giovedì 31 dicembre 2020

La magia delle Finestre: giovedì 31 dicembre 2020

E siamo a una nuova Vigilia. Mi sembra giusto condividere con voi la bellissima Postfazione di Vito Di Chio al suo saggio sulla mia scrittura. È vero, ve l’ho letta durante il mio Retino di una settimana fa, ma voglio riproporvela perché non se ne perda neppure una parola tanto è densa di senso/significato e di profonda poesia da toccare tutte le corde del nostro cuore.

                                                    POSTFAZIONE: VIGILIA

… e dunque, anche la recente pubblicazione del romanzo - LE PIOGGE E I CILIEGI. FOGLIE E FRUTTI DI UN ALBERO SEMPRE VIVO - si conclude con la parola FINE a cui però la poetessa aggiunge - come d’altronde in tutti i suoi scritti - tra parentesi un magico ammiccamento (quasi?) per il lettore.

Non siamo dunque alla “fine”, ma alla vigilia di altra fatica, di altre opere, di altri sogni, di altre emozioni, di altra creatività.

Per questo desidero dedicare ad Angela De Leo le mie brevi riflessioni sulla VIGILIA come un mio grazie per tutta la ricchezza poetica, di cui mi ha fatto dono.

Chi - come me - si riconosce nella lunga tradizione cattolica, sa certamente di che cosa parliamo, quando affermiamo: oggi è vigilia -vigilia di Natale, quella di Ferragosto-, vigilia di un esame, vigilia di una partenza, ecc.

Tanti di noi sentiamo quanto sia bello il sabato, vigilia per eccellenza: dolcemente ci vengono spontanei sulle labbra i due versi leopardiani: Questo di sette è il più gradito giorno/ pien di speme e di gioia.

Una parola che mi ha sempre affascinato, perché all’interno della vigilia avverto subito una specie di inquieto coinvolgimento della persona e di apertura all’altro.

Vigilia, il tempo dell’attesa, della vigile attenzione, della intensità, della sentinella disposta a vegliare nella notte, a tutelare il patrimonio della memoria, di una vita ai suoi albori e di una vita nel suo pieno compimento, intuendo il giorno che già si annuncia con la dolce aurora. L’uomo della vigilia per eccellenza, Dante, ci suggerisce nel canto XXV del Paradiso che la speranza, l’attesa che ogni vigilia trasporta è un fiore che «’nfiora la mente e il cuore» e li rende creativi.

L’etimologia permette di comprendere meglio ciò che la parola trasporta, ma anche l’esperienza che viviamo alla sua luce.

Vigilia: una parola che viene da lontano, documentata nel sanscrito e con radici indoeuropee: vig è il fonema di partenza, da cui sgorga sia vigeo, vigor = aver vigore, essere pieno di vita che vigil, = “che è sveglio”, “che tiene sveglio”; vigilo, vigilare, essere attento, prendersi cura sollecita dell’altro.

La vigilia era dunque in senso tecnico il turno di guardia e al contempo la sentinella, la scolta che faceva il turno di guardia la notte: vi erano diversi turni di guardia (prima vigilia; seconda vigilia, ecc.) per permettere anche alle sentinelle di riposare: i Greci dividevano la notte in tre vigiliae, mentre i Romani in quattro.

Vigilia non è dunque - in un senso meramente appiattito - il giorno prima di una festa o di una circostanza, ma essa rinvia all’essere vigile nella notte interiore, che tocca la nostra esistenza e che ognuno di noi ogni tanto sperimenta con diverse modalità (malattie, morte, incidenti di percorso, difficoltà); notte, che ci fa esclamare come il profeta Isaia: “Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde: Viene il mattino e poi anche la notte” (Is. 21, 11-12).

La vigilia ci induce a confrontarci, inoltre, con il momento storico che stiamo vivendo, sempre attraversato dalla notte e, quindi, con la difficoltà a percepirne i segni rivelatori del futuro, ma anche con l’appello a stare svegli, a tenere svegli quelli che ci stanno accanto. Su che cosa oggi dobbiamo particolarmente vigilare? Semplicemente: democrazia. Qual è il tipo di governo che ci hanno dato i nostri padri costituenti dopo la seconda guerra mondiale? Mi piace rispondere, citando una frase famosa di Benjamin Franklin: «Una repubblica, se sarete in grado di mantenerla».

È un compito di ognuno di noi costruire la democrazia e la repubblica giorno per giorno, siamo cioè sempre alla vigilia di questa realtà.

                                                                      Vito Di Chio

Non ho potuto farne a meno, anche perché VIGILIA è una parola beneaugurale. Non mi fa pensare solo al giorno prima o alla notte. Mi fa pensare anche all’alba e alla luce dell’aurora che sfiora la Terra che mi abita e che abito. Il mio giardino di alberi ora spogli è promessa di nuovi germogli a primavera. Come già detto, non avrei aggiunto niente altro a quanto detto sapientemente ed esaustivamente da Vito se non avessi avuto dalla sua Vigilia nuovi stimoli per nuove parole per scoprire nuovi orizzonti di creatività e di poesia. Ma ancor di più è stata la lettura di una poesia di Primo con una parola rivelatrice, catturata dal mio retino mentre volava dalla sua terza finestra fatta di “contrasti emotivi” in quel suo libro di finestre e poesie, Lontano da ieri, che ha aperto i nostri incontri. Sì, ho letto attraverso la finestra semiaperta una poesia che mi ha ulteriormente emozionata e illuminata. “A cercare conferme” è il titolo della poesia: ho cercato la tua mano distratta e indecisa/ nascosta forse al chiarore di una minuscola/ fiamma/ che invoca una ragione per violare il buio/ ma la strada che porta al tuo cuore/ era chiusa per lavori di manutenzione/ e nessun segnale evidente/ fermò i miei passi/ sulla soglia di un cratere antico/ mentre andavo giù in caduta libera/ in fondo al sepolcro di cenere/ era una trappola il tuo volto sorridente/ e la tua mano sempre più lontana/ si fermava esitante/ a cercare conferme inesistenti

Tutto senza punteggiatura e in minuscolo, come si può notare, in un minimalismo che ancora oggi fa male al cuore. Era il disincanto disperato del poeta che si sentiva sulla soglia di un precipizio che   non aveva saputo evitare, venuto meno l’appiglio persino della “mano esitante” nel dare aiuto e nel chiedere conferme che mai ci sarebbero state...

Ma quella “soglia” ha dischiuso in me, oggi, un pensiero di provvida vigilia. Ecco, per me “soglia” è diventata immediatamente “Vigilia” di speranza. Che forse avrebbe potuto evitare quel precipitare nel “cratere antico”. E anche la “speranza” è diventata “Vigilia” che batte nel nostro cuore. E così “cuore” si fa soglia e vigilia dell’anima che prega in silenzio. Ma anche il silenzio diventa soglia aurorale dell’ascolto e l’ascolto è soglia della parola e la parola è soglia della conoscenza. Così come la ricerca. Siamo sempre ad una Vigilia fino all’ultimo momento della nostra vita. E la stessa vita è Vigilia di un nuovo percorso oltre la Vita.

E oggi questa Vigilia è soglia del nuovo Anno: mettiamoci in ascolto del cuore perché domani sia

un giorno nuovo per il Nuovo Anno. Questa notte: soglia tra bene e male. Tra il bene e il male, da sempre insiti nel cuore dell’uomo, la nostra responsabilità di scegliere. Se sceglieremo il bene saremo meno belve (che agiscono per istinto, mentre l’uomo dovrebbe usare cuore e ragione) e più Persone. E il mondo potrebbe essere migliore. Forse… Auguriamocelo con tutto il coraggio e il cuore di cui siamo capaci. Abbraccio immenso a tutti.

 

 

  

mercoledì 30 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: 30 dicembre 2020

