“LE PIOGGE E I CILIEGI. LA STORIA DI
UN UOMO STRAORDINARIO”,
UN ROMANZO
DI ANGELA DE LEO
Nella popolosa repubblica delle lettere Angela
De Leo, poetessa, narratrice e saggista, non è una piacevole scoperta
dell’ultimo giorno, ma è una scrittrice di lungo corso, perché ha alle spalle
un fittissimo curriculum nutrito da
oltre quindici sillogi di poesie pubblicate in italiano o tradotte in serbo, un
libro di racconti, un romanzo, una monografia di critica letteraria e una
montagna di recensioni, saggi e prefazioni a libri italiani e stranieri. A
questa produzione di tutto rispetto si affianca nel 2018 Le piogge e i ciliegi, dato alle stampe dalle edizioni Secop di
Corato.
Le piogge e
i ciliegi di Angela De Leo, come recita il
sottotitolo, è La storia di un uomo
straordinario, quella del nonno materno dell’autrice, al secolo Domenico
Noviello, un proprietario terriero generoso, estroso e timorato di Dio, dai
dipendenti, dai conoscenti, dai parenti e dagli amici chiamato patrùnë Minguccë, padron Mincuccio. Non è
la prima volta che la figura dell’avo appare nelle opere letterarie di Angela
De Leo. La ritroviamo, infatti, già nel prosimetro Ancora un fiore, risalente al 1982; nella raccolta di poesie Il gelso e le rose, apparsa nel 2004, e poi
nella silloge di racconti e fiabe Trattenendo
il respiro, pubblicata nel 2012, precisamente nei racconti “L’incontro”, “La Settimana Santa” e Io
gambero.
Nel cammino narrativo di Angela De Leo il
primo romanzo è rappresentato da La via
delle vedove, venuto alla luce alla fine del 2013 e ambientato in parte in
Terra di Bari, ma in particolar modo nel Salento del primo Novecento, dunque
nel profondo Sud. A distanza di cinque anni Le
piogge e i ciliegi vengono a costituire per l’autrice il secondo romanzo,
anzi un «quasi romanzo», come si legge nelle pagine introduttive. Perché «quasi
romanzo»? Perché si tratta di un romanzo atipico, un romanzo di formazione sui generis, un romanzo-fiume in prima
persona, un centone di retrospezioni, immagini, riflessioni e ricordi
autobiografici, la cui matassa storica, che va dalla seconda guerra mondiale inoltrata
al cosiddetto “boom economico” italiano, non viene dipanata in maniera lineare,
ma districata a volte andando all’indietro e a volte muovendo in avanti, per
poi tornare ancora sui suoi passi, aggrovigliata com’è da nodi esistenziali,
rimozioni, censure e garbugli psicologici con volute sfasature cronologiche,
imputabili alla chimica delle emozioni e della memoria.
In questo andirivieni memoriale affidato a un
montaggio rapsodico, costellato di flash-backs
e flash-forwards, domina il dialogo a
distanza col nonno materno, collocato in «un Altrove» ultraterreno, dialogo che
in realtà è piuttosto monologo interiore, autoracconto, narrazione mescidata
con citazioni di vari autori, autocitazioni di opere proprie, ricordanze, inserti
epistolari, versi di canzoni di varie epoche, strofette infantili, intermezzi,
contrappunti poetici e, qua e là, parsimoniose e talora ironiche chiamate in
causa dei lettori (pp. 82, 86, 89, 124, ecc.).
I caratteri usati nel testo sono il tondo, il
neretto e il corsivo. Il tondo naturalmente copre la maggior parte dei passi narrativi;
il neretto è impiegato per i titoli dei capitoli e per le enunciazioni di un
certo rilievo; il corsivo, infine, è usato soprattutto per le citazioni, per le
frasi e i termini in dialetto, sparsi a profusione, e per i periodi incidentali
e parentetici. Tra parentesi si trovano commenti, spiegazioni, moti emozionali,
chiose, le traduzioni delle espressioni dialettali e digressioni sia in lingua sia
in vernacolo. In tal modo si cerca di rendere anche la varietà e la compresenza
di diversi piani linguistici nel pensiero e nel tessuto narrativo.
