lunedì 29 ottobre 2018

"Le piogge e i ciliegi": Relazione completa di Marco I. de Santis


“LE PIOGGE E I CILIEGI. LA STORIA DI UN UOMO STRAORDINARIO”,
                           UN ROMANZO DI ANGELA DE LEO
Nella popolosa repubblica delle lettere Angela De Leo, poetessa, narratrice e saggista, non è una piacevole scoperta dell’ultimo giorno, ma è una scrittrice di lungo corso, perché ha alle spalle un fittissimo curriculum nutrito da oltre quindici sillogi di poesie pubblicate in italiano o tradotte in serbo, un libro di racconti, un romanzo, una monografia di critica letteraria e una montagna di recensioni, saggi e prefazioni a libri italiani e stranieri. A questa produzione di tutto rispetto si affianca nel 2018 Le piogge e i ciliegi, dato alle stampe dalle edizioni Secop di Corato.
Le piogge e i ciliegi di Angela De Leo, come recita il sottotitolo, è La storia di un uomo straordinario, quella del nonno materno dell’autrice, al secolo Domenico Noviello, un proprietario terriero generoso, estroso e timorato di Dio, dai dipendenti, dai conoscenti, dai parenti e dagli amici chiamato patrùnë Minguccë, padron Mincuccio. Non è la prima volta che la figura dell’avo appare nelle opere letterarie di Angela De Leo. La ritroviamo, infatti, già nel prosimetro Ancora un fiore, risalente al 1982; nella raccolta di poesie Il gelso e le rose, apparsa nel 2004, e poi nella silloge di racconti e fiabe Trattenendo il respiro, pubblicata nel 2012, precisamente nei racconti “L’incontro”, “La Settimana Santa” e Io gambero.
Nel cammino narrativo di Angela De Leo il primo romanzo è rappresentato da La via delle vedove, venuto alla luce alla fine del 2013 e ambientato in parte in Terra di Bari, ma in particolar modo nel Salento del primo Novecento, dunque nel profondo Sud. A distanza di cinque anni Le piogge e i ciliegi vengono a costituire per l’autrice il secondo romanzo, anzi un «quasi romanzo», come si legge nelle pagine introduttive. Perché «quasi romanzo»? Perché si tratta di un romanzo atipico, un romanzo di formazione sui generis, un romanzo-fiume in prima persona, un centone di retrospezioni, immagini, riflessioni e ricordi autobiografici, la cui matassa storica, che va dalla seconda guerra mondiale inoltrata al cosiddetto “boom economico” italiano, non viene dipanata in maniera lineare, ma districata a volte andando all’indietro e a volte muovendo in avanti, per poi tornare ancora sui suoi passi, aggrovigliata com’è da nodi esistenziali, rimozioni, censure e garbugli psicologici con volute sfasature cronologiche, imputabili alla chimica delle emozioni e della memoria.
In questo andirivieni memoriale affidato a un montaggio rapsodico, costellato di flash-backs e flash-forwards, domina il dialogo a distanza col nonno materno, collocato in «un Altrove» ultraterreno, dialogo che in realtà è piuttosto monologo interiore, autoracconto, narrazione mescidata con citazioni di vari autori, autocitazioni di opere proprie, ricordanze, inserti epistolari, versi di canzoni di varie epoche, strofette infantili, intermezzi, contrappunti poetici e, qua e là, parsimoniose e talora ironiche chiamate in causa dei lettori (pp. 82, 86, 89, 124, ecc.).
I caratteri usati nel testo sono il tondo, il neretto e il corsivo. Il tondo naturalmente copre la maggior parte dei passi narrativi; il neretto è impiegato per i titoli dei capitoli e per le enunciazioni di un certo rilievo; il corsivo, infine, è usato soprattutto per le citazioni, per le frasi e i termini in dialetto, sparsi a profusione, e per i periodi incidentali e parentetici. Tra parentesi si trovano commenti, spiegazioni, moti emozionali, chiose, le traduzioni delle espressioni dialettali e digressioni sia in lingua sia in vernacolo. In tal modo si cerca di rendere anche la varietà e la compresenza di diversi piani linguistici nel pensiero e nel tessuto narrativo.