Grande è stata la mia gioia, in tanto dolore, nell’aver ricevuto alcuni commenti molto profondi e preziosi suggerimenti sulle mie riflessioni (suffragate dal pensiero di una scrittrice e giornalista coraggiosa e tanto vicina al dolore suo e degli altri, e di una studiosa e filosofa di fama mondiale) su questi due sentimenti così lontani e così vicini.
Elina Miticocchio, una delicatissima poetessa che proprio in questi giorni ha avuto la gioia, dopo tanto dolore, di avere tra le mani il palpito della sua ultima silloge di poesia Alle radici dell’erba, pubblicata dalla nostra Casa editrice, così scrive, commentando La magia delle FINESTRE di martedì 29 dicembre 2020": Dal dolore segreto un giorno crescerò partendo dalle ombre dalle paure dai dubbi dal dolore segreto che cova intero custodito. Duole nel silenzio di giorni fragili. Mi innamorerò dei luoghi chiusi che cercano aria nel frastuono di cieche voci. Imparerò forse attraverso l’alba a non smarrirmi a far danzare il corpo al solo ritmo del cuore. Elina Miticocchio - Estemporanea nata leggendo il blog La Poetologa della poetessa Angela De Leo, 29/12/2020. Dolce/amaro commento, ricco di poesia e di buoni propositi (Mi innamorerò… Imparerò…), con la lievità danzante della sua Poesia, ricca di suggestioni immaginifiche che volano trasportate da un vento leggero che porta lontano… E il dolore e la gioia sono un impasto che raggiungono radici di mai dimenticata infanzia per innalzarsi alle foglie di ogni rinascita. 
E Vito Di Chio ha commentato su "La magia delle FINESTRE, dicembre 2020": Trascrivo da „Bisogno di Maestri“ questa riflessione. In una sua lirica W. Goethe annota: “Tutto diedero gli dei, gli infiniti, ai loro prediletti - proprio tutto, tutte le gioie, le infinite, tutti i dolori, gli infiniti, proprio tutto”. Commentando nella lettera alla sua amica questi versi, il poeta aggiunge: “Così cantavo recentemente mentre in una stupenda notte lunare uscivo dalla profondità del fiume che scorre davanti al mio giardino: un’emozione intensa, di cui sperimento nella mia persona la verità giorno dopo giorno”. È una descrizione toccante della grande capacità della poesia e dei poeti di sperimentare la felicità e di sentire il dolore nella loro interdipendenza, dono degli dei, eterna sfida spirituale che accompagna ineluttabilmente il corso della loro vita, e, per questo, “prediletti degli dei”. Una predilezione che traduce molto bene il pensiero essenziale di Socrate nella sua Apologia davanti ai giudici di Atene: “Una vita non provata non è degna di essere vissuta”. BUONA SERATA, carissima Angela! 
Splendido commento che si commenta da sé: i poeti incarnano felicemente/infelicemente la gioia e il dolore in ugual misura che misura non ha: INFINITAMENTE. E, per questo infinito, che è “l’ineffabile” che “ferisce e risana” (C. Milosz) essi “vivono in eterno” perché sono i “prediletti degli dèi”. A loro l’Olimpo concede di vivere una “vita provata” di quell’INFINITO TUTTO che rende l’umana esperienza “degna di essere vissuta” (Socrate). Infinitamente grazie, Vito carissimo, per averci donato BISOGNO DI MAESTRI, in cui ti riconosco!
E Giulia Basile, una scrittrice/poetessa di forte tempra e di coraggiosa azione in difesa delle Donne e di quanti hanno un sogno da vivere, da realizzare a costo di immani sacrifici, sempre in bilico tra il dolore (che ogni viaggio comporta) e la gioia (che ogni approdo restituisce all’animo provato dal lungo percorso tra mille insidie e tormenti d’anima), così scrive: Bellissima dicotomia: il dolore e la gioia, due parole all’apparenza lontane, ma hanno in comune l’urlo e il silenzio, cioè si può urlare di dolore ma anche di gioia; e si può indossare il silenzio per il troppo dolore così come per la troppa gioia, quando non si trovano le parole per comunicare con gli altri e apriamo la bocca per trasmettere meraviglia.
Un abbinamento al dolore e alla gioia che non avevo considerato: l’urlo e il silenzio. E che ora mi fa riflettere molto. L’urlo del dolore (e mi viene in mente “L’Urlo di Munch” sul volto sgomento dell’immagine in primo piano, nella totale indifferenza della natura!) e quello della gioia che ha una vibrazione tonale completamente diversa. E il silenzio dell’uno e dell’altra. Sul silenzio del dolore credo di aver dato già le mie risposte. Ma ho ignorato quello della gioia che ora mi si dischiude ricco di “muta meraviglia” e rimango affascinata da questo silenzio che è un inno alla creatività che fa fiorire mondi incantati sui rami luminosi della gioia. Grazie!
E, per par condicio, mi sembra giusto citare anche la bellissima raccolta di racconti Naviga la parola e consuma amore, ultimo lavoro di Giulia pubblicato dalla nostra Casa editrice.
E la carissima Maria Pia Latorre mi scrive: Il dolore che affiora. Il nostro dolore è rinchiuso dentro di noi. Ma coloro che lo hanno vissuto e vivono grandi dolori sanno riconoscersi tra loro. Come se il dolore avvertisse una vicinanza affine e si affacciasse all’altro nello sguardo. Una situazione in cui il dolore tende a riaffiorare è proprio nei momenti di gioia, perché queste due emozioni-sentimenti sono strettamente legati, dentro di noi, e si richiamano a vicenda, aggiungerei. Grazie per le belle riflessioni. Sono io che sento la necessità di ringraziarti perché mi hai dischiuso altri orizzonti sulla gioia e il dolore, così interconnessi nel nostro io più profondo da riaffiorare insieme sia che si tratti del dolore sia che avvertiamo un moto di gioia. E mi fai tornare alla mente Ermengarda, ripudiata dal suo sposo e ormai morente per troppo dolore. Ebbene, quel suo dolore è intriso di ricordi bellissimi quando, giovane, bella e amata dal suo sovrano, era l’immagine della gioia e della felicità (Sparsa le trecce morbide/ Sull’affannoso petto,/ Lenta le palme, e rorida/ Di morte il bianco aspetto,/Giace la pia, col tremolo/ Sguardo cercando il ciel… Manzoni, Adelchi, IV Atto). 
Ma anche il dolore che riconosce il dolore è un’altra puntualizzazione da me solo appena sfiorata ed è invece piena di ulteriori significati che riportano alla forza intrusiva e pervasiva dello sguardo/occhi dell’anima e delle sue molteplici verità. Anche qui sarebbe utile un dibattito confronto di approfondimento. Vedremo. Anche questa è una Speranza per il Nuovo Anno alle porte! Un abbraccio a tutti.

martedì 29 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: martedì 29 dicembre 2020

Pensavo di dover/poter scrivere dopo il nostro ultimo incontro di martedì 22 dicembre, e di poterlo fare prima e dopo Natale. E, invece, altri lutti, altro dolore, altri dispiaceri si sono interposti alle mie intenzioni, al desiderio di scrivere, di stare idealmente e virtualmente con voi. Di approfondire, integrare, riflettere insieme.

Solo ora, h. 16,30, ad una settimana di distanza ho trovato la forza e il coraggio di   riaprire e accendere il computer. Ho appena riletto quanto ho scritto martedì prima del nostro incontro, e mi sono accorta di aver scritto così in fretta da non riuscire a farlo bene. Scusatemi quindi per gli errori tecnici e non, i refusi, le omissioni, i pensieri espressi male. Ho anche letto due commenti sul blog: il primo l’ho subito cancellato perché non pertinente; il secondo di Peppe Sblano non ho fatto in tempo a leggerlo in quanto l’ho cancellato per errore mentre eliminavo il primo. Mi è dispiaciuto molto perché Peppe è un prezioso interlocutore (caro Peppino, se per caso dovessi leggere quanto sto scrivendo, sappi che mi farebbe piacere se mi riproponessi il tuo ultimo intervento sul mio blog).

Ed ora sento l’urgenza di scrivere qualcosa su due parole, finite mio malgrado nel mio retino il 24 dicembre, Vigilia di Natale. Avrei voluto continuare a parlare di VIGILIA, seguendo il flusso dei pensieri sollecitatomi da Vito Di Chio, ma non è stato più possibile. Una grande ombra scura ha spento la luce dell’Attesa.

Ed ecco le due parole antitetiche che sono venute a trovarmi: DOLORE e GIOIA.

Vorrei parlarne. E voi mi darete una mano a definirli secondo il personale modo di essere e di viverli. Vorrei confrontarmi. E sarebbe una buona opportunità se ci confrontassimo insieme.

Il dolore: quando il dolore è invisibile; quando il dolore è invece udibile, senza essere dolore; quando il dolore è un segreto.

A mio parere, il dolore fisico difficilmente è visibile. Solo chi lo prova lo sente nel suo corpo, a meno che non sia invalidante e inevitabilmente visibile (esempio banale: la zoppia dovuta al dolore di uno o di entrambi gli arti). Il dolore dell’anima è anche invisibile, ma non ad un osservatore attento. Bella la pagina di Oriana Fallaci a questo riguardo: È incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce di aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare…

(Insciallah, Rizzoli, Milano 1990).

In realtà, Oriana Fallaci non parla di visibilità o meno del dolore dell’anima ma di incapacità degli altri di “capirlo” per distrazione, per superficialità, per una sorta di non cultura a prendere atto della gravità del dolore dell’anima e delle sue spesso nefaste conseguenze soprattutto nelle persone più fragili psicologicamente ed emotivamente. Il male di vivere diventa l’abisso in cui l’anima precipita senza più risorse o appigli.

C’è, al contrario, il dolore/non dolore che è solo udibile perché ha bisogno di esternazione per avere una platea di credibilità: più è inesistente e inconsistente più viene urlato ed esibito per ricevere attenzioni, premure, com-passione. Banalmente si è soliti dire: “per essere creduti”. Ed è già dramma e drammatizzazione che va al di là del dolore prezzolato delle donne preposte al lamento per i morti dagli antichi egizi, dai greci e latini fino al tardo medioevo. Ma anche nel Sud fino ad alcuni decenni fa c’era il pianto prezzolato delle prefiche: in terra d’Otranto o nella Grecìa salentina, in Calabria e in Sardegna con rituali più o meno simili o diversificati per intensità, apologia del defunto, storia della sua storia da vivo, elogio delle sue caratteristiche fisiche o delle virtù. Ci sono libri meravigliosi da leggere su queste antiche (ma non troppo) usanze. E più il defunto era facoltoso più il dolore per la sua perdita veniva urlato.

E poi c’è il dolore segreto: quello nascosto e mai raccontato, quello di una madre ai propri figli o ai propri cari. Il dolore legato all’amore oblativo per eccellenza: quello che tutto dona tranne il dolore. Che si fa silenzio e segreto. Misterioso perché vicinissimo e lontanissimo, tenuto nella prigione del cuore per “non dare pensiero”, perché non evada e dissacri quel silenzio, non spezzi catene e omertà. Le uniche catene che non fanno male, l’unica omertà che cuce la bocca per salvare il cuore. Ma è proprio così? Forse. Oppure no. Forse è un segreto custodito reciprocamente per evitare il dolore della verità che è più acuto di ogni altro dolore.

