“A MO’ DI (MINIMA) INTRODUZIONE
Queste poche, scarne, spero
non indegne poesie (poesie? Piuttosto lacerti
di esistenza, di memoria, di doloroso amore,
di indicibilità, quasi) per
tentare di colmare
- con la parola - un vuoto,
il vuoto che la
morte di mia
madre Elda ha lasciato
in me”.
Credo sia
opportuno partire da questa difficoltà iniziale di Mariella Bettarini di
parlare a sua madre dopo il “vuoto” che lei, con la sua morte, sia pure attesa
con rassegnata abnegazione e vigile tenerezza, le ha lasciato. Un vuoto che, a
stento ora, tenta di colmare con alcune dolenti, sussurrate, rabberciate, ma
profondamente belle poesie. Talmente belle da commuovermi e da lasciarmi senza
respiro. Riportandomi alla stessa esperienza, da me vissuta (nel 2001) con
altrettanto dolore, come sempre accade quando la Perdita di nostra madre
diventa la nostra Perdita. E non sappiamo più chi siamo, avvertendo per la
prima volta la condizione di “orfana”, la cui radice deriva dal latino “orbus”,
ossia “privo”, ed io completerei: “privo di sé”. E chi è privo di sé dimentica
il proprio nome, la propria identità, il tempo e il luogo in cui si trova. Dolorosa
sensazione quanto la Perdita stessa della persona a noi più cara, perché è perdita della
parte essenziale di noi. Sentiamo ancora il suo sangue scorrere nelle nostre
arterie e vene, il suo cibo amoroso che ancora ci alimenta, la sua stessa vita
che ci attraversa.
“che m’è rimasto? di te
che m’è rimasto? e che è rimasto senza te?
ricordo (vago) - pensiero
latente
(un cogente - volatile pensiero)
-
ostinato dir niente - uno scrivere niente
(affaticato)
- un niente fare
di quel che - tu
presente - facevo - fabulavo -
dicevo - ero
evi fa ero:
ora non so - non più - non già: mistero
e non mistero
- diroccato pensiero - maniero andato -
faticante
sentiero
e poi tanto silenzio verace - menzognero”
In questi versi,
che sembrano singhiozzare e frammentarsi tra le lacrime, ecco l’identità
perduta con i verbi all’imperfetto di un passato in sospensione, non finito del
tutto perché sempre presente, ma già raccontato come una fiaba triste, nel cui
bosco oscuro si sono perse le tracce dello stare insieme e del riconoscersi e
ritrovarsi nella quotidianità dei gesti, delle parole, delle faccende
domestiche condivise.
E in ogni verso
viene fuori la poesia di Mariella Bettarini che, nonostante la perdita di sé, e
la difficoltà di articolar parole, non dimentica la sua anima poetica, che
affiora superba nelle parole classiche e nuove che la compongono, quasi un
richiamo antico mai dimenticato, nella necessità di confermarsi nel proprio
tempo e con uno stile del tutto personale.
Ma ecco un’altra poesia a darci l’idea della perdita/non perdita
di sua
madre nella sua quotidiana presenza accanto a lei…
“e passano
giornate (come passano)
- e passano di qua - e
uguali passano - e
lente e svelte come folli fulmini
e tu passi e non passi - non passi mai
- non passi più -
non hai più passi
per passare di qua
e tuttavia
sapessi come stai
- come permani - come non passi
come non finisci mai d’essere - di passare”.
Meravigliosa poesia, in cui Mariella usa il verbo “passare”, in riferimento al tempo
che “fugge” in gran fretta, e che tenta di portarsi via la madre con i suoi
passi che vanno e che restano, e lo converte (quel verbo, appunto) nel
sostantivo ‘passi’ di lei che non passano mai. Perché “non finisci mai d’essere
- di passare”: di esistere e di passare con i tuoi passi.
E ci sembra di
vederla la signora Elda passeggiare per la stanza, presente più che mai agli
occhi di sua figlia e al suo cuore.
E magicamente, plasticamente presente anche
ai nostri occhi.
Elda Zupo, una donna straordinaria nella sua semplicità
vocazionale ad amare incondizionatamente, a cui Mariella Bettarini, in seguito
alla sua morte, dedica, a fatica, questo canzoniere di grande tenerezza.
“'ricordi quando
ridevàmo?' (m’immedésimo)
-
'e quando io piangevo (zitta)
per te
- per i tuoi/ nostri dolori?' (mi
ricordo) - 'e quando
facevi
tardi con me a quel minimo
scrittoio - per aiutarmi (io ragazza di scuola)
a ripassare - a studiare?' -
'e quando e
quando… - e quanto son vissuta
con te -
tu con me - materna madre
così
naturale come acqua di fonte -
questo
sentire oggi desueto mi pare -
questo potere darsi
e
dare - questo amare
fluente come mare
- e tu n’eri maestra
e non volerlo
proprio senza
saperlo
-
proprio per non sapere".
E ancora:
“proprio
per non sapere
“son qua - son senza suono e voglio raccontarti? ri-partire?
narrarti? - matta che sono! basterà
se riesco (ma riesco?)
a ri-accennarti - abbozzare
la tua effigie - ri- abbracciarti -
ri-trovare minuzzoli di vita
- ritentarti (non certo riuscire a darti
la parte
pur millesima di quanto hai dato a me)
nient’altro madre
e riposarmi in te
e dunque ri-posarti - ché sei nel tuo
lungo riposo
- e io son stanca -
nel tuo bianco silenzio -
sei
e io tento di lavorare
di parole e tu sei
ancòra il sole
ed io ti
vengo dietro”.
