Serate magiche, magistralmente organizzate, coordinate e condotte (quasi
sempre) da Raffaella Leone, Pr. della SECOP Edizioni.
La prima serata ha preso suono e ritmo e senso e significato con “I
miei cento”, versi di Angela De Leo, che non riguardano gli anni o i chili dell’autrice,
anche se non si discostano più di tanto dalla realtà, ma i suoi passi, i suoi
sorrisi, i suoi sogni… e soprattutto la sua insonnia…
I versi sono stati interpretati in modo molto convincente e
coinvolgente da un insolito Tarantini, che ha rinunciato alla sua istrionica
ironia per modulare la voce in termini più morbidi e suadenti in consonanza con
lo stile poetico dell’autrice.
“I miei 100”
Il mondo è nelle mani di coloro
che hanno il
coraggio di sognare
e di correre il rischio di vivere i propri sogni
ciascuno con il proprio talento.
Non desistere mai dai tuoi sogni,
segni
e segnali.
(Paulo Coelo)
Ho
ancora 100 passi
per
attraversare le mie ombre
e
giungere alla riva dell’approdo.
O
andare a caccia di stelle
col
retino delle farfalle
quando
dal lucernario scendono
nel
mio prato e inventano la notte.
(quando di
notte io)
Ho
ancora 100 mani
per
ingabbiare sogni/illusioni
e con
perni e chiodi e filo spinato
fissarli
sul cuscino dell’indifferenza.
100
mani ancora
per
aggrapparmi alle funi
del
mio mai spento sorriso
e
risalire ai giorni dei papaveri
e
delle rose in gara nel mio cortile.
(quando di notte io)
Ho
100 conchiglie di richiami
a
portarmi l’eco di cento amori
vissuti
e mai dimenticati
e
ancora cento da dimenticare
e
amori che tornano e amori che vanno
e si
disperdono con le ombre della sera
e
nebbie di memorie svanite nell’andare.
(quando di notte io)
Ho
100 bocche
per
tacere un segreto
storie
di misteri e di follie
quando
tumulto ribollivano
ricami
di parole e risa d’uvaspina.
Ho
100 pupille
e
cento sguardi amari
per
fissarti l’anima in fuga
a
specchiarsi dentro il cuore
che
arde ancora di antiche rovine
e sa
la pena e l’allegria un cedere
di
ali alla deriva di ogni appiglio.
(quando di notte io)
100
canti mi rimangono
per
impedirti d’andare via
quando
s’azzera il tempo
sul
nostro cielo incredulo
del
tuo passarmi oltre senza
riconoscermi
senza voltarti
a
inseguire orme di passi perduti
E
scoprire il senso di cento parole
perse
nei campi del plumbago in fiore
in
una festa di turchina nostalgia
e si
era appena a maggio.
Poi
venne giugno e tu voltasti pagina.
Si
spensero i cento addii tra un solo
No
che
uccise anni e sorrisi.
Inutili le 100 carezze tra dita
sfioranti il tuo volto di luna
e cento lacrime mai versate
disperse radici in cento fiumi
Nel mare della dimenticanza
cancellarono il sogno sfinito
(non più di notte io)
Era
d’estate…
…
stelle ancora muoiono e rinascono
squarciano cieli di luce…
(almeno cento stelle ridono ancora l’alba)
(Angela De Leo, da L’ora dell’ombra e della riva)
Sono state lette, poi, in tutte e tre le serate due poesie di
Bratislav Milanovic, tratte dal poema “Lettere da un futuro remoto”, due poesie
di Kayoko Yamasaki, due di Ljubica Rajchic e due di Dragan Mraovic. Qui ne do
solo un piccolo assaggio per una grande emozione.
II
Ti scrivo dal fondo dell'abisso, all'antica,
a mano, prima che le dita diventino rigide per il gelo
perché nessuna posta elettronica riesce
a raggiungerti - tanto hai reso incolmabile lo
spazio...
E tu non rispondi, ferma sulla città,
sul monte di ogni magia, dove con un sospiro
in due abbiamo sciolto le ore e svegliato le magnolie
in primavera, d’estate, in autunno e durante
l’inverno...