Hannah Arendt, in Tra passato e futuro (se non ricordo male), parla dei comportamenti umani che sono dettati dalla personalità, dai condizionamenti, dalle abitudini, dai contesti familiari, sociali e culturali tra passato e futuro. E parla del dolore contrapposto alla gioia: il primo è tutto in sé conchiuso; la seconda ha braccia spalancate per abbracciare il mondo che l’abbraccia.

E qui il mio commento: il dolore è spesso visibile nel comportamento ad esso sotteso con il corpo rannicchiato in posizione fetale quasi a proteggersi e a proteggere il dolore che è chiuso, personale, solitario. Come anche il volto, con gli occhi bassi o persi nel vuoto, dove neppure le lacrime trovano più posto dopo tanto disperato rincorrerle sotto una pioggia che separa ancora di più dal resto del mondo. Una pioggia di lacrime inaridite per troppa usura, per il silenzio che chiede e quello che riceve. Il silenzio basta al silenzio. E non ci sono parole da dire, da ascoltare. Ecco una preziosa testimonianza nei versi di mia sorella Lizia:

 “DOLORE”: Per comunicare il dolore/ non servono emozioni/ e sentimenti.// Il dolore non risponde più/ a clausole o veti.// Si sparge senza centro/ ti assale ribelle:/ va fuori controllo.// Dipingere il dolore/ con le parole:/ magari sapessi! (28 dicembre 2020)

Il DOLORE che annienta è muto. Non trova parole perché “va fuori controllo”. “magari sapessi!” è un amaro, disperato ottativo, reso più morbido dal verbo “dipingere”, quasi un inconscio desiderio di bellezza che le parole saprebbero regalare se non fossero prigioniere del dolore. Il dolore. Non si può realmente comunicarlo. Nonostante la presenza di tanti cari (parenti, amici reali e virtuali, conoscenti). Mancano le parole. Il Verbum!: Parola, Arca, Tempio, Tenda?  Verbum caro factum est!: la Parola che si fa carne? La Parola che ferisce e risana? Tutti si prodigano per alleviarlo il dolore e dare conforto a chi ne viene colpito, ma non è facile trovare un varco in quel grumo di corpocuoreanima che racchiude in sé il dolore rendendolo visibile, ma imprendibile, non attraversabile per la incomunicabilità che lo connota. Tutto in sé conchiuso, appunto.

La GIOIA, invece, è espansione contagiante, emozione che si dilata carica di sorrisi e di parole, di musica, suoni e canti, di corale esultanza. Esplosione misteriosa e incontenibile. Più immediata della felicità. Più radiosa della stessa felicità, che è faticosa conquista personale: mattoncino su mattoncino e nessuno che possa realmente condividerla. La gioia è pienezza di sé che cerca l’altro e l’altro per condividerla. È il nostro “vero sé” che si realizza con gli altri e per gli altri in un atto di esultanza che ha braccia/ali che volano verso il Cielo. Segno di vittoria che abbraccia l’universo fino a farsi espansione infinita nell’infinito. Dono e Preghiera che avvolge il creato e da cui ci si sente avvolti.  

Potrà mai essere l’antidoto più efficace al dolore? Non lo so. Il coraggio, forse. Una piccola luce che rimane accesa nell’anima sempre e che ci salva da ogni abisso: la SPERANZA...

martedì 22 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: martedì 22 dicembre 2020

 Ieri ho concluso parlando dell’importanza dell’amore autentico che è fonte di fiducia, di generosa solidarietà, di vita. È l’unico sentimento che ci possa salvare. E mi piace aggiungere una ulteriore riflessione, che mi proviene anche da Papa Francesco:

E l’Amore si espande in maniera esponenziale, quando lo sentiamo vibrare dentro, perché diventa Amore per la Natura, per l’Ambiente, per la Bellezza, per l’Arte, per la Vita. Tutto si fa Amore, rendendoci rispettosi del mondo che ci circonda e di quello che ci vive dentro. Innamorati, gioiosi, appagati di ciò che siamo e abbiamo. Grati a CHI ci ha fatto DONO del CUORE per darci la possibilità di AMARE. E l’Amore si fa Preghiera. Il nostro ritorno al Creatore “cum tucte le tue creature” (Cantico di San Francesco). Ma, ancor di più mi piace riportare qui, di San Francesco, “La preghiera semplice” perché, ancora più del Cantico, ci parla del vero Amore e di come si traduce in azione e non solo in preghiera. Se solo riuscissimo a farla nostra anche in minima parte, saremmo una umanità migliore. Proviamoci. E non è necessario essere credenti per apprezzare e fare nostra questa preghiera…

Oh! Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace:
dove è odio, fa’ ch'io porti amore,
dove è offesa, ch'io porti il perdono,
dove è discordia, ch'io porti la fede,
dove è l'errore, ch'io porti la Verità,
dove è la disperazione, ch'io porti la speranza.
Dove è tristezza, ch'io porti la gioia,
dove sono le tenebre, ch'io porti la luce.
Oh! Maestro, fa’ che io non cerchi tanto:
di essere compreso, quanto di comprendere.
di essere amato, quanto di amare
poiché:
Se è dando, che si riceve,
perdonando che si è perdonati,
morendo che si risuscita a Vita Eterna.
Amen.

Ecco, è il portare che fa la differenza tra “il dire e il fare”, tra “la contemplazione e l’azione”, tra “la poesia scritta e la poesia vissuta”. Certo, la narrazione è alla base di tutto questo. Solo ascoltando raccontare la vita nostra e degli altri, nel passato e nel presente noi abbiamo contezza di noi e degli altri in maniera più obiettiva e perveniamo alla “conoscenza” che ci offre molteplici stimoli e motivazioni ad agire e reagire. Per imparare a vivere attraverso le svariate forme dell’Amore, praticato sempre con autenticità. Così avviene per la bellissima silloge di poesia nei tuoi occhi… le parole diventano pietra di Gino Locaputo, con una poesia, tra le tante, che abbina la “finestra” all’“amore” che non muore. È scritta nel suo dialetto conversanese perché è soprattutto in dialetto che si parla o si scrive (per chi lo sa fare) quando si “sente” dentro palpitare l’anima. spero di prendere il coraggio a quarantotto mani per recitarla. La finestra di Gino merita di essere ricordata per quanto rimane scritto sui vetri.

Come si può notare sto anticipando qualcosa che ci vedrà insieme stasera anche perché mi giungono sempre più commenti, richieste, integrazioni, suggerimenti che dilatano il mio punto di vista e mi offrono orizzonti di indagine e di conoscenza sempre più ampi e stimolanti. Come: Carissima Angela, nella coscienza della "clessidra" che hai descritto, nel tempo che sorge dopo essere morto, nel continuo movimento di morte e risurrezione si nasconde un certo dinamismo della parola, e della poesia in particolare. Una poesia fatta di parole semplici più solide di un rifugio antiatomico. «Ho costruito un'esistenza di parole Per abitarvi. Il mondo non mi ha mai Dato una casa. "Abitabile. È solo la fede Eloquente". Sono versi di Marco Guzzi intitolati "Abitabilità". (…). Ecco che la tua clessidra cosa combina? Una nuova poesia iniziatica! Un tempo finisce, inizia un nuovo tempo. Iniziata al nuovo, sei finita al vecchio. Abbandona tutta te stessa al passato e vai incontro al nuovo che è racchiuso in una sola parola (…) in questo Eterno Gioco che è la Creazione. . .  Questo è l'amore: (…). Essere uno con tutti: circolazione di vita è il vero Mondo: Gioco senza fine e gioia nell'Eternità, che ora esplode e adesso mi risana. Amen Sempre da Peppe Sblano, che si rifà alla preghiera di Marco Guzzi. Tutte le parole omesse fra le parentesi riguardano una fede tra noi, tra me e Peppe, condivisa nel segreto del nostro cuore. Quello che rimane è un messaggio bellissimo per tutti. Ed è per questo che ve lo propongo.

E sul mio blog ho trovato altri commenti che mi fa piacere condividere con voi. Alcuni provengono da Facebook e altri da Messanger. Vi propongo i più pertinenti in questo momento: Angela condivido tutto ciò che hai mirabilmente descritto. Una poesia è il luogo dello stupore, della meraviglia, anche della solitudine... quando ti siede accanto, la poesia tiene il diario di bordo di una coscienza dell'oltre, dell'attimo colto e separato ... Noi possiamo abitare il viaggio, la vita dell'altro da noi, attraversando l'anima delle cose perché tutto è nel nostro sguardo. Grazie Angela!

E ancora: I sentimenti forti, gli stati emotivi intensi possono regalare parole mai dette né pensate anche a chi non sa giocare con le parole, a chi non sa che una parola, seppure apparentemente banale, può trasportare pezzi di cuore. E cosa accade quando la sensibilità di una poetessa fatta e riconosciuta è sollecitata più di quanto già non lo sia di suo, quando la mielina dei suoi nervi si sfilaccia e li denuda spianando la strada al dolore che con la ferocia devastante dell’invasore si appropria di ogni singola cellula del suo corpo e di ogni pensiero? Accade che la poetessa immerga le mani gli occhi la bocca il naso le orecchie nel forziere mai chiuso che custodisce le sue parole e se le regala e le regala a noi, balsamo per le sue ferite e canto di speranza per ogni cuore che avrà la fortuna di condividerle. Hai superato te stessa, Angela? Spero di no: ce ne aspettiamo ancora e ancora. Persevera nella tua imprevedibilità…ma senza farti male! (Sconosciuto)

Infine: … e fu proprio leggendo (L’uva puttanella di Rocco Scotellaro) che mi colpì un frammento che è finestra spalancata sull’immaginario contadino, squarcio di luce sul mondo in penombra dei nostri cafoni e, allo stesso tempo, epifania dell’utilità della lettura (Valentino Romano)

E vorrei concludere con un immenso grazie a Valentino, profondo studioso del Brigandaggio meridionale, per questa nuova ottica della finestra con lo sguardo rivolto ai cafoni del Sud, così empaticamente “vissuti” da Primo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli, magnificamente ripreso e commentato da Valentino Romano nei suoi vari libri sull’annoso e controverso argomento, che dovremmo davvero approfondire tra le tante “verità” contrabbandate come tali. E per l’elogio alla lettura, necessario preludio alla scrittura.

