martedì 26 settembre 2023

26 settembre 1974: La felicità spezzata di Nicola e Anna Maria...

E oggi, desidero ricordare qualcosa che non si può dimenticare…

<La felicità di Anna Maria e Nicola ebbe tempo brevissimo. Per essere realtà e non un sogno.

Dopo cinque lunghi anni di lotte in due per un lavoro che fu inizio e fine di quel sogno breve.

                                                     Nicola

Appena due anni di felicità, e la sua morte precoce e assassina.

E Anna Maria con Isabella di pochi mesi.

Appena nove mesi prima la felicità di Nicola in quella mattina di neve e macchine che potevano occupare strade bianche solo a targhe alterne…

“Me la meritavo io mia figlia, dopo aver perso mia madre meritavo di essere felice pure io”, le sue parole in macchina, io seduta accanto a lui, e avemmo insieme lacrime di notturna condivisione di gioia, durante il ritorno a casa.

Ma solo nove mesi dopo, stette malissimo per il timore feroce di perdere quella sua bimba di grano e sorrisi per la diagnosi affrettata di un medico. E lo sentimmo pregare perché fosse risparmiato a sua figlia ogni dolore e lo sentimmo offrirsi al Cielo pur di risparmiarla. E desiderò con tutto sé stesso di sostituirsi a lei se il destino avesse voluto strappargliela. La diagnosi negativa di un luminare gli ridiede speranza e gioia di vivere.

Quando lui, Anna Maria e la piccola tornarono a casa, si abbandonò, esausto, sul letto ad un irrefrenabile pianto liberatorio. Quando si riprese, disse a tutti noi:

“Questa storia mi ha tolto anni di vita, ma per fortuna avrò una vita lunghissima come quella di nonno Nicola. Vedi, Lina, quanto è lunga la linea della mia vita? Guarda qui…”, e mi porse il palmo della mano. Mi misi a ridere e sempre per scherzare un po’ e, guardando quelle linee, gli dissi:

“Mi dispiace, mio caro Nicola, anche se hai una linea lunghissima, io non riesco a vederti vecchio…”.

“Leggi bene”, mi raccomandò ridendo, “non è che hai gli occhiali appannati?”.

“Ehi, sto scherzando, ma comunque, chissà perché vedo Pinuccio più vecchio di te…”.

“Per forza”, disse lui, “è nato prima!”, e ridemmo a quella sua battuta.

E solo pochi giorni dopo… solo pochi giorni dopo quelle risate…

       Anna Maria pugno di cielo sferrato al cuore in un pianto di pioggia

                Anna Maria e un bimbo da far nascere di lì a pochi mesi

Annichilimento dopo un matrimonio d’amore e di felicità, durato troppo poco per essere vero.

Anna Maria senza Nicola e con due bimbe, fiorite nella gioia e nel dolore.

Fu la pioggia battente sull’asfalto viscido di quel giorno?

Fu l’auto che gli piovve addosso mentre tornava a casa?

Furono i miei pensieri di morte, anche quel pomeriggio, a sapere già di lui?

Furono solo i suoi trentatré anni, cristo dai capelli inanellati di rosse spine, a frantumarsi sulla curva della strada bagnata, e il pazzo bolide sulla inerme cinquecento, stupita nel sorprendere rigagnoli di sangue e di latte lungo i vetri per quella bimba da riabbracciare a casa.

Furono i suoi occhi spenti a urlare tutta l’incredulità da assordare l’immenso cielo.

Fu croce conficcata, con chiodi e martello, su fragili spalle di donna innamorata, con tra le braccia di spietata agonia la piccola di neve e di pianto, e nel grembo un nuovo cuore che stava difendendo la prepotente dolcezza del diritto alla vita.

                                                Tu lontano e impotente?

Lontana e impotente sua madre ai rossodorati capelli abbandonati sul cruscotto, dopo la furia ignara e impietosa a tagliargli la strada e a centuplicare pioggia e pianto?

Quella notte la sognai ed era disperata. Io non l’avevo mai conosciuta eppure sapevo che era lei, sua madre, dolente come la nostra “Desolata”.

Mi diceva che per tre ostacoli non era riuscita a salvare suo figlio. La pioggia. Il dosso. La macchina guidata da un pazzo malato.

E risultò tutto vero. Io ripresi ad aver paura dei miei sogni.

Schiacciato completamente Pinuccio, ormai affermato ingegnere, ma sempre incapace di occupare spazi non suoi; schiacciato da quel coperchio sollevato su quel corpo straziato che dovette riconoscere perché nessun altro avrebbe potuto farlo. E fu sempre lui a seguire le indagini, che confermavano. Confermarono.

                      Anna Maria fu gomitolo di lacrime e di disperazione

Mamma e babbo e Mimmo e gli altri di casa, per farle compagnia e aiutarla a sopravvivere, si spostarono nella casa della figlia/sorella occhi allucinati, pozzi dei suoi cent’anni, braccia senza culla, e culla da preparare per quel palpito sotto il cuore.

                                        E il dolore regnò sovrano

Con gli abiti neri a lasciare tracce di lutto nelle nostre case.

Isabella e la sua spenta allegria in occhi di tristezza, specchio devastato del silenzio di cupo dolore di sua madre.

E nacque Nicoletta e fu tempesta di riccioli. E fu rinnovata alba di forzati sorrisi. Fu salvezza di giorni da vivere al maschile e al femminile in una casa di molte mamme e molti papà nelle carezze alle piccole per evitare il vuoto di una sola assenza.

