“Tutti
i libri del mondo/ non ti danno la felicità,/però in segreto/ ti inviano a te
stesso./ Lì c’è tutto ciò di cui hai bisogno,/ sole stelle luna./ Perché la
luce che cercavi/ vive dentro di te./ La saggezza che hai cercato/ a lungo in
biblioteca/ ora brilla in ogni tuo foglio/ perché adesso è tua”. (Herman Hesse)
<Amo stare tra i libri. Sentirne il
profumo. Prenderli tra le mani, accarezzarli, far scorrere le dita sui loro
contorni spigolosi, sui loro fogli avoriati e setosi oppure spessi e ruvidi
(aprimi. leggimi. assaporami. ascoltami. entra dentro le mie pagine. ci
sono parole. entra dentro le parole. ci sono storie. entra nelle storie e vi
troverai personaggi veri o inventati. incontrerai le loro voci. spesso
provengono dal passato. incontrerai il dolore e la gioia. incontrerai la vita.
tua. degli altri. ascolta il mormorio delle parole che proviene dalle pagine.
musica e silenzio. canto e incontro. emozione. colore di tempo e di spazi
minimi o sconfinati. di eternità)
Le copertine mi
guardano, mi sorridono, m’invitano. Sono loro a scegliermi. Mi conoscono. Sanno
i miei gusti, le mie preferenze. Le parole mi parlano. Me ne bastano poche per
intuire le storie che mi vogliono narrare. Mi catturano o mi respingono. E ogni
lettura è una nuova narrazione. È racconto in cui quotidianamente t’incontro. E
nel racconto mi piace incontrare anche gli altri. Il raccontare presuppone
l’ascolto da parte dell’altro. Essere “con” e “per” e “verso”. Non essere mai soli.
Stare in mezzo agli altri per dire di sé e ascoltare le loro storie. È un
imparare a conoscersi. A diventare amici. Come accadeva un tempo “attùrnə a la
frascèjrə”
(intorno al braciere) o all’ombra del gelso rosso>.
Ancora un piccolissimo stralcio del mio libro/romanzo (e non solo) “Le
piogge e i ciliegi”, ma non è del mio libro che voglio parlare oggi, preferisco
tornare col pensiero a sabato sera per ritrovare l’emozione della bellissima
serata trascorsa insieme a tantissimi amici per la presentazione della silloge
di versi e prose “E’ passato un silenzio”
di Federico Lotito.
Sono passati circa tre anni dalla pubblicazione del primo libro di
poesie di questo nostro autore, timido e audace insieme. Ebbene, se nella prima
silloge “Gocce d’anima” scoprimmo un poeta ancora insicuro dei propri mezzi
espressivi, anche per via di un periodo di confusione e dolore e ansia e ricerca
di sé, ma comunque “votato” alla poesia, (con versi fratti, brevi, tutti in
verticale e con un percorso discendente più che ascendente perché determinato
ad inabissarsi nelle pieghe più profonde della sua anima per scoprirvi le
possibilità di riappropriarsi di sé e della agognata serenità), in questo
secondo libro ritroviamo un uomo ancora più deluso e disincantato, ma sempre
proteso a riprendere tra le mani la propria vita per farne cammino di
conoscenza e di autorealizzazione (“riesco ancora a camminare”).
Il lungo silenzio gli ha permesso, però, di maturare un linguaggio
poetico più solido, corroborato dalla lettura dell’amato Bukowski, che gli ha
dato il coraggio di liberarsi dagli antichi pudori per ritrovare la freschezza
di un linguaggio più libero, più denso e amaro di ribellione ai condizionamenti
di una società, in cui non si ritrova e nelle cui regole sembrava muoversi a
stento già in passato. Certo, anche il silenzio è passato. Il poeta è riuscito
a metterlo in standby per crearsi le
distanze dai ricordi e dal dolore perché vuole rinascere dalle sue ceneri come
un uomo nuovo.
Ecco: “vuole” con tutto sé stesso affrancarsi da tutto ciò che gli ha
procurato disagio, silenzio, paura. E, se alla lettura iniziale della silloge
mi era sfuggito il senso profondo dei suoi versi in termini di “volontà” a
superare sé stesso e il tempo degli inganni, che gli aveva proibito una più
libera adesione alla vita, in tutte le sue sfaccettature e dimensioni,
improvvisamente, rileggendo dopo alcuni mesi i testi (anche per me è passato
più di un silenzio!), ecco farsi strada l’idea del “desiderio” che è
motivazione e scopo di quella volontà. E, così, rileggendo più attentamente, ho
scoperto un fil-rouge davvero
sorprendente, perché seguito da Federico nei suoi versi quasi a sua insaputa,
eppure così tangibile nelle cinque sezioni delle sue poesie da farmi teorizzare
ben cinque momenti in cui questo desiderio prende corpo e si fa compagno di
viaggio di tutta la silloge. Desiderio di “ESSERE”, innanzitutto. Ed essere è
per ciascun uomo realizzarsi nel sentimento fondamentale della vita: l’Amore.
