martedì 29 dicembre 2020

La magia delle FINESTRE: martedì 29 dicembre 2020

Pensavo di dover/poter scrivere dopo il nostro ultimo incontro di martedì 22 dicembre, e di poterlo fare prima e dopo Natale. E, invece, altri lutti, altro dolore, altri dispiaceri si sono interposti alle mie intenzioni, al desiderio di scrivere, di stare idealmente e virtualmente con voi. Di approfondire, integrare, riflettere insieme.

Solo ora, h. 16,30, ad una settimana di distanza ho trovato la forza e il coraggio di   riaprire e accendere il computer. Ho appena riletto quanto ho scritto martedì prima del nostro incontro, e mi sono accorta di aver scritto così in fretta da non riuscire a farlo bene. Scusatemi quindi per gli errori tecnici e non, i refusi, le omissioni, i pensieri espressi male. Ho anche letto due commenti sul blog: il primo l’ho subito cancellato perché non pertinente; il secondo di Peppe Sblano non ho fatto in tempo a leggerlo in quanto l’ho cancellato per errore mentre eliminavo il primo. Mi è dispiaciuto molto perché Peppe è un prezioso interlocutore (caro Peppino, se per caso dovessi leggere quanto sto scrivendo, sappi che mi farebbe piacere se mi riproponessi il tuo ultimo intervento sul mio blog).

Ed ora sento l’urgenza di scrivere qualcosa su due parole, finite mio malgrado nel mio retino il 24 dicembre, Vigilia di Natale. Avrei voluto continuare a parlare di VIGILIA, seguendo il flusso dei pensieri sollecitatomi da Vito Di Chio, ma non è stato più possibile. Una grande ombra scura ha spento la luce dell’Attesa.

Ed ecco le due parole antitetiche che sono venute a trovarmi: DOLORE e GIOIA.

Vorrei parlarne. E voi mi darete una mano a definirli secondo il personale modo di essere e di viverli. Vorrei confrontarmi. E sarebbe una buona opportunità se ci confrontassimo insieme.

Il dolore: quando il dolore è invisibile; quando il dolore è invece udibile, senza essere dolore; quando il dolore è un segreto.

A mio parere, il dolore fisico difficilmente è visibile. Solo chi lo prova lo sente nel suo corpo, a meno che non sia invalidante e inevitabilmente visibile (esempio banale: la zoppia dovuta al dolore di uno o di entrambi gli arti). Il dolore dell’anima è anche invisibile, ma non ad un osservatore attento. Bella la pagina di Oriana Fallaci a questo riguardo: È incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce di aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare…

(Insciallah, Rizzoli, Milano 1990).

In realtà, Oriana Fallaci non parla di visibilità o meno del dolore dell’anima ma di incapacità degli altri di “capirlo” per distrazione, per superficialità, per una sorta di non cultura a prendere atto della gravità del dolore dell’anima e delle sue spesso nefaste conseguenze soprattutto nelle persone più fragili psicologicamente ed emotivamente. Il male di vivere diventa l’abisso in cui l’anima precipita senza più risorse o appigli.

C’è, al contrario, il dolore/non dolore che è solo udibile perché ha bisogno di esternazione per avere una platea di credibilità: più è inesistente e inconsistente più viene urlato ed esibito per ricevere attenzioni, premure, com-passione. Banalmente si è soliti dire: “per essere creduti”. Ed è già dramma e drammatizzazione che va al di là del dolore prezzolato delle donne preposte al lamento per i morti dagli antichi egizi, dai greci e latini fino al tardo medioevo. Ma anche nel Sud fino ad alcuni decenni fa c’era il pianto prezzolato delle prefiche: in terra d’Otranto o nella Grecìa salentina, in Calabria e in Sardegna con rituali più o meno simili o diversificati per intensità, apologia del defunto, storia della sua storia da vivo, elogio delle sue caratteristiche fisiche o delle virtù. Ci sono libri meravigliosi da leggere su queste antiche (ma non troppo) usanze. E più il defunto era facoltoso più il dolore per la sua perdita veniva urlato.

E poi c’è il dolore segreto: quello nascosto e mai raccontato, quello di una madre ai propri figli o ai propri cari. Il dolore legato all’amore oblativo per eccellenza: quello che tutto dona tranne il dolore. Che si fa silenzio e segreto. Misterioso perché vicinissimo e lontanissimo, tenuto nella prigione del cuore per “non dare pensiero”, perché non evada e dissacri quel silenzio, non spezzi catene e omertà. Le uniche catene che non fanno male, l’unica omertà che cuce la bocca per salvare il cuore. Ma è proprio così? Forse. Oppure no. Forse è un segreto custodito reciprocamente per evitare il dolore della verità che è più acuto di ogni altro dolore.