                                  Immensa nei cuori uniti e straziati

               E silenzio di preghiere inascoltate per molti anni ancora

Toccò a me lenire il dolore di Anna Maria con alcuni messaggi che Nicola in notti insonni e di sogni brevi mi portava in risposta alle tante disperate domande che lei gli poneva nelle sue quotidiane lettere che indirizzava al cielo delle perdute stelle

(perché sei andato via? tu eri indispensabile nella nostra casa…

di’ ad Anna Maria che nessuno è indispensabile siamo tutti necessari, ma nessuno è indispensabile…)

E il giorno dopo io le portavo il messaggio che lei si attendeva incredula e speranzosa. Incredula anche io, quando mi apriva il quaderno per mostrarmi la sua richiesta del giorno prima.

Dunque, non era stato solo un sogno… e ricominciai ad attenderli quei sogni per una possibile consolazione.

E fu così per anni, di tanto in tanto, fino a che Nicola non mi mostrò un lenzuolo da sposa che stava preparando per la sua compagna di anni brevi e di eterno amore, perché era giunto il tempo di fare largo nel suo cuore ad un uomo che l’avrebbe amata e protetta quanto lui.

                                      E Anna Maria incontrò Gianni

Lentamente tornarono torte di compleanni e feste di neve e di coriandoli.

Lentamente tornò il sorriso. Lentamente si tornò a vivere. Con tutti i bambini che, nel frattempo, erano esplosi alla vita nelle case dei miei fratelli e delle mie sorelle. Te li elenco tutti perché sono foglie del tuo secolare albero: Gianfranco e Fabrizio di Lizia e Pinuccio; Marica e Anna Maria di Pino e Anna.

(E nelle case dei miei cognati: Mario e Paolo di Nelio e Nella; Domenico di Rina e Michele; Serena e Gabriella di Angelo e Dolores; Raffaella di Tonio e Maria Nilde).

Due anni prima che Nicola ci lasciasse erano nati Giuliano, Fabrizio e Domenico. Due anni dopo ecco la mia Daniela, Anna Maria e Raffaellina.

Grappoli di bambini come ciliegie. Prima e dopo Nicola e il suo dirci addio.

In tutta quella pioggia non più amica

(tactactactactactttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttactactac)

E poi ancora Eliana e Raffaele di Mimmo e Mariella.

                             La rivincita della vita sulla morte

 

Si sgretola malinconicamente

e porge il fianco scosceso

la pallida luna al buio d’ogni

inganno

E perde splendore il cielo

che lacrima di stelle

e di rimpianti

Ma hanno gemme che si schiudono

il mandorlo di perla e il pesco

di rosa vestito

in questa quasi primavera

Esplodono i germogli

e rischiarano

il campo di ricami d’erba

smeraldina

E tra cigni di rami fioriti

cantano i bianchi ciliegi

l’inno alla vita

(“Adleriana” - compensazione - poesia inedita)>

(A.   De Leo, Le piogge e i ciliegi, SECOP edizioni, Corato-Bari 2019, vol. II)

A presto. Angela                                              

                                           

 

mercoledì 20 settembre 2023

20 settembre 2023: LA STORIA DI UN AMORE...

LA STORIA DI UN AMORE

                                                                

                                                                      … La cosa più bella del nostro amore

                                                                     è che esso cammina sull’acqua

                                                                     e non affonda.

                                                                                            (Nizar Qabbani)

                                             

Oggi, 20 settembre, di tanti anni fa, fino a perderne il conto, io e Primo coronammo il nostro sogno d’amore a lungo vagheggiato. Ma per parlarne occorre risalire agli “antefatti”.

Manfredonia

<Nel nuovo paese incontrai una solitudine di caserma, grande, fredda, grigia, ma nella nuova scuola “che sapeva di mare” incontrai l’amore e la poesia.  Dopo circa un anno di reclusione, nelle ore di costrizione al regime dittatoriale, e di libertà condizionata, nell’aula della terza B, mi sentii rincuorata e protetta dalle battute di Primo, il ragazzo che, dei quattro compagni di classe, era il più intelligente, il più divertente, il più irriverente.

                                                 E fu subito magia

Ma fu anche l’incontro con un preside poeta a regalarmi il sogno di poter realizzare i miei sogni, nonostante le catene. Non passò molto tempo che, come erba tenera e papaveri in fiore, nello sconfinato prato della mia testa-cuore-anima, cominciai a coltivare il “pensiero unico”: il mio amore per quel ragazzo tanto diverso dagli altri, più basso di statura, ma dominante su tutti per genialità. E, fosse stato per me, non avrei scelto altro che lui, lui e soltanto lui. (…)

E in classe Primo era l’unico che, con la sua ironia e autoironia, ci faceva ridere. Cominciò, pian piano, col passare dei mesi, a corteggiarmi alla sua maniera: petali di rose (strappate dalle piante che costeggiavano l’ingresso aperto al sorriso del mare o al suo brontolio di onde alte e rabbiose), con i mille ti amo infilati nei cappucci delle penne che volavano sui banchi; frasi d’amore scritte col gesso ai bordi della cattedra, mentre veniva interrogato, suscitando un brusio divertito da parte dei compagni e rimproveri quotidiani da parte dei professori, a cui lui rispondeva sempre per le rime. Fu un amore nato tra i banchi di scuola e destinato forse a rimanere tale, se non fosse stato contrastato fin dal suo nascere, e se non fosse stato per il nostro appuntamento quotidiano nei vari cinema di quel ridente paese cullato dal mare.

Il giorno del mio diciassettesimo compleanno ebbi anche il permesso, dietro sicura e accorata perorazione di mamma, di invitare a casa tutta la classe. Primo si presentò con un enorme fascio di rose rosse. Pensavo che si fosse fatto portavoce di tutti i compagni e, invece, mi disse che le rose erano sue perché mi amava tanto e voleva che diventassi la sua ragazza.