A cosa è dovuto il titolo Le piogge e i ciliegi? Le piogge si riferiscono al piacere
condiviso da nonno e nipotina nel contemplare l’avvicendarsi di lampi e scrosci
d’acqua durante i temporali e nel godere il profumo della terra bagnata. I
ciliegi alludono all’abbondanza di cultivar cerasifere nei poderi del nonno, il
quale vide nascere la nipotina in maggio assieme alle ciliegie, che amava
donare ai famigliari, ai parenti e al vicinato. Proprio per questo, riferendosi
al nonno, l’autrice scrive: «Eri la pioggia e la nostra comune gioia nel
vederla cadere» (p. 186). E ancora: «Eri tutte le piogge possibili.
Immaginabili. Desiderabili. Piogge e ciliegie, la nostra realtà di incantata
attesa in anni lontani […] Tu eri odore di terra e di erba. Profumo di pioggia»
(p. 192). E alcune pagine prima mormora: «Eri i tuoi campi i tuoi ciliegi» (p.
122).
Come si vede, la figura del nonno, associata
alla natura e al mondo contadino, è fortemente mitizzata e sublimata, anche
perché la bambina chiamata prima Angelina e più tardi Lina ha vissuto molto di
più con il nonno e con la nonna, addirittura fino alla prima giovinezza (v. p.
387), e molto meno con la mamma e meno ancora col padre, un brigadiere e poi maresciallo
capo dei carabinieri sballottato in sedi diverse per ragioni di servizio. Non a
caso il nonno viene chiamato col massimo affetto papà e il padre, invece, toscanamente babbo.
Nonno Mincuccio era davvero unico per
l’autrice, era la persona più capace di comprensione, protezione e tenerezza
nei confronti della diletta nipotina, mancina contrastata a casa e a scuola a
causa dei pregiudizi del tempo, «bimba ribelle e ciarliera» (p. 53), che solo
lui riusciva dolcemente a domare e rettamente a guidare. In fondo, la capacità
di sognare, poetare e raccontare, che le è propria, la nostra autrice la deve
in massima parte all’avo materno, che definisce «cercatore di sogni e
lampionaio di stelle» (p. 165). E poco oltre: «il nonno delle fiabe» (p. 199).
E ancora: «il mio adorato nonno della pioggia e delle fiabe» (p. 315). In un
passo successivo, poi, la grande capacità affabulatoria del patriarca è così
descritta: «E c’erano ancora le tue parole: storie fantastiche e racconti di
guerra, barzellette e filastrocche, i tanti nonsense
in dialetto. Ti sedevi in mezzo a noi, felici di ascoltarti, e raccontavi,
raccontavi, raccontavi…» (p. 369).
Tutti gli altri personaggi, a cominciare da
nonna Angelina, di cui l’autrice porta il nome, fino alla mamma tanto ammirata
per l’eleganza, al padre più temuto che amato, alle sorelline Lizia e Anna
Maria, al fratellino Pino e alla folla di parenti, vicini, lavoratori, amiche e
insegnanti, più o meno sinteticamente o icasticamente delineati, non sono altro
che satelliti che ruotano intorno al pianeta-nonno. Da lui la narratrice ha
mutuato l’abilità inventiva e di riflesso la capacità di scrittura, che
definisce in questi termini: «Penso che la scrittura sia un dono divino: fissa
nel tempo lacrime e sorrisi. È simile a una foto. Questa, però, eterna volti e
corpi, l’involucro di noi. La scrittura perpetua l’anima. Doppia immortalità.
Dono meraviglioso sempre» (p. 89).
Il dono della creatività verbale può
paragonarsi all’aura luminosa che sembra circondare l’autrice, come lei stessa rivela
al nonno (e quindi a tutti i lettori) nel suo dialogo a distanza: «Oltre il tuo
amore incondizionato, l’unica luce che forse mi contiene e da me si espande è
quella meravigliosa della parola poetica. Mi piace crederlo» (p. 238). E il
lettore incantato, in forza della magia che promana dal flusso verbale, è
spinto a crederlo insieme alla scrittrice.
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