Grazie anche a Gianni Brattoli, mio cognato, che in una telefonata mi ha fatto riflettere sulle stanze che si accompagnano alle finestre e sulla vita che dentro vi pullula con tutti i suoi aspetti positivi e soprattutto negativi, di cui ho scritto sul blog proprio nei giorni scorsi...

A stasera, nella speranza di avere il tempo di parlare di quanto anticipato.

Buon pranzo. E a più tardi.

 

 

lunedì 21 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: lunedì 21 dicembre 2020

 Dicevo ieri dei colori che si colmano di azzurro, tanto cari ai poeti. E tanto azzurro catturiamo nei versi di tanti poeti alla finestra: i “lampi azzurri” in Asclepiade, “un ramicello di fiori glauchi e azzurri” in Carducci, “l’azzurro amante” fra tanto mare in Corazzini, le “fresche giunchiglie” in Soffici, “Sfuma il turchino in un azzurro tutto stelle” in Umberto Saba e in Antonia Pozzi è “una striscia dei colli tremula, azzurra”. E “gli azzurri mattini” di Sandro Penna. E il “buon vino azzurro” di Alda Merini. E la “luce riflessa del cielo” di Serricchio. Il “fiore azzurro” di Urraro. I “cieli di azzurro assoluto” di Lizia De Leo. “l’azzurro del cielo” di Giuseppe Conte. La “maglia azzurra” di Giorgio Bàrberi Squarotti. “Una luce blu, una luce così blu!” di Esenin. “l’azzurro (che) si stacca dal cielo” di Alexandru Philippide e “il mare più azzurro che mai di Titos Patrikios. “La stella nell’azzurro” e “gli orizzonti bluastri” di Baudelaire. “La bocca febbrile e d’azzurro assetata” di Mallarmé. E “un mare in pietra blu da anello” in Nazim Hikmet. E “gli intrecci di tenero azzurro” in Emily Dickinson. “La notte azzurra” in Neruda. E tanto tanto altro azzurro, non necessariamente vissuto attraverso una finestra, in tutti questi poeti e in tanti altri ancora. La poesia è, dunque azzurra. E pio si colora di celeste, blu, indaco e violetto per farci assaporare l’infinito nell’Infinito.

 Ma le finestre hanno sempre le stanze di riferimento. Ed è soprattutto qui che si gioca ogni loro metafora. È nella stanza la vita intima e segreta di ogni abitante, di ogni oggetto e persino dei muri. È qui che palpitano sogni e delusioni, che fioriscono amori e prendono il primo cammino i lunghi addii. E qui che si ride e si piange di più, si litiga e si fa l’amore. Qui che si diventa schiavi di abitudini dure a morire, che rallentano i nostri passi di libertà. E la solitudine e la disperazione si fermano ai davanzali senza saper/voler andare lontano. È qui che ci domina la tradizione a impedirci la sana ribellione e il riscatto, il rinnovamento di pensieri, comportamenti, atteggiamenti. La possibilità di cambiare. Si perpetua l’ipocrisia e serpeggia il malcontento. E qui che si rimane se non sentiamo dentro rabbia e dolore e amore e desiderio e determinazione a scendere giù e varcare la soglia, unica vera via di fuga per tornare a guardare il cielo e scoprirlo azzurro come non mai. E si può riprendere a lottare, a scoprirci diversi e nuovi nella voglia di andare, in bilico sempre tra Ulisse e Nessuno, tra sirene e terre di Ciclopi, fino a scoprire l’urgenza di rivedere Itaca, l’eterno ritorno alle radici del cuore che solo l’Amore vero promette senza inganni e senza fatica.

Solo l’AMORE può…

E domani si parlerà d’amore e dei sogni che sempre sono fedeli compagni di ogni andata con destinazione ritorno.  

 

domenica 20 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: venerdì-sabato-domenica 18-19-20 dicembre 2020

 Non è stata la giornata adatta per parlare della splendida antologia Poeti alla finestra a cura di Nicola Pice, con Introduzione del curatore, Sinossi ragionata di Raffaele Urraro e Postfazione di Michele Bracco con il suo “sguardo filosofico-paranoico”. E una immagine di copertina di Domenico Sforza “Casa tra le nuvole”, poetica e prismatica, rivisitata dal talento di Nicola Piacente, Graphic Designer della nostra Casa editrice. Troppe notizie negative mi stanno attanagliando in questi giorni, divorando serenità e lucidità della mente e del cuore. Avrei voluto/dovuto scegliere uno-due versi degli Autori pugliesi a me cari (Primo Leone, Lizia De Leo, Vittorio Bodini, Cristanziano Serricchio, Domenico Luiso, Giuseppe Moretti, Michele Campione, Tommaso Di Ciaula) per fare brevissimi commenti sulle metafore delle loro finestre tradotte in Poesia, ma ero molto provata (al di là del mio essere per natura sempre sorridente e accogliente qualunque cosa accada), e ho preferito non rischiare e andare “sul sicuro” con riflessioni più volte affrontate e scritte in precedenza anche su “la poetologa” e, invece, in realtà mi sono impantanata ancora di più, perdendo parole e pezzi di me via via in frantumi. Mi sono arrampicata sugli specchi piuttosto che afferrarmi saldamente al parapetto delle finestre a farmi da paracadute. E rubando invano minuti e ancora minuti… beh, è andata più o meno così e non si è potuto rimediare. È il bello/brutto della diretta. Dopo, mi sono rincuorata per i vostri commenti sempre benevoli nei riguardi di ciò che dico e scrivo. Avrei dovuto continuare ieri e poi pubblicare, ma altre brutte notizie mi hanno davvero chiuso il cuore in una morsa. Questo terribile anno si sta rivelando devastante fino alla fine…

Riprendo oggi, domenica, dopo la tenerissima lettera pervenutami su Messanger da una meravigliosa creatura, Adelaide Lauta, a cui chiedo perdono se, senza permesso, ritengo giusto pubblicarla, non per mia vanagloria (non è proprio il caso né il momento giusto), ma per prenderla come stimolo a riprendere forza e coraggio per andare avanti, nonostante tutto: Dolcissima e indimenticabile professoressa Angela AUGURI di ogni bene. Ogni qualvolta leggo i suoi poetici pensieri mi ritornano in mente le ore trascorse in sua compagnia durante le lezioni di preparazione al concorso. Sono state le più belle e indimenticabili lezioni di vita. La Sua carica materna traspariva quotidianamente e mi incoraggiava a far sempre meglio. Se nella vita i ragazzi/e che frequentano la scuola avessero incontrato Lei come docente il mondo sarebbe stato sicuramente migliore. Onorata e fortemente affezionata La saluto. Un abbraccio. Adelaide Lauta. Le ho risposto: Grazie, Adelaide carissima. In giorni bui come questi, parole tenerissime come le tue fanno bene al cuore, danno coraggio e forza per continuare a testimoniare che possiamo farcela a vincere il Male di qualsiasi genere. Occorre essere insieme, responsabili e solidali. “Nessuno si salva da solo” detto e ripetuto da più parti. Anche con autorevolezza. Con tenerezza. Grazie ancora. Ricambio gli AUGURI. Con un abbraccio immenso…Ebbene, questo scambio di affetto reciproco è molto di più del commento di una o più parole del mio “retino”. È la testimonianza di un rapporto empatico che va ben oltre lo spazio e il tempo, l’attraversamento di una finestra. Diventa attimo puro di qualcosa che rimane e diventa memoria. Anzi - meglio - ricordo di noi che si proietta nel futuro. E, a questo proposito, ieri abbiamo fatto una diretta su “I doni dei libri sotto l’Albero di Natale”, con Raffaella Leone a coordinare gli interventi di Vito Di Chio e Giovanni Romano, due saggisti di grandissima cultura e di rara sensibilità poetica, saggisti che, con la SECOP Edizioni, hanno pubblicato recentemente Una finestra aperta sui sogni e Poesia: l’invincibile presente. E c’è stata, nello stesso contenitore letterario, anche la presentazione della silloge di poesie Alle radici dell’erba di Elina Miticocchio, altra protagonista dell’incontro. E c’ero io. Ebbene, tutti hanno avuto parole di rara bellezza per parlare dei loro libri. Ma io desidero riportare le seguenti parole di Vito Di Chio, in profonda connessione con quanto vado scrivendo: Kant ci offre un imperativo categorico dicendo agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare ricordo. E “ricordo” è fatto di tre momenti: ha al centro il “cor” (cuore), davanti il ricorsivo e reiterativo “ri” e alla fine “do” in senso di dono di sé agli altri dal piccolo ambiente che ci circonda fino a farsi memoria universaleE sto cercando di ricordare appunto, perché ritengo queste parole davvero preziose. Il dono del ricordo! È questo dono che Adelaide mi ha mandato stamattina e non sa fino a che punto sia stato un dono giuntomi dal Cielo per sua mano. Per non farci sentire mai soli neppure in questo isolamento sociale. E per ricordarci che insieme possiamo davvero essere gocce dello stesso mare, che i giovani devono imparare a navigare per scoprire orizzonti sempre più ampi…

