giovedì 18 ottobre 2018

Due fiabe sulla felicità e sull'amore che nonno Mincuccio ci raccontava


C’era una volta un re che, stanco di essere infelice perché aveva tutto e non sapeva cos’altro chiedere alla vita, comandò ai suoi soldati di andare in giro per il mondo a cercare la camicia dell’uomo felice perché voleva indossarla sotto i suoi regali vestiti per scoprire il segreto dell’eterna felicità. Solo con quella camicia pensava che sarebbe stato davvero felice. I suoi soldati, anche se poco convinti dei capricci del loro signore, girarono per tutta la terra, ma non trovarono mai un uomo felice. Ma non si arresero per paura di tornare a mani vuote e della reazione del re. Continuarono a girare senza tregua, per monti e per valli, e per tutte le contrade della Terra. Passarono gli anni e le stagioni. Passò l’estate ed anche l’autunno. Poi sopraggiunse il triste inverno e giunse infine una nuova primavera, ma dell’uomo felice neppure l’ombra. Stanchi e desolati, e con mille timori, gli uomini del re stavano per tornare dal loro signore quando, in lontananza, sentirono un canto allegro e appassionato di un uomo nei campi. Si rallegrarono. Solo un uomo felice poteva cantare così. E corsero a cercarlo per chiedergli la camicia da portare al loro re e padrone. Ma quale fu la loro grande sorpresa quando lo trovarono su un albero di rosse e allegre ciliegie? Forse nel nostro campo di Lamangelica? Forse in un campo in cima alla montagna più alta del mondo? Forse in terreno di pianura e in riva al mare? Sulle rive di un fiume o su quelle di un lago misterioso e circondato da tanti alberi da potare? Nessuno è venuto a me a raccontarlo. Ma so per certo che quei soldati si precipitarono verso quel canto lontano e così vicino da rallegrare le loro orecchie abituate ai comandi e ai lamenti del re nella reggia.
Ma, secondo voi quale fu questa sorpresa? Non potete mai indovinare. L’uomo era talmente povero… da non possedere neppure la camicia.
La felicità era solo nel suo cuore…
(molto, molto più tardi scoprii che era una fiaba scritta da Lev Tolstoj e poi rielaborata da Italo Calvino, come “La camicia dell’uomo contento”. Ma il tuo racconto per me ha conservato sempre, nel tempo, sapore di casa, di cortile, di ciliegie, di felicità raggiunta, che le tue parole e l’intonazione e le pause, e le domande con il loro mistero, e le sospensioni di meraviglia tra i tuoi occhi grigi ci regalavano…)

C’era una volta un uomo che viveva con sua moglie da tanti anni e nessuno dei due si ricordava degli occhi dell’altro. Avevano perso anche i sogni e non credevano più a niente. Neppure che per ogni uomo c’è un Angelo che si prende cura di lui da quando nasce fino a quando muore, come avevano saputo da bambini. Ma l’uomo e sua moglie non si ricordavano più di essere stati bambini. Erano diventati delusi e tristi. Non avevano mai visto il loro Angelo. E ormai non ci credevano più.
Ma una notte l’Angelo di lui, ormai vecchio e malandato, lo chiamò facendosi vedere.
“Sono qui, mi vedi ora? E ora ci credi che esisto e ti sono sempre vicino? C’è qualcuno che prega per te? Vieni ti voglio mostrare una cosa”.
E, in men che non si dica, lo portò con sé in una specie di salone sotterraneo, grande e silenzioso come una chiesa. Fate conto, come la nostra chiesa, ma molto molto più grande. Era illuminato da tantissime candele. Alcune erano lunghe e appena accese, altre erano un po’ più corte, altre lo erano ancora di più con la fiammella che faceva fumo, fino a quelle che avevano appena appena un lumicino tremolante su un mozzichino minuscolo di candela e rischiava di spegnersi da un momento all’altro.
L’uomo, stupito, chiese il perché di tutte quelle candele accese. E perché erano di diversa altezza. E qual era il loro significato. Lui non sapeva e non capiva.
“È la vita di ciascuno di voi. Man mano che passano gli anni, la candela si accorcia fino a spegnersi”.
“Qual è la mia?”, chiese l’uomo con un filo di voce. “E quella di mia moglie?”, disse dopo un po’, pensieroso e titubante, come se il pensiero della moglie lo aveva sfiorato all’ultimo secondo.
L’Angelo gli mostrò due candele vicine: una un po’ più lunga e una cortissima.
“La tua è quella più corta, ma se c’è qualcuno che ti ama e prega per te, la fiammella può resistere ancora”.
“Mia moglie forse mi ama. Voglio chiedere a lei di pregare per me”, disse l’uomo sempre pensieroso e titubante, e ora anche pieno di paura. Tremava come la piccola luce di quel mozzicone a cui si era ridotta la sua candela.
In quel momento la fiammella riprese vigore e smise di tremolare.
“Vedi? Senza chiederglielo, lei l’ha già fatto! Ti ha forse pensato in questo momento e il solo pensiero ha reso più vivo il lumicino della tua candela. Forse, pensandoti, ha forse scoperto che ti ama ancora. Ora tocca a te pregare per lei. Se vi penserete con reciproco amore, fino a quando vi amerete le candele resteranno accese”.
“Ma perché allora si muore?”, chiese l’uomo con un dubbio negli occhi e nella voce.
“Perché piano piano si perde ogni gioia, ogni piacere, ogni speranza. Si perde a poco a poco il senso della vita. Non si è più curiosi di niente, sopravvengono dispiaceri e malanni. Ci si stanca di vivere. Ci si stanca di amarsi e di amare. E allora si muore.
È l’amore il senso della vita. Mai vivere una vita senza amore. Si pensa di vivere e invece si è già morti. Una morte senza senso”, disse l’Angelo mentre volava via…
L’uomo voleva fare altre domande sulla vita e sulla morte.
‘Perché, allora, si muore anche da bambini o da giovani? Perché si muore a tutte le età, anche quando si è molto amati? Anche se sono in tanti a pregare?’.
Ma l’Angelo non c’era più.
E l’uomo pensò che non è dato a noi “fərməchéddə” (formichine) sopra la faccia della terra di capire il mistero di Dio...
Ma una cosa ora gli era chiara: sua moglie lo amava ancora.
Il salone era sparito con tutte le sue candele accese: alte, medie, piccole, piccolissime. “Quandə a nu cècərə” (quanto un cece).
‘La sua era ancora accesa. Poteva sperare. Poteva ancora dare un senso alla sua vita. Riscoprire l’amore’.
Accese la luce. Fece una carezza al volto di sua moglie che dormiva, e si accorse che stava muovendo le labbra come se stava pregando.
E a quella carezza sulle sue guance spente si riaccese anche un tenero sorriso…  
(penso che questo racconto avesse un solo autore. Tu. Non l’ho mai letto da nessuna parte. O chissà! Ma è esclusivamente tuo l’amore che ci hai insegnato!).







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