lunedì 30 aprile 2018

“Il vento il fuoco e le azzurre acque”- parte seconda


Ed ecco la seconda sezione. Ieri ho pubblicato tutta la prima sezione, “Il vento”, perché alcune poesie erano state riportante nel blog in varie mie riflessioni e circostanze e, quindi, speravo che quelle non lette non stancassero i lettori di questo mio blog. Oggi ho suddiviso la seconda sezione, “Il fuoco”, in due parti per non annoiare chi mi legge. Il mio desiderio è fare buona e gradevole compagnia. Spero di riuscirvi… e grazie per la pazienza e la perseveranza…

il fuoco    

non t’amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano fuoco:
t’amo come si amano certe cose oscure,
segretamente entro l’ombra e l’anima.
                          (Pablo Neruda)

Incendio di vene

Incendio di vene la primavera che ricordo
ai giorni dell’amore nei bicchieri
e braccia di fuoco
a stringere il sogno e l’allegria.
Erano i nostri anni cesti di garofani accesi.
Tu mi portavi la tua ironia agli assalti del cuore,
io il rossore dei ciliegi
sul candore delle guance in fiore.
Giganti noi a forare cieli striati d’azzurro.
Dischiuso all’alba il canto delle allodole.
Tra mani incerte
di splendore e fili d’erba il giorno.
Passò il tempo dei gerani ai balconi.
Sventolio di bandiere arrese il ricordo.
Follia di giovinezza
ebbe occhi d’ardore e di papaveri.

Rosso di rosso sangue

Rosso di rosso sangue è la ferita
dell’amore deluso e poi disperso
sul mare d’agosto che si tinge di oro
e porge ai miei fianchi tregua al dolore.
Bruciammo di passione quella notte
che ci vide sognare tra le stelle
e un canto aveva e labbra di corallo
e baci di fuoco a tatuare la pelle.
Fu grido e pianto l’attimo vinto
dal tempo che non perdona
agli amanti l’amore.

Solo un cerino

Dal naufragio mi porto a riva la pelle
e le ferite
M’accoglie l’isola del miraggio
e nelle tasche del passato
un solo cerino mi sorride
unica speranza
e la mano trema per il troppo gelo
Ardere ancora ardere di fuoco vivo
voglio
e rami da accendere con un colpo solo
alla petraia dove il coraggio viene meno
esiguo mezzo esiguo tempo esiguo spazio
mi è dato
per ritrovarmi nelle mie vesti
e nelle mie canzoni
E tu non ci sei a disegnare un falò
che ci tenga uniti
(tra le dita deluse mi è rimasto
         solo
l’inutile cerino)

Era il fuoco era il fuoco

Era il fuoco che cercavi era il fuoco
quando il freddo avvolse le tue vesti
in quelle notti di gelo alla deriva
di tutti gli appigli che sognasti
pur di rinascere viva dalle ceneri
che lasciavi lungo i giorni
delle braci spente e del calore gridato
atteso cercato richiesto con labbra mute.
E nessuno ad ascoltare il grido soffocato
nessuno a chiederti il perché della sconfitta.
E in tanto gelo il fuoco ti fu negato.
Eppure erano indizio il capo chino i sciolti
capelli le ginocchia piegate e un silenzio
di occhi sopra fogli lacerati di parole perdute.
Ti dissero colpevole di essere sopravvissuta
alla furia di una notte che divise a metà
i tuoi giorni, le membra, il nome, i pensieri.
E moltiplicò le ore, le paure, le ansie, le sorti.
Ti dissero innocente per lasciarti vivere
in un ingorgo di oceani senza orizzonti e
senza rive e tutti i porti erano senza faro.
E non seppero che eri già trafitta da lame
che incendiarono la carne lasciando inerti
come di pietra la spenta poesia e il cuore.
Senza chiedere pietà né perdono rimanesti
sola e inascoltata nella tua innocenza
finché nel pietrificato silenzio
                   l’alba nuova ti sorrise.


sabato 28 aprile 2018

Il vento il fuoco e le azzurre acque


“Il vento il fuoco e le azzurre acque” una mia raccolta di poesie, pubblicata l’anno scorso a Belgrado in serbo, quale omaggio della Associazione degli Scrittori Serbi alla sottoscritta. Mi piace farne dono, a mia volta, in italiano, ai lettori del blog. Magari   per sezioni… Buona lettura!

                                                Introduzione

La poesia non va spiegata, va vissuta. La mia breve introduzione serve solo a creare una sorta di ponte tra me e il lettore perché l’incontro tra i miei versi e il suo cuore possa essere sancito dalla emozione che mi ha spinto a scriverli e da quella che mi piacerebbe suscitare in chi legge. Solo emozionandoci possiamo dare un senso alle nostre esperienze e all’intera nostra esistenza. Personalmente non amo la poesia costruita a tavolino, giocando con le parole, ma quella che dà pienezza alla parola e che riesce a strappare un palpito condiviso. La poesia canta e vivifica ogni singola esperienza umana e la rende universale. Essa deve essere un “cantare per e con” non un “autocelebrarsi”. La poesia è un incontro di anime. Non una sterile rappresentazione di sé.
I quattro elementi fondamentali dell’aria, del fuoco, dell’acqua e della terra sono presenti in natura e in ciascuno di noi. Racchiudono gran parte della nostra vita. E parlano dei nostri sentimenti. Nel bene e nel male, ognuno può scoprirsi o ritrovarsi.  
Il libro davanti a me che si confonde/ e si identifica con il luogo/ di svolgimento di una storia/ ama le dune la luna le onde/ le rive degli alberi in filari…
(Salvatore Ritrovato, “tra le pieghe”, Via della pesa, 2003)
 Buona emozione!