Ma, riprendendo a sfogliare le pagine di Poeti alla finestra che io ho già definito un libro corposo, che racchiude un immane lavoro di ricerca e documentazione, durato certamente anni, e che Nicola Pice ha svolto con l’impegno e la dedizione che la grande passione e la straordinaria conoscenza letteraria, in senso diacronico e sincronico, comportano. Venerdì mi chiedevo: Perché Nicola ha scelto le finestre come punto di osservazione del mondo? Perché il suo saggio critico si riferisce ai poeti e non agli scrittori, pur facendo nella Introduzione esempi tratti da Verga, Soffici, Pessoa? Rispondo ora un po’ più lucidamente, spero. Per quanto riguarda il primo interrogativo, credo di poter rispondere per lui, seguendo però le sue parole introduttive: perché la finestra, vista come metafora della vita e non solo, in quanto riguarda anche i vari modi di osservarla, viverla, interpretarla, comprenderla, è l’ideale punto di osservazione che sintetizza nel suo rettangolo l’intero Universo. E l’esergo che riguarda tutta l’opera è, non a caso, di Italo Calvino, in Palomar: Dunque: c’è una finestra che si affaccia sul mondo. di là c’è il mondo; e di qua? Sempre il mondo. cos’altro volete che ci sia?... E dato che c’è mondo di qua e mondo di là della finestra, forse l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondoPer il secondo interrogativo, intanto, mi sembra opportuno citare una frase del poeta russo Josif Brodoskji: Il poeta cammina sull’erba, lo scrittore sulla terra. In pratica: il poeta ha bisogno di “sentire” con i cinque sensi + uno, ossia il sesto senso, che gli appartiene in particolar modo, camminando su qualcosa di morbido che pure tocca con i piedi, ma gli sfugge perché ondeggia, cambia colore e profumo, si trasforma nei colori e nella consistenza, nasconde e ricopre, si realizza nell’ineffabile e nella bellezza. La terra è più concreta, solida, materica. Può bastare solo lo sguardo a descriverla e può essere osservata, pensata e descritta in tempi lunghi con un misto di storia e fantasia. Lo scrittore osserva, pensa, racconta. Il poeta viene “sorpreso” da una   folgorazione che è “sintesi del sublime” (Burke). Anche le parole di Dylan Thomas sono calzanti: è difficile pettinare il mare, cioè riportarlo ad un’unica direzione, ad un unico universo di senso perché ogni onda è un pensiero che nasce e cresce su sé stesso, ma coesiste nelle acque con le altre onde che prendono direzioni diverse a seconda del vento che le smuove e le trascina tra l’orizzonte e la riva. Ma ogni orizzonte si frastaglia in numerose direzioni fino a farci volgere gli occhi verso l’alto e incontrare il cielo (fisico e metafisico: non sono le finestre di De Chirico metafisiche?).

Nicola Pice parte da lontano, motivato dalla sua cultura classica a trecentosessanta gradi e la prima meravigliosa finestra è tratta dal Cantico dei Cantici. Quindi, dal mondo greco antico e da quello latino per giungere fino ai nostri giorni, percorrendo l’intero pianeta alla ricerca di finestre che abbiano metafore diverse e rincorrendo   poeti che servano a testimoniare con i loro versi l’essenza di ogni metafora che dà  connotazioni e funzioni spesso ossimoriche ad ogni singola finestra: quest’ultima è “l’io che si fa finestra”, “luogo del racconto di sé”, “misurazione e rivelazione del tempo che passa”, “spartiacque tra l’io e il tu”, “cerniera di introspezione”, “diaframma tra la stanza e il mondo”, “linea magica di confine tra mondi diversi”, “è attraversamento  della luce a rischiarare il buio” (ma non avviene, come già detto, il contrario), “luogo simbolico della poesia contemporanea” (Fortini, commentando Brecht), pur essendo per pochi amanti del linguaggio poetico. E tra le sue ossimoriche funzioni occorre ricordare che la finestra “unisce e divide il dentro/fuori”, “protegge e imprigiona”, “si oppone al buio, ma lascia passare la luce”, “nasconde e svela l’anima di chi è dietro i vetri”. Sono tutte metafore catturate nella Introduzione di Nicola Pice o nella Sinossi di Urraro e fatte mie. In riferimento alle tante poesie riportate e commentate con fascinosi, profondi e dettagliati commenti critici e i relativi diversificati linguaggi, fino alle voci dialettali dei grandi poeti italiani del Novecento: Ci sono la finestra-incanto e la finestra-prigione (p. 140, le due poesie di Alda Merini). C’è la finestra-respingente che esclude il mondo esterno (Marino Moretti, p.75) e quella metafisica che lascia filtrare la luce dalle imposte chiuse: luce che illumina il buio interiore (Mauro Sambi, p. 108). La finestra-madre che protegge gli abitanti della casa (Luzi, p.92). La finestra ruffiana che rivela ed espone nudità e amori lussuriosi (Ovidio, p.30). La finestra-memoria di Natalia Ginzburg (p. 44) La finestra inerte dell’assenza dell’anima (Rebora, p.72).

E quanto azzurro scopriamo attraverso le finestre. I poeti si vestono d’azzurro e di blu, d’indaco e violetto, che sono i colori dell’Anima individuale e della grande ANIMA universale. Come non ricordare colui che suona sulla “chitarra azzurra” di Wallace Stevens o la “grigia e azzurra soavità” e le “frecce cadute dall’azzurro” di Garcìa Lorca? Ma si sta facendo sempre più tardi. A domani altri ragguagli su finestre, poeti e la loro sublime azzurrità senza scampo. Ciao.

 

 

 

 

 

venerdì 18 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: venerdì 18 dicembre 2020

Non ho voluto contaminare, con altre mie elucubrazioni sulla pioggia, la grandezza poetica di due Astri della Poesia di tutti i tempi e spazi del nostro Pianeta.

Ora, però, su questa mia nuova pagina desidero focalizzare ancora qualche altro volto inconsueto della parola che stiamo leggendo sotto la luce della nostra lente d’ingrandimento. E allora voglio ricordare che la pioggia, in senso punitivo, la troviamo nel Diluvio Universale, ma anche in senso salvifico quando Dio stringe un patto di alleanza con Noè e gli concede di salvare dalle acque gli animali che dovranno ripopolare la Terra (Bibbia). Poi, come segno di rinnovata Pace fa fiorire nel cielo in un tripudio di colori l’arcobaleno, mentre una colomba torna col ramoscello d’ulivo nel becco (ma non ho tempo di documentarmi e non so se sono solo mie suggestioni di bambina. Può essere un invito a correggermi o a fare una ricerca!). Dante punisce i peccatori, nel sesto canto dell’Inferno, con la pioggia eterna e maledetta, fredda e pesantemente cupa. E forte e greve, con il suo scroscio violento, la ritroviamo nella scena dello sfratto in Uno nessuno e centomila di Pirandello: in questo caso, sollecita bestemmie e tafferugli. In Manzoni, invece, col suo lavacro salvifico, accompagna Renzo sopravvissuto a tante sventure fino a ridonargli nuove forze per rigenerarsi e rinascere a nuova vita, mentre in Salvatore Quasimodo si fa fenomeno atmosferico interiorizzato fino a diventare vera e propria invocazione, in “Preghiera alla pioggia”, come caldo invito a trasformare gli orrori della guerra e di Auschwitz in un tepore nuovo e benefico che solo la casa con la pioggia “di prima sera” può accogliere in un atto di redenzione e perdono. In Flaubert essa è metafora dell’innamoramento privo di passione, ma lento e testardo come l’acqua che cade con monotonia, e penetra nel cuore fragile di Madame Bovary, scavando rigagnoli di insoddisfazioni e di attese deluse. In Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, ritorna la pioggia violenta, a riportare la città di Macondo allo stato di caos primigenio. In Verga è sempre metafora della solitudine esistenziale dei “vinti”, che non sanno aprirsi al Cielo. Ma staremmo a parlarne all’infinito. E lo spazio/tempo anche sul mio blog mi suona la musichetta dello STOP. Però anche qui non posso ex abrupto lasciarvi così, con tutte le parole, legate alla pioggia, che riempiono il mio retino e di cui, potendo, torneremo a parlare. Come mi piacerebbe parlare dei pittori che hanno eternato la pioggia nei loro dipinti (si pensi a Renoir), o dei fotografi che, in uno scatto improvviso, la rendono eterna e ripetibile. O, ancora, la pioggia in tanti capolavori cinematografici, (Colazione da Tiffany, Il profumo del mosto selvatico?), a Teatro, nell’opera lirica… Spero davvero di poterne parlare.

Ma ora, per tornare a Francesca Pice e al suo “racconto epifanico di acqua e di parole”, vorrei ricordare le espressioni: cade una pioggia di stelle, cade una pioggia di insulti, cade una pioggia di parole, di lacrime, di sorrisi, di grazie, di benedizioni, di maledizioni, e così via. In un profluvio senza fine. La pioggia, tra l’altro, è un pieno-vuoto/pieno-vuoto come la vita che ogni giorno si colma di infiniti attimi di esperienze esistenziali e ad ogni alba ha una pagina bianca da riempire con parole che traducono in racconto pensieri emozioni sentimenti di ogni attimo vissuto. Ricordi individuali e Memoria collettiva o universale. L’acqua portatrice di memoria. Cade e si fa pozzanghera, ma anche rigagnolo fiume torrente cascata mare oceano vapore nuvole. E il suo ciclo vitale ricomincia. In caduta libera. Per risalire al cielo. In un eterno gioco di rinnovamento… E vorrei, con Francesca, e con tutti voi, concludere con un divertissement sulla parola pioggia: P = inizio del primo filo d’acqua che cade dalla nuvola a dividerci dal mondo reale. i = sospensione lieve a metà tra terra e cielo. o = è una goccia bambina che scopre con meraviglia il prodigio della trasformazione. gg = sono nuvole che si aggregano per precipitare con intenso scroscio ed è già temporale. i = un ripensamento amletico (cadere o non cadere?). a = germoglio di arcobaleno che fiorisce nel cielo, facendosi spazio tra le nuvole per darci la gioia di scoprire e riscoprire la luce e il sogno, la speranza di nuovi domani… Con totale aderenza al grafema? Forse.    