Ti scrivo a mano perché solo così posso
di nuovo toccarti la pelle e le labbra,
eccitare il punto nevralgico dei tuoi sensi
che stimolano il corpo, la mente e la voglia,
solo così mi abbraccerà il tuo respiro
umido invece del vento nell’abisso tra il nulla
e il vuoto, questa notte... ancora questa...
che mi solleverà da questo sotterraneo luogo come
un’esplosione.
Lì, nel tempo ancora troppo giovane, la speranza resta
speranza.
Ti scrivo: qui, dal fondo, il sole conquista ogni
palmo
di questo corpo che è ancora un giardino colmo di
sfide
laggiù, da te, nel passato, solo laggiù ancora...
E desidero solo d'esser divorato dal deserto.
Voce di un amore folle e appassionato, quella di Bratislv Milanovic,
ma anche fortemente onirica e visionaria, pur nel realismo che misteriosamente
pervade di grande sensualità e tenero erotismo tutto il poema. Le lettere,
scritte rigorosamente a mano come le lettere d’amore di un tempo che ignorava
la posta elettronica e il linguaggio sincopato e privo di ardore, si distendono
in tutta la pienezza di un sentimento tenace e testardo, a dare una dimensione
altra dello spazio e del tempo che va oltre lo spazio e il tempo, quando
s’ingemma d’infinito, tanto è grande da sfidare anche la morte. E un fremito di
commozione ha sfiorato la pelle e il cuore del numeroso pubblico in sospensione.
In un silenzio che sapeva di ascolto e condivisione…
Poi ecco i versi della dolcissima e meravigliosa Kayoko Yamasaki
Vukelic, letti con molto pathos da Mariella Sivo, emozionata e felice.
“La scala, due angeli”
Siamo venuti a porgere
Un pezzettino dell’amore
Con le manine
Che abbiamo teso
Il giorno
Della nostra nascita
Con un pianto forte,
Con un sorriso silenzioso,
la vita si sostiene
alla vita:
saliamo
le scale.
Quando ci rapinano
Acqua e aria,
quando ci spengono la luce,
ci teniamo per mano.
La vita ascolta la vita:
e senza
in silenzio
saliamo.
Questa mattina,
da quando gli angeli
sono tornati al cielo,
brillano nel buio
solo le orme
dei nostri piedini.
Per questo saliamo
Le scale
Da cui loro
Hanno preso il volo.
È la tristissima storia di due bimbi fatti prigionieri e poi uccisi
durante la rivoluzione del 1999 nel loro Paese. E la tenerezza della coraggiosa
autrice nel denunciare il misfatto è tutta nei diminutivi che usa per
descrivere la prigionia e la morte dei due piccoli angeli: “pezzettino”,
“manine”, “piedini” e, ancora, nel “tenersi per mano” dei due bambini mentre
nel silenzio si confortavano per la mancanza del cibo e l’assenza della luce.
Quale condanna più crudele verso l’innocenza e il candore? Solo gli angeli li
sollevano in volo lungo la scala dorata che porta al Cielo.
Denuncia sociale e aderenza alla realtà molto forti con una
delicatezza e lievità di grande impatto emotivo e poetico. E, tra l’altro,
Kayoko canta come un usignolo.
La ribollente, spumeggiante, bravissima
Ljubica Rajkic, rumena, invece, recita due poesie dolenti, amare, ironiche, che
vengono replicate, la prima sera, dalla poetessa e scrittrice Luciana De Palma;
la seconda, da Raffaella Leone (che legge anche due poesie della sottoscritta),
e la terza sera da una lettrice romana, di cui purtroppo non ricordo il nome.
“In questo amore faccio tutte le parti”
In questo amore faccio tutte le parti.
Non per motivi artistici.
Anzi, confesso che lui è un attore migliore di me.
Perché non confessarlo?
Ma è molto, proprio molto più negligente.
Sbaglia le repliche. Spesso. Si ritira.
Perde tempo per le sciocchezze.
Cambia volentieri le parti e gli avvenimenti.
La cosa peggiore è che lui odia gli happyend.
Essendo un intellettuale di razza,
lui ritiene che ogni lieto fine sia banale e non reale.