“Lo sai che non mi fanno uscire”, gli dissi mentre ballavamo e lui mi stringeva a sé.

“Non me ne importa. Ci vediamo a cinema...”.

Andare insieme a cinema ci permise di continuare la nostra esile storia perché favorì il nostro incontrarci e sfiorarci, stando seduti vicini vicini, e di scambiarci battute e opinioni che andavano oltre i discorsi scolastici. I diversi cinema al chiuso e le arene all’aperto ci videro, in quegli anni, assidui spettatori anche perché, incoscienti e presuntuosi come eravamo entrambi, non avevamo i pomeriggi impegnati in uno studio scolastico “matto e disperatissimo”, e, tra l’altro, eravamo entrambi “uniti da un insolito destino”: entrare gratis in tutte le sale cinematografiche e le arene dell’accogliente paese che ci ospitava. Anche il papà di Primo, come ben sai, era un sottufficiale, non dei Carabinieri ma della Finanza. E godeva degli stessi privilegi, riservati ai militari e ai loro familiari. Le due caserme, nemiche, erano l’una accanto all’altra e le nostre case dirimpettaie si guardavano in cagnesco, per via dei nostri genitori; e con amore, per via dei nostri occhi ad attraversare il corso per perdersi nel sogno che affiorava nei nostri sguardi. (…).

Allora, eravamo in due, io e Primo, ad anticipare di un decennio (si fa per dire!) il Sessantotto ed era inevitabile che c’incontrassimo sul filo della creatività, della incoscienza e della nobile aspirazione all’utopia e alla libertà. Acrobati noi delle parole coraggiose e folli nei numerosi percorsi alternativi. Decisamente diversi eppure tanto uguali. Ormai guardavamo il mondo con occhi innamorati. E nella stessa direzione. Anche se con personalità completamente diverse e, in qualche modo, incompatibili.

Il primo ad accorgersi del nostro amore fu proprio il preside che, dopo una “visita di istruzione” nel territorio dauno, scoprì tra le fotografie delle classi in gita alcune nostre foto in cui avevamo fermato il tempo tra le nostre mani intrecciate sul nostro pasticciato sogno di essere in due. Ci chiamò in presidenza e, invece di rimproverarci come ci aspettavamo, ci sorrise chiedendoci:

“È una cosa seria?”.

Intuii allora la tenerezza del suo cuore>.

Bitonto

                                                         1960

                anno magico per l’amore che fioriva e metteva radici

 

                                                                                                     Radici e ali.

                                                                                            Ma che le ali mettano radici.

                                                                                                 E le radici volino.

                                                                                                (Juan Ramòn Jiménez)

 

<Ci eravamo iscritti entrambi, io e Primo, alla Facoltà di Lingue: lui per passione, io solo per seguirlo. Ancora una volta da perfetta incosciente, avendo piena consapevolezza che le lingue non riuscivo a masticarle affatto. Ero decisamente negata, non tanto nella traduzione, quanto nella lettura e nella comunicazione orale. Mai avrei imparato a pronunciare una sola parola straniera correttamente. E ancora oggi mi accade. (…)

Fu un anno senza mai partecipare ad una sola lezione, paghi soltanto di essere insieme.

                   Incoscienti e felici. Immemori e felici. Appassionati e felici.

Corso Trieste. Lunghe giornate a chiacchierare nella saletta degli studenti, dietro i vetri e con i libri mai sfogliati. Passeggiate romantiche sul lungomare, infaticabili camminatori noi in gara con i gabbiani.

Corso Cavour: e i panzerotti al Bar Italia, i gelati al Bar Gasperini, il caffè alla Motta.

Lunghe incursioni all’UPIM e alla STANDA. I regalini da quattro soldi e la felicità nelle tasche vuote. Altri attimi di gloria e di euforia per essere stata eletta miss matricola. Ancora una volta la bellezza a incoronarmi regina. Esaltazioni in due. E danze e voli e ricami di voli e sogni. E progetti…

Poi, il Concorso di Primo l’anno successivo e il suo impiego nella scuola come il più giovane maestro d’Italia. Io non vi avevo partecipato. Sapevo con certezza che non volevo fare l’insegnante. Soprattutto nella scuola elementare. Ma fui contenta della sua scelta e del suo successo.

La mia corsa, la mattina dell’assegnazione della prima sede d’insegnamento, sotto un temporale spaventoso, per raggiungerlo in Provveditorato, dove c’era anche suo padre. Portai con me due bicchieri di carta e una bottiglietta d’acqua per brindare

(… “brindisi coi bicchieri colmi d’acqua/ al nostro amore povero e innocente”…)

Lo raggiunsi che ero la cascata del Niagara (il papà di Primo si preoccupò e mi rimproverò bonariamente), ma io rimasi bagnata fradicia fino al mio ritorno a casa, la sera. (…). Rimasi a lungo a letto con febbre e raffreddore. E senza Primo, che dovette presentarsi a scuola e poi ripartire con suo padre in attesa dell’inizio dell’anno scolastico. Il primo ottobre. (…).