E, continuando: che dire delle canzoni ispirate dalla pioggia? Tantissimi i cantautori italiani e stranieri: da Domenico Modugno a Fabrizio De Andrè, da Pino Daniele a Gilbert Bécaud a Liza Minnelli, Gene Kelly… e anche qui devo stopparmi. Vorrei solo accennare alla luce che spesso si accompagna alla pioggia: abbiamo già parlato della rifrazione della luce nelle gocce sospese nell’aria dopo un temporale a regalarci l’arcobaleno. La pioggia che si fa luce tra i rami stillanti di gocce in sospensione. La pioggia che nelle pozzanghere riflette il cielo e raccoglie le stelle dopo una notturna schiarita. Ma le stesse parole poetiche con o senza pioggia sono illuminate dalla luce. M’illumino d’immenso di Ungaretti vale tutto l’Universo in una “Mattina” di sole. La stessa Poesia è Luce. Illuminazione. A gennaio parleremo ancora di PIOGGIA e di LUCE. Si sollecitano commenti integrativi per arricchirci sempre più di altre chiavi di lettura a confronto. Ma stasera parleremo di POESIA. Questa volta facendola volare dalle finestre aperte. Trattenendo a viva forza i POETI che non possono/non devono volare via... Ed ora proprio ciao. A stasera. Ore 19.

 

 

 

 

giovedì 17 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: giovedì 17 dicembre 2020

E riprendo con la pioggia di Garcia Lorca. Anche mettere in “relazione” due testi poetici di due grandissimi della Letteratura mondiale è arricchirci di POESIA e di PAROLE, in questo caso di “stilemi” che connotano i due Poeti e ci guidano nella ricerca di quel “ritmo interiore”, di quel “canto dell’anima” che solo entrambi possiedono e li rende GRANDI.

La pioggia ha un vago segreto di tenerezza

Una sonnolenza rassegnata e amabile,

una musica umile si sveglia con lei

e fa vibrare l’anima addormentata del paesaggio.

 

È un bacio azzurro che riceve la Terra,

il mito primitivo che si rinnova.

(…)

È l’aurora del frutto. Quella che ci porta i fiori

e ci unge con lo spirito santo dei mari.

Quella che sparge la vita sui seminati

e nell’anima tristezza di ciò che non sappiamo.

La nostalgia terribile di una vita perduta,

il fatale sentimento di essere nati tardi,

o l’illusione inquieta di un domani impossibile

(…)

E son gocce: occhi d’infinito che guardano

il bianco infinito che le generò…

(stralci della poesia “Pioggia”, presenti nel I volume del mio romanzo Le piogge e i ciliegi, SECOP Edizioni, Corato-Bari, 2018, pp. 10-11)

Notevole è la differenza contenutistica e stilistica tra la PIOGGIA di Paz e quella di Lorca. Dalla più evidente (la punteggiatura) alla più sottile e nascosta (la visionarietà del primo, il surrealismo del secondo; le metafore scoperte e chiare del primo, quelle ardite e a cometa del secondo; l’esaltazione piena di contrastanti sensi, partecipi dell’istante puro, in Paz, e il mistero del passato, in cui è riposta la felicità innocente e vera della “rosa” (e qui il riferimento alla teoria bellissima di questo tenero e immarcescibile fiore lorchiano), che prelude all’angoscia di un presente trafitto e straziato per quanto non ci è possibile conoscere e che sfocia quasi inevitabilmente nella alienazione verso un futuro che potrebbe non accadere, in Lorca). Garcia Lorca, del resto, conserva in sé il romantico gitano che arde d’amore e brucia di ardenti passioni sotterranee e oscure in ossimorico contrasto con alcune azzurre illuminazioni del cuore, dovute anche alla straordinaria vicinanza con Jiménez… Ma in lui è sempre presente il canto teso e drammatico di “una vita perduta”, in Paz la visione panica della donna amata che rifulge in improvvise sciabolate di luci ed ombre a rendere pieno l’ascolto della pioggia che si colma di sillabe e di parole in uno spazio-tempo presente ed eterno. Nel Poeta spagnolo l’infinito vive di immagini evocative e misteriose, placantesi solo nel silenzio millenario, che si rigenera come la luna negli occhi di pura luce di un bambino, il miracolo di un sentimento che può rendere eterno il fluire dell’esistenza sulla Terra. Suggestioni fortemente liriche le sue. Nel Poeta messicano, l’infinito è un istante che sfiora l’eternità, andando l'oltre e l’altrove. Ma in Paz e Lorca ritroviamo la potente “relazione” tra le due diverse musicalità interiori in ascolto della pioggia che cade lenta e sonnolenta; la compenetrazione continua tra sogno e realtà; le personificazioni che si incarnano sempre nello sguardo (occhi d’infinito che guardano/ il bianco infinito che le generò… in Lorca), (con gli occhi aperti verso dentro… la notte si apre e mi guarda… in Paz).

E sarebbe interessante approfondire anche L’école du regard, sorta in Francia tra gli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso. Portò, come sappiamo, la visione dello sguardo a estremizzazioni che, per fortuna, improntarono la scrittura di poeti e romanzieri solo per qualche decennio. Ma parlarne potrebbe offrirci la possibilità di una nuova “visione” del mondo che ci circonda e del nostro mondo interiore, che si traducono in innumerevoli parole.

Molto altro ancora si potrebbe dire, invece, su questi due Poeti e sulla loro Pioggia, ma confido nei vostri commenti che possono darmi altre chiavi di lettura sempre molto preziose e arricchenti.

E, intanto, domani venerdì 18 dicembre, il nostro nuovo incontro riprenderà ad affacciarsi alle FINESTRE per riproporre la loro Magia con POESIA. Vi auguro una serena serata con un grande abbraccio. A domani. Ciao.

mercoledì 16 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: mercoledì 16 dicembre 2020

