domenica 1 aprile 2018

1° aprile 2018: Canto di rinascita


1° aprile. È Pasqua e non è un pesce d’aprile. 1° aprile. 17 anni fa mamma volò tra gli angeli. E non fu un pesce d’aprile. Della Pasqua ho già raccontato. Oggi voglio raccontare di lei. Stretta al cuore. Rinascita nel suo cuore. Aveva un cuore immenso, mia madre.
<Il ricordo
Fu una primavera fredda anche quell’anno. Stanchi d’aspettarti venimmo da te a febbraio con la neve. E a marzo. Nell’arco di poco più di un mese avevi subito due interventi e ti accingevi a sottoporti al terzo. Ti trovammo smagrita, impaurita, rassegnata. Era un marzo esasperato e senza fiori. Ti raggiungemmo il 21 per portarti un inizio di primavera e, magari, un raggio di sole. Sarebbe servito a scaldarti, a illuminare pensieri e cuore. E un raggio di sole, il giorno dopo, si fermò a fissarti dalla grande vetrata della corsia dove eri insieme ad altre degenti, tutte più giovani di te e attente ai mali di tutte.
  “Mamma”, ti dissi sorridendoti, “vedi? C’è il sole. È venuto pure lui a visitarti. Sorridigli. È di buon auspicio. Vedrai che starai meglio. Presto ti porteremo a casa”.
Non sorridesti. E non lo guardasti. Guardasti me con occhi vuoti e cuore stanco. E una tristezza infinita ti rese piccolo il volto, bianco più del lenzuolo.
“Possibile che neppure il sole ti dà un pizzico di sollievo? E dai, mamma, guardalo! Finalmente è una bella giornata e tu neanche te ne accorgi. Non vuoi accorgertene!”
Guardasti di nuovo me, ignorando il sole e la bella giornata. E avevi occhi di lacrime e di muto rimprovero. Io, il cuore stretto e un disappunto non detto in quel silenzio che ci fece male.
Due giorni dopo ti portarono nella clinica nuova per il terzo intervento. Avevi in testa un copricapo di lana rosa che ti rendeva una bimba impaurita e sperduta. Non avresti voluto subire quel nuovo massacro alle tue carni, alla tua anima. Ma, ubbidiente come sempre agli altri, alla sorte, al volere di Dio, eri là. Ti lasciasti portare, agnello sacrificale al macello. Inerme. Sola. Nonostante i tuoi figli (quattro di sei: due impossibilitati a raggiungerti) accanto a te. Ci fu la paura a farti compagnia. Poi venne il coraggio. Speravamo ancora di portarti a casa.
“Intervento riuscito”, ci dissero, “tra qualche giorno la dimettiamo”. Partimmo in attesa di riaverti con noi. Lungo il viaggio di ritorno facevamo progetti per te, con te.
Ti riportarono dopo due giorni in condizioni disperate. Una dottoressa coraggiosa percorse con te mille chilometri in ambulanza per riportarti a casa. Viva. Ti fece estenuata compagnia la figlia più giovane, da tre mesi con te a Monza. Insieme raccolsero il tuo dolore e le stente parole. Ti portarono nella tua casa sospesa in un lenzuolo e ti adagiarono nel lettino che avevamo preparato per te al centro della camera. Ci sorridesti, riconoscendoci tutti: figlie e generi, figli e nuore, i nipoti. Tentasti qualche parola, un gesto d’amore per dirci addio. Così per due giorni. Ci chiedevi esausta: “ancora?”. Eri stanca di soffrire. E cominciò l’attesa: tua, nostra. Volevi andar via. Volevamo lasciarti andar via. Per amore. Troppo era lo strazio che ci avvolgeva nella tua casa. Io scappai prima che accadesse. Ti voltai le spalle come da ragazzina quando ogni tuo raro ritorno era già un addio e, per non vederti andar via, ti lasciavo prima, scoppiando in lacrime solo dopo, sapendo la tua presenza già un ricordo.
                                           Ora sei ricordo.
Alle otto del 1° aprile mi giunse l’attesa telefonata che mi sparò nell’anima la notizia. Sapevo che era vera ma pensai ad uno scherzo. Era la mia mente che andava in deviazione per non arrendersi alla realtà. Non c’eri più. E non c’era neppure il sole. Sin d’allora mi serpeggiò dentro il rimorso, mai più soffocato, di non aver compreso fino in fondo il tuo dolore, che t’impediva di godere persino di un raggio di sole. Parecchi anni dopo, anch’io in una corsia d’ospedale, lottando tra la vita e la morte con lo stesso dolore, un misto d’ansia e di paura, un tormento che già mi proiettava oltre la vita, non guardavo il sole che m’invitava a godere di un autunno mite e buono. Non volevo vederlo.
Oggi, sabato 30 marzo, ripercorro il tuo calvario e il rimanente giorno con noi. Tornasti di giovedì sera, dopo un allucinato viaggio lungo quanto lunga l’Italia. E siamo stati avvolti dal tuo dolore, visibile nel fremito scosso del tuo braccio destro e nello spropositato gonfiore della gamba sinistra, nel tuo corpo di uccellino senza ali, nel tuo stanco sorriso a dirci con appena sussurrate e biascicate parole che ci sapevi là con te, ancora per poco. Ci alternavamo al tuo sguardo, alle tue mani. Fu proprio di sabato sera quando, fissandomi preoccupata di vedermi ancora nella tua casa, io che non c’ero stata mai, mi mormorasti a stento, “vai a casa se no…”. Preoccupata fino alla fine di non crearmi problemi nella mia casa.
“Non ti preoccupare”, ti dissi affranta. Poi, andai via. Già. Appunto come da bambina. Ti voltai le spalle per anticipare il tuo lasciarmi. Sono stata tutta la notte a pregare perché ti venissero risparmiate altre sofferenze. E, alle otto di quella domenica senza cielo e senza speranza, il trillo del telefono…
Mi rimane di te feroce questo tormento e il rimorso di aver per anni rimandato all’infinito i nostri rari incontri: per un lavoro ingrato/amato che mi attanagliava, logorando/divorando i miei giorni. Non avevo tempo neppure per te e sistematicamente deludevo la tua ansia di vedermi. Mi riprende anche oggi lo sconforto di aver ignorato i tuoi giorni di solitudine. E di attesa dei miei passi a confortarti di un ritorno. Mi rimangono le carezze alla tua mano, quando un soffio di tempo e di nostalgia mi riportavano da te in una fretta di minuti che ignoravano le ore.
“Avremo tempo”, ti dicevo, tra lacrime non piante.
Non c’è stato più il tempo.
Solo il ricordo.
Presente come la tua anima ai miei giorni>.
(da Le piogge e i ciliegi, romanzo inedito)

Nessun commento:

Posta un commento