Mi avevano iscritto, intanto, contro il mio volere, alla Facoltà di Lettere, previo esame di ammissione, essendo a numero chiuso. (…) Cercai in tutti i modi di non sostenere l’esame, ma Lizia e Pinuccio, che nel frattempo era diventato il suo ragazzo, mi accompagnarono fino dentro l’Ateneo e, mio malgrado, dovetti svolgere negligentemente un tema su Pascoli e D’Annunzio

(ce la misi tutta per farmi bocciare, improvvisando una mia discutibile argomentazione sul valore immaginifico della poetica dannunziana contro la semplicità puerile di quella pascoliana, l’esatto opposto della tesi sostenuta dal noto professore salentino, docente di Lingua e Letteratura Italiana nel nostro Ateneo, in un suo saggio monografico appena pubblicato e da me ignorato!). (…) Con grande sorpresa, risultai tredicesima su oltre duemila concorrenti per sole trecento iscrizioni, per cui dovetti accettare di cambiare Facoltà e Sede e soprattutto di separarmi, ancora una volta, da Primo. (…)

                                                           1966

Appena dopo la metà di settembre, Lizia sposò Pinuccio. (…)

Primo non poté sfuggire al servizio militare ma, dopo un’estate trascorsa come aviere in una località amena della Calabria, tornò a Bari per gli ultimi mesi di leva. Al suo congedo, ci saremmo sposati anche noi. Tra altalenanti sì, no, non so. (…)

Vari sconvolgimenti e grandi trasformazioni erano sopravvenuti, in quegli anni Sessanta, nella nostra costellazione familiare (senza più una sola ombra a ricordarci il gelso e le rose, il primo decapitato e le seconde appassite). Anche nelle nostre famiglie parentali… (…).

C’erano, comunque, tante canzoni a farmi battere il cuore e nuove poesie che io e Primo ci dedicavamo, nostre e di autori famosi, più stranieri che italiani (Neruda, Prévert, Whitman, Dickinson), e nuovi sogni da progettare tra le tele di Primo sempre più numerose e più belle (gli avevo regalato io alcuni anni prima, dietro sua richiesta, tavolozza, colori e pennelli) e le nostre canzoni, più italiane che straniere (il boom di queste ultime ancora lontano)

(come te non c’è nessuno/ tu sei l’unico al mondo… Rita Pavone…

mai più nessuna al mondo/ t’amerà così/ per te nessuno al mondo/ soffrirà così… Peppino di Capri… nessuno ti giuro nessuno/nemmeno il destino ci può separare… Mina).(…)>

                                                         1967

11 gennaio:

 perdita del cuore con la perdita di mio nonno alle quattro del mattino. E fu sgomento. E furono lacrime senza fine… e suono di capane a festa ad inondare misteriosamente e miracolosamente il giardino senza più gelso e senza più rose. Tutto distrutto anche la mia anima…

Ma avevamo già dall’anno prima fissato la data di matrimonio per via della disponibilità della sala in quel di Bitonto soprattutto per nonna Angelina, sperduta e confusa senza il suo Sole, intorno a cui, satellite lunare, aveva ruotato per un’intera vita, e per le zie più anziane della famiglia.

 

20 settembre:

il matrimonio

 

                                                                                       … è tempo che si sappia!

                                                                          È tempo che la pietra si degni di fiorire,

                                                                        che all’affanno cresca un cuore che batte

                                                                                         È tempo che sia tempo.

                                                                                                    È tempo.

                                                                        (Paul Celan, stralcio della poesia

                                                                        “Corona”, Poesie, raccolta postuma, 1998)

 

 

 

<Un matrimonio atteso per circa dieci anni e poi pensato con sospetto, con l’anima in sospensione per troppe delusioni vissute come inganni.

Avevo sognato troppo per non cadere lungo le vie strette e tortuose della realtà. (…)

Venne zio Padre Leonardo ad officiare il rito.

La sera precedente le strade periferiche del nostro paese mi videro con Anna Maria riempirle di lacrime e di pensieri sgomenti. Tutto mi tormentava. La tua assenza. La presenza di tanti che avrei voluto assenti. I giorni dell’amore e della lontananza. E quelli che sarebbero venuti solo per noi nella nuova casa. “Saremmo stati bene insieme?”.

Piovve a dirotto il giorno dopo. Piovvero anche dubbi e timori. Si mescolarono all’acqua che non li lavò. Non li fece scorrere lontano. Mi attanagliarono il cuore nell’attesa del vestito bianco che tardava ad arrivare. Non era ancora pronto ed era stato confezionato proprio per me nel paese degli abiti da sposa. Modello Angela. Con ricami di perline e coralli, che io amavo tanto, a formare delicate margherite sul corpetto e lungo tutto l’ampio bordo dell’abito, morbido sui fianchi ma leggermente svasato alla caviglia. Quei ricami mi ricordavano gli abiti di tua madre. Neri. Eleganti. Indossati nel mio eterno carnevaleIl mio abito era bianco su bianco. Come la mia anima di attesa e di sgomento. Sì, era ancora bianca la mia anima. Dopo le chiacchiere delle comari del vicinato e dopo dieci anni del mio canto d’amore con Primo, ero ancora candore di ali di nuvole di veli, e tenerezza di bianche piume e luminosità di mattini non ancora dischiusi al giorno. Primo aveva rispettato quel candore, quasi fosse un’offesa infrangerlo, macchiarlo (…) In quel giorno di pioggia, Primo, Pinuccio e Nicola si erano avventurati all’alba che diluviava per portarmelo in tempo, quel vestito tanto a lungo sognato, prima che il fotografo venisse per le foto di rito.

Quel giorno il vestito non era pronto come non ero più pronta io a dire il mio sì. Incompiuto l’abito da sposa. Incompiuta io come sposa. Incompiuto il tempo dell’attesa che aveva divorato il tuo tempo. Mi sembrò un segno che non volli interpretare. Non avevo dormito quella notte e non avevo potuto sognarti. Non avevo sogni cui aggrapparmi o da cui disancorarmi. Volevo solo fuggire. Avrei voluto non sentire più quel nubifragio di pioggia cattiva abbattersi sul naufragio del sole ad oscurare e sommergere i miei nuovi giorni…

Sull’altare tacqui per tre volte alla domanda “Vuoi tu…?”.