In termini di amare ed essere riamato. Fino ad accogliere l’altra e di farsi
accogliere. Con semplicità, fiducia, abbandono. Nella autenticità e verità di
un sentimento che non deve sciogliersi come neve al sole, in una società
liquida (Bauman) che tutto disperde e lascia scivolare via, ma deve resistere
alle intemperie, ai silenzi e alle parole, nella straordinarietà delle sintonie
e nella banalità delle divergenze che quotidianamente possono mettere a dura
prova l’affiatamento e la passione.
E la prima sezione s’intitola proprio “amore” in minuscolo, come del
resto tutto il poema, perché è un amore vissuto in negativo, con le ferite che
sanguinano ancora per le distonie che hanno sovrastato troppo spesso le
sintonie fino alle dolorose conseguenze delle delusioni e degli addii.
Anche il desiderio, perciò, vive questa prima fase, macerandosi nel “silenzio”
e nella palude statica dell’“attesa” di un accadimento che possa scompaginare
la routine e l’abitudine a non
chiedere e a non osare più di tanto, nonostante i pensieri ribollenti di una
vita da vivere nella pienezza della vita stessa e di sé. Alla base la “fottuta
paura” di non farcela ad evitare rifiuti, discrepanze tra reale ed ideale,
solitudini, eterni ripensamenti e contrasti interiori (“ho una paura fottuta del silenzio,/ invocato un suono tante volte/ che
chiudere ora gli occhi è terrore (…) ho una paura fottuta di tutto quello/ che
continua ancora ad essere realtà.” da “La realtà che resta”), ma anche (“credi che saresti stato più felice se non
l’avessi vista?/ se avessi girato lo sguardo altrove?/ se avessi alzato gli
occhi al cielo?// questo mio maledetto vizio di guardare per terra!/ alla
ricerca di che poi…/ forse della voglia di un dolore nuovo.” Da “Minnie”).
Bellissima questa chiusa che evidenzia quanto difficile sia estirpare dai
nostri comportamenti le abitudini, anche quelle che ci fanno male. E non si
tratta di masochismo, ma della forza che ci manca, nonostante la “voglia” del
cambiamento!
La seconda sezione: “ricordi e distanze” è il primo vero tentativo di
andare oltre la memoria di ciò che stato attraverso l’urgenza di guadagnare
nuovi spazi per allontanarsi anche dalla stessa attesa. Non più ristagnanti
paludi dove affiorano spesso ripensamenti, esperienze con promesse non
mantenute, contraddizioni e dubbi e interrogativi senza fine, e affermazioni
per rivendicare un ruolo non ancora scoperto e ricoperto e rimanere eternamente
sconosciuti a sé stessi e agli altri. In alcune inconsce presunzioni che
rivelano possibili velleità che possono sfociare nell’arroganza di sapere.
Ed ecco il grido del desiderio che urla (ottativo, che è esortazione e
invocazione) il bisogno di ogni essere umano e, nello specifico, del nostro
poeta di essere desiderato per riconoscersi finalmente nel proprio desiderio,
che non deve più aver paura di manifestarsi e di chiedere, non più essere
vissuto nel silenzio e nell’attesa, ma richiesto ad alta voce perché altra voce
gli risponda e lo corrisponda (“coglimi!/
posami sul tuo seno,/ stanotte è passata la vita da qui/ con occhi di favola a
raccontare storie,/ a cantare nenie, a spargere parole.” da “La giostra”.
Oppure: “dormimi addosso/ con tutto il
peso dei tuoi perché (…) è questo peso tutto ciò che voglio.” da “Dormimi
addosso”. E ancora: “e tu!/ dammelo
ancora un motivo/ per coltivare rose. (…) dammelo comunque quel fiore da
piantare/ nella speranza possa rifiorire/ tra le zolle di questo campo arato,/
lasciato così da tempo/ ad attendere una nuova semina.” da “E tu! E,
infine: “… sì! gira! perché voglio che
giri ancora/ e ancora più forte (…) è inutile tenere il futuro/ legato a una
catena di sogni/ che puntualmente s’infrangono all’alba.” da “Sì! gira
forte”).
Sono ancora i versi della prima sezione che preludono già alla
seconda, dove immediatamente compare di nuovo il desiderio (“… voglio tutte/ le traiettorie possibili,
costi quel che costi,/ da qui stasera non mi muovo./ nessuno mi fermerà,
nessuno mi sbatterà via…” da “Rosa dei venti ad un semaforo giallo”) di venire
accolto (“nessuno mi sbatterà”) per confermarsi nel suo modo di essere.