Cara Angela, sarebbe bello se il tuo retino provasse a catturare un po’ di PIOGGIA, soggetto a me particolarmente caro. Essa è inafferrabile: non si può imbrigliare la pioggia, come non si possono contenere le parole. Ma cos’è la poesia se non un flusso incessante di sensazioni che ci attraversano e ci affascinano come un’odorosa pioggia estiva o un rovescio primaverile ubriaco di sole? La pioggia si fa sempre epifania di un racconto unico e irripetibile. Assolti i tre presupposti della “nominazione” (e la pioggia ha un nome bello che sa di qualcosa che cade copiosamente e fa rumore, ma che è anche suono, musica, canto, danza), della “derivazione” o “ricerca-azione”, indagine sulle sue radici e sulle sue foglie (e sappiamo che deriva dal latino, ma che anche ha dilatato via via i suoi rami attraverso le varie dominazioni che ne hanno ferito e inciso il tessuto originario, compresi gli innumerevoli dialetti della nostra lunga penisola), e della “significazione”, che tanta parte ha nella Pioggia di Francesca e nei miei due volumi (a cui se ne aggiungerà nel 2021 il terzo e conclusivo) del mio romanzo Le piogge e i ciliegi, scopriamo che in questa parola ci sono tutti i volti delle piogge: la pioggia, che calma e rasserena e porta allegria e salva, e la pioggia che distrugge, testimone di perdite e lacrime, di disperazione e allontanamento, incomprensione e devastazione, di perdita si sé e delle stesse parole. La pioggia, con tutte le sue contraddizioni e le sue dispersioni: infatti, purifica e infanga, distrugge e fa sperare in nuovi domani, isola e unisce, nasconde e rende visibile una pena. Ma è anche soffusa di malinconia o attanagliata di nostalgia. Pittori e poeti, artisti, registi, cantautori l’hanno vissuta e la vivono spesso in maniera esaltante. Fonte perenne di ispirazione, si ferma nelle pagine della letteratura, emozionando la penna di chi l’ha vista semplicemente venire giù dal cielo, o mentre riflette il cielo nelle pozzanghere, magari riaccendendolo di stelle. Per molti è semplice fenomeno atmosferico, ma per chi ha una mente creativa è   forza della natura che si carica di mistero. E la creatività ci restituisce questo mistero con sfumature diverse, accendendolo persino d’azzurro e di luce (come fa Garcia Lorca), anche se la giornata è grigia e monotona per la fitta pioggia che viene giù. E la mente va subito a “La pioggia nel pineto” di D’Annunzio, una poesia ricca di suoni, sinfonie, canti ed incanti panici che l’ironia di Eugenio Montale, nella sua poesia “Piove” (da Satura II, 1970) distrugge: la sua pioggia è soltanto uno stillicidio monotono che caratterizza una vita noiosa, disillusa e pessimista, in un mondo senza profondità culturale ed emotiva. La “natura” non rientra negli interessi degli uomini del suo tempo. È l’anello mancante perché l’uomo contemporaneo riscopra la sua umanità al di là della retorica dannunziana, che creò il mito negativo del “superuomo” con le nefaste conseguenze che sappiamo. E qui occorrerebbe fare un riferimento anche a Nietzsche… ma ne verrebbe fuori un trattato fuori tema. Opportunamente desisto. Francesca mi scrive ancora: Sono tantissime le poesie sulla pioggia che mi stanno a cuore, a cominciare dai versi di Lorca contenuti nel tuo bellissimo romanzo. Te ne potrei citare un’infinità… ma mi limito a questa, per me immensa, del grandissimo Octavio Paz “Come chi ascolta piovere” (traduzione di Ernesto Franco) da Albero interiore (1976-1987 in Octavio Paz Il fuoco di ogni giorno, Garzanti, 1992… PS.: la musicalità che ha in lingua originale è ineguagliabile. Come dice Paz, la parola poetica può rivoluzionare il mondo! La trascrivo così come mi è stata da Francesca inviata per godere insieme della sua bellezza: 
“Ascoltami come chi ascolta piovere”
Ascoltami come chi ascolta piovere,
né attenta né distratta,
passi lievi, pioviggine,
acqua che è aria, acqua che è tempo,
il giorno non finisce di andarsene,
la notte non arriva ancora,
figure della nebbia
nel voltare l’angolo,
figure del tempo
nell’ansa di questa pausa,
ascoltami come chi ascolta piovere,
senza ascoltarmi, ascoltando ciò che dico
con gli occhi aperti verso dentro,
addormentata con i cinque sensi svegli,
piove, passi lievi, rumore di sillabe,
aria e acqua, parole che non pesano:
ciò che fummo e siamo,
i giorni e gli anni, questo istante,
tempo senza peso, pesantezza enorme,
ascoltami come chi ascolta piovere,
lampeggia l’asfalto umido,
il vapore si alza e cammina,
la notte si apre e mi guarda,
sei tu e il tuo sembiante di vapore,
tu e il tuo volto di notte,
tu e i tuoi capelli, lento lampo,
attraversi la strada ed entri nella mia fronte,
passi d’acqua sopra le mie palpebre,
ascoltami come chi ascolta piovere,
l’asfalto lampeggia, tu attraversi la strada,
è la nebbia errante nella notte,
è la notte addormentata nel tuo letto,
è l’ondeggiare del tuo respiro,
le tue dita d’acqua bagnano la mia fronte,
le tue dita di fiamma bruciano i miei occhi,
le tue dita d’aria aprono le palpebre del tempo,
sgorgare di apparizioni e resurrezioni,
ascoltami come chi ascolta piovere,
passano gli anni, ritornano gli istanti,
senti i tuoi passi nella stanza vicina?
Non qui né là: li senti
in un altro tempo che è proprio ora,
ascolta i passi del tempo
inventore di spazi senza peso né luogo,
ascolta la pioggia scorrere per la terrazza,
la notte è ormai più notte fra gli alberi
fra le foglie si è annidato il fulmine,
vago giardino alla deriva
   -  entra, la tua ombra copre questa pagina.
E vale la pena di fare un rapido commento critico-poetico: innanzitutto occorre rilevare, già nel titolo che anaforicamente si ripropone in tutta la poesia, la poco frequente figura retorica del poliptoto molto suggestivo (ascoltami… ascolta…), che si traduce subito in accorata preghiera verso la persona amata, vissuta attraverso la stessa pioggia. Poi: l’uso esclusivamente della virgola per tutto il componimento poetico a ri-creare lo stesso ritmo cadenzato della pioggia da ascoltare in tutte le contraddizioni spazio-temporali che essa trascina con sé nella caduta e nella mente visionaria del poeta che sembra far sua, anche lui!, la teoria del prisma di Borges, a cui abbiamo dedicato un incontro col mio “retino delle parole”. E, come si può notare, anche le parole catturate nel retino, grazie anche a voi, subiscono la rifrazione prismatica tanto da moltiplicarsi non in una sequela di specchi, ma con innumerevoli sfaccettature che sarebbe bello e utile analizzare, anche perché è una teoria che mi affascina e che cerco di praticare da quando sono “maggiorenne” nella mia scrittura in prosa e in versi... Ma, tornando ai versi di Octavio Paz (tra l’altro, Premio Nobel per la Letteratura nel 1990, e una serie interminabile di altri Premi tra cui quelli riguardanti la Pace, la Libertà, la rinnovata Umanità ecc. ecc.), di grande suggestione stilistica ed emotiva è la reiterata contraddizione che rende tutto vero e visionario nello stesso tempo (ascoltami come chi ascolta piovere,/ senza ascoltarmi, ascoltando ciò che dico/ con gli occhi aperti verso dentro,/ addormentata con i cinque sensi svegli,/ piove, passi lievi, rumore di sillabe,/ aria e acqua, parole che non pesano:/ ciò che fummo e siamo,/ i giorni e gli anni, questo istante,/ tempo senza peso, pesantezza enorme…) e azzera spazio e tempo e li fa rinascere nell’“attimo” che non muore e si fa eterno (questo istante). E le personificazioni e le fascinose diversificazioni della visione delle dita della donna amata (le tue dita d’acqua bagnano la mia fronte,/ le tue dita di fiamma bruciano i miei occhi,/ le tue dita d’aria aprono le palpebre del tempo,/ sgorgare di apparizioni e resurrezioni…), ciò che appare in un lampo e che fa rinascere, fino all’ascolto dei passi e allo scorrere dell’acqua in una percezione quasi onirica di dati visivi e uditivi, che rendono reale e dinamica una pioggia così contraddittoria che annulla e ripropone e salva. Fino all’ultima preghiera che è un inno alla donna e alla scrittura e all’amore ( - entra, la tua ombra copre questa pagina.). 
Con l’unico punto posto alla fine, quasi a dare il signum della veridicità dell’ascolto… Come tacere di fronte a tanta bellezza? E mi piacerebbe ricevere altri commenti interpretativi su cui riflettere e di cui fare tesoro. Non a caso, Peppe Sblano, riportando il discorso della parola a “coscienza” e poi alla “pioggia” mi suggerisce:… 
Quando pronunci la parola la dedichi all'altro. La coscienza della parola è di natura relazionale, tant'è che San Giovanni il Battista per umiltà paragonò sé stesso ad una "voce che grida nel deserto". Cosa c'è di più inutile del pronunciare una parola in un deserto? La coscienza presuppone la relazione con chi contestualmente ti ascolta e ti interpella. COSCIENZA e Relazione sono due parole interconnesse e inseparabili. Purificare sé stessi sotto la pioggia presuppone l'inseparabilità delle parole acqua e pioggia. Ma sulla parola Relazione sarebbe utile un discorso a parte. Un abbraccio, Peppe 
Sono decisamente d’accordo con lui. La parola presuppone sempre una Relazione, come ho puntualizzato anche in precedenza sul mio blog, altrimenti sarebbe inutile e sterile. Mi auguro che si possano insieme approfondire, ora a distanza e poi da vicino, queste tematiche così ampie, complesse e affascinanti, che da più parti mi si sollecita ad affrontare. Lo fa con una bellissima lettera anche Vito Di Chio (ometto volutamente titoli accademici perché ritengo che nel mio retino e nel mio blog siamo tutti PERSONE perlopiù amiche che amano confrontarsi, approfondire, appassionarsi al bello e al vero): 
Carissima Angela, (…). È proprio vero, il tuo atteggiamento di fondo in questa delicata operazione del “Retino delle parole” continua a rivelarsi “esploratore”, proprio come suggeriva il grande T.S. Eliot: “Gli uomini (le donne incluse! – nota mia!) di età hanno da essere esploratori” (Old men ought to be explorers). È quella che tu chiami “azione di ricerca” e che tu consegni ai giovani, a quanti ti ascoltano e ti leggono. Non è però un semplice “passaggio di consegne”, non un “pacchetto di belle conoscenze” o di “belle parole” da affidare alle nuove generazioni, ma è ciò che io sento come “fuoco interiore della ricerca” fatta assieme a chi si mette in cammino con te e che sa apprezzare questo nostro “essere l’uno con l’altro”. L’io non scompare, ma – come osserva Carlo Ossola – l’io si fa “plurale” con le parole-tenda. E qui si riferisce al nostro grande comune amico e mago della Parola, il poeta Paul Celan, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. Nella poesia “Anabasis” egli evoca così questo passaggio dall’io al Noi: Visibile, udibile liberante Parola-tenda: insieme “Dal momento in cui cominciamo a munirci di ‘parole-tenda’ – commenta Carlo Ossola - immediatamente la realtà disegna in noi un ‘io plurale’, dove l’ego deve far tenda con altri, dove l’io diviene altrui”. I tuoi stimoli, le tue motivazioni a confrontarsi con le parole e con il Logos che le anima vanno in questa direzione. Grazie. E cosa è la Relazione se non tutto questo? A Vito ho risposto: Hai colto pienamente il mio pensiero, derivato proprio da Carlo Ossola che citerò ancora. Vado in quella direzione: il “tu” non sminuisce l’“io”, anzi lo rafforza nella piena consapevolezza che, se non c’è dialogo non c’è confronto, e non sopravviene il senso di responsabilità di ogni nostra azione nei confronti degli altri… Grazie. Ne riparleremo. E davvero mi preme mantenere queste promesse. Speriamo solo di averne il tempo e la possibilità… Ma, intanto, per oggi non posso continuare a parlarvi di letteratura, di pioggia, di libri e autori, così come mi piacerebbe fare, né posso riportare gli stralci della poesia di Lorca sulla pioggia appunto, come promesso. Non mi sembra giusto tediarvi così a lungo (e lo dico veramente e non per strappare consensi o applausi a scena aperta: tra di noi vige il senso dell’autenticità del nostro “camminare insieme”), ma domani continuerò a scrivere nella speranza che abbiate un po’ di tempo e di spazio, nell’arco della giornata, per la vostra poetologa. Grata sempre. A domani. Con un abbraccio. 






