Pensavo di dover/poter scrivere dopo il nostro ultimo incontro di martedì 22 dicembre, e di poterlo fare prima e dopo Natale. E, invece, altri lutti, altro dolore, altri dispiaceri si sono interposti alle mie intenzioni, al desiderio di scrivere, di stare idealmente e virtualmente con voi. Di approfondire, integrare, riflettere insieme.
Solo ora, h. 16,30, ad
una settimana di distanza ho trovato la forza e il coraggio di riaprire e accendere il computer. Ho appena
riletto quanto ho scritto martedì prima del nostro incontro, e mi sono accorta
di aver scritto così in fretta da non riuscire a farlo bene. Scusatemi quindi
per gli errori tecnici e non, i refusi, le omissioni, i pensieri espressi male.
Ho anche letto due commenti sul blog: il primo l’ho subito cancellato perché
non pertinente; il secondo di Peppe Sblano non ho fatto in tempo a leggerlo in
quanto l’ho cancellato per errore mentre eliminavo il primo. Mi è dispiaciuto
molto perché Peppe è un prezioso interlocutore (caro Peppino, se per caso dovessi
leggere quanto sto scrivendo, sappi che mi farebbe piacere se mi riproponessi
il tuo ultimo intervento sul mio blog).
Ed ora sento l’urgenza
di scrivere qualcosa su due parole, finite mio malgrado nel mio retino il 24
dicembre, Vigilia di Natale. Avrei voluto continuare a parlare di VIGILIA,
seguendo il flusso dei pensieri sollecitatomi da Vito Di Chio, ma non è stato
più possibile. Una grande ombra scura ha spento la luce dell’Attesa.
Ed ecco le due parole
antitetiche che sono venute a trovarmi: DOLORE
e GIOIA.
Vorrei parlarne. E voi
mi darete una mano a definirli secondo il personale modo di essere e di viverli.
Vorrei confrontarmi. E sarebbe una buona opportunità se ci confrontassimo
insieme.
Il dolore: quando il
dolore è invisibile; quando il dolore è invece udibile, senza essere dolore;
quando il dolore è un segreto.
A mio parere, il dolore fisico difficilmente è visibile.
Solo chi lo prova lo sente nel suo corpo, a meno che non sia invalidante e
inevitabilmente visibile (esempio banale: la zoppia dovuta al dolore di uno o
di entrambi gli arti). Il dolore
dell’anima è anche invisibile, ma non ad un osservatore attento. Bella la
pagina di Oriana Fallaci a questo riguardo: È
incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una
pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare
presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la
gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così
disperato che non ti riesce di aprir bocca, invece, non se ne accorgono
neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba
rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e
pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite
che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a
sanguinare…
(Insciallah, Rizzoli,
Milano 1990).
In realtà, Oriana
Fallaci non parla di visibilità o meno del dolore dell’anima ma di incapacità
degli altri di “capirlo” per distrazione, per superficialità, per una sorta di
non cultura a prendere atto della gravità del dolore dell’anima e delle sue
spesso nefaste conseguenze soprattutto nelle persone più fragili
psicologicamente ed emotivamente. Il male di vivere diventa l’abisso in cui
l’anima precipita senza più risorse o appigli.
C’è, al contrario, il dolore/non dolore che è solo udibile
perché ha bisogno di esternazione per avere una platea di credibilità: più è
inesistente e inconsistente più viene urlato ed esibito per ricevere
attenzioni, premure, com-passione. Banalmente si è soliti dire: “per essere
creduti”. Ed è già dramma e drammatizzazione che va al di là del dolore
prezzolato delle donne preposte al lamento per i morti dagli antichi egizi, dai
greci e latini fino al tardo medioevo. Ma anche nel Sud fino ad alcuni decenni
fa c’era il pianto prezzolato delle prefiche: in terra d’Otranto o nella Grecìa
salentina, in Calabria e in Sardegna con rituali più o meno simili o
diversificati per intensità, apologia del defunto, storia della sua storia da
vivo, elogio delle sue caratteristiche fisiche o delle virtù. Ci sono libri
meravigliosi da leggere su queste antiche (ma non troppo) usanze. E più il
defunto era facoltoso più il dolore per la sua perdita veniva urlato.
E poi c’è il dolore segreto: quello nascosto e mai
raccontato, quello di una madre ai propri figli o ai propri cari. Il dolore
legato all’amore oblativo per eccellenza: quello che tutto dona tranne il
dolore. Che si fa silenzio e segreto. Misterioso perché vicinissimo e
lontanissimo, tenuto nella prigione del cuore per “non dare pensiero”, perché
non evada e dissacri quel silenzio, non spezzi catene e omertà. Le uniche
catene che non fanno male, l’unica omertà che cuce la bocca per salvare il
cuore. Ma è proprio così? Forse. Oppure no. Forse è un segreto custodito
reciprocamente per evitare il dolore della verità che è più acuto di ogni altro
dolore.