No. Io non volevo. Non sapevo più cosa realmente volevo…

Attimi eterni di panico. Vidi gli occhi di zio Padre Leonardo interrogarmi preoccupati. Vidi Primo tremante e il suo profilo di ragazzo innamorato, pallido e perduto dietro il mio lungo silenzio. Vidi l’altare, i settembrini festosi, nuvole bianche e leggere che vibravano di sogni che ancora sarebbero stati. Le rose rosse indispettite di spine tra tanta innocenza di prato. Immaginai, dal brusio alle mie spalle, volti allarmati e orecchie attente in attesa di quel monosillabo che tardava ad essere pronunciato. Un piccolo monosillabo a racchiudere una promessa così grande. Di eterna fedeltà. Ti vidi seduto alla tua sedia nella cappellina alla sinistra dell’altare. Sentii la tua ansia. L’identica attesa degli altri. Vidi i tuoi occhi d’amore verso nonna Angelina seduta vicino a mamma e babbo e con accanto zia Maria

(“con i sentimenti non si scherza” ti sentii mormorare…) Contro i miei tre no, pensati in silenzio, mormorai un solo sì. E vidi il mio ragazzo felice. E fui felice. Sì, potevamo essere ancora felici. Sì, saremmo stati felici. Sì, ce l’avremmo messa tutta per afferrare

                     Stracci di felicità. Gocce di felicità. Raggi di felicità.

 

Piove sull’asfalto,

piove sul mio cuore,

piove sulla devastante prateria sconfinata del mio animo…

 (Alberto Teodori, stralcio de “La pioggia”)>

(da A. De Leo, Le piogge e i ciliegi, vol. II, SECOP edizioni, Corato-Bari 2019)

mercoledì 13 settembre 2023

13 settembre 2023: PRIMO GIORNO DI SCUOLA: "TUTTO MI STA A CUORE" di DON LORENZO MILANI (E ALTRI)...

Settembre-ottobre: tempo di ritorno dalle vacanze estive e di ripresa del lavoro per tutti. Soprattutto tempo di scuola. Non a caso, la nostra Rivista cartacea CORRELAZIONI UNIVERSALI recita così: SCUOLA: INSEGNANTI NON PER CASO. LASCIANDO TRACCE DI SENSO.
E io il senso lo trovo, ancora una volta, nonostante siano passati cinquantasette anni dalla sua morte, in Don Lorenzo Milani. E nella sua Scuola di Barbiana, dove il “prete scomodo” venne confinato per punizione.
Don Milani, non si dette per vinto. Anzi! Fece scrivere su un cartello all’ingresso della scuola il motto “I CARE”, ripreso poi come mantra da molte organizzazioni politiche e religiose, fino a uno degli ultimi Presidenti degli USA: Obama.
“Tutto mi sta a cuore”, una frase che riassumeva bene le finalità di cura educativa di una scuola orientata a promuovere una forma di sollecitudine per le persone, la natura, le cose.
Il prendersi “cura”, infatti, è la forma più alta dell’amore da donare agli altri, sia che si tratti dei nostri cari, sia che si tratti dei ragazzi che ci vengono affidati per un intero corso di studi: dalla Scuola dell’Infanzia alle scuole superiori.
Il “prendersi cura” sottintende una sorta di necessaria continuità tra una scuola e l’altra. Tra un ciclo e l’altro. Tra un anno e l’altro. Non basta alla scuola dei nostri giorni “accogliere”, occorre prolungarne l’azione perché l’educatore abbia tempi e modi per avviare un processo di conoscenza dei suoi allievi, che li porterà ad acquisire quel senso di fiducia e di autostima che li accompagnerà per tutta la vita, sempre grati a quel “maestro” che si era rivelato tre volte tale (magis-ter) con loro, nell’arco di tempo dell’insegnamento-apprendimento svolto insieme.
La didattica, arte/scienza dell’“insegnare” non deve essere mai disgiunta dalla “matetica”, arte/scienza dell’apprendere.
“I care” trasporta come messaggio la disponibilità a non essere centrati su sé stessi e riconcentra l’attenzione e l’interesse al mondo degli altri, sollecitando un comportamento di rispetto della dignità della persona. Di ciascuna persona. Di ciascun alunno, con i suoi “punti di forza” da valorizzare e le sue “fragilità” da superare.
“Tutto mi sta a cuore” era, comunque, una frase in netta contrapposizione al “Me ne frego”, di pretta marca fascista.