Per questo non gli permetto di mettere in pericolo
della mia vita l’avvenimento centrale.
Finale.
(il mio primo monodramma si è svolto così:
mia nonna mi ha chiesto di prendere in prestito
un tritacarne.
Ho aperto il portone dei vicini,
ho chiamato la padrona e le ho detto:
bacio le mani, nonna Angelica!
Sii benvenuta, pulcino mio!
Mi manda mia madre Ljubica per farmi prestare
il tritacarne,
il nostro non funziona più…
te lo do subito, mia cara, e portalo alla mamma
e chiedile se ha fatto del formaggio,
mica quelle mucche sceme hanno pascolato
inutilmente,
e grazie e arrivederci, pulcino mio…
Dopo aver
parlato tutto d’un fiato, lei mi ha consegnato
il
tritacarne
e mi ha
baciato sulla fronte).
È la via
più sicura verso il successo nella vita.
Ma questo
monodramma oggi è un po’ diverso.
Niente pubblico
né applausi, ma che m’importa?
Neppure lui
è rimasto fino al sipario calato.
Non
gl’interessava.
Questo
monodramma non è stato rappresentato su questa terra.
Ma se in cielo
contano i fatti, e contano,
io, quando
non conterò più i miei giorni…
andrò a
ritirare il mio premio.
“ljubica”
in italiano significa “amore”. E Ljubica
è davvero una creatura d’amore. Da amare. Nonostante una vita contrassegnata da
tante lacrime per un rapporto coniugale miseramente finito e per tante altre
vicissitudini non sempre serene, Ljubica ha sempre un sorriso a illuminare il
giorno. Ha sempre un dono tra le mani, una battuta divertita e divertente per
sdrammatizzare ogni esperienza negativa. E, anche se nel suo Paese ricopre
incarichi di grande prestigio e responsabilità a livello ministeriale, è di una
semplicità incredibile e di una grande attenzione agli altri. E solo i Grandi
sanno essere umili e attenti ai propri interlocutori.
Poesia allusiva,
la sua, con una sorta di simpatica pruderie,
che non ha niente di affettato, ma solo di disincantato divertissement perché tutto risulti giocaso e gioioso per minimizzare
la delusione e il pianto.
E un Grande
attento a tutti è Dragan Mraovic, il traduttore in serbo della “Divina Commedia”,
del “Decameron” di Boccaccio, dei “Canti” leopardiani e potrei continuare all’infinito…
Di lui ecco
una poesia d’amore dedicata alla sua splendida compagna di vita da molti anni
ormai. È tratta da: “Libro bohémien”.
“So, cara”
(a quella che mi amerà per ultima)
So, cara,
che goccia dopo goccia un giorno in meno mi rimane;
lasciami
brindare, non hai colpa, tu, fatta di marzapane.
Tu, la
migliore, peccato che non sia stata la prima ad avermi,
non
piangere e mandami un bacio nel bel mondo dei vermi.
Poi, quando
i fiori avranno il mio volto sotto il cielo sereno,
Dirai che
se fossi stato migliore, mi avresti amato di meno.
Anche Dragan,
come Ljubica, ama la poesia che nasce da ogni esperienza vissuta sulla propria
pelle, ma con un’adesione più goliardica e sorridente alla concretezza delle
cose, delle situazioni, delle atmosfere. Anche Draga gioca con le parole e le
piega alla sua mordente ironia, con lo straordinario vitalismo, tipico dell’uomo
bohémien, che ama la libertà, la fantasia, il coraggio di osare l’inosabile. E si
perde nella malinconia della notte. Dragan ama le “piccole stradelle” della sua
Belgrado addormentata e sa brindare alla suadade
che il buio fa lievitare nel cuore con un baccale di birra tra le mani e
una sorta di fatalità nell’accettare la vita che passa “goccia dopo goccia” e
scivola sotto i ponti del Danubio e della Sava, da sempre stretti in un
abbraccio di acque prima che l’alba canti il nuovo inno alla vita.
E noi
ci siamo sentiti abbracciati e vivificati dal respiro di tanta Poesia, recitata
con sacro rispetto, tanta grazia, immenso amore…
Angela
De Leo
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