A cosa è dovuto il titolo Le piogge e i ciliegi? Le piogge si riferiscono al piacere condiviso da nonno e nipotina nel contemplare l’avvicendarsi di lampi e scrosci d’acqua durante i temporali e nel godere il profumo della terra bagnata. I ciliegi alludono all’abbondanza di cultivar cerasifere nei poderi del nonno, il quale vide nascere la nipotina in maggio assieme alle ciliegie, che amava donare ai famigliari, ai parenti e al vicinato. Proprio per questo, riferendosi al nonno, l’autrice scrive: «Eri la pioggia e la nostra comune gioia nel vederla cadere» (p. 186). E ancora: «Eri tutte le piogge possibili. Immaginabili. Desiderabili. Piogge e ciliegie, la nostra realtà di incantata attesa in anni lontani […] Tu eri odore di terra e di erba. Profumo di pioggia» (p. 192). E alcune pagine prima mormora: «Eri i tuoi campi i tuoi ciliegi» (p. 122).
Come si vede, la figura del nonno, associata alla natura e al mondo contadino, è fortemente mitizzata e sublimata, anche perché la bambina chiamata prima Angelina e più tardi Lina ha vissuto molto di più con il nonno e con la nonna, addirittura fino alla prima giovinezza (v. p. 387), e molto meno con la mamma e meno ancora col padre, un brigadiere e poi maresciallo capo dei carabinieri sballottato in sedi diverse per ragioni di servizio. Non a caso il nonno viene chiamato col massimo affetto papà e il padre, invece, toscanamente babbo.  
Nonno Mincuccio era davvero unico per l’autrice, era la persona più capace di comprensione, protezione e tenerezza nei confronti della diletta nipotina, mancina contrastata a casa e a scuola a causa dei pregiudizi del tempo, «bimba ribelle e ciarliera» (p. 53), che solo lui riusciva dolcemente a domare e rettamente a guidare. In fondo, la capacità di sognare, poetare e raccontare, che le è propria, la nostra autrice la deve in massima parte all’avo materno, che definisce «cercatore di sogni e lampionaio di stelle» (p. 165). E poco oltre: «il nonno delle fiabe» (p. 199). E ancora: «il mio adorato nonno della pioggia e delle fiabe» (p. 315). In un passo successivo, poi, la grande capacità affabulatoria del patriarca è così descritta: «E c’erano ancora le tue parole: storie fantastiche e racconti di guerra, barzellette e filastrocche, i tanti nonsense in dialetto. Ti sedevi in mezzo a noi, felici di ascoltarti, e raccontavi, raccontavi, raccontavi…» (p. 369).
Tutti gli altri personaggi, a cominciare da nonna Angelina, di cui l’autrice porta il nome, fino alla mamma tanto ammirata per l’eleganza, al padre più temuto che amato, alle sorelline Lizia e Anna Maria, al fratellino Pino e alla folla di parenti, vicini, lavoratori, amiche e insegnanti, più o meno sinteticamente o icasticamente delineati, non sono altro che satelliti che ruotano intorno al pianeta-nonno. Da lui la narratrice ha mutuato l’abilità inventiva e di riflesso la capacità di scrittura, che definisce in questi termini: «Penso che la scrittura sia un dono divino: fissa nel tempo lacrime e sorrisi. È simile a una foto. Questa, però, eterna volti e corpi, l’involucro di noi. La scrittura perpetua l’anima. Doppia immortalità. Dono meraviglioso sempre» (p. 89).
Il dono della creatività verbale può paragonarsi all’aura luminosa che sembra circondare l’autrice, come lei stessa rivela al nonno (e quindi a tutti i lettori) nel suo dialogo a distanza: «Oltre il tuo amore incondizionato, l’unica luce che forse mi contiene e da me si espande è quella meravigliosa della parola poetica. Mi piace crederlo» (p. 238). E il lettore incantato, in forza della magia che promana dal flusso verbale, è spinto a crederlo insieme alla scrittrice.


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