Don Lorenzo aveva, nonostante le sue radici alto-borghesi (nipote del grande Comparetti, filologo, grecista e latinista, che gli inculcò l’amore per la PAROLA), era soprattutto un uomo di sinistra. Era per i poveri, i derelitti, per tutti coloro che non avevano mai avuto “voce”, sia nella loro storia personale che in quella più ampia della Storia dell’umanità.
Non a caso nella sua scuola, Don Milani improntò tutta la sua pedagogia sull’utilizzo dei giornali che i ragazzi, di varia età ma di estrazione sociale povera, dovevano imparare ad usare in modo corretto per impadronirsi del senso e significato di ciascuna parola, soprattutto in modo critico-costruttivo, per potersi confrontare con tutti i possibili interlocutori e andare anche all’estero, dopo aver studiato nella scuola di Barbiana parecchie lingue straniere, a completare gli studi o a lavorare, con cognizione di causa, per la conquista della libertà di parola e di pensiero.
Ma, a Barbiana, oltre al motto “I care”, i ragazzi costruirono un mosaico, che appesero alle pareti, con raffigurato un ragazzo con l’aureola, intento a leggere un libro. Si trattava di un messaggio simpaticamente autoironico, riguardante il “santo scolaro”. 
La prova della loro bravura nell’usare appropriatamente la parola scritta fu, però, Lettera ad una professoressa (pubblicata da LEF una piccola casa editrice fiorentina), frutto interamente del loro impegno nel denunciare tutte le pecche della scuola pubblica di quegli anni, una scuola che “curava i sani ignorando i malati” e che era solita “fare giustizia fra disuguali”, non tenendo conto delle diverse condizioni sociali, culturali e umane di ogni allievo. La gente di quel tempo, però, non era preparata al cambiamento nella scuola come nella vita e per questo la Lettera, che aveva avuto varie fasi di stesura per renderne agevole la comprensione dei contenuti a tutti, persino agli analfabeti (quasi tutti a quell’epoca) venne in un primo momento accolta freddamente dall’opinione pubblica.
Solo dopo la morte di Don Lorenzo ha avuto la risonanza pedagogica e sociale che meritava.
E qui mi sembra doveroso riportare almeno una pagina della Lettera per comprendere l’importanza pedagogica fondamentale di un “maestro” tre volte tale per la cura che ebbe con tutti i “Gianni” che la scuola pubblica di quegli anni (e non solo) confinava all’ultimo banco in attesa di sbarazzarsene quanto prima.
"Io vi pagherei a cottimo..."
… Se ognuno di voi (insegnanti) sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l'ingegno per farli funzionare.
Io vi pagherei a cottimo.
Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una.
Allora l'occhio vi correrebbe sempre su Gianni (l'allievo più svantaggiato).
Cerchereste nel suo sguardo distratto l'intelligenza che Dio ci ha messa certo uguale agli altri.
Lottereste per il bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie.
Vi svegliereste la notte con il pensiero fisso su lui a cercar un modo nuovo di fare scuola, tagliato su misura sua.
Andreste a cercarlo a casa sua se non torna.
Non vi dareste pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna d'essere chiamata scuola…
Don Lorenzo Milani (da Lettera ad una professoressa, pag. 82)
A soli 44 anni don Milani, affetto da una grave malattia, si spense (26 giugno 1967), lasciando una eredità spirituale, oltre che pedagogica, di valore inestimabile.
Le sue ultime parole scritte furono rivolte ai suoi ragazzi:
           Ho voluto più bene a voi che a Dio,
     ma ho la speranza che Lui non stia attento
   a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al Suo conto.
Eccezionale testimonianza educativa, umana, religiosa, spirituale che rimarrà sempre nel nostro cuore, nella nostra mente, nelle nostre parole.
Ma mi sembra giusto fare oggi altri esempi di “maestri” che hanno lasciato una traccia indelebile nella vita degli allievi che hanno avuto il privilegio di incontrarli, a tutte le età, e di innamorarsene per tutta la vita:  
“Imparare a leggere e scrivere per conoscere tutto il resto dell'umanità”.
Quale augurio migliore di queste parole di Alberto Manzi per il primo giorno di scuola?
 