domenica 13 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: domenica 13 dicembre 2020

 Come già detto, prima di analizzare la parola COSCIENZA, mi sembra giusto puntualizzare quali, per me, siano i presupposti da tener presenti per mettere a fuoco ogni parola pescata dal retino. Occorre, a mio parere, fare almeno tre operazioni importanti, ma sempre con sorridente leggerezza, come se le parole siano piume da “maneggiare con cura”. E con grande rispetto per l’atto linguistico che andiamo ad operare ogni volta che prendiamo in esame una parola che ha un nome. Per esempio, “coscienza”. Ogni volta il nostro interesse si trasforma in AZIONE di RICERCA per saperne di più.  
-          Partire dalla NOMINAZIONE: secondo la Genesi 1 e 2, Dio delegò Adamo a dare il nome ad ogni cosa, agli animali della terra, ai pesci del mare e agli uccelli del cielo. Il nominare è un atto di una potenza unica. Significa dare identità e valore ad una persona o ad un oggetto… significa ti conosco e riconosco. Mi sei caro e mi prenderò cura di te. Fondamentale per ciascuno di noi è il RICONOSCIMENTO. Ciascuno di noi ama essere riconosciuto nella sua identità e dignità di PERSONA. E, a ben guardare, anche le parole. Perché hanno un’anima ed esigono rispetto, comprensione, amore, cura. Attenzione alla loro pienezza e veridicità. Alla loro polisemia e visionarietà.
La prima nominazione del mondo costituì la perfetta aderenza della parola all’oggetto. Questa aderenza però si è andata sempre più perdendo con il processo di concettualizzazione e di teorizzazione fino ad essere completamente ribaltata, soprattutto verso la fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento. Si pensi alle Avanguardie di inizio secolo e alle Neo-avanguardie di fine secolo. Agli Sperimentalismi vari che hanno sempre più privilegiato il significante al posto del significato, svuotando la parola del suo contenuto.
Ma, tornando alla “nominazione”, al di là del riferimento biblico, a me piace dare un significato psicologico ed empatico a questo termine. Chiamare per nome è, infatti, un atto di particolare attenzione verso la persona a cui ci si rivolge, che immediatamente avverte un legame, un sentimento di gratitudine e di affetto. “Io sono visibile” all’altro, ci vien fatto subito di pensare e sentiamo accrescere in noi una sorta di benevolenza, di appartenenza, di autostima. Sono considerato. Non passo inosservato. C’è chi si ricorda il mio nome, che è la mia prima identità.
Lo si fa anche a scuola, con i bambini ed è bellissimo.
Segue la DERIVAZIONE che ho commutato in RICERCA-AZIONE (in senso etimologico, filologico, semantico,) delle parole. Certo, il termine riguarda la scuola di oggi e soprattutto in riferimento alla pedagogia o alla psicologia, ma a me piace riferirlo alla espansione attiva della ricerca sulle origini, sulla storia, sul significato delle parole. Superando i termini di etimologia, filologia, semantica (ma possiamo includere anche l’ermeneutica, e ignorando quasi del tutto la grammatica e la sintassi, come conoscenze già acquisite), possiamo “fare una indagine”, più o meno approfondita, sulle radici delle parole, usando la metafora dell’albero, per giungere a scoprire il loro tronco che definisce il percorso o la storia delle parole stesse; percorso che si dirama e mette nuove foglie e dà nuovi frutti per affacciarsi al futuro in modo completamente nuovo. Perché la parola è un organismo vivente che fa parte di un lessico (nel suo contesto più ampio) e dell’idioletto (nel nostro contesto familiare, in cui ci ritroviamo per certi modi di esprimerci che sono tutti nostri, appartengono alla nostra famiglia). Essa via via si trasforma e muta nell’arco dei decenni e dei secoli, cambiando volto e senso e significato e coscienza e anima. Nel corso del tempo, infatti, le parole si trasformano, cambiano essenza e funzione, scaturiscono dall’uso e si legano alla cultura del momento, lasciano una traccia e poi si perdono oppure rinascono sotto mentite spoglie: noi non parliamo o scriviamo più come i nostri antenati di cento anni fa, pur conservandone traccia. E qui molto importante diventa risalire alla TRADIZIONE che avviene spesso attraverso la NARRAZIONE. Oltre la stessa “indagine a tavolino”, che di solito naviga tra vocabolari, enciclopedie e, oggi, soprattutto attraverso Internet.
-          La SIGNIFICAZIONE: che è molto di più del significato e del senso messi insieme perché, pur comprendendoli entrambi, si arricchisce del retroterra culturale di chi mette la parola sotto la lente d’ingrandimento, della sua sensibilità letteraria e poetica, del suo ritmo interiore, dei colori della sua fantasia, della danza della sua anima. Della sua capacità visionaria, che può dare a quella parola, apparentemente semplice e concreta, insospettate coloriture fino a farle spiccare insoliti voli: e quella parola può diventare aquilone, palloncino colorato, magica luna, gomitolo di sole o cestino di stelle per ritornare ad essere sé stessa nelle sue radici, nelle sue foglie e nei nuovi germogli. Solo dopo possiamo scoprire la parola nella sua “pienezza” e “bellezza”, nella sua pertinenza e nella sua adeguatezza al testo e al contesto in cui è contenuta. E affermare e confermare, come ci suggerisce Peppe Sblano, “la coscienza” della “parola che ri-crea la coscienza della parola. (…) La coscienza avvolge la parola”, restituendo “la coscienza della parola alla parola. Così la parola ri-creata con la sua coscienza ci riporta alla luce che crea con la parola anche la coscienza della parola. Il Logos illumina tutte le coscienze dalla cellula più piccola del nostro corpo, con la sua particolare coscienza, alla più semplice parola (…). Siamo tutti presenti alla coscienza del Logos che illumina. Ognuno di noi percepisce questa coscienza come luce intensa dorata che illumina, guarisce, o ri-crea, o ri-vive collegandoci al primo istante in cui fu creata la vita. Ogni parola ha la sua coscienza e la poesia la trasmette creando la relazione universale che ri-parte dal poeta ricollegandoci tutti e con tutto il creato”.
Ancora Grazie infinite, carissimo Peppe, per questa sottile e profonda disquisizione altamente filosofica, che va ben oltre le mie stesse parole. E solo ora possiamo finalmente analizzare la parola COSCIENZA alla luce di quanto detto sin qui e sugli altri due versanti, più solidi e concreti: filosofico e psicologico. Il primo riguarda la facoltà, come ci ricorda il vocabolario, di sapere dell’esistenza propria e degli altri, del mondo che ci circonda e delle cose e, dunque, di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera individuale o si possono prospettare in un futuro più o meno vicino. (Sarebbe opportuno affidarci anche ad una sorta di “predittività” che si ha dalla fusione di “scienza e conoscenza” per avere un margine di credibilità sulle nostre previsioni circa gli scenari culturali, sociali, economici del futuro prossimo o remoto). Ma anche la valutazione morale del proprio agire fa parte della indagine filosofica intorno alla parola di cui ci stiamo occupando e innamorando. La coscienza inoltre è perlopiù individuale. La coscienza collettiva avviene per imitazione e non è mai autentica. Oriana Fallaci definisce “gregge di lana” chi segue la massa senza una vera coscienza di sé. Il secondo versante è quello psicologico, che ci porta a scoprire il termine “CONSAPEVOLEZZA”, ritenuto da alcuni sinonimo del primo. In realtà, le due parole hanno significati molto diversi perché attengono a due diverse discipline: la filosofia e la psicologia. La “consapevolezza” significa essere presente alla propria coscienza e di saperlo perfettamente e poterlo affermare con “Io sono”. (Ma questo ci porta anche a dilatare il discorso alle neuroscienze e allo “stato cosciente”, cioè vigile, contrapposto allo “stato comatoso”. Essere cosciente, del resto, non sempre implica la consapevolezza di esserlo. Solo quando si ha consapevolezza di essere cosciente, si può affermare realmente la propria esistenza, identità e libertà. La propria pienezza di essere che, dal proprio io e dal proprio sé, si riverbera in tutto quello che pensiamo e facciamo, nei comportamenti e negli atteggiamenti che assumiamo verso il mondo, la natura, gli altri. Persino nei riguardi della parola che, se usata con vera consapevolezza, ci soddisfa, ci premia, ci esalta. Psicologicamente ci avvicina agli altri, creando un ulteriore legame empatico con i nostri interlocutori. Una fitta rete di solidarietà, in cui l’“io” scompare per fare spazio al “tu” fino a realizzare il “noi” che prelude alla reciprocità e al ben-essere di tutti e di ciascuno. E qui mi accorgo che da una sola parola sgorgano come da polla sorgiva inesauribile tanti zampilli di nuove parole che sembrano slegate tra loro (infatti ognuna ha vita propria) e invece, a ben guardare, hanno tutte un fil-rouge che le lega, diventando un Tutto, come avviene tra gli uomini e tutti gli esseri viventi e l’intero Creato.
E per oggi va bene così, anche se piove e questa domenica si presenta priva di luce nonostante si festeggi Santa Lucia. Accendiamola dentro la nostra luce. E mi viene in mente che per martedì, 15 dicembre, potremmo parlare di PIOGGIA e di LUCE, due parole a me molto care. La “pioggia” mi è stata richiesta dalla carissima Francesca Pice con un post molto poetico. Mentre la “luce”, pur sembrando lontana anni-luce dalla pioggia, ha tanti punti in comune che scopriremo insieme, mentre le finestre stanno a… guardare! Ciao. A martedì. Angela