Ci sono ancora sconfitte confinate nel passato (“Un po’ in ritardo”),
ma il desiderio del cambiamento lo proietta verso il futuro (“Tu”).
Ed è nel “disincanto” (terza sezione) che il poeta tocca il fondo di
ogni negatività. Ma dietro la rabbia serpeggia sempre la ribellione e la voglia
di riscatto. E così, come sempre accade, l’ora più buia prelude alla luce. Ora
Federico sta imparando a conoscersi e a riconoscersi e sta imparando a dare al
suo desiderio di cambiamento quella forza propulsiva che gli deriva da ciò che
gli manca (“… ora è vuoto ancora/ ma
l’affitto ai miei rinnovati sogni.” da “Sfratto al silenzio”)
Bellissima è la prosa che conclude questa buia sezione: “(è passato un
silenzio) incanto e disincanto”). È finalmente la prosa della consapevolezza di
sé e della pienezza della propria vita che il poeta vuole vivere fino in fondo,
nel bene e nel male (“Io nel mio tempo,
che altro non è che me stesso, voglio starci tutto: sarà consapevolmente bello
sentirsi, allo stesso modo, fuori e dentro il suo scorrere. Bello sarà renderlo
tempo di una esistenza piena e non di sola presenza; bello sarà renderlo tempo
di partecipazione. (…). È il mio
tempo che resta, è il mio tempo finalmente amato.”). Ed è finalmente l’esaltazione
di una promessa di felicità. Esaltazione che diventa forza e coraggio e si fa desiderio
di autodeterminarsi. Ha voglia di essere sé stesso ora più che mai. “Bello
sarebbe” cos’altro è se non il prorompere di un desiderio troppo a lungo
taciuto, rimandato, vissuto come irrealizzabile e, perciò, confinato nel
silenzio di ogni attesa?
Ora la “vita” (quinta sezione) è tutta da vivere, da centellinare, da
assaporare perché è tempo della pienezza di sé e di ogni istante vissuto con
impeto, forza, sicurezza dei desideri da realizzare, delle mete da raggiungere.
Il viaggio nella vita serve ora proprio a volere di più e, perciò, a chiedere
di più (“… io uomo, sono pronto/ in
questo viaggio consapevole./ vado.”). E ora Federico si accorge persino di
tutti i desideri del cuore, che è nomade e, dunque, sempre in viaggio fino a
che non darà sicuro dell’approdo (“è lì
che vuole pulsare”, ripetuto anaforicamente più e più volte, perché ora
vuole sentirsi vivere in tutti i luoghi più impervi, più sporchi, maleodoranti;
perché ora “vuole” osare l’inosabile, appunto, perché è colmo di certezza e di
speranza). Addirittura quel suo cuore nomade osa l’ardimento del volo e afferra
con mani più salde anche la poesia nella consapevolezza che non lo abbandonerà
più perché ora sa anche tutti gli “appigli” giusti della parola, di quella
alata soprattutto. E tutto è profumo di rinnovata vitalità (“senti che calore ha questa pioggia,/
stempera il più freddo degli inverni,/ mi attraversa con lo sapore che sa di
gioco,/ con lo stupore che ha un desiderio nuovo (…) pioggia di follia a
dissetare la vita,/ a dileguare ombre stanche da tempo al mio fianco,/ pioggia
di follia che domina la paura del tuono lontano.// e corro a bagnarmi piedi,
mani e anima/ nei rivoli lungo la via della vita./ e folle corro da te, ti
prendo per mano/ in strada saltiamo a goderci questa pioggia di follia/ tra
lacrime di gioia,/finalmente giunte a solcarci il viso.// non l’asciugheremo
più/ questa pioggia, questa follia,/ questa vita.”. Ma non basta questa
meravigliosa “follia”, c’è di più ora nella vita di Federico Lotito: “sento una nuova novella (…). Voglio e
sono/ devo e voglio/ sento vita ancora.” da
“Sono”).
E finalmente egli osa persino guardare il cielo da guerriero che sa
lottare e vincere. Guarda le amiche stelle perché il suo cielo ora è tutto un
palpito di luci: “Splendete stelle!/
controlla fuori/ che non pianga il cielo./ le mie amiche stelle/ vogliono
splendere per me/ questa notte.”.
Come potevo, allora, io, sabato sera, nello spazio di
un quarto d’ora-venti minuti, dire tutto questo del nuovo libro di poesie e
prose di Federico Lotito, che segna la sua straordinaria autoaffermazione come
uomo e consacrazione come scrittore e poeta? E quanto ho omesso anche qui? Lo
dirò la prossima volta… non ne potrò fare a meno. Purtroppo per chi mi segue,
io amo svisceratamente i Libri. La Poesia.
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