Hannah Arendt, in Tra passato e futuro (se non ricordo male), parla dei comportamenti umani che sono dettati dalla personalità, dai condizionamenti, dalle abitudini, dai contesti familiari, sociali e culturali tra passato e futuro. E parla del dolore contrapposto alla gioia: il primo è tutto in sé conchiuso; la seconda ha braccia spalancate per abbracciare il mondo che l’abbraccia.

E qui il mio commento: il dolore è spesso visibile nel comportamento ad esso sotteso con il corpo rannicchiato in posizione fetale quasi a proteggersi e a proteggere il dolore che è chiuso, personale, solitario. Come anche il volto, con gli occhi bassi o persi nel vuoto, dove neppure le lacrime trovano più posto dopo tanto disperato rincorrerle sotto una pioggia che separa ancora di più dal resto del mondo. Una pioggia di lacrime inaridite per troppa usura, per il silenzio che chiede e quello che riceve. Il silenzio basta al silenzio. E non ci sono parole da dire, da ascoltare. Ecco una preziosa testimonianza nei versi di mia sorella Lizia:

 “DOLORE”: Per comunicare il dolore/ non servono emozioni/ e sentimenti.// Il dolore non risponde più/ a clausole o veti.// Si sparge senza centro/ ti assale ribelle:/ va fuori controllo.// Dipingere il dolore/ con le parole:/ magari sapessi! (28 dicembre 2020)

Il DOLORE che annienta è muto. Non trova parole perché “va fuori controllo”. “magari sapessi!” è un amaro, disperato ottativo, reso più morbido dal verbo “dipingere”, quasi un inconscio desiderio di bellezza che le parole saprebbero regalare se non fossero prigioniere del dolore. Il dolore. Non si può realmente comunicarlo. Nonostante la presenza di tanti cari (parenti, amici reali e virtuali, conoscenti). Mancano le parole. Il Verbum!: Parola, Arca, Tempio, Tenda?  Verbum caro factum est!: la Parola che si fa carne? La Parola che ferisce e risana? Tutti si prodigano per alleviarlo il dolore e dare conforto a chi ne viene colpito, ma non è facile trovare un varco in quel grumo di corpocuoreanima che racchiude in sé il dolore rendendolo visibile, ma imprendibile, non attraversabile per la incomunicabilità che lo connota. Tutto in sé conchiuso, appunto.

La GIOIA, invece, è espansione contagiante, emozione che si dilata carica di sorrisi e di parole, di musica, suoni e canti, di corale esultanza. Esplosione misteriosa e incontenibile. Più immediata della felicità. Più radiosa della stessa felicità, che è faticosa conquista personale: mattoncino su mattoncino e nessuno che possa realmente condividerla. La gioia è pienezza di sé che cerca l’altro e l’altro per condividerla. È il nostro “vero sé” che si realizza con gli altri e per gli altri in un atto di esultanza che ha braccia/ali che volano verso il Cielo. Segno di vittoria che abbraccia l’universo fino a farsi espansione infinita nell’infinito. Dono e Preghiera che avvolge il creato e da cui ci si sente avvolti.  

Potrà mai essere l’antidoto più efficace al dolore? Non lo so. Il coraggio, forse. Una piccola luce che rimane accesa nell’anima sempre e che ci salva da ogni abisso: la SPERANZA...

2 commenti:

  1. Dal dolore segreto

    Un giorno crescerò
    partendo dalle ombre
    dalle paure dai dubbi
    dal dolore segreto
    che cova intero
    custodito duole
    nel silenzio di giorni fragili
    Mi innamorerò
    dei luoghi chiusi
    che cercano aria
    nel frastuono di
    cieche voci
    Imparerò forse
    attraverso l’alba
    a non smarrirmi
    a far danzare il corpo
    al solo ritmo del cuore

    Elina Miticocchio
    -Estemporanea nata leggendo il blog La Poetologa della poetessa Angela De Leo, 29/12/2020

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  2. Trascrivo da „Bisogno di Maestri“ questa riflessione
    In una sua lirica W. Goethe annota:
    Tutto diedero gli dei, gli infiniti,
    ai loro prediletti – proprio tutto,
    tutte le gioie, le infinite,
    tutti i dolori, gli infiniti, proprio tutto.
    Commentando nella lettera alla sua amica questi versi, il poeta aggiunge: “Così cantavo recentemente mentre in una stupenda notte lunare uscivo dalla profondità del fiume che scorre davanti al mio giardino: un’emozione intensa, di cui sperimento nella mia persona la verità giorno dopo giorno”. È una descrizione toccante della grande capacità della poesia e dei poeti di sperimentare la felicità e di sentire il dolore nella loro interdipendenza, dono degli dei, eterna sfida spirituale che accompagna ineluttabilmente il corso della loro vita, e, per questo, “prediletti degli dei”. Una predilezione che traduce molto bene il pensiero essenziale di Socrate nella sua Apologia davanti ai giudici di Atene: Una vita non provata non è degna di essere vissuta.
    BUONA SERATA, carissima Angela! Vito

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