Alberto Manzi non è solo il maestro che ha insegnato a leggere e scrivere agli italiani, quando in un’Italia piena di belle speranze ma ancora poco alfabetizzata, condusse il programma “Non è mai troppo tardi”. Andato in onda dal 1960 al 1968, è sicuramente un capolavoro di pedagogia, premiato e imitato in altri settantadue paesi, espressione massima della Rai come servizio pubblico.
Alberto Manzi è molto di più. 
È un maestro che ha la vocazione dell’insegnamento e non ha paura di iniziare dalle aule più difficili: dopo la guerra, nel 1946, accetta l’incarico, che altri prima di lui avevano rifiutato, di insegnare nel carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma. Non è semplice: in un enorme stanzone senza banchi, senza sedie, senza nemmeno libri, sono riuniti bambini e ragazzi tra i 9 e i 17 anni con storie terribili alle spalle. Ma Alberto Manzi non si perde d’animo e alla fine riesce a guadagnare la loro fiducia inventando e sperimentando metodi didattici innovativi. Racconta storie e le fa raccontare e recitare ai ragazzi. Insieme pubblicano “La tradotta”, il giornale del carcere, un modo per tirar fuori le emozioni di questi ragazzi che troppo presto hanno conosciuto la durezza della vita.
È un maestro che dal 1955 fino al 1977 trascorre le sue estati in Sud America. All’inizio nella foresta amazzonica con un incarico dell’università di Ginevra per studiare le formiche (Alberto Manzi era anche laureato in biologia oltre che in pedagogia e filosofia). Poi si sposta in Perù e in Bolivia, dove capisce che per gli indios è fondamentale l’istruzione per reagire alle ingiustizie e ai soprusi. Ma non si limita ad insegnare a leggere e scrivere. Li aiuta a costituirsi in piccole cooperative agricole, a organizzarsi per non essere sfruttati. Quindi si attira le antipatie delle autorità che lo dichiarano persona non gradita. Ma lui continuerà ad andarci lo stesso.
È un maestro che capisce le potenzialità dei mezzi di comunicazione e oltre al celebre “Non è mai troppo tardi” e altri programmi nel corso degli anni, usa anche la radio per raccontare storie, insegnare a grandi e piccoli, o meglio come disse lui: “Non insegnavo a leggere e scrivere: invogliavo la gente a leggere e a scrivere”.
È un maestro scrittore e poeta, e per le sue opere avrà molti premi e riconoscimenti.
È un maestro che insegna all’università, ma poi la lascia per dedicarsi alla scuola elementare “Fratelli Bandiera” di Roma, dove resterà fino alla pensione.
È un maestro che scrive alle istituzioni, per protestare contro una scuola considerata inadeguata, fredda, sorda alle esigenze dei bambini. Tanto insofferente alle categorie asettiche della scuola, che nel 1981 Manzi si rifiuta di compilare le schede di valutazione: “Non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest'anno, l'abbiamo bollato per i prossimi anni”. Davanti alle pressioni del Ministero della Pubblica Istruzione, l’anno successivo apporrà un timbro su ogni scheda: “fa quel che può, quel che non può non fa”.
È un maestro ormai anziano e in pensione, ma che sa sempre che l’istruzione è l’unico antidoto alla violenza e all’ingiustizia, e quindi nel 1992 realizza un programma per la RAI: “Impariamo insieme” per insegnare l’italiano agli extracomunitari. 
È un maestro che non smette mai di credere nel potere dell’istruzione e nella forza dei bambini, ai quali diceva “Siete capaci di camminare da soli a testa alta, perché nessuno di voi è incapace di farlo”.
Non è mai troppo tardi per ricordare Alberto Manzi, maestro speciale.
Ed è di buon augurio ricordarlo oggi, ancora, all’inizio di un nuovo anno scolastico… 
Buona scuola a tutti.
Devo precisare che il testo non è mio, come è facile notare, ma preso dalle pagine FB proprio ieri, ma la tentazione di proporla anche nel nostro blog è stata più forte di ogni altra considerazione.
E la mia esplorazione continua. Che dire di Umberto Galimberti e delle sue condivisibili considerazioni sulla scuola, sugli insegnanti, sui genitori, su quanti si prendono (o si dovrebbero prendere) cura delle nuove generazioni perché saranno gli “uomini giusti e solidali” del prossimo futuro:
“Parole secche quelle del filosofo Umberto Galimberti, che suscitano discussioni e fanno riflettere”:
L’insegnante deve insegnare. Per farlo serve una capacità empatica e comunicativa, la fascinazione. Se non apri il cuore, non apri nemmeno la testa delle persone. Gli insegnanti dovrebbero essere sottoposti a un test di personalità che valuti queste cose. Se uno non sa affascinare è meglio che cambi lavoro [...]
Educare vuol dire condurre qualcuno all’evoluzione, dall’impulso all’emozione, dall’emozione al sentimento. Un ragazzo che ha sentimento non brucia un migrante che dorme su una panchina, non picchia un disabile. Se queste cose accadono è perché la scuola non ha educato. Per educare bisogna avere a che fare con la soggettività degli studenti, che oggi è messa fuori gioco. Se è vero che al posto dei temi si fa la comprensione del testo scritto, si è spostata la valutazione dalla soggettività alla prestazione. A questo punto è chiaro che anche la scuola è serva del modello tecnico. I ragazzi non contano più come soggetti ma solo nelle loro prestazioni [...] 
È più facile correggere una comprensione del testo scritto che un tema. La realtà è che siamo passati da una scuola umanistica a un’educazione anglosassone, perdendo un’infinità di valori della prima. La scuola anglosassone è empirismo, pragmatismo, valutazione oggettiva [...] 
Se uno non sa affascinare, comunicare, non può fare il maestro, il professore. Lo dice Platone: si impara per imitazione. Io aggiungerei anche per plagio. Preferisco un docente che plagia i ragazzi che uno che li demotiva. Direi loro che il ruolo va abolito.
 Se uno non funziona lo sanno tutti ma non si può far nulla, perché è di ruolo. Che cos’è questa parola? Nessuno è di ruolo nella vita. Se un docente non è all’altezza va messo fuori gioco. Perché se si licenziano operai là dove si producono oggetti non lo si fa dove si formano le persone? 
(U. Galimberti, da una intervista del 2019)
Sono considerazioni che io abbraccio in pieno, ma non tutti sono disposti a cavalcare con lo stesso entusiasmo. Sarebbe necessario leggere L’ospite inquietante (U. Galimberti, L’ospite inquietante, Serie bianca Feltrinelli, Milano 2007) sul nichilismo nietzschiano e i giovani, tanto paventato dall’Autore. E potrei fare molti altri esempi, ma avremo tempo di pensare, riflettere, fare altri nomi nel corso dell’anno scolastico. Desidero, invece, concludere con una letterina, fresca di giornata, di una tenerissima nonna, Anna Mininno, scrittrice, poetessa, insegnante di inglese in pensione (ma quando si è insegnanti, si rimane tali per tutta la vita. È una letterina indirizzata a sua nipote Susanna, capelli rossi come sua nonna e occhi grandi che respirano il cielo:
Susanna, amore mio, hai lasciato cum laude il grembiulino delle elementari e oggi, primo giorno di Scuola Media, ti accingi a scoprire un mondo nuovo, ma pur sempre in continuità di formazione.
Comprendo l'emozione che vive nel tuo cuore; emozione che significa sensibilità e rispetto verso la Scuola, i compagni e le compagne, gli insegnanti e tutti coloro che vi operano con serietà e gioia perché sia una buona Scuola.
Io, nonna tua, ti auguro anche una Scuola felice, fatta di tutto quel che aiuta a crescere nella conoscenza, nella sensibilità umana e nello spirito critico.
Per questo, amore, ti sia sempre favorevole la curiosità, il voler capire fino in fondo, la serena generosità e la capacità di intenti che nutrono il bello e il buono.
Sii sempre te stessa, Susanna, perché così sei bella brava amorevole e grintosa con educazione. 
Sii te stessa, perché il futuro ha bisogno di te, come di tutti i giovani e le giovani di buon cuore in un mondo che ha bisogno di essere migliore.
Buon Anno Scolastico a te e a tutti, con fiducia e amore
Ed è quanto auguro anch’io alla Scuola tutta e a quanti vi operano con passione, amore, impegno, competenza e coraggio. A presto. Angela 


