, sua figlia)

Elda Zupo, nata a Voghera (Pavia) il 27/1/1913 - figlia di Francesco, calabrese di Strongoli (Crotone) e di Maria Ottone, lombarda -, era stata cantante lirica e aveva studiato al Conservatorio di Parma e poi al Centro di Avviamento Lirico del Teatro Comunale di Firenze, dove   aveva incontrato il Maestro Luciano Bettarini, suo insegnante. Nel 1940,  proprio  in  quel  teatro,  a  Firenze,  aveva  debuttato nell’opera “Il matrimonio segreto” di Domenico Cimarosa (opera poi interpretata anche alla “Fenice” di Venezia, al “Massimo” di Palermo, e altrove).
Suoi compagni di studio, in quegli anni, furono cantanti poi divenuti celebri, come Ferruccio Tagliavini, Gino Bechi, Fedora Barbieri (con la quale aveva debuttato nellopera suddetta), ecc.
Sposatasi col Maestro Luciano nel 1941, di fatto cessò la sua carriera di soprano divenendo casalinga, moglie e madre (nel 1942 nacqui io, Mariella e nel 1946 mio fratello, Paolo), e cantando sporadicamente solo in casa, accompagnata al pianoforte dal marito.
Trasferitasi con marito e figli a Torino (1951-1952), poi a Roma (1952-1965), da qui tornò a vivere con i figli a Firenze, subendo un doloroso quanto “necessario” divorzio.
Ha avuto la gioia d’essere nonna di tre nipoti, i figli di Paolo e Margherita: Laura, Andrea e Chiara.
È morta a Firenze il 22 novembre 2003."
E a me non resta che stringerti, carissima Mariella, con braccia avvolgenti come nido di poesia e di affetto sororale.
                                                                            Angela De Leo