E Mariella
visualizza molto bene la fatica di doverle scrivere, ora che non c’è più e il
vuoto è troppo vuoto da colmare con le parole che stenta a mettere sul foglio
bianco, con i trattini che frantumano i pensieri, già frantumati dentro, e che
non danno scampo neppure nei versi. Sono lì. A significare l’inciampo, il punto fermo, il silenzio, la lenta e faticosa ripresa, con un’Arte
poetica che non si fa imbrigliare e che vortica, quasi all’insaputa dell’autrice, perché fa parte della sua carne e del suo sangue.
È la stessa sua anima.
Mariella, troppo provata dal dolore, non si accorge della sua incoercibile
poesia che, come sua madre, e sua seconda madre, non l’abbandona: la prima l’ha
generate alla vita, la seconda all’Arte della parola che è Verbum ed “è”
all’origine dei tempi e “sarà” fino alla fine.
non so più
come farlo - lo faccio (vedo)
per
re-plicarmi -
ma impallidiscono nel
sole…”.
Una percezione di sé sbagliata, come si può notare, pur non
potendo fare a meno di constatare che continua a vivere e a scrivere,
nonostante tutto:
“eppure vado avanti
-
e mangio - e vivo - e dormo -
e invecchio - e non guardo allo specchio
(quasi più) la mia faccia…”.
In realtà, Mariella sente che scrivere di sua madre e a sua madre
è come scrivere a sé stessa e di sé stessa, perché ora mamma Elda e lei sono
una cosa sola. Lei è sopravvissuta al dolore perché sua madre non l’ha mai
perduta veramente, in quanto è lì, annidata nel suo cuore:
"m’immedésimo
in te - ti porto (e porterò)
sempre con me - ma non facendo alcuna fatica
- perché
se io sono
(in) te - tu
non sei morta
- e se
tu resti in me…”.
“con te ragiono senza te - e ancòra
delle tue
belle stelle m’incoròno”.
E ancora:
“vedi - madre -
che se scrivo di te scrivo
di me (e viceversa) -”.
E poi:
“son qua - son senza suono e voglio raccontarti? ri-partire?
narrarti? - matta che sono! basterà
se riesco (ma riesco?)
a ri-accennarti
- abbozzare la tua effigie - ri-
abbracciarti –
ri-trovare minuzzoli di vita
- ritentarti (non certo riuscire a darti
la parte
pur millesima di quanto hai dato
a me)
nient’altro - madre -
e riposarmi in te e dunque ri-posarti -
ché sei
nel tuo
lungo riposo
-
e io son stanca -
nel tuo bianco silenzio -
ed io tento di lavorare
di parole e tu sei
ancòra il sole
ed io ti
vengo dietro”.
Infine, assodata
questa presenza/immedesimazione, ecco affiorare, nella seconda sezione della
silloge, i ricordi: “ricordo che raccontavi - raccontavi: di Maria (tua madre
- da me mai conosciuta) che…”.
Oppure:
(suo padre calabrese
- Francesco detto “Ciccio”)
da ragazzo scappò
con un cugino coetaneo
dal paese natale
(Strongoli:
Magna Grecia) per vedere il mare…”
E potrei continuare ancora e ancora a raccontare anch’io,
attraverso le poesie di Mariella Bettarini, il suo immenso amore per questa “madre/matrice”
di ogni dono che lei avverte in sé e da lei si propaga ai tanti suoi
lettori ed estimatori.
Ma rischio di scrivere un trattato, come l’autrice merita indubbiamente.
Mi preme, invece, come Mariella desidera, concludere con la biografia di quella straordinaria donna,
Elda Zupo, dalla superba voce, offesa nel suo talento più grande.
Una ferita da cui è emersa in tutto il suo splendore di Madre. Onnipresente ed eterna.
"BREVE BIOGRAFIA DI
ELDA ZUPO (scritta da Mariella, sua
figlia)
Elda Zupo, nata a Voghera (Pavia)
il 27/1/1913 - figlia di
Francesco, calabrese di Strongoli (Crotone) e di Maria Ottone, lombarda -, era
stata cantante lirica e aveva studiato al Conservatorio
di Parma e poi al Centro
di Avviamento Lirico del Teatro Comunale
di Firenze,
dove aveva
incontrato il Maestro Luciano Bettarini, suo insegnante. Nel 1940,
proprio in
quel
teatro,
a
Firenze,
aveva
debuttato nell’opera
“Il matrimonio segreto” di Domenico
Cimarosa (opera poi interpretata anche
alla “Fenice” di Venezia, al
“Massimo” di Palermo,
e altrove).
Suoi compagni
di studio, in quegli anni, furono cantanti poi divenuti celebri, come
Ferruccio Tagliavini, Gino Bechi, Fedora
Barbieri (con la quale aveva debuttato
nell’opera
suddetta), ecc.
Sposatasi col Maestro Luciano nel 1941, di fatto cessò la sua carriera di soprano
divenendo casalinga, moglie e madre
(nel 1942 nacqui
io, Mariella e nel 1946 mio fratello, Paolo),
e cantando sporadicamente solo
in casa, accompagnata al
pianoforte dal marito.
Trasferitasi con marito
e figli a Torino (1951-1952), poi a
Roma
(1952-1965), da qui tornò
a vivere con i figli a
Firenze, subendo un doloroso quanto “necessario”
divorzio.
Ha avuto la gioia d’essere nonna di tre nipoti, i figli di Paolo e Margherita:
Laura, Andrea e Chiara.
È morta a
Firenze il 22 novembre 2003."
E a me non resta
che stringerti, carissima Mariella, con braccia avvolgenti come nido di poesia
e di affetto sororale.
Angela De Leo
Angela,un bellissimo pensiero, mia mamma non c'è più da mesi, ho tanta voglia di vederla, io la immagino che entra in camera mia, continuiamo a immaginarla è come se le fossimo ancora vicini
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