Il vento

Il vento
Alla ricerca della sua identità
Frugava tra le foglie
senza pudore.
                    (Primo Leone)

A primavera il vento

È ritorno di rondini
questo ricamo di vento leggero
che imbriglia tra alberi
ingemmati la mia fantasia.
E canta canti di spose
e innalza dai rami di mandorlo
in fiore una danza di petali
a scompigliare tra svolazzi di nuvole
tutto l’azzurro di un cielo
che ride a nuovi sogni di nidi
sotto grondaie accese di bisbigli.
S’allarga il giorno ad abbracciare il sole
di un tempo ballerino e menzognero
che il vento allontana all’orizzonte
di ogni altro ieri.
E aprile rinasce.
Il ramarro guadagna la siepe
e con camiciole di bimbe
nuove pratoline
inteneriscono i prati
di bianco e di giallo in gara
con il rosso dei papaveri a far vibrare
tra onde di verdi steli labbra
d’allegria
(e rinnovata bellezza…
               forse una speranza…)

Una rosa nel vento

Turbine di vento nel giardino.
Una rosa rossa sfoglia il suo profumo.
Mi piovono tra mani deserte petali
di porpora e velluto e un sogno
a riportarmi primavera tra i pensieri
solo fino a ieri incatenati a cupi
giorni d’inverno vissuti dietro i vetri.
E nelle stanze vuote di sorriso.
Rosa sfilacciata prima di scoprire
l’incanto d’essere viva e bella.
Resta il sogno che non muore
tra velluto di tenero splendore
che custodisco tra le dita.

Alle carezze del vento

Giorni di pioggia nella mia casa
a cui mi arrendo fragile e insicura
perché il tempo non abbia di me ragione
e m’inchiodi alla sedia degli affanni.
Troppo lungo questo greve inverno
che ha messo radici nella carne
e geme e piange e urla la sua sorte
e non vuol morire con un ricordo di neve.
Ma d’improvviso il glicine è fiorito
e la rosa pure e la margherita da sfogliare,
il narciso, i tulipani, i nontiscordardimé.
Colorano di festoso arcobaleno
il grigio senza sorriso delle nuvole.
Il sole è uno squarcio dorato nell’azzurro
un cielo nuovo, un rinnovato incanto
di tersi mattini promette.
Sul terrazzo ancora spoglio esco
e offro il volto offeso dagli anni
alle carezze del vento innamorato…
(già è respiro di giovinezza dentro).

Vento d’estate

Uno sventolare di lenzuola gonfie di libeccio
e sono vele sui terrazzi di calce contro
un cielo inseguito da nuvole d’afa
in pomeriggi estivi che piegano al sonno
i pensieri dei vecchi e dispiegano ai giochi
le ali dei bambini con secchielli e palette
e castelli di sabbia e fiabe mai più narrate
dagli adulti distratti da sudore e zanzare.
Problemi della vita dell’ultimo minuto.
Si sta braccia conserte sull’inutile dolore
del mondo dimenticato e lontano.
E il mare incanta occhi di terra e di città.
I vecchi marinai offrono rughe e piaghe
all’ultimo sole che di ombre si sfalda
tra i rami lunghi degli alberi nel viale.
La sera s’affaccia in un brulichio di stelle,
il vento s’acquieta tra dune di sabbia
e nei nidi tempestosi nasce il silenzio.

Malinconia d’autunno

Arance castagne melograni
in forma di foglie danzano
volano sognano girandolano
con lento vortice di vento
al pulviscolo dorato
del frammentato sole d’ottobre
Lacrima mestizia
agli occhi della siepe ingiallita
un autunno
che ha sapore di ricordi
e si perde nelle brume mattutine
ancora calde di progetti residui
Sorpresa e pentimento
ignorare nelle mie stanze di fatica
questo cielo ancora terso ai lucernari
corrucciato stanco rossastro
ma inviolato ancora
da nuvole e piogge e albe di brina
che s’affacceranno ai freddi cieli
d’inverno dopo tanta arsura
e un grondare di sogni feriti
nel grigiore
di uno spleen simile al pianto

(anche noi si sta
in attesa pavida dell’ultima stagione)

Foglia umana il bimbo

In verde corsa
- vestita a festa la speranza -
foglia umana di carne nervi
sangue anima
mi cattura e negli occhi resta.
Verde d’anni e di pensieri
beve l’azzurro
con ali ai calzari ali nel sorriso
ali di libertà e d’amore.
Incontro va ai suoi sogni di miele
e
il mio giorno colma di stupore…
Accartocciata foglia d’anni
è il mio autunno d’antica allegria.
Bimba del mio tempo breve
ridammi
il tuo filo d'aquiloni al vento
dove legare risposte mai ricevute
ai perché del mare e del firmamento
e un ditale d’argento e d’oro fino
per ogni ago che mi ferì nell’andare.
Cantami una ninnananna
stammi vicino.
Oggi ho bisogno anch’io di una culla
che mi salvi dal tempo e dal dolore
che serena mi faccia addormentare
tra stanche foglie
del mio quieto giardino
dove è più facile riprendere a sognare
Raccontami
della fiaba che non muore
e ogni notte di lucciole esplode
nel mio cuore di papaveri e gelsomini.