mercoledì 6 settembre 2023

BUON COMPLEANNO, ANDREA CAMILLERI, EROE DEL NOSTRO TEMPO...

BUON COMPLEANNO, ANDREA CAMILLERI, EROE DEL NOSTRO TEMPO...

Quattro anni fa, il 17 luglio, moriva un grande scrittore di indiscusso coraggio e di immensa umanità.  Andrea Camilleri. Aveva oltre novant’anni, era ormai quasi cieco, ma aveva un cuore ribelle e ostile alla resa. Era il tempo della nostra umanità ferita per i tanti migranti lasciati morire nelle acque del nostro Mediterraneo, ad un passo dalla costa italiana. Fino all’ultimo respiro si batté per invogliarci a riscoprirci Uomini, nutrendoci di Sorriso e di Speranza. Andrea Camilleri era nato il 6 settembre del 1925. Oggi, dunque, il suo 99esimo compleanno.  

Dedico a lui questa pagina e a tutti gli scrittori, i poeti, i giornalisti, gli artisti che si battono per la libertà di parola, per la oculata giustizia tra disuguali, per il sacrosanto rispetto dell’altro, chiunque esso sia. Così mi è stato insegnato da “chi credette in noi, le donne e gli uomini/ che ci tenevano in braccio…”. E ripropongo questi due fondamentali versi di Vittorino Curci a tale riguardo. Ci sono insegnamenti che vanno al di là del tempo e dello spazio perché continuano ad abitarci dentro non come sterile abitudine ma come vivificante abito di comportamenti kantiani (Il cielo stellato su di me, la legge morale dentro di me). Questo riferimento mi riporta, infatti, al mio grande amico Vittorino e alla importante intervista “LA VERITA’ È ESSENZIALMENTE POETICA”, rilasciata, per <Le città delle donne>, alla giornalista Gisella Blanco, la quale così la introduce:

L’arte, a volte, non è solo una passione, una vocazione o un’indole: talvolta è la materia della vita, la sostanza del tempo, l’ontologia della personalità. La ricerca della particella minima ed essenziale che informa le più grandi strutture etiche è alla base della sopravvivenza di una società in piena crisi convulsiva da assuefazione alla fretta e alla esacerbazione della individualità, polarizzazione della scelta, più o meno volontaria, di rinunciare alla fragilità che ci rende ancora umani.

E non si può non convenire con quanto la giornalista afferma sull’arte e sulla società contemporanea in funzione di una prima rapidissima ma puntuale presentazione di Vittorino.

E, infatti: Abbiamo conversato con un intellettuale del nostro tempo, Vittorino Curci, poeta, scrittore, critico letterario, musicista e pittore, per conoscere il punto di vista autorevole dell’uomo artista contemporaneo che attraversa la tortuosa necessaria via del cinismo per giungere a una nuova infanzia umana, consapevole della propria inclinazione alla pluralità che la rende adatta alla ferocia del quotidiano.

Anche qui mi sorride l’evidenza: la giornalista ha fatto centro. Vittorino è anche tutto questo, che la sua artistica poliedricità rivela ed evidenzia, nonostante l’apparente cinismo che cerca di nascondere invano la ferita sempre presente di un dolore passato e mai arreso all’evidenza dei fatti. Per dare una tregua, con pudore e ritrosia, al rammemoramento che attualizza ricordi di rinnovato feroce sanguinamento.

Ed ecco alcuni fondamentali stralci delle sue risposte alle interessanti domande della Blanco:

Il ruolo della poesia oggi è lo stesso di sempre, cioè quello di cercare un punto di vista sul mondo, lontano da convenzionalismi radicati e automatismi inconcludenti (…) La verità è essenzialmente poetica.

Credo di poter dire che in molte poesie la “sua” verità, la verità del nostro Autore, sia pure velata da metafore e dinieghi, emerge come da un abisso insondabile ma, perciò stesso, ricco di tesori nascosti.

E ancora:

Di solito evito di tornare sulle cose che faccio. Cerco di essere dispersivo perché non sono mai soddisfatto di me stesso. Mi illudo ancora di poter scrivere una poesia, una sola, che mi rappresenti pienamente. Mi accontenterei anche di un solo verso. Un solo verso per giustificare tutta la mia vita.

Anche in queste dichiarazioni estreme, riscopriamo che la poesia si identifica con la vita, per Vittorino Curci.  

E noi gli crediamo! Mi rimane ancora lo spazio per tre riflessioni:

1) mi piace molto la poesia dei giovani e giovanissimi autori, ma forse perché figli di questo secolo, che Miguel Benasayag e Gérard Schmit hanno definito “delle passioni tristi” (cfr. M. Benasayag- G. Schmit, L’epoca selle passioni tristi, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2014), scrivono versi molto amari, disincantati, delusi. Di un nichilismo nietzschiano (ripreso da Umberto Galimberti nel suo L’ospite inquietante di alcuni anni fa), che mi sgomenta e mi spinge a lottare per loro.

2) Occorre rispolverare la speranza riportandoci ai valori di sempre attraverso un percorso di “coscientizzazione” degli adulti perché possano imparare ad “ascoltare” i giovani per conoscerli meglio e capirli di più.

3) La poesia può aiutarci a venire fuori dalla desertificazione dei sentimenti alla luce di quanto ci ha insegnato per tutto l'arco della sua intensa e coraggiosa vita Andrea Camilleri, a cui auguro lunga vita nel nostro cuore. E un affettuoso abbraccio a Vittorino Curci che con le sue parole, consonanti e dissonanti insieme, mi ha dato il respiro giusto per onorare oggi uno scrittore GRANDE che i giovani devono imparare a conoscere per fare tesoro dei suoi insegnamenti. Alla prossima. Angela