1° aprile. È Pasqua e non è un pesce d’aprile. 1° aprile.
17 anni fa mamma volò tra gli angeli. E non fu un pesce d’aprile. Della Pasqua
ho già raccontato. Oggi voglio raccontare di lei. Stretta al cuore. Rinascita nel
suo cuore. Aveva un cuore immenso, mia madre.
<Il
ricordo
Fu una primavera fredda anche
quell’anno. Stanchi d’aspettarti venimmo da te a febbraio con la neve. E a
marzo. Nell’arco di poco più di un mese avevi subito due interventi e ti
accingevi a sottoporti al terzo. Ti trovammo smagrita, impaurita, rassegnata.
Era un marzo esasperato e senza fiori. Ti raggiungemmo il 21 per portarti un
inizio di primavera e, magari, un raggio di sole. Sarebbe servito a scaldarti,
a illuminare pensieri e cuore. E un raggio di sole, il giorno dopo, si fermò a
fissarti dalla grande vetrata della corsia dove eri insieme ad altre degenti,
tutte più giovani di te e attente ai mali di tutte.
“Mamma”, ti dissi sorridendoti, “vedi? C’è il sole. È venuto pure lui a
visitarti. Sorridigli. È di buon auspicio. Vedrai che starai meglio. Presto ti
porteremo a casa”.
Non sorridesti. E non lo guardasti.
Guardasti me con occhi vuoti e cuore stanco. E una tristezza infinita ti rese
piccolo il volto, bianco più del lenzuolo.
“Possibile che neppure il sole ti dà un
pizzico di sollievo? E dai, mamma, guardalo! Finalmente è una bella giornata e
tu neanche te ne accorgi. Non vuoi accorgertene!”
Guardasti di nuovo me, ignorando il sole
e la bella giornata. E avevi occhi di lacrime e di muto rimprovero. Io, il
cuore stretto e un disappunto non detto in quel silenzio che ci fece male.
Due giorni dopo ti portarono nella
clinica nuova per il terzo intervento. Avevi in testa un copricapo di lana rosa
che ti rendeva una bimba impaurita e sperduta. Non avresti voluto subire quel
nuovo massacro alle tue carni, alla tua anima. Ma, ubbidiente come sempre agli
altri, alla sorte, al volere di Dio, eri là. Ti lasciasti portare, agnello
sacrificale al macello. Inerme. Sola. Nonostante i tuoi figli (quattro di sei:
due impossibilitati a raggiungerti) accanto a te. Ci fu la paura a farti
compagnia. Poi venne il coraggio. Speravamo ancora di portarti a casa.
“Intervento riuscito”, ci dissero, “tra
qualche giorno la dimettiamo”. Partimmo in attesa di riaverti con noi. Lungo il
viaggio di ritorno facevamo progetti per te, con te.
Ti riportarono dopo due giorni in
condizioni disperate. Una dottoressa coraggiosa percorse con te mille
chilometri in ambulanza per riportarti a casa. Viva. Ti fece estenuata
compagnia la figlia più giovane, da tre mesi con te a Monza. Insieme raccolsero
il tuo dolore e le stente parole. Ti portarono nella tua casa sospesa in un
lenzuolo e ti adagiarono nel lettino che avevamo preparato per te al centro
della camera. Ci sorridesti, riconoscendoci tutti: figlie e generi, figli e
nuore, i nipoti. Tentasti qualche parola, un gesto d’amore per dirci addio.
Così per due giorni. Ci chiedevi esausta: “ancora?”. Eri stanca di soffrire. E
cominciò l’attesa: tua, nostra. Volevi andar via. Volevamo lasciarti andar via.
Per amore. Troppo era lo strazio che ci avvolgeva nella tua casa. Io scappai
prima che accadesse. Ti voltai le spalle come da ragazzina quando ogni tuo raro
ritorno era già un addio e, per non vederti andar via, ti lasciavo prima,
scoppiando in lacrime solo dopo, sapendo la tua presenza già un ricordo.
Ora
sei ricordo.
Alle otto del 1° aprile mi giunse
l’attesa telefonata che mi sparò nell’anima la notizia. Sapevo che era vera ma
pensai ad uno scherzo. Era la mia mente che andava in deviazione per non
arrendersi alla realtà. Non c’eri più. E non c’era neppure il sole. Sin
d’allora mi serpeggiò dentro il rimorso, mai più soffocato, di non aver
compreso fino in fondo il tuo dolore, che t’impediva di godere persino di un
raggio di sole. Parecchi anni dopo, anch’io in una corsia d’ospedale, lottando
tra la vita e la morte con lo stesso dolore, un misto d’ansia e di paura, un
tormento che già mi proiettava oltre la vita, non guardavo il sole che
m’invitava a godere di un autunno mite e buono. Non volevo vederlo.
Oggi, sabato 30 marzo, ripercorro il tuo
calvario e il rimanente giorno con noi. Tornasti di giovedì sera, dopo un
allucinato viaggio lungo quanto lunga l’Italia. E siamo stati avvolti dal tuo
dolore, visibile nel fremito scosso del tuo braccio destro e nello spropositato
gonfiore della gamba sinistra, nel tuo corpo di uccellino senza ali, nel tuo
stanco sorriso a dirci con appena sussurrate e biascicate parole che ci sapevi
là con te, ancora per poco. Ci alternavamo al tuo sguardo, alle tue mani. Fu
proprio di sabato sera quando, fissandomi preoccupata di vedermi ancora nella
tua casa, io che non c’ero stata mai, mi mormorasti a stento, “vai a casa se
no…”. Preoccupata fino alla fine di non crearmi problemi nella mia casa.
“Non ti preoccupare”, ti dissi affranta.
Poi, andai via. Già. Appunto come da bambina. Ti voltai le spalle per anticipare
il tuo lasciarmi. Sono stata tutta la notte a pregare perché ti venissero
risparmiate altre sofferenze. E, alle otto di quella domenica senza cielo e
senza speranza, il trillo del telefono…
Mi rimane di te feroce questo tormento e
il rimorso di aver per anni rimandato all’infinito i nostri rari incontri: per
un lavoro ingrato/amato che mi attanagliava, logorando/divorando i miei giorni.
Non avevo tempo neppure per te e sistematicamente deludevo la tua ansia di
vedermi. Mi riprende anche oggi lo sconforto di aver ignorato i tuoi giorni di
solitudine. E di attesa dei miei passi a confortarti di un ritorno. Mi
rimangono le carezze alla tua mano, quando un soffio di tempo e di nostalgia mi
riportavano da te in una fretta di minuti che ignoravano le ore.
“Avremo tempo”, ti dicevo, tra lacrime
non piante.
Non c’è stato più il tempo.
Solo il ricordo.
Presente come la tua anima ai miei
giorni>.
(da Le piogge e i ciliegi, romanzo inedito)
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