(di stelle s'illuminava il tuo prato cuscino)




Cortocircuito

Silenzio nella casa
Fuori uno scrosciare di voci
come autunno di foglie
Assenza di volti
nell'album dei ricordi
- cortocircuito -
S'annebbiano parole
in uno sciamare di sillabe
al vento del passato
e il vuoto m'assale più del nulla.
Occhi perduti e significati dispersi
nel giorno della nostalgia.
- cortocircuito -
Tu c'eri e io c'ero.
Eravamo noi in quel viale
che
ai nostri giorni
di luminose intese
si perdeva nell'indistinto
presente,
senza lasciare spazi ai brividi
del giorno dopo.
Sgomento e disperazione
scorticano il coraggio d’essere vivi
nel bosco d'ombra
 che ci circonda e ci fa male.
- cortocircuito -
Omero e Mimnermo
di foglie bambine,
ignare del volo,
(diradato il passo lento,
lo scherno di sconfitta),
cinsero i nostri anni di giovinezza
e fermarono sull'erba il tempo
col verde della gioia arso nell'attimo.
Inganno degli dei.
Foglie di volti umani
alla carezza del sole
mi fingo
nella penombra che volge
alla temuta fine.
Con tristezza novembre
sorride alla bimba
che mi vola nell'anima,
sospesa alla fiaba
della fogliolina
innamorata del sole...

Quando d’inverno il vento

Tempesta di bianchi petali infreddoliti.
Sibila il vento un urlo di lupi a scuotere
vetri e muri e ansie sopite e mai vinte
tra gli occhi che sanno la paura.
Un’alba livida s’insinua nel cielo d’inverno
e vince l’incanto innevato,
il lamento che trascina dietro le porte.
Ricordo lontano di trine e merletti
che mia nonna, capelli di neve
e risate d’anguria e melograno,
conservava al riparo del vento
nelle notti di gelo e di spavento.
Il suo corredo di sposa aveva candore
di rose e un mormorio di preghiera
contro l’ululato della tramontana.
Tormenta che temeva
più dell’assalto degli anni alla sua casa.
(Oggi mi dondola un rimpianto
di neve nei bicchieri e il dolce vincotto
di mai compiuta meraviglia).

Nevica
          (17 gennaio 2016)
Immensa rosa bianca il cielo
sfilacciato di petali
in caduta trasognata
e un lento volteggiare nel vento
Ulula la bufera e stride
Bussa impetuosa alle porte
della mia casa stretta nel suo scialle
Nessuno va ad aprire
incatenati gli occhi ai vetri lunari
Bianche piume come di nido
danzano leggere sfogliando
la rosa incantata
che su merletti d’erba frana
stranita
Pigolio affamato di scriccioli
in cerca di ciliegie infreddolite
che di rosa fioriranno a primavera
Spolvera di bianco il giorno
questo gioco di ciglia
dischiuse su strade d’antiche
stagioni
Incontro mi viene
sul cocchio di bianco cristallo
e fiocco di ghiaccio nel cuore
la Regina delle Nevi
Rabbrividisce la vecchia bambina
ai ricordi d’un tempo fioriti
su labbra di parole ora in disuso
Al rosso fuoco del braciere acceso
il cuore di gelo della perfida sovrana
si scioglieva in un lago incantato
che rideva di bianchi cigni
sculture bianche di zucchero filato
Briciole di tenerezza allora
che i fiocchi di neve erano farfalle
da cullare tra mani di geloni
e pane e olive nere sotto la cenere
(noi vincevamo il sonno
al tenero mormorio della sua voce…)