Hannah Arendt, in Tra passato e futuro (se non ricordo
male), parla dei comportamenti umani che sono dettati dalla personalità, dai
condizionamenti, dalle abitudini, dai contesti familiari, sociali e culturali
tra passato e futuro. E parla del dolore
contrapposto alla gioia: il primo è tutto in sé conchiuso; la seconda ha
braccia spalancate per abbracciare il mondo che l’abbraccia.
E qui il mio commento:
il dolore è spesso visibile nel comportamento ad esso sotteso con il corpo
rannicchiato in posizione fetale quasi a proteggersi e a proteggere il dolore
che è chiuso, personale, solitario. Come anche il volto, con gli occhi bassi o
persi nel vuoto, dove neppure le lacrime trovano più posto dopo tanto disperato
rincorrerle sotto una pioggia che separa ancora di più dal resto del mondo. Una
pioggia di lacrime inaridite per troppa usura, per il silenzio che chiede e
quello che riceve. Il silenzio basta al silenzio. E non ci sono parole da dire,
da ascoltare. Ecco una preziosa testimonianza nei versi di mia sorella Lizia:
“DOLORE”: Per
comunicare il dolore/ non servono emozioni/ e sentimenti.// Il dolore non
risponde più/ a clausole o veti.// Si sparge senza centro/ ti assale ribelle:/
va fuori controllo.// Dipingere il dolore/ con le parole:/ magari sapessi! (28
dicembre 2020)
Il DOLORE che annienta è muto. Non trova
parole perché “va fuori controllo”. “magari sapessi!” è un amaro, disperato
ottativo, reso più morbido dal verbo “dipingere”, quasi un inconscio desiderio
di bellezza che le parole saprebbero regalare se non fossero prigioniere del
dolore. Il dolore. Non si può realmente comunicarlo. Nonostante la presenza di
tanti cari (parenti, amici reali e virtuali, conoscenti). Mancano le parole. Il
Verbum!: Parola, Arca, Tempio, Tenda? Verbum caro factum est!: la Parola che si fa
carne? La Parola che ferisce e risana? Tutti si prodigano per alleviarlo il
dolore e dare conforto a chi ne viene colpito, ma non è facile trovare un varco
in quel grumo di corpocuoreanima che racchiude in sé il dolore rendendolo
visibile, ma imprendibile, non attraversabile per la incomunicabilità che lo
connota. Tutto in sé conchiuso, appunto.
La GIOIA, invece, è espansione contagiante,
emozione che si dilata carica di sorrisi e di parole, di musica, suoni e canti,
di corale esultanza. Esplosione misteriosa e incontenibile. Più immediata della
felicità. Più radiosa della stessa felicità, che è faticosa conquista
personale: mattoncino su mattoncino e nessuno che possa realmente condividerla.
La gioia è pienezza di sé che cerca l’altro e l’altro per condividerla. È il
nostro “vero sé” che si realizza con gli altri e per gli altri in un atto di
esultanza che ha braccia/ali che volano verso il Cielo. Segno di vittoria che
abbraccia l’universo fino a farsi espansione infinita nell’infinito. Dono e Preghiera
che avvolge il creato e da cui ci si sente avvolti.
Potrà mai essere l’antidoto più efficace al dolore? Non lo so. Il coraggio, forse. Una piccola luce che rimane accesa nell’anima sempre e che ci salva da ogni abisso: la SPERANZA...
Dal dolore segreto
RispondiEliminaUn giorno crescerò
partendo dalle ombre
dalle paure dai dubbi
dal dolore segreto
che cova intero
custodito duole
nel silenzio di giorni fragili
Mi innamorerò
dei luoghi chiusi
che cercano aria
nel frastuono di
cieche voci
Imparerò forse
attraverso l’alba
a non smarrirmi
a far danzare il corpo
al solo ritmo del cuore
Elina Miticocchio
-Estemporanea nata leggendo il blog La Poetologa della poetessa Angela De Leo, 29/12/2020
Trascrivo da „Bisogno di Maestri“ questa riflessione
RispondiEliminaIn una sua lirica W. Goethe annota:
Tutto diedero gli dei, gli infiniti,
ai loro prediletti – proprio tutto,
tutte le gioie, le infinite,
tutti i dolori, gli infiniti, proprio tutto.
Commentando nella lettera alla sua amica questi versi, il poeta aggiunge: “Così cantavo recentemente mentre in una stupenda notte lunare uscivo dalla profondità del fiume che scorre davanti al mio giardino: un’emozione intensa, di cui sperimento nella mia persona la verità giorno dopo giorno”. È una descrizione toccante della grande capacità della poesia e dei poeti di sperimentare la felicità e di sentire il dolore nella loro interdipendenza, dono degli dei, eterna sfida spirituale che accompagna ineluttabilmente il corso della loro vita, e, per questo, “prediletti degli dei”. Una predilezione che traduce molto bene il pensiero essenziale di Socrate nella sua Apologia davanti ai giudici di Atene: Una vita non provata non è degna di essere vissuta.
BUONA SERATA, carissima Angela! Vito