martedì 24 aprile 2018

23 aprile: giornata mondiale del Libro

Tutti i libri del mondo/ non ti danno la felicità,/però in segreto/ ti inviano a te stesso./ Lì c’è tutto ciò di cui hai bisogno,/ sole stelle luna./ Perché la luce che cercavi/ vive dentro di te./ La saggezza che hai cercato/ a lungo in biblioteca/ ora brilla in ogni tuo foglio/ perché adesso è tua”. (Herman Hesse)
<Amo stare tra i libri. Sentirne il profumo. Prenderli tra le mani, accarezzarli, far scorrere le dita sui loro contorni spigolosi, sui loro fogli avoriati e setosi oppure spessi e ruvidi
(aprimi. leggimi. assaporami. ascoltami. entra dentro le mie pagine. ci sono parole. entra dentro le parole. ci sono storie. entra nelle storie e vi troverai personaggi veri o inventati. incontrerai le loro voci. spesso provengono dal passato. incontrerai il dolore e la gioia. incontrerai la vita. tua. degli altri. ascolta il mormorio delle parole che proviene dalle pagine. musica e silenzio. canto e incontro. emozione. colore di tempo e di spazi minimi o sconfinati. di eternità)
Le copertine mi guardano, mi sorridono, m’invitano. Sono loro a scegliermi. Mi conoscono. Sanno i miei gusti, le mie preferenze. Le parole mi parlano. Me ne bastano poche per intuire le storie che mi vogliono narrare. Mi catturano o mi respingono. E ogni lettura è una nuova narrazione. È racconto in cui quotidianamente t’incontro. E nel racconto mi piace incontrare anche gli altri. Il raccontare presuppone l’ascolto da parte dell’altro. Essere “con” e “per” e “verso”. Non essere mai soli. Stare in mezzo agli altri per dire di sé e ascoltare le loro storie. È un imparare a conoscersi. A diventare amici. Come accadeva un tempo “attùrnə a la frascèjrə” (intorno al braciere) o all’ombra del gelso rosso>.
Ancora un piccolissimo stralcio del mio libro/romanzo (e non solo) “Le piogge e i ciliegi”, ma non è del mio libro che voglio parlare oggi, preferisco tornare col pensiero a sabato sera per ritrovare l’emozione della bellissima serata trascorsa insieme a tantissimi amici per la presentazione della silloge di versi e prose “E’ passato un silenzio” di Federico Lotito.
Sono passati circa tre anni dalla pubblicazione del primo libro di poesie di questo nostro autore, timido e audace insieme. Ebbene, se nella prima silloge “Gocce d’anima” scoprimmo un poeta ancora insicuro dei propri mezzi espressivi, anche per via di un periodo di confusione e dolore e ansia e ricerca di sé, ma comunque “votato” alla poesia, (con versi fratti, brevi, tutti in verticale e con un percorso discendente più che ascendente perché determinato ad inabissarsi nelle pieghe più profonde della sua anima per scoprirvi le possibilità di riappropriarsi di sé e della agognata serenità), in questo secondo libro ritroviamo un uomo ancora più deluso e disincantato, ma sempre proteso a riprendere tra le mani la propria vita per farne cammino di conoscenza e di autorealizzazione (“riesco ancora a camminare”).
Il lungo silenzio gli ha permesso, però, di maturare un linguaggio poetico più solido, corroborato dalla lettura dell’amato Bukowski, che gli ha dato il coraggio di liberarsi dagli antichi pudori per ritrovare la freschezza di un linguaggio più libero, più denso e amaro di ribellione ai condizionamenti di una società, in cui non si ritrova e nelle cui regole sembrava muoversi a stento già in passato. Certo, anche il silenzio è passato. Il poeta è riuscito a metterlo in standby per crearsi le distanze dai ricordi e dal dolore perché vuole rinascere dalle sue ceneri come un uomo nuovo.
Ecco: “vuole” con tutto sé stesso affrancarsi da tutto ciò che gli ha procurato disagio, silenzio, paura. E, se alla lettura iniziale della silloge mi era sfuggito il senso profondo dei suoi versi in termini di “volontà” a superare sé stesso e il tempo degli inganni, che gli aveva proibito una più libera adesione alla vita, in tutte le sue sfaccettature e dimensioni, improvvisamente, rileggendo dopo alcuni mesi i testi (anche per me è passato più di un silenzio!), ecco farsi strada l’idea del “desiderio” che è motivazione e scopo di quella volontà. E, così, rileggendo più attentamente, ho scoperto un fil-rouge davvero sorprendente, perché seguito da Federico nei suoi versi quasi a sua insaputa, eppure così tangibile nelle cinque sezioni delle sue poesie da farmi teorizzare ben cinque momenti in cui questo desiderio prende corpo e si fa compagno di viaggio di tutta la silloge. Desiderio di “ESSERE”, innanzitutto. Ed essere è per ciascun uomo realizzarsi nel sentimento fondamentale della vita: l’Amore. In termini di amare ed essere riamato. Fino ad accogliere l’altra e di farsi accogliere. Con semplicità, fiducia, abbandono. Nella autenticità e verità di un sentimento che non deve sciogliersi come neve al sole, in una società liquida (Bauman) che tutto disperde e lascia scivolare via, ma deve resistere alle intemperie, ai silenzi e alle parole, nella straordinarietà delle sintonie e nella banalità delle divergenze che quotidianamente possono mettere a dura prova l’affiatamento e la passione.
E la prima sezione s’intitola proprio “amore” in minuscolo, come del resto tutto il poema, perché è un amore vissuto in negativo, con le ferite che sanguinano ancora per le distonie che hanno sovrastato troppo spesso le sintonie fino alle dolorose conseguenze delle delusioni e degli addii.
Anche il desiderio, perciò, vive questa prima fase, macerandosi nel “silenzio” e nella palude statica dell’“attesa” di un accadimento che possa scompaginare la routine e l’abitudine a non chiedere e a non osare più di tanto, nonostante i pensieri ribollenti di una vita da vivere nella pienezza della vita stessa e di sé. Alla base la “fottuta paura” di non farcela ad evitare rifiuti, discrepanze tra reale ed ideale, solitudini, eterni ripensamenti e contrasti interiori (“ho una paura fottuta del silenzio,/ invocato un suono tante volte/ che chiudere ora gli occhi è terrore (…) ho una paura fottuta di tutto quello/ che continua ancora ad essere realtà.” da “La realtà che resta”), ma anche (“credi che saresti stato più felice se non l’avessi vista?/ se avessi girato lo sguardo altrove?/ se avessi alzato gli occhi al cielo?// questo mio maledetto vizio di guardare per terra!/ alla ricerca di che poi…/ forse della voglia di un dolore nuovo.” Da “Minnie”). Bellissima questa chiusa che evidenzia quanto difficile sia estirpare dai nostri comportamenti le abitudini, anche quelle che ci fanno male. E non si tratta di masochismo, ma della forza che ci manca, nonostante la “voglia” del cambiamento!
La seconda sezione: “ricordi e distanze” è il primo vero tentativo di andare oltre la memoria di ciò che stato attraverso l’urgenza di guadagnare nuovi spazi per allontanarsi anche dalla stessa attesa. Non più ristagnanti paludi dove affiorano spesso ripensamenti, esperienze con promesse non mantenute, contraddizioni e dubbi e interrogativi senza fine, e affermazioni per rivendicare un ruolo non ancora scoperto e ricoperto e rimanere eternamente sconosciuti a sé stessi e agli altri. In alcune inconsce presunzioni che rivelano possibili velleità che possono sfociare nell’arroganza di sapere.
Ed ecco il grido del desiderio che urla (ottativo, che è esortazione e invocazione) il bisogno di ogni essere umano e, nello specifico, del nostro poeta di essere desiderato per riconoscersi finalmente nel proprio desiderio, che non deve più aver paura di manifestarsi e di chiedere, non più essere vissuto nel silenzio e nell’attesa, ma richiesto ad alta voce perché altra voce gli risponda e lo corrisponda (“coglimi!/ posami sul tuo seno,/ stanotte è passata la vita da qui/ con occhi di favola a raccontare storie,/ a cantare nenie, a spargere parole.” da “La giostra”. Oppure: “dormimi addosso/ con tutto il peso dei tuoi perché (…) è questo peso tutto ciò che voglio.” da “Dormimi addosso”. E ancora: “e tu!/ dammelo ancora un motivo/ per coltivare rose. (…) dammelo comunque quel fiore da piantare/ nella speranza possa rifiorire/ tra le zolle di questo campo arato,/ lasciato così da tempo/ ad attendere una nuova semina.” da “E tu! E, infine: “… sì! gira! perché voglio che giri ancora/ e ancora più forte (…) è inutile tenere il futuro/ legato a una catena di sogni/ che puntualmente s’infrangono all’alba.” da “Sì! gira forte”).
Sono ancora i versi della prima sezione che preludono già alla seconda, dove immediatamente compare di nuovo il desiderio (“… voglio tutte/ le traiettorie possibili, costi quel che costi,/ da qui stasera non mi muovo./ nessuno mi fermerà, nessuno mi sbatterà via…” da “Rosa dei venti ad un semaforo giallo”) di venire accolto (“nessuno mi sbatterà”) per confermarsi nel suo modo di essere.
Ci sono ancora sconfitte confinate nel passato (“Un po’ in ritardo”), ma il desiderio del cambiamento lo proietta verso il futuro (“Tu”).
Ed è nel “disincanto” (terza sezione) che il poeta tocca il fondo di ogni negatività. Ma dietro la rabbia serpeggia sempre la ribellione e la voglia di riscatto. E così, come sempre accade, l’ora più buia prelude alla luce. Ora Federico sta imparando a conoscersi e a riconoscersi e sta imparando a dare al suo desiderio di cambiamento quella forza propulsiva che gli deriva da ciò che gli manca (“… ora è vuoto ancora/ ma l’affitto ai miei rinnovati sogni.” da “Sfratto al silenzio”)
Bellissima è la prosa che conclude questa buia sezione: “(è passato un silenzio) incanto e disincanto”). È finalmente la prosa della consapevolezza di sé e della pienezza della propria vita che il poeta vuole vivere fino in fondo, nel bene e nel male (“Io nel mio tempo, che altro non è che me stesso, voglio starci tutto: sarà consapevolmente bello sentirsi, allo stesso modo, fuori e dentro il suo scorrere. Bello sarà renderlo tempo di una esistenza piena e non di sola presenza; bello sarà renderlo tempo di partecipazione. (…). È il mio tempo che resta, è il mio tempo finalmente amato.”). Ed è finalmente l’esaltazione di una promessa di felicità. Esaltazione che diventa forza e coraggio e si fa desiderio di autodeterminarsi. Ha voglia di essere sé stesso ora più che mai. “Bello sarebbe” cos’altro è se non il prorompere di un desiderio troppo a lungo taciuto, rimandato, vissuto come irrealizzabile e, perciò, confinato nel silenzio di ogni attesa?
Ora la “vita” (quinta sezione) è tutta da vivere, da centellinare, da assaporare perché è tempo della pienezza di sé e di ogni istante vissuto con impeto, forza, sicurezza dei desideri da realizzare, delle mete da raggiungere. Il viaggio nella vita serve ora proprio a volere di più e, perciò, a chiedere di più (“… io uomo, sono pronto/ in questo viaggio consapevole./ vado.”). E ora Federico si accorge persino di tutti i desideri del cuore, che è nomade e, dunque, sempre in viaggio fino a che non darà sicuro dell’approdo (“è lì che vuole pulsare”, ripetuto anaforicamente più e più volte, perché ora vuole sentirsi vivere in tutti i luoghi più impervi, più sporchi, maleodoranti; perché ora “vuole” osare l’inosabile, appunto, perché è colmo di certezza e di speranza). Addirittura quel suo cuore nomade osa l’ardimento del volo e afferra con mani più salde anche la poesia nella consapevolezza che non lo abbandonerà più perché ora sa anche tutti gli “appigli” giusti della parola, di quella alata soprattutto. E tutto è profumo di rinnovata vitalità (“senti che calore ha questa pioggia,/ stempera il più freddo degli inverni,/ mi attraversa con lo sapore che sa di gioco,/ con lo stupore che ha un desiderio nuovo (…) pioggia di follia a dissetare la vita,/ a dileguare ombre stanche da tempo al mio fianco,/ pioggia di follia che domina la paura del tuono lontano.// e corro a bagnarmi piedi, mani e anima/ nei rivoli lungo la via della vita./ e folle corro da te, ti prendo per mano/ in strada saltiamo a goderci questa pioggia di follia/ tra lacrime di gioia,/finalmente giunte a solcarci il viso.// non l’asciugheremo più/ questa pioggia, questa follia,/ questa vita.”. Ma non basta questa meravigliosa “follia”, c’è di più ora nella vita di Federico Lotito: “sento una nuova novella (…). Voglio e sono/ devo e voglio/ sento vita ancora.” da  “Sono”).
E finalmente egli osa persino guardare il cielo da guerriero che sa lottare e vincere. Guarda le amiche stelle perché il suo cielo ora è tutto un palpito di luci: “Splendete stelle!/ controlla fuori/ che non pianga il cielo./ le mie amiche stelle/ vogliono splendere per me/ questa notte.”.   
Come potevo, allora, io, sabato sera, nello spazio di un quarto d’ora-venti minuti, dire tutto questo del nuovo libro di poesie e prose di Federico Lotito, che segna la sua straordinaria autoaffermazione come uomo e consacrazione come scrittore e poeta? E quanto ho omesso anche qui? Lo dirò la prossima volta… non ne potrò fare a meno. Purtroppo per chi mi segue, io amo svisceratamente i Libri. La Poesia.

domenica 22 aprile 2018

E ancora su “Poesia anima e respiro dell’universo”

Mi piace, oggi, trasmettere la meravigliosa emozione provata nell’ascoltare le splendide poesie dei cinque poeti coinvolti nel Progetto interculturale “Poesia anima e respiro dell’universo”, recitate nella lingua originale da ciascun autore e poi replicate dai bravissimi “lettori ad alta voce” (Mariella Sivo, Alberto Tarantini, Luciana De Palma, Franco Tempesta e in più, lettrice per una sera, Raffaella Leone), sapientemente capitanati dal nostro poeta e scrittore Zaccaria Gallo, che ha prestato la sua voce ad una poesia di Dragan e ad alcuni versi di Bratislav.
Serate magiche, magistralmente organizzate, coordinate e condotte (quasi sempre) da Raffaella Leone, Pr. della SECOP Edizioni.
La prima serata ha preso suono e ritmo e senso e significato con “I miei cento”, versi di Angela De Leo, che non riguardano gli anni o i chili dell’autrice, anche se non si discostano più di tanto dalla realtà, ma i suoi passi, i suoi sorrisi, i suoi sogni… e soprattutto la sua insonnia…
I versi sono stati interpretati in modo molto convincente e coinvolgente da un insolito Tarantini, che ha rinunciato alla sua istrionica ironia per modulare la voce in termini più morbidi e suadenti in consonanza con lo stile poetico dell’autrice.

I miei 100”
                                                   Il mondo è nelle mani di coloro
                                                                 che hanno il coraggio di sognare
                                                                 e di correre il rischio di vivere i propri sogni
                                                                 ciascuno con il proprio talento.
                                                                 Non desistere mai dai tuoi sogni,
                                                                               segni e segnali.
                                                                                                           (Paulo Coelo)                                                                                                                                                                   
Ho ancora 100 passi
per attraversare le mie ombre
e giungere alla riva dell’approdo.
O andare a caccia di stelle
col retino delle farfalle
quando dal lucernario scendono
nel mio prato e inventano la notte.
                                              (quando di notte io)
Ho ancora 100 mani
per ingabbiare sogni/illusioni
e con perni e chiodi e filo spinato
fissarli sul cuscino dell’indifferenza.
100 mani ancora
per aggrapparmi alle funi
del mio mai spento sorriso
e risalire ai giorni dei papaveri
e delle rose in gara nel mio cortile.
                                                  (quando di notte io)
Ho 100 conchiglie di richiami
a portarmi l’eco di cento amori
vissuti e mai dimenticati
e ancora cento da dimenticare
e amori che tornano e amori che vanno
e si disperdono con le ombre della sera
e nebbie di memorie svanite nell’andare.
                                                   (quando di notte io)
Ho 100 bocche
per tacere un segreto
storie di misteri e di follie
quando tumulto ribollivano
ricami di parole e risa d’uvaspina.
Ho 100 pupille
e cento sguardi amari
per fissarti l’anima in fuga
a specchiarsi dentro il cuore
che arde ancora di antiche rovine
e sa la pena e l’allegria un cedere
di ali alla deriva di ogni appiglio.
                                                   (quando di notte io)
100 canti mi rimangono
per impedirti d’andare via
quando s’azzera il tempo
sul nostro cielo incredulo
del tuo passarmi oltre senza
riconoscermi senza voltarti
a inseguire orme di passi perduti
E scoprire il senso di cento parole
perse nei campi del plumbago in fiore
in una festa di turchina nostalgia
e si era appena a maggio.
Poi venne giugno e tu voltasti pagina.
Si spensero i cento addii tra un solo
No
che uccise anni e sorrisi.
          Inutili le 100 carezze tra dita
          sfioranti il tuo volto di luna
          e cento lacrime mai versate
          disperse radici in cento fiumi
          Nel mare della dimenticanza
          cancellarono il sogno sfinito
                                        (non più di notte io)
Era d’estate…
… stelle ancora muoiono e rinascono
         squarciano cieli di luce…
 (almeno cento stelle ridono ancora l’alba)                        
(Angela De Leo, da L’ora dell’ombra e della riva)
Sono state lette, poi, in tutte e tre le serate due poesie di Bratislav Milanovic, tratte dal poema “Lettere da un futuro remoto”, due poesie di Kayoko Yamasaki, due di Ljubica Rajchic e due di Dragan Mraovic. Qui ne do solo un piccolo assaggio per una grande emozione.

II

Ti scrivo dal fondo dell'abisso, all'antica,
a mano, prima che le dita diventino rigide per il gelo
perché nessuna posta elettronica riesce
a raggiungerti - tanto hai reso incolmabile lo spazio...

E tu non rispondi, ferma sulla città,
sul monte di ogni magia, dove con un sospiro
in due abbiamo sciolto le ore e svegliato le magnolie
in primavera, d’estate, in autunno e durante l’inverno...

Ti scrivo a mano perché solo così posso
di nuovo toccarti la pelle e le labbra,
eccitare il punto nevralgico dei tuoi sensi
che stimolano il corpo, la mente e la voglia,

solo così mi abbraccerà il tuo respiro
umido invece del vento nell’abisso tra il nulla
e il vuoto, questa notte... ancora questa...
che mi solleverà da questo sotterraneo luogo come un’esplosione.

Lì, nel tempo ancora troppo giovane, la speranza resta speranza.

Ti scrivo: qui, dal fondo, il sole conquista ogni palmo
di questo corpo che è ancora un giardino colmo di sfide
laggiù, da te, nel passato, solo laggiù ancora...
E desidero solo d'esser divorato dal deserto.

Voce di un amore folle e appassionato, quella di Bratislv Milanovic, ma anche fortemente onirica e visionaria, pur nel realismo che misteriosamente pervade di grande sensualità e tenero erotismo tutto il poema. Le lettere, scritte rigorosamente a mano come le lettere d’amore di un tempo che ignorava la posta elettronica e il linguaggio sincopato e privo di ardore, si distendono in tutta la pienezza di un sentimento tenace e testardo, a dare una dimensione altra dello spazio e del tempo che va oltre lo spazio e il tempo, quando s’ingemma d’infinito, tanto è grande da sfidare anche la morte. E un fremito di commozione ha sfiorato la pelle e il cuore del numeroso pubblico in sospensione. In un silenzio che sapeva di ascolto e condivisione…
Poi ecco i versi della dolcissima e meravigliosa Kayoko Yamasaki Vukelic, letti con molto pathos da Mariella Sivo, emozionata e felice.

“La scala, due angeli”
Siamo venuti a porgere
Un pezzettino dell’amore
Con le manine
Che abbiamo teso
Il giorno
Della nostra nascita

Con un pianto forte,
Con un sorriso silenzioso,
la vita si sostiene
alla vita:
saliamo
le scale.

Quando ci rapinano
Acqua e aria,
quando ci spengono la luce,
ci teniamo per mano.

La vita ascolta la vita:
e senza
in silenzio
saliamo.

Questa mattina,
da quando gli angeli
sono tornati al cielo,
brillano nel buio
solo le orme
dei nostri piedini.

Per questo saliamo
Le scale
Da cui loro
Hanno preso il volo.

È la tristissima storia di due bimbi fatti prigionieri e poi uccisi durante la rivoluzione del 1999 nel loro Paese. E la tenerezza della coraggiosa autrice nel denunciare il misfatto è tutta nei diminutivi che usa per descrivere la prigionia e la morte dei due piccoli angeli: “pezzettino”, “manine”, “piedini” e, ancora, nel “tenersi per mano” dei due bambini mentre nel silenzio si confortavano per la mancanza del cibo e l’assenza della luce. Quale condanna più crudele verso l’innocenza e il candore? Solo gli angeli li sollevano in volo lungo la scala dorata che porta al Cielo.
Denuncia sociale e aderenza alla realtà molto forti con una delicatezza e lievità di grande impatto emotivo e poetico. E, tra l’altro, Kayoko canta come un usignolo.

 La ribollente, spumeggiante, bravissima Ljubica Rajkic, rumena, invece, recita due poesie dolenti, amare, ironiche, che vengono replicate, la prima sera, dalla poetessa e scrittrice Luciana De Palma; la seconda, da Raffaella Leone (che legge anche due poesie della sottoscritta), e la terza sera da una lettrice romana, di cui purtroppo non ricordo il nome.
“In questo amore faccio tutte le parti”

In questo amore faccio tutte le parti.
Non per motivi artistici.
Anzi, confesso che lui è un attore migliore di me.
Perché non confessarlo?
Ma è molto, proprio molto più negligente.
Sbaglia le repliche. Spesso. Si ritira.
Perde tempo per le sciocchezze.
Cambia volentieri le parti e gli avvenimenti.
La cosa peggiore è che lui odia gli happyend.
Essendo un intellettuale di razza,
lui ritiene che ogni lieto fine sia banale e non reale.
Per questo non gli permetto di mettere in pericolo
della mia vita l’avvenimento centrale.
                                    Finale.
(il mio primo monodramma si è svolto così:
mia nonna mi ha chiesto di prendere in prestito
un tritacarne.
Ho aperto il portone dei vicini,
ho chiamato la padrona e le ho detto:
bacio le mani, nonna Angelica!
Sii benvenuta, pulcino mio!
Mi manda mia madre Ljubica per farmi prestare
il tritacarne,
il nostro non funziona più…
te lo do subito, mia cara, e portalo alla mamma
e chiedile se ha fatto del formaggio,
mica quelle mucche sceme hanno pascolato
inutilmente, e grazie e arrivederci, pulcino mio…
Dopo aver parlato tutto d’un fiato, lei mi ha consegnato
il tritacarne
e mi ha baciato sulla fronte).
È la via più sicura verso il successo nella vita.
Ma questo monodramma oggi è un po’ diverso.
Niente pubblico né applausi, ma che m’importa?
Neppure lui è rimasto fino al sipario calato.
Non gl’interessava.
Questo monodramma non è stato rappresentato su questa terra.
Ma se in cielo contano i fatti, e contano,
io, quando non conterò più i miei giorni…
andrò a ritirare il mio premio.
“ljubica” in italiano significa  “amore”. E Ljubica è davvero una creatura d’amore. Da amare. Nonostante una vita contrassegnata da tante lacrime per un rapporto coniugale miseramente finito e per tante altre vicissitudini non sempre serene, Ljubica ha sempre un sorriso a illuminare il giorno. Ha sempre un dono tra le mani, una battuta divertita e divertente per sdrammatizzare ogni esperienza negativa. E, anche se nel suo Paese ricopre incarichi di grande prestigio e responsabilità a livello ministeriale, è di una semplicità incredibile e di una grande attenzione agli altri. E solo i Grandi sanno essere umili e attenti ai propri interlocutori.
Poesia allusiva, la sua, con una sorta di simpatica pruderie, che non ha niente di affettato, ma solo di disincantato divertissement perché tutto risulti giocaso e gioioso per minimizzare la delusione e il pianto.
E un Grande attento a tutti è Dragan Mraovic, il traduttore in serbo della “Divina Commedia”, del “Decameron” di Boccaccio, dei “Canti” leopardiani e potrei continuare all’infinito…
Di lui ecco una poesia d’amore dedicata alla sua splendida compagna di vita da molti anni ormai. È tratta da: “Libro bohémien”.
“So, cara” (a quella che mi amerà per ultima)

So, cara, che goccia dopo goccia un giorno in meno mi rimane;
lasciami brindare, non hai colpa, tu, fatta di marzapane.

Tu, la migliore, peccato che non sia stata la prima ad avermi,
non piangere e mandami un bacio nel bel mondo dei vermi.  

Poi, quando i fiori avranno il mio volto sotto il cielo sereno,
Dirai che se fossi stato migliore, mi avresti amato di meno.

Anche Dragan, come Ljubica, ama la poesia che nasce da ogni esperienza vissuta sulla propria pelle, ma con un’adesione più goliardica e sorridente alla concretezza delle cose, delle situazioni, delle atmosfere. Anche Draga gioca con le parole e le piega alla sua mordente ironia, con lo straordinario vitalismo, tipico dell’uomo bohémien, che ama la libertà, la fantasia, il coraggio di osare l’inosabile. E si perde nella malinconia della notte. Dragan ama le “piccole stradelle” della sua Belgrado addormentata e sa brindare alla suadade che il buio fa lievitare nel cuore con un baccale di birra tra le mani e una sorta di fatalità nell’accettare la vita che passa “goccia dopo goccia” e scivola sotto i ponti del Danubio e della Sava, da sempre stretti in un abbraccio di acque prima che l’alba canti il nuovo inno alla vita.
E noi ci siamo sentiti abbracciati e vivificati dal respiro di tanta Poesia, recitata con sacro rispetto, tanta grazia, immenso amore…
                                                                                       Angela De Leo